“Navigavamo
gemendo attraverso lo stretto: da una parte era Scilla, dall’altra la
chiara Cariddi cominciò orridamente a succhiare l’acqua salsa del mare.
Quando la vomitava, gorgogliava tutta fremente, come su un gran fuoco un
lebete: dall’alto la schiuma cadeva sulla cima di entrambi gli scogli. Ma
quando succhiava l’acqua salsa del mare, tutta fremente appariva sul fondo, la
roccia intorno mugghiava orridamente, di sotto appariva la terra nera di
sabbia. Li prese una pallida angoscia. Noi volgemmo ad essa lo sguardo, temendo
la fine, ed ecco Scilla mi prese dalla nave ben cava i sei compagni migliori
per le braccia e la forza”.
Odissea,
canto XII
Per passare indenni tra
Scilla e Cariddi servono alcune cose: una nave, quindi un collettivo che abbia
in sé il senso del viaggio, e una rotta. Ma bisogna anche capire bene cosa sia Scilla,
il mostro con dodici zampe e sei teste che ci può prendere uno per uno, e nello
stesso modo cosa sia Cariddi, il gorgo nel quale possiamo esser
inghiottiti tutti. Dobbiamo sapere da dove veniamo, come siamo giunti
qui, cosa abbiamo perso e cosa guadagnato.
La crisi
Tutto è partito con la
crisi del modello fordista e, in modo indissolubile, della prima fase del
dominio geopolitico statunitense. Una fase che si chiude con la sconfitta in
Vietnam e con la crisi del dollaro-oro[1]. È
in queste circostanze che tramonta il keynesismo, per quanto ‘bastardo’, e
sorge l’egemonia neoliberale. Si tratta di processi lunghi e largamente
interconnessi, e che si sviluppano sul piano geopolitico, economico e
socio-culturale con sovrapposizioni e slittamenti[2]. La
crisi egemonica si compie come intreccio di più ragioni:
-
il capitalismo passa alla fase finanziaria per
proteggersi dalle difficoltà crescenti di realizzazione del plusvalore[3];
-
viene domesticata la lotta di classe come effetto di
più meccanismi convergenti, l’espansione del benessere indebolisce già nella
fase finale del trentennio e poi crescentemente nei due decenni successivi la
combattività dei lavoratori[4] progressivamente
si ha una riduzione degli investimenti dal lato privato e poi, durante gli anni
dell’austerità anche da quello pubblico[5];
La trasformazione, i cui
prodromi sono visibili già con Kennedy e Johnson, si avvia con Carter e si
conclude con Clinton; in Inghilterra con Callaghan e si completa con Blair, o in
Francia con Mitterrand e Delors, in Germania con Schmidt e Schroder, in Italia
con Berlinguer e Craxi e poi si attua compiutamente nella “seconda Repubblica”.
Sinistre e destre si
sono passate il testimone.
Ma non è solo questione
delle sinistre istituzionali. A questa transizione anche la “nuova sinistra”
dei movimenti ha portato un contributo decisivo. Ha proposto infatti una
politica di riconoscimento progressista apparentemente egualitaria ed
emancipativa che però, nello spirito del tempo, è passata come esaltazione
dell’individuo meritevole, antiautoritario, lungimirante, liberatorio,
cosmopolita e moralmente avanzato[7]. Ha
contribuito quindi a fare sembrare bello, progressivo, liberante l’abbandono
dell’individuo alle forze del mercato capitalista. Usi è trattato di un
ideale per pochi spacciato come soluzione per tutti.
Diverse idee si sono affermate
in questa lunga stagione; tra queste l’idea che la cetomedizzazione, proprio
mentre si stavano ponendo le condizioni economiche della sua revoca, imponesse
la competizione politica “al centro”, e la secolarizzazione dei partiti, tutti
ormai interclassisti. Quindi che il destino fosse la centralità
dell’individualismo ‘postmaterialista’ e di un modello organizzativo coerente
con esso: un modello centrato sulla comunicazione di massa, disintermediato e
snello, sganciato da una vera ‘base di massa’ e con una ‘base sociale’ progressivamente
sempre più esile.
