Cosa significa che l'occidente è entrato, da
tempo, in un ‘momento populista’?
Per provare a rispondere sul piano empirico, partiamo
da una lettura del biennio 2016-18. In quegli anni giunge a maturazione il
profondo smottamento sociale, innescato dal brusco ‘spostamento di carico’ che
l'economia del debito subisce a partire dalla crisi del 2008-10 (Lehman, Atene);
una crisi che distrugge definitivamente l'equilibrio politico della
globalizzazione. Scheletricamente si può provare a dire che termina il
compromesso sociale del ‘trickle down’[1],
nel quale salari stagnanti erano accompagnati simbolicamente da consumi a buon
mercato, ottenuti a spese del buon lavoro stabile ed a totale vantaggio dei
ceti mobili e interconnessi (in grado di intermediare i flussi e per quello
saldamente al potere)[2]. Una
componente essenziale di questo assetto era la delega fiduciaria e la
disattivazione politica, privata della salda base di identità sociali solide e
di ambienti comunitari nei quali formarsi. La sua proiezione spaziale è quel
che chiamiamo dagli anni novanta “la globalizzazione”[3].
Ho chiamato l’evento uno ‘spostamento di carico’ perché come accade in una nave investita da un'onda anomala il carico del debito in quegli anni si è bruscamente spostato dai privati, che lo avevano accumulato nei container dell'alta finanza, allo Stato, chiamato ovunque a salvare le banche che lo detenevano[4]. Attraverso la catena di distribuzione della spesa pubblica il peso del riaggiustamento è stato allora spostato sulle spalle dei ceti intermedi, salvando il segmento mobile ed interconnesso dei mediatori[5]. Strumento di questo salvataggio è stato l'azione concertata delle Banche Centrali. Invece il meccanismo dello spostamento di carico è stato attivato dalla riduzione della spesa e dalla catena degli effetti sulla domanda interna. Si è avuto in questo modo uno spostamento complessivo di una decina di punti nella distribuzione del reddito, il raddoppio dei cittadini in condizioni di povertà o ad alto rischio, la perdita di un terzo della classe media, l'aumento drastico della disoccupazione e, non per caso, dell'immigrazione (che svolge un essenziale effetto compensativo, sia verso le imprese in difficoltà, sia le famiglie e la media borghesia). Dall' ‘equilibrio del Trickle Down’ degli anni novanta e zero si sta passando in questo modo all' ‘equilibrio della a-società servile’.
Questo immane smottamento sociale, salto di fase ed accelerazione della lunga erosione della mondializzazione, ha prodotto effetti politici inevitabili. Anche qui si tratta di un giungere a maturazione di tendenze molto lunghe: la disattivazione, la ritirata della politica nelle sue casematte, il discredito e disincanto che hanno fatto dire a molti che si era nell'epoca della sfiducia[6], dell'antipolitica, della post-democrazia[7], della direttezza[8], hanno prodotto le ondate reattive del Movimento 5 Stelle a partire dal 2013, di Podemos e di Marine le Pen nel 2014, poi l'affermazione di Corbyn, molto più tradizionale, nel 2015 ed, infine, l'esplosione del 2016.
Improvvisamente le mappe politiche si sono
colorate di toni uniformi: in Inghilterra, con la Brexit, e subito dopo in Usa,
con le rivolte delle periferie per Trump e Sanders, ha fatto irruzione un voto
anti- establishment, orientato emotivamente dal basso e contro. In Italia
abbiamo avuto, sul finire di quell'anno straordinario il referendum, ma già
prima avevamo avuto numerose e convergenti sconfitte elettorali locali del
partito di equilibrio di sistema, il Pd. Il momento di massima spinta di questo
movimento è stato nel 2017 in Francia, con Mélenchon e Macron (anche essa
vittoria populista) e in Italia nel 2018, con la sorprendente doppia vittoria
giallo-verde.
