Questo
libro della filosofa Chantal Mouffe esce
nel 2018, al termine di un breve ciclo di instabilità politica aperto dallo
straordinario 2016[1]
seguito da un 2017 nel quale l’ondata è sembrata rifluire, o essere contenuta
dai bastioni dei meccanismi elettorali maggioritari (in Francia) o dalla
resilienza dei partiti sistemici (in Germania), ed infine dal 2018, nel quale
crolla la roccaforte italiana del bipolarismo. La Mouffe, in linea con il suo
ex compagno Ernesto Laclau, chiama tutto questo “momento populista”: una
fase di crisi della ‘formazione egemonica neoliberale’ che, a suo parere, “apre
la possibilità di costruire un ordine maggiormente democratico”.
L’avvio,
in pratica, dice tutto.
Il
‘disorientamento’ dei partiti socialdemocratici (evidente in Spagna, dove
Sanchez è sulla difensiva, in Francia, dove è emersa la soluzione ‘populista’
di centro di Macron dalle spoglie della sinistra e della destra gollista[2], in Germania, dove la Spd
non riesce a liberarsi dell’abbraccio distruttivo della grande coalizione)
deriverebbe quindi da una visione inadeguata della politica. In particolare,
dalla incapacità di assorbire i movimenti libertari del 1968, che “coincidevano
con la resistenza a una varietà di forme di dominio non definibili in termini
di classe”. Si trattava, per come li nomina, della “seconda ondata femminista”,
dei movimenti per i diritti dei gay e quelli antirazzisti, inoltre della
questione ambientale.
Seguendo
lo spirito di questi movimenti, racconta l’autrice, lei e il marito Laclau,
indagarono le ragioni della resistenza culturale della sinistra di classe
(marxista e socialdemocratica, come la distingue). La diagnosi che ne scaturì
fu che è proprio l’adesione ad un’idea di conflitto basata sulla lotta per la
distribuzione (e non per il riconoscimento) ad essere il problema. Sarebbe, questa
la posizione “essenzialistica” da superare. L’idea sarebbe stata che “le
identità politiche erano espressione della posizione occupata dagli agenti
sociali nei rapporti di produzione, e i loro interessi erano a loro volta
definiti da tale posizione”. A causa di questa valutazione (che, tuttavia,
detta così è una caricatura) le sinistre tradizionali erano incapaci di
comprendere domande non riconducibili alle differenze rispetto alla posizione sociale,
ma di natura identitaria.
Lo
strumento che viene messo a punto, per affermare la rilevanza delle lotte per
il riconoscimento, imperniate sull’identità (o, per dirlo simmetricamente,
sulla ‘differenza’) era il pensiero di gran moda in quella fase: il
post-strutturalismo. Si tratta, come scrive altrove[3], di “venire a patti con la
mancanza di fondamento ultimo e con l’indecidibilità che pervade ogni ordine”. Nessuna
oggettività preesiste alle pratiche, ordinariamente linguistiche, che la
portano all’esistenza. Attraverso il filtro del pensiero della differenza viene
anche recuperato, da Laclau e Mouffe, o meglio, per usare lo stesso termine “combinato”,
un autore come Antonio Gramsci. L’essenza (ogni anti-essenzialismo si muove in
un cerchio, anche se spesso non lo vede) delle lotte è dunque riconosciuto non
nell’accesso alle risorse prodotte, al plusvalore, ma nella liberazione dal “dominio”.
Qui
avviene lo slittamento tra Laclau e Mouffe, detto che si tratta di liberarsi
dal “dominio”, in tutte le sue forme, il progetto socialista ne viene ridefinito
come “radicalizzazione della democrazia”. Insomma, ricondotto alla sua radice
liberale.
Per
fare ciò bisogna prestare attenzione alla possibilità di connettere le diverse
lotte (che sono disparate, ed in alcuni casi anche opposte) attraverso “catene
equivalenziali” per definire volontà comuni e proporre una egemonia. Ovviamente
questo significa anche lasciare andare il tema storico della “classe
privilegiata” e con essa il mito del “comunismo” e della società completamente
trasparente e riconciliata. E i suoi corollari della fine dello Stato e della
politica. Per attuare questo programma è, infine, necessario stabilire una
frontiera politica contingente, come le alleanze sociali che la istituiscono,
creata specificamente dalla narrazione di una differenza essenziale tra “popolo”
ed “oligarchia”. Questa è quella che chiama una “strategia discorsiva” del “populismo
di sinistra”.
Questo
progetto è quindi non post-marxista, ma chiaramente anti-marxista.