Durante gli anni ottanta
e novanta, che sono la matrice del presente, la flessibilizzazione e
l’organizzazione a rete delle aziende (con unità produttive sempre più piccole,
interconnesse, dipendenti dal network), determinò una profonda modifica
nell’intellegibilità del posto di ciascuno nel modo di produzione complessivo e
quindi creò le condizioni per un decisivo spostamento dalla produzione al
consumo del senso di sé. Da allora la figura sociale centrale non è stata più
il “produttore”, ma è diventata il “consumatore”. Questa trasformazione ha
condotta all’affermazione dell’individualismo ed al tramonto di tutti quei
corpi intermedi che riempivano di senso la vita, senza costringere ciascuno a
surrogarne il senso con i consumi, sempre più compulsivi.
Questi stessi anni hanno
visto il lento tramonto dell’azione collettiva (sindacale, politica,
associativa) e l’emergere quasi improvviso, ed in via sostitutiva a partire
dagli anni ottanta e novanta, di movimenti ‘singola scelta’, reattivi e privi
di visione di insieme che non si sono più fatti carico del collettivo (si
tratta dei ‘movimenti’ nei quali la sinistra si è per lo più rifugiata, in
particolare quella radicale: il femminismo, l’ambientalismo, le lotte
antidiscriminazione, la stagione dei “diritti”). Sotto molti profili si è
trattato di una reazione edonista ed individualista o micro-comunitaria alla
sfida della flessibilizzazione ed alla ritirata dello Stato del Benessere.
Infine, questi anni, che
sono anche quelli del crollo sovietico e della nascita dell’Unione Europea,
sono stati caratterizzati dal depotenziamento della democrazia
attraverso un modello di governance multilivello e il cosiddetto “stato
regolatore”[8] (anziché erogatore),
rigorosamente inattingibile come arena delle rivendicazioni distributive.
Si è trattato di un
assetto giunto a compimento negli anni duemila che ha attraversato un ‘decennio
corto’ di espansione entusiasta della globalizzazione (come il decennio corto
degli anni venti del secolo scorso). Dopo l’ammissione, voluta da Clinton,
della Cina nel WTO e l’abbattimento delle barriere tariffarie e regolatorie si
è prodotta una netta estensione dei processi di densificazione e diradamento
(ovvero polarizzazione) propri del capitalismo monopolista e
internazionalizzato nella fase finanziaria[9].
Una riarticolazione territoriale ha visto aree dinamiche e dominanti
contrapporsi ad aree svuotate e depresse, spesso le une vicino alle altre. In
questo periodo ha raggiunto il suo limite ‘l’acquisto di tempo’[10]
avviato sul finire degli anni settanta con sempre nuove espansioni finanziarie
e bolle sempre più pericolose. Ma ha raggiunto la maturità anche
l’interconnessione acefala ed incontrollabile delle informazioni, che di fatto ha
svuotato di autorevolezza e credibilità i ceti tecnici ed intellettuali, oltre
i media generalisti. Quindi l’accelerazione brutale dei processi di
flessibilizzazione del lavoro e di degrado crescente delle protezioni
novecentesche ha prodotto una perversa meccanica che ha visto la perdita dei
‘buoni lavori’, la precarizzazione difensiva già avviata negli anni novanta, la
deflazione importata e la crisi degli investimenti produttivi in occidente, la
carenza di domanda aggregata. In conseguenza abbiamo visto l’inasprimento
ulteriore del clima antipolitico e la crescita simmetrica della domanda di
protezione ancora poco consapevole di sé e dominata dal risentimento.
Ne conseguirono due
fenomeni gemelli ed intrecciati, spaziali e funzionali:
-
Anche se non è stato subito avvertito pienamente, la
gerarchia sociale si è riorganizzata sul duplice asse tra le aree “centrali”,
in cui si sono addensate, rafforzando e valorizzando reciprocamente le risorse,
e le aree “periferiche” nelle quali, di converso, i fattori si sono diradati e
indeboliti reciprocamente, precipitando in forme distruttive di concorrenza a
gioco a somma zero, quando non negativa[11];
-
Si è aperta una frattura tra chi è in grado, disponendo delle
necessarie fonti di potere e capitale, di determinare il proprio valore e chi è
costretto a subirne l’attribuzione altrui; tra chi “fa” e “subisce” il prezzo.