“Momento populista” è questa perdita di equilibrio e si nutre ambiguamente dello stesso veleno che la provoca: la disgregazione sociale, l’individualismo ‘post-materialista’[9], il dominio dei nuovi media disintermedianti, il discredito delle élite, la snellezza, il leaderismo. Esso proviene socialmente dalla distruzione delle classi medie e dalla polarizzazione sociale e spaziale, ma al contempo si nutre del clima antipolitico nel quale questa è stata resa possibile (in un rapporto di coevoluzione tra il sociale ed il culturale), tendendo paradossalmente ad accettarlo nelle premesse e nei moduli comunicativi ed a rafforzarlo.
Si tratta di una profonda contraddizione.
La domanda che ci dobbiamo fare è se è possibile un ‘populismo di sinistra’[10] e che cosa significa. In altri termini, l'unica politica possibile, in epoca di perdita di ogni riferimento sociale e politico e di identificazione fondata su valori post-materialisti, è basata sulla comunicazione identitaria e simbolica? E questa comunicazione deve muovere necessariamente dal perimetro del ‘senso comune’? Non è questa in fondo una forma di T.i.n.a. che comporta, necessariamente[11], quando letto ‘da sinistra’, l'adesione ad un campo valoriale ed affettivo disegnato a priori sul modello di chi è dal lato ‘giusto’ della mondializzazione (modernismo, progressismo, linguaggio politicamente corretto, multiculturalismo, individualismo, ...)? Il senso comune da sinistra infatti muove molto profondamente, in particolare nella versione liberale dominante da quasi quaranta anni, da questo substrato.
Per rispondere dobbiamo partire dalla consapevolezza che il “momento populista” non è cessato. Permangono e si rafforzano le sue condizioni sociali di attivazione, e queste parlano di una netta contrapposizione di interessi in una frattura in allargamento tra due parti della società che sempre più faticano a parlarsi ed a capirsi. Anzi, il tono della comunicazione pubblica, non certo solo in Italia, vede in modo crescente un reciproco rigetto fuori dell’umano. Estetiche, linguaggi, priorità e valori, senso di sé e identità di gruppo, si stanno ripolarizzando su assi di classe (anche se inconsapevoli). Ovvero da un assetto post-materialista si sta tornando ad un fondo materialista delle contrapposizioni.
Porsi dalla parte del torto (che oggi significa da quello dei ‘servi’) ma
al contempo rifiutarsi di aderire allo schema antipolitico che è il primo
presidio dell’ordine dato, quindi parlare di socialismo, di spesa pubblica, di
nazionalizzazioni, di sovranità monetaria e indipendenza, di autodeterminazione
e democrazia effettiva, identificando nessi e meccaniche, può ancora significare
essere ‘populisti di sinistra’? Si può essere insieme materialisti e ‘populisti’?
Si può stare nel ‘momento populista’ con un atteggiamento di fondo anti-populista
e, per questo, davvero capace di costruzione del ‘popolo’ capace di fare la
differenza? Un atteggiamento che rifiuta le mimesi gattopardesche che
abbiamo costantemente sotto gli occhi? La fuga in sempre nuove versioni della
politica dell’identità, post-materialista, sostanzialmente individualista, che
abbiamo avuto sotto mano in questi anni, ed è costantemente fallita, man mano
che la durezza delle cose si è manifestata?
Questa mi pare la domanda da farsi.
[1] - Che può anche essere descritto come “grande
moderazione”, per inquadrarla bisogna capire lo stato delle cose come l’opposto
in un certo senso di una crisi economica, tanto
meno “finanziaria”. Si tratta di una condizione strutturale di stagnazione-contrazione, espressione
conseguente di un cambio di assetto nell’equilibrio dei poteri che affonda le
sue radici nella soluzione ai problemi egemonici maturati negli anni sessanta e
settanta del secolo scorso. A partire dagli
anni settanta si rafforzano a vicenda:
- una
crisi degli assetti di potere mondiali, con l’egemonia americana sfidata
dagli effetti della decolonizzazione ed i maggiori “costi di protezione”
(l’esempio principe è la guerra del Vietnam) che ne conseguono;
- l’avvio
di una trasformazione strutturale profonda nelle tecnologie produttive, che
si può sintetizzare nel termine “informatizzazione”, e che non è solo
meccanizzazione ed automazione, ma soprattutto standardizzazione e
comunicazione;
- gli
effetti di una crisi di accumulazione, per l’effetto della concorrenza e
della pressione fiscale e sociale indotta dal mondo del lavoro, al termine di
un lungo e vittorioso ciclo di lotte in tutto l’occidente, che determina una
“insopportabile” (dal punto di vista del capitale) caduta del saggio di
profitto;
- le
conseguenze di un’acuta crisi fiscale, che deriva dalla crescente
difficoltà a gestire gli squilibri determinati dalla crescita e dalla
trasformazione in corso dell’economia.
