Pagine

venerdì 6 dicembre 2019

Chantal Mouffe, “Per un populismo di sinistra”



Questo libro della filosofa Chantal Mouffe esce nel 2018, al termine di un breve ciclo di instabilità politica aperto dallo straordinario 2016[1] seguito da un 2017 nel quale l’ondata è sembrata rifluire, o essere contenuta dai bastioni dei meccanismi elettorali maggioritari (in Francia) o dalla resilienza dei partiti sistemici (in Germania), ed infine dal 2018, nel quale crolla la roccaforte italiana del bipolarismo. La Mouffe, in linea con il suo ex compagno Ernesto Laclau, chiama tutto questo “momento populista”: una fase di crisi della ‘formazione egemonica neoliberale’ che, a suo parere, “apre la possibilità di costruire un ordine maggiormente democratico”.

L’avvio, in pratica, dice tutto.


Il ‘disorientamento’ dei partiti socialdemocratici (evidente in Spagna, dove Sanchez è sulla difensiva, in Francia, dove è emersa la soluzione ‘populista’ di centro di Macron dalle spoglie della sinistra e della destra gollista[2], in Germania, dove la Spd non riesce a liberarsi dell’abbraccio distruttivo della grande coalizione) deriverebbe quindi da una visione inadeguata della politica. In particolare, dalla incapacità di assorbire i movimenti libertari del 1968, che “coincidevano con la resistenza a una varietà di forme di dominio non definibili in termini di classe”. Si trattava, per come li nomina, della “seconda ondata femminista”, dei movimenti per i diritti dei gay e quelli antirazzisti, inoltre della questione ambientale.
Seguendo lo spirito di questi movimenti, racconta l’autrice, lei e il marito Laclau, indagarono le ragioni della resistenza culturale della sinistra di classe (marxista e socialdemocratica, come la distingue). La diagnosi che ne scaturì fu che è proprio l’adesione ad un’idea di conflitto basata sulla lotta per la distribuzione (e non per il riconoscimento) ad essere il problema. Sarebbe, questa la posizione “essenzialistica” da superare. L’idea sarebbe stata che “le identità politiche erano espressione della posizione occupata dagli agenti sociali nei rapporti di produzione, e i loro interessi erano a loro volta definiti da tale posizione”. A causa di questa valutazione (che, tuttavia, detta così è una caricatura) le sinistre tradizionali erano incapaci di comprendere domande non riconducibili alle differenze rispetto alla posizione sociale, ma di natura identitaria.

Lo strumento che viene messo a punto, per affermare la rilevanza delle lotte per il riconoscimento, imperniate sull’identità (o, per dirlo simmetricamente, sulla ‘differenza’) era il pensiero di gran moda in quella fase: il post-strutturalismo. Si tratta, come scrive altrove[3], di “venire a patti con la mancanza di fondamento ultimo e con l’indecidibilità che pervade ogni ordine”. Nessuna oggettività preesiste alle pratiche, ordinariamente linguistiche, che la portano all’esistenza. Attraverso il filtro del pensiero della differenza viene anche recuperato, da Laclau e Mouffe, o meglio, per usare lo stesso termine “combinato”, un autore come Antonio Gramsci. L’essenza (ogni anti-essenzialismo si muove in un cerchio, anche se spesso non lo vede) delle lotte è dunque riconosciuto non nell’accesso alle risorse prodotte, al plusvalore, ma nella liberazione dal “dominio”.
Qui avviene lo slittamento tra Laclau e Mouffe, detto che si tratta di liberarsi dal “dominio”, in tutte le sue forme, il progetto socialista ne viene ridefinito come “radicalizzazione della democrazia”. Insomma, ricondotto alla sua radice liberale.

Per fare ciò bisogna prestare attenzione alla possibilità di connettere le diverse lotte (che sono disparate, ed in alcuni casi anche opposte) attraverso “catene equivalenziali” per definire volontà comuni e proporre una egemonia. Ovviamente questo significa anche lasciare andare il tema storico della “classe privilegiata” e con essa il mito del “comunismo” e della società completamente trasparente e riconciliata. E i suoi corollari della fine dello Stato e della politica. Per attuare questo programma è, infine, necessario stabilire una frontiera politica contingente, come le alleanze sociali che la istituiscono, creata specificamente dalla narrazione di una differenza essenziale tra “popolo” ed “oligarchia”. Questa è quella che chiama una “strategia discorsiva” del “populismo di sinistra”.

Questo progetto è quindi non post-marxista, ma chiaramente anti-marxista.

