Il
libricino
raccoglie interventi rivolti a inquadrare la crisi in corso scritta tra il 2017 e 2019 della studiosa americana Nancy Fraser,
molto nota per le sue posizioni critiche sul femminismo liberale[1] e il “neoliberismo
progressista”[2]. Sembrerebbe, con particolare
riferimento all’elezione a sorpresa di Donald Trump nel 2016, di essere alle prese con una crisi
politica ma è piuttosto, a parere della Fraser, una crisi ‘globale’. Caratterizzata
in ogni luogo dell’occidente dal “drammatico indebolimento, se non un vero e
proprio crollo, dell’autorità delle classi politiche costituite e dei partiti”.
Ma questa è solo la componente politica di una crisi che ha dimensioni economiche,
ecologiche e sociali; tutti processi convergenti che finiscono per “disintegrare”
l’ordine sociale neoliberale. Ovvero quell’ordine che si è costituito a partire
dall’alleanza, reale e potente, tra due strani partner: le correnti liberali
conservatrici tradizionali, espresse in America a partire dagli anni cinquanta
nel lavoro continuo di alcuni influenti e ben finanziati centri culturali[3], e il contributo decisivo
per la legittimazione sociale e politica della confluenza dei nuovi movimenti
sociali (femministi, antirazzisti, del multiculturalismo, ambientalismo e
diritti Lgbtq+). Questo “blocco egemonico” è quel che la Fraser chiama “neoliberismo
progressista”. I due improbabili partner uniscono lo spirito libertario e
individualista dei movimenti anti-autoritari, e quindi anche antistatalisti,
degli anni sessanta, con tutto il loro variopinto colore, ai “settori più
dinamici, lussuosamente simbolici e finanziari, dell’economia degli Stati Uniti
(Wall Street, la Silicon Valley e Hollywood)”[4]. È chiaro che, per esprimersi
in forma sintetica le due forze sono tenute insieme da una coincidenza di
orientamenti, figlia dello spirito del tempo, sulla distribuzione da una parte,
e sul riconoscimento dall’altra (una svalutazione della prima e rivalutazione
della seconda). Di fatto, nascosto dall’esaltazione della promozione
individuale e della meritocrazia veniva tenuto insieme un programma economico “espropriativo
e plutocratico” (quello della Scuola di Chicago, ammantato da anarco-liberalismo[5]) con una politica di
riconoscimento liberale.
Quella
che unisce le sue forze, perché condivide in sostanza gli stessi avversari e lo
stesso spirito, è una potente e molto ben finanziata corrente neoliberale, che
lavora per liberare le forze del mercato dalla mano dello Stato[6] e dal fardello delle
politiche “tassa e spendi”[7] e per questo punta a
liberalizzare e quindi globalizzare l’economia capitalistica. Ne segue la finanziarizzazione
(che in parte precede), lo smantellamento delle barriere alla libera
circolazione dei capitali, l’esplosione del debito predatorio e la
deindustrializzazione occidentale, accompagnata dall’industrializzazione
selettiva di parte del vecchio “terzo mondo” (riclassificato come “in via di
sviluppo”). Naturalmente l’attacco ai sindacati e la crescita del lavoro
sottopagato e precario, quando non direttamente della disoccupazione. Queste politiche,
precisa la Fraser, sono imputate alla coppia Thatcher-Reagan, ma in realtà
vengono implementate in questa completa purezza, e quindi potenza, solo da
quella Clinton-Blair. Ed hanno devastato gli standard di vita delle classi
operaie e medie, trasferendo in modo davvero rilevante ricchezza verso l’alto[8]. Per dare qualche numero, negli
Usa dal 1980 al 2016 la popolazione totale ha visto crescere il reddito del 63%
(in Cina del 831%), ma la fascia del 50% più povero della popolazione solo del
5%, mentre quella dell’1% del 206% (il 10% del 123%). Per vedere una parte
della popolazione il cui reddito sia cresciuto quasi a livelli cinesi bisogna
in Usa andare allo 0,001%, ovvero ai primi 3.200 contribuenti.
Una
politica economica di questo tipo, enormemente regressiva per la maggioranza
dei lavoratori e di chi non dispone di ingente capitale economico (o almeno
sociale e culturale), può diventare il centro dinamico di un nuovo blocco egemonico
che sostituisca quello del “New Deal” solo se viene presentata come “progressista”.