La rivolta populista
La ristrutturazione
avviata nel 2007-8 e proseguita per gli ultimi dodici anni è stata quindi solo
il naturale esito, per estenuazione, di queste dinamiche. Da allora sono
giunte a maturazione quelle particolari forme di rivolte popolari, strettamente
connesse con lo spirito del tempo, che abbiamo chiamato a suo tempo “momento
populista”. Si è trattato di movimenti essenzialmente egemonizzati dai
“lavoratori della conoscenza” che si sentono al contempo sovraistruiti e
sottoutilizzati e che esprimono, nel vuoto dei quadri di senso novecenteschi
(persi da tempo, insieme ai corpi intermedi) una particolare miscela di
individualismo edonista frustrato, rancore cieco, e spinta alla socializzazione
destrutturata.
Chiamerò questa fase di
formazione “neopopulismo”.
Hanno fatto seguito
movimenti effimeri di protesta (“Occupy Wall Street”, “Indignados”) che hanno generato
una forma politica capace di innestarsi direttamente sulle esperienze del “primo
populismo” anni novanta, una forma politica resa necessaria dalla fine dei
grandi schemi di massa novecenteschi, generandone una nuova versione
direttamente mutuata dai modelli del “partito della sorveglianza”[12],
del partito “agile”, “leaderistico”, aggregativo di istanze eterogenee. È stato
il momento di successo di “non partiti” (M5S, Podemos, Insoumise) progettati
per raccogliere un consenso elettorale senza porsi veramente il problema di
tradurlo in scelte operative concrete. Una contraddizione direttamente
inscritta nel modo in cui sono stati costruiti e nelle forze che hanno aggregato,
che ha provocato nel breve arco di due o tre anni la ritirata dentro la solita
politica della sinistra e la perdita della spinta propulsiva per Podemos, per
Insoumise e, alla duplice prova del governo, anche per il M5S.
La traduzione politica di
questa formula di successo è arrivata nel 2016. In rapidissima successione
abbiamo avuto la ‘rivolta degli elettori’[13],
il discredito e la rabbia trasformarsi in una nuova ‘base di massa’ per
chiunque avesse la credibilità di interpretare un moto dal basso contro
l’alto. La linea vincente non è stata più al centro, ma dalle periferie e
dal basso contro il centro e l’alto. La polarizzazione si è manifestata
chiaramente nella rivolta della Brexit, nella vittoria di Trump (ma anche di
Sanders), nella fragorosa sconfitta di Renzi e del suo modello “primopopulista”,
nell’erosione della Grosse Koalition e nel terremoto francese (con la scomparsa
subitanea dei partiti storici).
In Italia il ciclo si è chiuso
con la vittoria bi-populista del 2018. Un voto radicalmente anti-establishment
che ha manifestato per la prima volta nel paese una diversa maggioranza,
orientata emotivamente dal basso e contro, che rendeva possibile un compromesso
politico e territoriale tra i ceti produttivi intermedi, semi-periferici, che
soffrivano al nord ed al centro in particolar modo la proiezione del paese alle
esportazioni nel quadro europeo (e la necessariamente conseguente contrazione
della domanda interna, via austerità), e i ceti marginali e periferici, spesso
prodotti proprio dalla ‘modernizzazione’ produttiva del settore dei servizi
(flessibilizzazione e precarizzazione estrema), o dai lavoratori che
assistevano al degrado del tessuto sociale e produttivo, al centro e sud.
Vinsero due offerte
politiche molto diverse, ma con elementi in comune e adeguate ai tempi:
1-
Il Movimento
Cinque Stelle, che unisce l’eredità
della grande crescita, in tutti gli anni novanta, dei movimenti “singola
scelta”, portandone l’energia ed i difetti (reattività, mancanza di visione di
insieme sociale, rifiuto del collettivo politico), con un’innovativa
piattaforma politica che estremizza la disintermediazione e il “direttismo”. Un
paradossale movimento politico puramente anti-politico. E per questo una
straordinaria “spugna”, capace di una forma di populismo potentissima e che
chiamerei “mimetica”.
2-
La Lega di Salvini, non più “Nord”, che ricerca una via di
uscita dal dilemma strategico che aveva bloccato permanentemente il più antico
Partito Politico italiano: l’essere solo espressione dell’egoismo del Nord, e
quindi rivolto contro il resto del paese. Per mera questione di numeri
condannato da questa condizione ad essere lo junior partner del Centro Destra.