Punta a porsi “nella congiuntura”, in sostanza rinunciando a qualsiasi affermazione di verità generale[4], e seguendo quello che chiama un “approccio antiessenzialista”, ovvero, quello “secondo cui la società è sempre divisa e costruita discorsivamente mediante pratiche egemoniche” (p.4). Se così fosse (ovvero se “la società non esistesse”) il populismo sarebbe da capire semplicemente come una strategia discorsiva. Precisamente come quella strategia rivolta alla costruzione di una frontiera politica volta a creare un “popolo” in quanto distinto da una “élite”. Separati.

Quando questa strategia discorsiva può avere successo? Quando si è in un “momento populista”.

E cosa è un “momento populista”? Mouffe risponde che è il momento in cui “sotto la pressione delle trasformazioni politiche o socioeconomiche, l’egemonia dominante è destabilizzata dalla moltiplicazione di domande insoddisfatte”. Un esempio di trasformazioni “politiche” sarebbe probabilmente quello che ha dato seguito alla emergenza dei “movimenti”, post ’68, ed un esempio di domande “socio-politiche” quello derivante dalla crisi attuale.

Quando si è in un momento di instabilità egemonica, ovvero “populista”, allora, l’opportuna strategia discorsiva volta a proporre una frontiera ha la possibilità di costruire un nuovo soggetto di azione collettiva che Mouffe designa come “popolo”. Il “popolo” viene creato affrontando le diverse forme di subordinazione, di dominio e di discriminazione, forme che mobilitano domande disparate da connettere sostanzialmente indicando un avversario comune. Il “popolo” è dunque un costrutto del linguaggio e della frontiera ed è internamente disomogeneo anche in modo grave; può riconfigurare un ordine che è percepito come ingiusto in quanto post-democratico[5] e strettamente aderente alla sola logica liberale.
Sulla base di questa valutazione, obbiettivamente molto sommaria e poco strutturata, la proposta è quindi di “elaborare una risposta schiettamente politica attraverso un movimento populista di sinistra che federi tutte le lotte democratiche contro la post-democrazia” (p.16). Lotte che possano essere un argine al “populismo di destra”, il cui obiettivo è invece il ripristino della sovranità popolare, ma solo come “sovranità nazionale”, e quindi riservata ai veri membri della comunità stessa.
La distinzione sembra piuttosto labile, perché entrambi punterebbero a superare la “post-democrazia” e ripristinare la sovranità popolare. In sostanza entrambe le strategie politiche puntano a federare domande eterogenee, ma la frontiera non è la stessa. È, anzi, “del tutto dissimile”. Si tratta di capire chi è ammesso nel “popolo”. Secondo la valutazione della Mouffe la differenza primaria è che la destra esclude gli immigrati (p.19)[6], e talvolta anche altri gruppi.
Invece il “populismo di sinistra” lavora per “restaurare la democrazia per rafforzarla ed estenderla”. Quindi per riunire le domande democratiche e per costruire un “popolo” rivolto contro “l’oligarchia”. In altre parole la catena di equivalenze, ed il “popolo”, si estende alle domande dei lavoratori, degli immigrati, della classe media precaria, e di altre domande come la comunità LGBT. L’unico obiettivo è quello di creare una nuova egemonia che consenta di “radicalizzare la democrazia”. Neppure si tratta di creare soggetti omogenei, che del resto non preesistono e in sé non esistono. Per questo il “popolo” non si costituisce da categorie sociologiche, né è una “folla” o “moltitudine”, ma conserva la sua pluralità. Le differenze (ad esempio quelle tra gli abitanti dei centri e delle periferie, ma tutti impegnati nel movimento femminista, o LGBT, o ambientalista) permangono sotto le “catene equivalenziali” che sono essenzialmente create dalla esistenza di una frontiera, ovvero di un nemico. Ma una “catena equivalenziale”, dice la Mouffe, non è neppure da capire come una coalizione di soggetti, ma qualcosa di più contingente, creato dal discorso e dai significanti adoperati. Si tratta, sembra di capire, essenzialmente di una strategia fondata sulla mobilitazione emotiva, più che sul calcolo e la trattativa. Infatti in “Il conflitto democratico” specifica che non è analogo alla strategia della democratizzazione liberale, il cui ideale il consenso razionale, proprio per il suo carattere agonista e per la mobilitazione del potere simbolico ed emotivo del linguaggio (attraverso l’uso di significanti vuoti, anziché argomenti). Ma resta un modello imperniato sulla democrazia pluralistica liberale (rappresentativa). La distinzione “noi/loro”, essenziale in un approccio populista, deve essere definita salvaguardando il pluralismo. Per questo “loro” non devono essere pensati come nemici, ma solo come avversari.