Dunque i “nuovi democratici” (a volte autoidentificati come “radicali”) portano
l’ingrediente essenziale: una politica di riconoscimento progressista. La
Fraser, che a questa fase non è stata estranea[9] individua un ethos di
riconoscimento solo superficialmente egualitario ed emancipativo, al cui centro
ci sono le nozioni di “diversità”, e quindi le prassi di “emancipazione delle
donne”, dei diritti Lgbtq+, postrazziali e ambientaliste[10]. Anche senza avvedersene
l’eguaglianza passa per quello che storicamente era il suo contrario, la
meritocrazia[11]
per cui lo scopo diventa dare più mezzi a chi ha “talento”, in particolare se
membro di una qualche autoattribuita minoranza. Come scrive la Fraser, “questo
ideale è intrinsecamente di classe, orientato a garantire che gli individui ‘meritevoli’
appartenenti a ‘gruppi sottorappresentati’ possano conseguire posizioni e
redditi in modo paritario rispetto agli uomini bianchi etero della stessa
classe. La variante femminista è significativa, ma non l’unica, purtroppo. Basandosi
sull’idea di ‘fare un passo in avanti’ e ‘rompere il soffitto di vetro’, le sue
principali beneficiarie potevano essere solo quelle già in possesso del capitale
sociale, culturale ed economico necessario. Tutte le altre sarebbero rimaste
nel seminterrato”[12]. Questa è la forma
politica che ha convinto e sedotto tutte le principali correnti dei
movimenti progressisti e le ha fatte entrare nel blocco egemonico[13]. Sono loro che hanno
portato in dote l’ingrediente decisivo: il carisma del “nuovo spirito del
capitalismo”[14].
Ovvero hanno emanato quella che chiama “un’aura di emancipazione, un fremito di
eccitazione”, associando la svolta di politica economica neoliberale, e la
mondializzazione che ne è conseguita, con un tono “lungimirante, liberatorio,
cosmopolita e moralmente avanzato”.
La
battaglia egemonica, che ha visto il suo fronte più avanzato nel neocentrismo
clintoniano, ha prima disarticolato il residuo del blocco sociale dei newdealer
che negli Usa era rappresentato dalle organizzazioni del lavoro, dagli
afroamericani, le classi medie urbane e qualche fazione del grande capitale
interessato alla domanda interna. Quindi ha creato una nuova alleanza forgiata dal “clintonismo”,
come successivamente dal “New Labour” di Blair, formata invece da imprenditori,
banchieri, abitanti ricchi dei sobborghi, e “lavoratori simbolici”, ma anche
nuovi movimenti sociali, giovani. Il miracolo è stato di conservare l’appoggio
di ispanici ed altre minoranze razziali sovrasfruttate che, semplicemente, non
sapevano dove altro andare. Nella campagna 1991-92, cruciale, Bill Clinton ha
vinto parlando di diversità, multiculturalismo, diritti delle donne, mentre
raccoglieva da Goldman Sachs cifre record promettendo la più piena
liberalizzazione, come fece abolendo la legge Glass-Steagall[15]. Le sue prime azioni sono
state il lancio della mondializzazione, gli accordi di libero scambio (come il
Nafta), o l’entrata della Cina nel WTO, e l’esplosione di modelli di business
come quello di Walmart che ha sede nel suo Stato di provenienza.
A
questa proposta si oppose, a partire dagli stessi anni, un neoliberismo
reazionario che puntava a far accettare le identiche politiche economiche
regressive (per la maggioranza) con un diverso “pacchetto identitario”
compensativo: etnonazionalista, anti-immigrati, tradizionalista religioso, “quando
non patriarcale, razzista ed omofobo”.
Lo
scontro è stato per lo più vinto dal “neoliberismo progressista” sacrificando
la vecchia coalizione sociale ed i suoi luoghi. Ovvero passando dal modo di
produzione fordista a quello della “accumulazione flessibile”, o, in altri
termini, cambiando ‘piattaforma tecnologica’[16].
Avendo
questo menù a disposizione tra cui scegliere, che comunque implicava finanziarizzazione,
deindustrializzazione ed arretramento dei ceti medi, e solo due forme
alternative di neoliberismo vestito da giacchette identitarie alternative, un
crescente segmento dell’elettorato ha percepito un vuoto. Che dopo la crisi del
2007-8 non è stato colmato dalla nuova versione del “neoliberismo progressista”
proposta da Barac Obama. Né dalla spinta del movimento “Occupy Wall Street” del
2011, ricondotto al solito mood ovvero al lato “progressista” della
formula di successo.