L’idea semplice era di accentuare gli elementi populisti, incorporati nel dna
del movimento (anche se è probabilmente il più “pesante” partito italiano),
designando un altro “nemico” che consentisse di fare un discorso “nazionale”.
Il più plausibile, dato il contesto di crisi, era l’Unione Europea, che
consentiva una traslitterazione quasi puntuale della retorica secessionista
tradizionale, e quindi identitaria, su un diverso oggetto. Tuttavia ciò, ad un
maggiore livello di profondità, apriva ed apre una contraddizione con il
radicamento sociale del partito in ceti ed attori profondamente interconnessi
con il “centro” europeo. Questa contraddizione esploderà a suo tempo.
Per una brevissima fase,
alla fine durata forse un mese, è sembrato che l’alleanza tra questi due
“populismi”, potesse finalmente far finire il dominio del ‘partito dell’estero’
in Italia, ricentrando la politica sugli interessi nazionali e popolari. È stato
un tentativo che è fallito molto prima del “Papete”, anche prima della
finanziaria. Questo fallimento deriva da una doppia attrazione
esercitata dalle vecchie élite: i poteri industriali del Nord Italia nei
confronti della Lega, richiamata ad una funzione di cane da guardia delle
esigenze del capitale; la compatibilità di sistema, in particolare europea, che
ha determinato la svolta neo-centrista per il M5S a guida Di Maio/Conte.
La fine del governo
Conte I, ha prodotto, però, un’agenda rovesciata. Ritornava al centro
della scena il Partito garante, più di tutti, della fedeltà e compatibilità con
il quadro europeo e quindi della desovranizzazione italiana, il Pd. Garante di
quegli equilibri di sistema che hanno spinto in questi anni milioni di persone
vicino alla soglia di povertà (25% in povertà assoluta e relativa, 35% al
mezzogiorno) e prodotto la crisi senza uscita nella quale siamo. Il guardiano
di ogni riduzione dell’offerta ospedaliera, di ogni taglio alla scuola, di ogni
flessibilità del lavoro, di ogni smottamento dell’offerta di servizi, di treni,
di case, di spazi pubblici che abbiamo subito in questi anni interminabili. Che
parla sempre, è vero, di diritti, di crescita, di sostenibilità, di libertà, …
Ma non ha nulla da dire di effettivo sul progressivo indebolimento del tessuto
produttivo nazionale, in particolare nelle aree meno connesse ai distretti ed
alle catene logistiche e produttive orientate all’esportazione. Non ha nulla di
vero da obiettare al declassamento del paese a semi-periferia nell’ambito di
una nuova divisione internazionale del lavoro nella quale ritorna il sogno
dell’Impero Carolingio di cui non possiamo che essere “marche” di confine. Non
ha da dire all’arruolamento del nostro paese nella nuova terza guerra mondiale
che si sta da tempo combattendo.
Una posizione nella
quale contemporaneamente perdiamo come classe lavoratrice e come paese, e nel
quale, in altre parole, una sorta di lotta anticoloniale[14] va
ad unire la questione di classe e la questione dell’autodeterminazione nazionale[15]. Si
tratta di riconquistare quella capacità che i paesi a dominazione imperiale (o
i centri dell’impero) negano accuratamente a tutti gli altri, per disporne
in esclusiva[16].
Nel nuovo “impero” europeo, di cui il centrosinistra è primo guardiano, vince
chi ha aziende fortemente capitalizzate, uno stato forte che le protegge, e
mercati aperti in cui possono dominare. Perde chi non è in grado di
sostenere le proprie aziende, proteggere i propri cittadini, e garantire la
tenuta del proprio mercato interno, ovvero redditi e consumi. Vince chi
è in grado di inibire i meccanismi difensivi altrui, imponendo forme
organizzative e apertura dei mercati conformi alle proprie esigenze. Perde
chi crede nella retorica del più forte, introietta le critiche altrui in forma
di autorazzismo, e si convince anche di meritare la propria debolezza, vista
come tara morale, dissimulando con ciò il dominio delle catene del valore.
Siamo dunque qui.