Punta
a porsi “nella congiuntura”, in sostanza rinunciando a qualsiasi affermazione
di verità generale[4],
e seguendo quello che chiama un “approccio antiessenzialista”, ovvero, quello “secondo
cui la società è sempre divisa e costruita discorsivamente mediante pratiche
egemoniche” (p.4). Se così fosse (ovvero se “la società non esistesse”) il
populismo sarebbe da capire semplicemente come una strategia discorsiva. Precisamente
come quella strategia rivolta alla costruzione di una frontiera politica volta
a creare un “popolo” in quanto distinto da una “élite”. Separati.
Quando
questa strategia discorsiva può avere successo? Quando si è in un “momento
populista”.
E
cosa è un “momento populista”? Mouffe risponde che è il
momento in cui “sotto la pressione delle trasformazioni politiche o
socioeconomiche, l’egemonia dominante è destabilizzata dalla moltiplicazione di
domande insoddisfatte”. Un esempio di trasformazioni “politiche” sarebbe
probabilmente quello che ha dato seguito alla emergenza dei “movimenti”, post ’68,
ed un esempio di domande “socio-politiche” quello derivante dalla crisi
attuale.
Quando
si è in un momento di instabilità egemonica, ovvero “populista”, allora, l’opportuna
strategia discorsiva volta a proporre una frontiera ha la possibilità di
costruire un nuovo soggetto di azione collettiva che Mouffe designa come “popolo”.
Il “popolo” viene creato affrontando le diverse forme di subordinazione, di
dominio e di discriminazione, forme che mobilitano domande disparate da
connettere sostanzialmente indicando un avversario comune. Il “popolo” è dunque
un costrutto del linguaggio e della frontiera ed è internamente disomogeneo
anche in modo grave; può riconfigurare un ordine che è percepito come ingiusto
in quanto post-democratico[5] e strettamente aderente
alla sola logica liberale.
Sulla
base di questa valutazione, obbiettivamente molto sommaria e poco strutturata,
la proposta è quindi di “elaborare una risposta schiettamente politica
attraverso un movimento populista di sinistra che federi tutte le lotte
democratiche contro la post-democrazia” (p.16). Lotte che possano essere un
argine al “populismo di destra”, il cui obiettivo è invece il ripristino della
sovranità popolare, ma solo come “sovranità nazionale”, e quindi riservata ai
veri membri della comunità stessa.
La
distinzione sembra piuttosto labile, perché entrambi punterebbero a superare la
“post-democrazia” e ripristinare la sovranità popolare. In sostanza entrambe le
strategie politiche puntano a federare domande eterogenee, ma la frontiera non
è la stessa. È, anzi, “del tutto dissimile”. Si tratta di capire chi è
ammesso nel “popolo”. Secondo la valutazione della Mouffe la differenza
primaria è che la destra esclude gli immigrati (p.19)[6], e talvolta anche altri
gruppi.
Invece
il “populismo di sinistra” lavora per “restaurare la democrazia per rafforzarla
ed estenderla”. Quindi per riunire le domande democratiche e per costruire un “popolo”
rivolto contro “l’oligarchia”. In altre parole la catena di equivalenze, ed il “popolo”,
si estende alle domande dei lavoratori, degli immigrati, della classe media
precaria, e di altre domande come la comunità LGBT. L’unico obiettivo è quello
di creare una nuova egemonia che consenta di “radicalizzare la democrazia”. Neppure
si tratta di creare soggetti omogenei, che del resto non preesistono e in sé
non esistono. Per questo il “popolo” non si costituisce da categorie
sociologiche, né è una “folla” o “moltitudine”, ma conserva la sua pluralità. Le
differenze (ad esempio quelle tra gli abitanti dei centri e delle periferie, ma
tutti impegnati nel movimento femminista, o LGBT, o ambientalista) permangono
sotto le “catene equivalenziali” che sono essenzialmente create dalla esistenza
di una frontiera, ovvero di un nemico. Ma una “catena equivalenziale”,
dice la Mouffe, non è neppure da capire come una coalizione di soggetti, ma
qualcosa di più contingente, creato dal discorso e dai significanti adoperati. Si
tratta, sembra di capire, essenzialmente di una strategia fondata sulla
mobilitazione emotiva, più che sul calcolo e la trattativa. Infatti in “Il
conflitto democratico” specifica che non è analogo alla strategia della
democratizzazione liberale, il cui ideale il consenso razionale, proprio
per il suo carattere agonista e per la mobilitazione del potere simbolico ed
emotivo del linguaggio (attraverso l’uso di significanti vuoti, anziché argomenti).
Ma resta un modello imperniato sulla democrazia pluralistica liberale
(rappresentativa). La distinzione “noi/loro”, essenziale in un approccio
populista, deve essere definita salvaguardando il pluralismo. Per questo “loro”
non devono essere pensati come nemici, ma solo come avversari.