Ma
il terremoto, di cui “Occupy” era solo avvisaglia, è alla fine arrivato nel
2015-16 con Sanders e Trump. Il secondo ha cercato di mettere a fuoco un
blocco “proto-egemonico” che la Fraser chiama “populismo reazionario”, ovvero
la combinazione di una politica di riconoscimento reazionaria con una politica
di distribuzione populista. Sanders ha tentato invece la strada di un “populismo progressista”, che mette
insieme le stesse politiche populiste distributive con una agenda “aperta”.
Per
Fraser la vittoria di Trump ha portato all’abbandono di fatto delle promesse
distributive populiste, che per ora nulla hanno prodotto, e un surplus di
politiche di riconoscimento reazionarie.
Ciò
aprirebbe una possibilità di recuperare la base sociale che ha voltato le spalle
al “neoliberismo progressista”, sostanzialmente perché tradita dagli effetti
distributivi, ma la sinistra americana (e non solo) reagisce con il “contrapporre
la razza alla classe”, ovvero puntare sull’una o l’altra in opposizione. Per la
filosofa americana bisognerebbe vederne i nessi, per cui “nessuno dei due può
essere sconfitto se l’altro prospera”[17].
La
costruzione di un blocco “controegemonico” passa dunque per la lotta al
capitalismo finanziario, una forma intrinsecamente predatoria, e le vecchie
visioni, separando le donne meno privilegiate, le persone di colore, dalle femministe
meritocratiche e gli altri travestimenti neoliberali. Inoltre passa per la lotta per recuperare
una relazione con la classe operaia della rust belt o le aree periferiche e
rurali.
Come
esattamente lo possa fare non è chiaro alla Fraser, in quanto la sua biografia
personale e la sua formazione culturale di filosofa gli impediscono
probabilmente di vedere quanto profondamente tutto questo sia connesso con la
fase storica della mondializzazione, che è la stessa parola della
finanziarizzazione e della egemonia imperiale. Nell’intervista con Bhaskar
Sunkara, l’editor di ispirazione trotskista di Jacobin[18], confessa di non sapere “se
qualche nuova, ma non ancora conosciuta forma di capitalismo possa soddisfare
questi imperativi – o se l’unica soluzione possibile sia una società
postcapitalista, che possiamo o meno chiamare socialista”. Ma dato che “il
nostro mondo non può e non deve tornare a un sistema di economie nazionali tra
loro distinte”, perché “la strada sarebbe quella dei protezionismi
concorrenti, della militarizzazione e della guerra mondiale”, allora
bisognerebbe trovare la quadratura del cerchio di “una nuova economia
politica che sia al tempo stesso globalizzata e a favore della classe operaia”[19].
Questo
passaggio chiave mostra, come in altri luoghi dell’opera della nostra, che la
studiosa americana, emersa dai movimenti che lei stessa critica come
fiancheggiatori oggettivi dell’insorgenza del neoliberismo progressista, non si
è completamente liberata dell’ipnosi che prese un’intera generazione. Senza salire
al livello rarefatto delle forme astratte di capitalismo, quel che non sembra
davvero comprendere è che la mondializzazione è l’esatto contrario della garanzia
di pace. Si tratta, essenzialmente, dell’estensione dello sfruttamento
predatorio dei differenziali di forza negoziale (in primis del lavoro e in via
estesa di quelle che David Harvey chiama le “coerenze strutturate”[20], ovvero i compromessi di
potere locali tra le classi, istituzionalizzati dalle forme politiche), sotto
la protezione e l’ombrello dello strapotere militare, e del soft power di
quella che Samir Amin chiamava “la triade”[21]. Esiste un nesso
strutturale, interno e necessario, tra la gerarchizzazione e la dipendenza,
ovvero la costrizione dello spazio da parte del tempo. La dissoluzione
apparente dei conflitti di classe e la loro ricomparsa compensativa come
conflitti identitari. L’interdetto, sostenuto dalla mera forza, a garantirsi
autonomia e autogoverno, in primis economico, ha una funzione strettamente
necessaria per proiettare le eccedenze (come si vede dall’emergere di sempre
più ineguaglianza), di capitale, tecnologia e lavoro su una
scala che da una parte conservi la stabilità interna ed eviti la
sovrapproduzione e quindi svalutazione, dall’altra consenta di estrarre
ulteriore valore ai centri subalterni, costretti a restare aperti e quindi
dipendenti. La mondializzazione, come non riesce a vedere la Fraser, è tutt’altro
che un campo piatto di gioco, e la finanziarizzazione non è affatto esente da
cancelli ben muniti, solo che questi sono poco visibili e soprattutto dotati di
chiave da un solo lato. È la geopolitica del capitalismo, nella sua forma
coerente con l’attuale piattaforma tecnologica, che crea costantemente economie
subalterne, coerenze strutturate incomplete (perché dipendenti) e “alleanze di
classe” mutilate. Ma questo schema non è affatto altro dalla dipendenza e dalla
condizione subalterna che soffrono le classi lavoratrici della rust belt, come
sembra credere. È uno schema che si scala all’esterno ed all’interno dei
confini statuali, nel momento stesso in cui questi sono disattivati come
strumento essenziale perché uno o l’altro compromessi di potere locali tra le
classi, istituzionalizzati dalle forme politiche, possa esercitarsi.