Podemos è tornato al
governo in Spagna, ma avendo perso per strada buona parte della spinta
valoriale ed elettorale antagonista, ormai prigioniero e subalterno al partito
dell’establishment e dell’europeismo. Ancora peggio, Insoumise, che ha scelto
la “linea Autain”[17]
rifugiandosi nell’Ile-de-France nell’insediamento storico della sinistra, è
tornato a livelli elettorali da sinistra radicale. Corbyn ha perso in Gran
Bretagna per non aver avuto la forza di scegliere tra Scilla e Cariddi,
restando con l’impressione di irresolutezza e confusione, unendo un programma economico
fortissimo ma nessun mezzo per attuarlo. Il M5S, la forma ‘neopopulista’ più
pura, naviga alla metà dei consensi raggiunti nel 2018 ed è stato stritolato
dalla doppia esperienza del governo “gialloverde” e “biancogiallo”.
Sembra quindi che dopo la
tempesta 2016-18 sia in corso un ritorno alla politica ordinaria in Spagna,
con il nuovo governo Sanchez, in Italia, con il Pd nuovamente in sella, in
Francia, con un Macron sfidato dalle piazze ma saldo al potere, in
Germania, dove ancora regge l’arco dei partiti sistemici, con il soccorso
dei Grunen.
Quella che siamo
abituati a chiamare “bipolarismo”.
Nella quale,
precisamente, si sfidano due versioni diverse del neoliberismo:
-
da una parte il “neoliberismo progressista”, che
unisce politiche economiche austeriane e regressive a politiche identitarie
volte a valorizzare mobilità, modernizzazione, multiculturalismo e merito
individuale;
-
dall’altra un “neoliberismo difensivo e nazionalista”
di nuovo conio, che unisce le identiche politiche, spostando in parte i
beneficiari, a politiche identitarie che vivono di identificazione dell’altro
come nemico, deviazione della rabbia, drastica semplificazione dei meccanismi.
C’è bisogno di altro.
Bisogna rompere la
gabbia del bipolarismo e tornare a chiedere un autentico cambiamento. E’ necessario
aggregare un “terzo polo”, che sia alternativo a quel che si formerà tra Pd e
frazioni del M5S, e quel che si è formato come nuovo centrodestra tra Lega, FI
e FdI. Bisogna lavorare all’unificazione di un blocco sociale capace di reale
cambiamento nel paese. Un blocco che sia fondato sull’autentica maggioranza del
paese, che sia capace di aggregare una larga coalizione sociale da Nord a Sud,
rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche. Capace
di parlare con i neo-proletari della new economy, i professionisti in via di
“uberizzazione”, i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i pensionati a
basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva del proletariato e
sottoproletariato urbano. Al contempo capace di attrarre a sé i segmenti di
piccola borghesia operanti sul mercato interno, il ceto impiegatizio pubblico,
e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli dall’egemonia esercitata dalla
borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle esportazioni. Solo se
riusciremo a determinare questa larga alleanza avremo la forza per modificare
la traiettoria che sta portando il paese e l’intero mondo occidentale verso
l’esaurimento del suo modello di produzione e sviluppo. Una traiettoria che ci
designa come vittime e nuova periferia interna, al fine di consentire al centro
metropolitano ulteriore crescita e stabilizzazione. Ci designa come classe e
come paese.
Il ‘soggetto’ di questa
trasformazione non può più essere unilateralmente una frazione qualificata
della società. Non può esserlo la vecchia classe operaia ormai frammentata e
dispersa; né possono esserlo le “classi riflessive” della nuova economia della
conoscenza, spesso in prima fila per la conservazione dei loro declinanti,
piccoli, privilegi; né non meglio precisate “moltitudini”, con il loro rifiuto
di porre la questione del potere; né le “donne”, quasi fossero una classe a sé
stante.
Il blocco sociale capace
di riaprire il futuro può solo essere una rete contingente di soggetti sociali,
sensibili alle diseguaglianze orizzontali e verticali, tra periferie e centri.
Quest’aggregazione contingente deve prendere le mosse dai danni creati dallo
sviluppo unilaterale della valorizzazione capitalistica, dai luoghi dove le
condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi non gode di
posizioni privilegiate. È qui che nasce la resistenza da cui partire.
Il punto diventa quindi
costruire linee oppositive al capitalismo che passino innanzitutto per i
differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. È la divaricazione tra i
‘vincenti’ – che riescono a fare il proprio prezzo e si muovono nei centri
geografici funzionali al sistema – e i ‘perdenti’, che il prezzo lo subiscono e
stazionano in area periferica – a definire il campo della lotta di classe per un
socialismo del XXI secolo[18]. L’unica
forza che può avviare una transizione.