[2] - Il modello può essere descritto
come un nuovo compromesso sociale a rapporti di
forza invertiti, rispetto a quello del “welfare state”. Nel contesto di
un’impostazione economica essenzialmente deflattiva, si crea la condizione per
un allargamento della base produttiva, con il coinvolgimento di centinaia di
milioni di nuovi lavoratori, che produce effetti molteplici sia sulla
distribuzione sociale sia sui costi dei beni industriali e quindi sul consumo.
A partire dagli anni settanta, e via via più velocemente, calano i prezzi
relativi dei beni industriali di massa e questo, malgrado l’erosione del
reddito della parte attiva della popolazione, crea sia una sensazione crescente
di ricchezza diffusa sia il fenomeno sociale e culturale del “consumismo”.
Dunque le condizioni per la creazione di un consenso su nuove basi: sul consumo anziché sul lavoro. Questa
trasformazione, incoraggiata dalla gestione del debito e del credito (a sua
volta effetto logico e operativamente conseguente della presa di centro della
finanza nel sistema di produzione-mondo post Bretton Woods e post
deregolazione), crea le condizioni ideali per l’azione delle grandi aziende
multinazionali che si moltiplicano in numero e capacità di influenza. In questi
anni si verifica in sostanza un’esplosione dell’investimento diretto all’estero
e, in conseguenza, di nuove aree economiche bersaglio di tali investimenti.
La perdita di
quota salari, e l’aumento dell’ineguaglianza, in occidente (ma aumenta anche
nei paesi di convergenza per
lo più) determinata dalla concorrenza estera caricata sul
lavoro (mentre il capitale si sposta liberamente), viene attenuata e gestita da
due dinamiche concorrenti: la deflazione dei prezzi dei beni prodotti
all’estero, e la facilitazione del debito.
Per qualche anno
questo nuovo equilibrio (che è anche un compromesso sociale, che Bernake ancora
nel 2004 elogiò come “Grande
moderazione”) cammina e sembra avere successo. Ma così si crea e
consolida un anello autorafforzante:
- riduzione
quota salari e deregolazione/flessibilizzazione;
- stagnazione
e deflazione dei prezzi;
- disinvestimento
in occidente nei settori produttivi, creazione di capitale mobile eccedente
derivante dai profitti ed investimento diretto all’estero;
- riciclaggio
di parte della finanza eccedente in credito facile per sostenere i consumi;
- creazione
del consenso necessario per proseguire con flessibilizzazione, deregolazione e
contenimento costi ai fini della competizione sui mercati esteri.
Questo anello,
progressivamente, erode le condizioni di vita di parte sempre maggiore della
popolazione attiva in occidente e rende alla fine instabili le nostre società.
Man mano che guadagna forza, come un tornado, risucchia le forze e determina un
colossale spreco di vite e risorse.
[3] - Si veda, “La
globalizzazione come crisi continua”.
[4] - Per una lettura classica di
questo meccanismo di acquisto di tempo si può leggere Wolfgang Streeck, “Tempo
guadagnato”, 2013.
[5] - Si può vedere Christophe
Guilluy, “La
società non esiste”, 2018.
[6] - Pierre Rosanvallon, “La
politica nell’età della sfiducia”,
[7] - Colin Crouch, “Postdemocrazia”
[8] - Nadia Urbinati, “Democrazia
in diretta”
[9] - Si veda Ronald Inglehart, “La
società postmoderna”
[10] - Il termine è rivendicato con una
certa nettezza dalla scuola di Ernesto Laclau, “Il
momento populista”, e sua moglie Chantal Mouffe, “Per
un populismo di sinistra”.
[11] - Si veda quello che altrove ho
chiamato “Dilemma Kuzmanovic-Autain”, ad esempio in “Appunti
sulla questione del partito: oltre il primo populismo”.
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