Segue una sommaria analisi della crisi termina del keynesismo, imputata a limiti interni mostrati dal rallentamento della crescita e dalla inflazione. L’economia entrerebbe in sofferenza per effetto della crisi petrolifera e della crisi fiscale. Inoltre, oltre a questi fattori economici espressi alla rinfusa, la Mouffe indica una crisi derivante dalle rivolte antiautoritarie dei “movimenti”, e dalla reazione delle destre. Su questo fondo si muove la Thatcher, che individua una diversa frontiera egemonica ed una sorta di “populismo autoritario” imperniato su nazione, famiglia, dovere, autorità, norme, tradizionalismo. Emergono come centrali i temi neoliberali: interesse privato, individualismo competitivo, antistatalismo.
Chiaramente questo tentativo egemonico ha successo anche perché suona coerente con lo spirito antiautoritario e antiburocratico che le “nuove sinistre” e larga parte della società sentivano in quegli anni, cioè grazie alle “resistenze contro il modo collettivista e burocratico in cui lo Stato sociale era stato costruito” (p.26). Snodi di questo processo sono l’affermazione delle idee di Hayek e le politiche di Toni Blair.

A questo punto è necessaria una nuova offensiva egemonica, che punti alla democratizzazione e non ad una rottura rivoluzionaria (p.34), ma solo a ripristinare la democrazia ed a riattivare la forma partito.

La Mouffe non potrebbe, in questo libro, essere più chiara. Non si tratta, e non si deve fare, di “invocare il socialismo”, ma solo di ricercare una “vera democrazia” (p.38). Quindi la sua proposta punta espressamente a forme di “riformismo radicale”, anche se “necessariamente con una dimensione anticapitalista” (p.48).

Non è quindi una strategia di costruzione di discorso di tipo socialdemocratico, ma democratico radicale. Vediamo come dice:

“una concezione socialdemocratica di cittadinanza, per esempio, privilegia la lotta per i diritti sociali ed economici, mentre un’interpretazione democratica radicale sottolinea le altre numerose relazioni sociali al cui interno sussistono e vanno messi in discussione i rapporti di potere con l’obiettivo di riaffermare i principi di libertà e uguaglianza” (p.65).

Quindi si tratta di superare l’opposizione “capitale/lavoro” come centrale, e non attribuire più alcun privilegio ontologico alla classe lavoratrice.

L’idea non è neppure quella di tornare al “compromesso keynesiano”, per ragioni ambientali, ma di puntare ad una radicalizzazione social-liberale della democrazia rappresentativa. Non si tratta quindi neppure di puntare all’esodo, come vorrebbero Hardt e Negri ed alla autoorganizzazione. La lotta politica egemonica, rivolta ad imporre i significanti simbolici in grado di plasmare il ‘senso comune’ e fornire una cornice normativa nuova, deve avvenire dentro le istituzioni.
E deve partire dallo Stato nazionale, in quanto spazio decisivo. Ma si tratta di mobilitare quella forma di patriottismo che consiste nel valorizzare “gli aspetti migliori e maggiormente egualitari della tradizione nazionale”.

Questa è, alla fine quella che chiama “una concezione agonistica” (e non “antagonista”) della democrazia (p.93).





[1] - In senso etimologico di “non ordinario”, con riferimento al sorprendente esito di due referendum, uno in Inghilterra ed uno in Italia, delle elezioni americane, le elezioni spagnole con il massimo risultato di Podemos (21%).
[2] - Macron trova il suo spazio, grazie alla legge elettorale francese, dalla dissoluzione contemporanea e simmetrica del Partito Socialista e del Partito Repubblicano di Fillon.
[3] - In “Il conflitto democratico”, 2013.
[4] - Operazione concettualmente sottoposta a regresso all’infinito. Nel caso, per dire, le affermazioni secondo le quali non c’è una essenza sociale sono esse stesse vere? In tal caso un’essenza esisterebbe comunque, quella della indefinita costruzione tramite il potere simbolizzante del “discorso”.
[5] - Termine che si deve a Colin Crouch, citato dalla autrice insieme a Racière. Le sue forme sono la riduzione del ruolo dei parlamenti, la ricerca del centro, la disattivazione politica, e le politiche di austerità e di impoverimento delle classi medie.
[6] - La frase precisa è: “Il populismo di destra afferma che riporterà al centro la sovranità popolare e restaurerà la democrazia, ma la sovranità è qui intesa come ‘sovranità nazionale’ e riservata a coloro che sono ritenuti autentici membri della comunità ‘nazionale’. I populisti di destra non cercano di intercettare le domande per l’uguaglianza e costruiscono un ‘popolo’ che esclude numerose categorie, di solito gli immigrati, considerati una minaccia per l’integrità e la prosperità della nazione”.

Nessun commento:

Posta un commento