Ma per riuscirvi abbiamo
bisogno di un diverso pensiero.
L’idea che il discorso
politico sia autosufficiente, e che si tratti di costruire su ‘faglie di
antagonismo’ esistenti, aggregando le forze eterogenee tramite discorsi
emozionali si è dimostrata potente ma ha i suoi limiti. Quella che si possano
rendere equivalenti posizioni sociali e radicamenti differenti facendo di
diverse soggettività un “popolo” politico costruito dal discorso è un’idea
effimera che è stata vista fallire in questi ultimi anni. Chi cavalca la “tigre
della sorveglianza” corre i suoi rischi perché procede velocemente, aggregando
emozioni e manovrando tatticamente, ma non è capace di creare una linea
politica coerente. Di resistere in essa alle inevitabili pressioni e defezioni.
In altre parole, creare strutture
verticistiche senza strategia, tenute unite da obiettivi disparati e
soggettività spesso narcisistiche è sempre a rischio di immediata revoca di
fiducia per il sospetto di inautenticità. La strategia tutta “testa e
comunicazione” va fatalmente in crisi nel momento in cui, crescendo, deve
passare alla produzione di potere.
Dunque per superare la
crisi bisogna capire una cosa essenziale: che si è chiamati a produrre
potere per cambiare il modo di produzione capitalista che ci sta stritolando.
Le tensioni politiche che si scaricano nelle forze ‘populiste’, siano esse
orientate a destra o a sinistra, non sono effetto dell’abile scelta di alcuni
“significanti”. Al contrario: la produzione delle idee, le rappresentazioni che
riescono a dominare la scena pubblica, sono intrecciate con le attività
materiali nelle quali i soggetti che si attivano politicamente sono
impegnati, come scriveva Marx “l’essere degli uomini è il processo reale
della loro vita”.
La biforcazione.
Noi siamo quindi ad un
punto di biforcazione. Dobbiamo scegliere tra:
1- l’aspirazione
alla riconquista storico-politica dei ceti popolari e subalterni, contendendo
l’egemonia alla destra sul campo largo.
2- La
rassegnazione alla gestione della sconfitta e alla difesa delle residue aree di
consenso marginali (delle zone ZTL) che possono essere mobilitate solo su temi morali.
Se scegliamo la prima abbiamo
bisogno di due cose:
1- una lotta spietata al
settarismo ed al narcisismo, ovvero alla tentazione di reagire ad una fase di
dolorosa confusione con il rinserrarsi nelle vecchie identità sfidate;
2- la ferma decisione che
la lunga ritirata, prodotta dalla crisi degli anni settanta e dall’insorgenza
dell’uomo narcisista e post-materialista è finita.
Quando la lunga ritirata
termina, perché ne terminano le ragioni, allora bisogna dismettere tutti gli
strumenti che abbiamo tenuto in campo ed usato per gestirla.
In particola la prima
cosa da abbandonare è l’idea che all’impolitico neoliberale non c’è alternativa,
ma ci si può solo adattare, perché è la forma definitiva dell’umano.
Il “primopopulismo” è
stato questo, un adattamento, e la fase “neopopulista” che ora è entrata in
crisi non ha compreso che doveva essere radicalmente discontinua.
Ma l’umano non termina
di modificarsi, come la storia, cambia sempre insieme alle condizioni materiali
ed alle forme del sociale che vi sono relazionate. Dunque sta nuovamente per
cambiare.
Cosa significa dunque passare
tra Scilla e Cariddi?
Tre cose:
Oltrepassare
l’impolitico neoliberale e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di
umanità, dandogli forma. Porre con coraggio e coerenza la questione della
trasformazione dell’esistente e della creazione di un nuovo mondo. Andare al
cuore dei problemi, dimenticare le tattiche ‘intersezionali’ volte a sommare
narcisismi inconciliabili, andare oltre la vaghezza, il rifiuto della
denominazione di un livello strutturale dello scontro. Accettare la
polarizzazione e stare da una parte.