Ma
tutto ciò è lontanissimo da poter essere descritto come “pace”.
E’
il diverso livello di sviluppo, maturità e coesione, e quindi di eccedenze, che
costringe, al contrario, ad una lotta costante per sottomettere lo spazio proprio
ed altrui e quindi determinare dipendenze alle diverse scale. Questa necessità
interna di equilibrio (dei rapporti sociali di potere) crea quindi, sul piano
della geopolitica, costantemente economie subalterne; forza le coerenze
strutturate di queste ad essere “incomplete” (ed a completarsi solo con il
contributo delle eccedenze importate) e le relative “alleanze di classe” ad
essere estese alla scala sovranazionale. Nel senso decisivo che queste
coinvolgono in posizione di super-élite anche la parte esteroflessa delle élite
‘centrali’ ed in posizione subordinata le élite ‘periferiche’.
Questo
processo di estensione della competizione al fine di tenere sotto controllo ed
alimentare gli spazi coloniali interni ed esterni, garantendo la protezione
dell’accumulazione e prevenendo la svalutazione, tende ad accumulare piramidi
di debiti (nelle colonie) e di crediti (nei centri) e resta costantemente
soggetto al rischio di precipitare subitaneamente in crisi di realizzazione, o
di liquidità. L’insieme delle due si è manifestata nel 2007-8. All’epoca è
stato possibile far pagare alle periferie (ai Piigs in Europa, ai soliti noti
in America, all’Africa ed al medio oriente debole, a parte del Sud America e
via dicendo) il prezzo perché l’assetto di potere mondiale lo consentiva, ma
oggi sta emergendo in modo prepotente un contropotere geopolitico (rappresentato,
come ovvio dalla Cina e dai suoi alleati variabili) e la prossima crisi
potrebbe trovare debitori non più così disponibili al sacrificio.
Insomma,
contrariamente a quel che sembra pensare la Fraser, ed invece coerentemente con
quanto pensava, dall’alto della sua esperienza, lord Keynes alla fine della sua
vita, l’estensione della finanza e della mondializzazione che ne è solo altra
parola non è fattrice di pace, ma coltivatrice della guerra[22]. È la dipendenza che crea
le condizioni della guerra, come infatti è stato al termine del ciclo di
mondializzazione aperto negli ultimi decenni del XIX secolo e prolungatosi fino
a che l’egemonia inglese, sfidata da quella tedesca in Europa, dal potere
industriale e finanziario americano e dall’espansionismo giapponese, ha retto. Quelle
che, sbagliando la diagnosi storica e seguendo in questo la retorica
neoliberale, che si è sempre promossa come garanzia di pace, la Fraser
vede come temibili “economie nazionali tra loro distinte”, e quindi “protezionismi
concorrenti”, sono solo aree dotate di “coerenza strutturale” stabile, nelle
quali il compromesso di classe, o comunque l’equilibrio coerente con il livello
dei mezzi di produzione e la composizione organica del capitale, riesce a garantire
la circolazione e la riproduzione, riducendo la dipendenza. Senza essere
completamente “distinto” (mai, in pratica, le economie nazionali sono state
completamente distinte), questa è la garanzia della pace. In quanto la
pace si garantisce quando ognuno ha il suo, e nessuno ha vitale bisogno di
estendere il saccheggio e la dipendenza, dunque l’imperialismo. La pace riposa
sulla creazione e protezione di una sufficiente domanda interna da garantire la
riproduzione, in primo luogo dei lavoratori e di quelle classi i frazioni di
esse che non possono vivere del saccheggio della domanda interna altrui e delle
rendite derivanti dai vorticosi movimenti di capitale.