Segue
una sommaria analisi della crisi termina del keynesismo, imputata a limiti
interni mostrati dal rallentamento della crescita e dalla inflazione. L’economia
entrerebbe in sofferenza per effetto della crisi petrolifera e della crisi
fiscale. Inoltre, oltre a questi fattori economici espressi alla rinfusa, la
Mouffe indica una crisi derivante dalle rivolte antiautoritarie dei “movimenti”,
e dalla reazione delle destre. Su questo fondo si muove la Thatcher, che
individua una diversa frontiera egemonica ed una sorta di “populismo
autoritario” imperniato su nazione, famiglia, dovere, autorità, norme,
tradizionalismo. Emergono come centrali i temi neoliberali: interesse privato,
individualismo competitivo, antistatalismo.
Chiaramente
questo tentativo egemonico ha successo anche perché suona coerente con lo
spirito antiautoritario e antiburocratico che le “nuove sinistre” e larga parte
della società sentivano in quegli anni, cioè grazie alle “resistenze contro il
modo collettivista e burocratico in cui lo Stato sociale era stato costruito”
(p.26). Snodi di questo processo sono l’affermazione delle idee di Hayek e le
politiche di Toni Blair.
A
questo punto è necessaria una nuova offensiva egemonica, che punti alla
democratizzazione e non ad una rottura rivoluzionaria (p.34), ma solo a ripristinare
la democrazia ed a riattivare la forma partito.
La
Mouffe non potrebbe, in questo libro, essere più chiara. Non si tratta, e non
si deve fare, di “invocare il socialismo”, ma solo di ricercare una “vera
democrazia” (p.38). Quindi la sua proposta punta espressamente a forme di “riformismo
radicale”, anche se “necessariamente con una dimensione anticapitalista” (p.48).
Non
è quindi una strategia di costruzione di discorso di tipo socialdemocratico, ma
democratico radicale. Vediamo come dice:
“una concezione
socialdemocratica di cittadinanza, per esempio, privilegia la lotta per i
diritti sociali ed economici, mentre un’interpretazione democratica radicale
sottolinea le altre numerose relazioni sociali al cui interno sussistono e
vanno messi in discussione i rapporti di potere con l’obiettivo di riaffermare
i principi di libertà e uguaglianza” (p.65).
Quindi
si tratta di superare l’opposizione “capitale/lavoro” come centrale, e non
attribuire più alcun privilegio ontologico alla classe lavoratrice.
L’idea
non è neppure quella di tornare al “compromesso keynesiano”, per ragioni
ambientali, ma di puntare ad una radicalizzazione social-liberale della
democrazia rappresentativa. Non si tratta quindi neppure di puntare all’esodo,
come vorrebbero Hardt e Negri ed alla autoorganizzazione. La lotta politica
egemonica, rivolta ad imporre i significanti simbolici in grado di plasmare il ‘senso
comune’ e fornire una cornice normativa nuova, deve avvenire dentro le
istituzioni.
E
deve partire dallo Stato nazionale, in quanto spazio decisivo. Ma si tratta di
mobilitare quella forma di patriottismo che consiste nel valorizzare “gli
aspetti migliori e maggiormente egualitari della tradizione nazionale”.
Questa
è, alla fine quella che chiama “una concezione agonistica” (e non “antagonista”)
della democrazia (p.93).
[1] - In senso etimologico di “non
ordinario”, con riferimento al sorprendente esito di due referendum, uno in
Inghilterra ed uno in Italia, delle elezioni americane, le elezioni spagnole
con il massimo risultato di Podemos (21%).
[2] - Macron trova il suo spazio,
grazie alla legge elettorale francese, dalla dissoluzione contemporanea e
simmetrica del Partito Socialista e del Partito Repubblicano di Fillon.
[3] - In “Il conflitto democratico”,
2013.
[4] - Operazione concettualmente
sottoposta a regresso all’infinito. Nel caso, per dire, le affermazioni secondo
le quali non c’è una essenza sociale sono esse stesse vere? In tal caso un’essenza
esisterebbe comunque, quella della indefinita costruzione tramite il potere
simbolizzante del “discorso”.
[5] - Termine che si deve a Colin
Crouch, citato dalla autrice insieme a Racière. Le sue forme sono la riduzione
del ruolo dei parlamenti, la ricerca del centro, la disattivazione politica, e
le politiche di austerità e di impoverimento delle classi medie.
[6] - La frase precisa è: “Il
populismo di destra afferma che riporterà al centro la sovranità popolare e restaurerà
la democrazia, ma la sovranità è qui intesa come ‘sovranità nazionale’ e
riservata a coloro che sono ritenuti autentici membri della comunità ‘nazionale’.
I populisti di destra non cercano di intercettare le domande per l’uguaglianza
e costruiscono un ‘popolo’ che esclude numerose categorie, di solito gli
immigrati, considerati una minaccia per l’integrità e la prosperità della
nazione”.
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