Dimenticare la strategia
tutta “testa e comunicazione” del primopopulismo, in ogni sua versione. Creare le condizioni
per forme nuovamente solide, imperniate su un nuovo attivismo che faccia leva
sulle reti di comunicazione diffuse e sulla vicinanza dei corpi. Sulle
mobilitazioni politiche di prossimità, su coesione “simpatia” e mutuo sostegno.
Sulla creazione di una cultura comune e condivisa.
Rigettare l’odore di
sconfitta della sinistra, radicale e non. Tutta la sinistra è attardata
inconsapevolmente in pratiche adattive per una società che già non c’è più. Per
paura resta abbarbicata ad una “base sociale” ristretta, che ripiega costantemente,
ed ormai ha perso anche molta parte della sua “base di massa”. Ne è immagine la
postura della radicalità come voce morale inflessibile che fustiga i potenti e
si trincera entro gli indicatori di purezza e superiorità del discorso “politicamente
corretto”. Tre bastioni individuano questa cittadella assediata: il
cosmopolitismo, la retorica dei diritti e delle minoranze, ed il tono
morale con il quale sistematicamente interviene.
Per far crescere questa
possibilità bisogna ricominciare a fare Grande Politica, a creare quadri di
senso e progetti di liberazione del paese che si confrontino con la dura realtà
delle cose. Svolgere analisi concrete delle situazioni concrete e non
rifugiarsi nelle “frasi rivoluzionarie”, o nelle tecniche ‘primopopuliste’ che
presupponevano un mondo che sta venendo meno.
Quel che sta accadendo è
che, revocato il ‘compromesso keynesiano’ ed esplose nuovamente le
contraddizioni che teneva a freno, si torna alla durezza.
Bisogna combattere quindi
in modo determinato la guerra egemonica, piazzaforte per piazzaforte, ma
tornando a capire la politica come lotta tra posizioni strutturali di
interessi, resi tali dal modo di produzione e dalla collocazione spaziale.
In questa guerra servono
alleati di ogni genere, ma la questione dirimente è quale gruppo sociale
esercita la direzione intellettuale e morale. La condizione necessaria per
cambiare le cose e accedere alla forza per cambiarle è infatti di esercitare
questa direzione; di creare con la necessaria pazienza e lena un blocco sociale
del cambiamento che si incunei tra i due poli neoliberali.
Farlo con tutti coloro
che vogliono davvero cambiare direzione, e non solo spalla al fucile.
Questo è il nostro
compito.
[1] - Mi riferisco, ovviamente, allo
sviluppo degli anni sessanta, dagli anni di Kennedy in avanti, quando la guerra
nel sud-est asiatico viene combattuta, con crescente dispiego di forze e infine
persa sia sul campo sia in patria. Il doppio deficit che determina la
crisi al contempo finanziaria e di legittimazione dell’egemone statunitense è l’effetto
di un eccesso di spesa compensativa (il cosiddetto “warfare”, ben prevalente
sul contemporaneo “welfare”) e di una perdita di competitività relativa dell’industria
statunitense, rispetto ai competitori del primo mondo (in primis i paesi
sconfitti della seconda guerra, Germania e Giappone e in misura minore Italia e
Francia) e di alcuni emergenti precoci (Corea del Sud, ad esempio). La crescita
superiore al 5% del Pil all’anno che era stata registrata a metà degli anni
sessanta si inceppa nel risiko della svalutazione delle monete (inizia la
Sterlina) e nella difficoltà di continuare a crescere a base di stimoli in
disavanzo. Le tensioni monetarie crescenti sfocia nel 1971 nella sospensione
della convertibilità del dollaro in oro e quindi di fatto nella revoca dell’architrave
degli Accordi di Bretton Woods.
[2] - In primo luogo, bisogna
considerare che quando si parla di economie dominanti, a ispirazione ed assetto
imperiale, come quella statunitense nel periodo in esame, le considerazioni e
gli obiettivi di conservazione e rafforzamento del dominio geopolitico sono
strettamente intrecciati, e prevalenti, su quelli meramente economici. Quando,
ad esempio, risulta chiaro che gli schiaccianti rapporti di forza tra le
economie industriali, sotto questo profilo, che si erano prodotti alla scadenza
della guerra non sono più tali e la rinnovata competitività degli altri paesi
industriali determina uno squilibrio commerciale crescente e quindi l’accumulo
di riserve di dollari e auree a lungo andare insostenibili, e quindi a rischio di rovesciarsi in una crisi di fiducia, gli
Usa comprendono che non è in gioco solo il valore della moneta, ma il dominio
sul mondo. La svalutazione che potrebbe conseguirne, significherebbe rinunciare
agli investimenti all’estero e per questa via ad un canale di controllo delle
economie estere (così, ad esempio, lo vedono i francesi). Eliminare il deficit
e “vivere dei propri mezzi” è quindi impossibile. In secondo luogo, le
strutture economiche implicano conseguenze sociali e finanche culturali che
spesso si manifestano in modo sfalsato, in ritardo.