Esiste perciò una ragione interna profonda, connaturata al movimento proprio del capitalismo
nella forma finanziaria, per cui è del tutto impossibile avere “una nuova
economia politica che sia al tempo stesso globalizzata e a favore della classe
operaia”.
Non
a caso a questa frase Sunkara, che probabilmente lo sa, risponde che “il nostro
punto di vista è morale ed egualitario”.
Suona
come abbandono delle “rust belt”, è evidente che ci vuole più coraggio.
[1] - Si può leggere “Nancy
Fraser, ‘Come il femminismo divenne ancella del capitalismo’”.
[3] - Il riferimento principale, ma
non unico, è alla “Booth School of Business” dell’Università di Chicago (già The
University of Chicago Graduate School of Business, nome preso dal 1959), che
prende le tracce del lavoro sin dagli anni trenta della Mont Pelerin Society.
Si veda per un’ampia ricostruzione dell’evoluzione del pensiero neoliberale,
nelle sue plurime provenienze e correnti, Pierre Dardot, Christian Laval, “La
nuova ragione del mondo”, 2009.
[4] - Nancy Fraser, “Il vecchio
muore ed il nuovo non può nascere”, Ombre Corte 2019, p.11.
[5] - Si veda, ad esempio, Milton
Friedman, “Capitalismo
e libertà”, 1962.
[6] - Si veda il libro del 1980 di
Milton e Rose Friedman “Liberi
di scegliere”.
[7] - Interpretazione a cui dà un
forte contributo, se pure inintenzionale, il best seller di James O’Connor, “La
crisi fiscale dello Stato”, 1973.
[8] - Si veda il recente, AAVV, “Rapporto
sulle disuguaglianze nel mondo”, La nave di Teseo, 2019 (ed. or. 2017).
[9] - Si veda, ad esempio, il libro di
Nancy Fraser e Axel Honneth, “Redistribuzione o riconoscimento?”, Meltemi
2007, ed or. 2003 che cade all’avvio del percorso di ripensamento dell’americana.
[10] - Fraser, op.cit., p.13
[11] - Per una critica tempestiva del
concetto di meritocrazia si veda Michael Young, “L’avvento della
meritocrazia”, Comunità editrice, 2014, ed or. 1994.
[12] - Fraser, op.cit., p.14
[13] - Talvolta cooptandone i membri
più in vista nel sistema dei media, televisioni, giornali, e della riproduzione
culturale, dipartimenti universitari, case editrici, etc. convertendo in
direzione neoliberale l’egemonia culturale marxista che in alcuni ambienti
nazionali era la cifra degli anni cinquanta e sessanta.
[14] - Riferimento al libro di Dardot e
Laval, cit.
[15] - Legge bancaria del 1933 che
istituì la Federal Deposit Insurance Corporation e meccanismi progettati per controllare
la speculazione finanziaria.
[17] - Fraser, op.cit., p. 28.
[18] - Ed autore del “Manifesto
socialista per il XXI secolo”, Tempi Nuovi 2019.
[19] - Tutti questi notevoli passaggi
sono a p.59.
[20] - David Harvey, “Geografia del
dominio”, Ombre Corte, 2018
[21] - Ovvero l’alleanza, non priva di
competizione, tra un nuovo polo egemonico ed economico-militare formato, dopo
il crollo del contropotere sovietico ed il riassorbimenti entro le medesime
logiche di quello cinese, tra Stati Uniti, Europa e Giappone.
[22] - Si veda John Maynard Keynes, “Moneta
internazionale”, le varie versioni del suo progetto a Bretton Woods, il
sistema della finanza scatenata e della mondializzazione sregolata produce solo,
come sottolinea, “accumuli di denaro non speso e di debiti non ripagati”.
Ovvero, io direi, accumuli di potere e di dipendenza, entrambi in cerca di
vendetta. E di qui le tensioni che cercano, e più volte trovano, espressione
nelle armi. E qualunque sistema di cattura dei debitori da parte dei creditori
(come l’attuale Eurozona dell’Unione Europea) prepara quella civile, di guerra. Lo
schema di Keynes lavora per la pace perché impedisce l’accumulo di quello che
l’economista chiama “arsenali finanziari”, in termini di riserve valutarie e
debiti esteri che inevitabilmente sviluppano una vera e propria capacità di
ricatto. Togliere da parte del creditore, di fatto, la possibilità al debitore
di pagare (costringendolo a politiche recessive) allontana infatti la pace
(“pagare” viene dal latino “pax”).
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