[3] - Si veda su questa interpretazione,
peraltro dominante, lo schema analitico di Giovanni Arrighi.
[4] - Anche perché a partire dall’espansione
finanziaria, anni ottanta e novanta, il benessere, come una staffetta, viene garantito
sempre più dai redditi da rendita che prendono il posto della centralità di
quelli da lavoro.
[5] - Si hanno alcuni fenomeni che prendono
avvio lentamente già negli anni finali del “ciclo” e poi accelerano su un
percorso ventennale, l’espansione dei trasferimenti all’estero, lo spostamento
della base industriale, come effetto l’espansione dell’esercito di riserva.
[6] - Informatizzazione, automazione,
organizzazione a rete, interconnessione individuale.
[7] - Un’analisi esemplare di questa
trasformazione si trova in Ronald Inglehart “La
società postmoderna”, 1996.
[8] - Si può leggere il classico libro
del 2000 di Antonio La Spina e Giandomenico Majone “Lo
stato regolatore”, nel quale il modello è compiutamente descritto.
[9] - Questo tema è di rilevanza
centrale e non può essere compiutamente sviluppato in queste poche note, rinvio
all’analisi di David Harvey in “Geografia
del dominio”.
[10] - Ovviamente con riferimento alla
formula usata da Wolfgang Streeck in “Tempo
guadagnato”.
[11] - Christophe Guilluy, “La
società non esiste”,
[12] - Secondo la nota formula di
Pierre Rosanvallon, “Controdemocrazia”,
2001
[13] - Formula che si deve a Andrew
Spannaus, “La
rivolta degli elettori”, 2016
[14] - Come correttamente vedeva lo
stesso Lenin è possibile perfettamente che si dia dominio coloniale nei
confronti di un paese semi-centrale ed industrializzato, che è, appunto,
sospinto in basso nella catena del valore e in posizione gerarchicamente
subordinata. In prima battuta perdono soprattutto i ceti meno mobili, che hanno
minore dotazione di risorse mobili o spendibili su aree dominanti, ma in una
fase più avanzata è l’intero ambiente sociale, in quanto i fatti sociali sono
formati nello spazio e quindi sono determinati dalla contiguità, a degradare. Con
esso degrada l’ambiente economico, i fattori mobili fuggono, il diradamento
cresce, le strutture e gli investimenti in capitale fisso non sono più
sostenibili e cessano di essere riprodotti, la meccanica del declino e della
subalternità accelera.
[15] - Persino un autore, per molti
versi legato ad un internazionalismo con tratti molto classici, come Domenico
Losurdo, ne “Il
marxismo occidentale”, il suo ultimo libro, quando si tratta di
liberarsi di un gioco anticoloniale, anche sui generis o principalmente giuridico-economico,
la rivoluzione finisce per essere contemporaneamente “anticoloniale e nazionale”
(p.21).
[16] - Si veda Lenin “L’imperialismo”,
1916.
[17] - Mi riferisco allo scontro
simbolico tra due importanti esponenti della France Insoumise, Djordje
Kuzmanovic, poi uscito dal movimento, e Clémentine Autain. Si veda “Scontri
in France Insoumise”.
[18] - Si veda anche “Partito
e classe. Dopo la fine della sinistra”.
la consueta lucidità e la solita finezza di analisi... condivisibile in tutto e per tutto....
RispondiEliminail timore è solo che il "lavaggio del cervello" collettivo messo in opera dalle elites abbia reso molte delle vittime i migliori complici dei loro carnefici di classe, incrementando così la refrattarietà del sistema fino al punto di non ritorno.
d'altronde, tuttavia, piangersi addosso non risolve i problemi. bisogna agire. ma non è facile.
davidhume