Nel
1954 le Nazioni Unite cominciarono a pubblicare dati sui redditi pro capite mondiali
che evidenziarono come il trenta per cento della popolazione mondiale, quella
nei paesi “ricchi”, deteneva l’ottanta per cento della ricchezza totale,
lasciando a margine i paesi coloniali. Nel 1955 a Bandung fu convocata una
Conferenza internazionale nella quale venne adoperato per la prima volta il
termine “terzo mondo”. Partì un dibattito acceso nel quale finirono per
confrontarsi posizioni “moderniste”, e “della dipendenza”, poi sviluppate come “teorie
dei sistemi mondo”.
Nel
1957 uno dei più importanti economisti del tempo, tra gli intellettuali guida
di una generazione e certamente della socialdemocrazia svedese, Gunnar Myrdal,
che allora aveva cinquantanove anni e che quasi venti anni dopo vincerà il
nobel insieme al suo acerrimo avversario Friedrich Hayek, scrisse questo libro,
“Teoria economica e paesi sottosviluppati”[1].
In
tutto il mondo le colonie europee stavano guadagnano l’indipendenza. Avevano iniziato
nella prima parte dell’ottocento i paesi centro e sud americani liberandosi
dagli spagnoli (figure chiave furono Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo
O’Higgins e tanti altri) il Messico quindi nel 1910 (intorno alle straordinarie
figure di Pancho Villa e Aureliano Zapata[2]), poi in Asia fu il turno
dell’India, dal dominio inglese (Gandhi e Nehru), nell’immediato dopoguerra delle
Filippine (dagli Stati Uniti), dell’Indocina (dalla Francia), di Corea,
Birmania, poi del Laos e la Cambogia. Ma ondate di nazionalismo si registrano
anche nel medio oriente, ed in Africa. Nel 1957 la Costa d’Avorio fu la prima
nazione subsahariana a guadagnare l’indipendenza, diventando il Ghana.
Quando
tutto questo accade le teorie dello sviluppo erano al loro avvio. Uno dei
modelli più rilevanti era quello proposto in un articolo[3] del 1946, e poi in un
libro nel 1957[4],
da Evsey Domar, e successivamente da Harrod, che ipotizzava una relazione
diretta tra stock di macchinari e capacità produttiva e quindi crescita. Malgrado
il suo carattere rudimentale ne derivava una potente prescrizione: la
crescita del Pil sarà proporzionale alla quota del Pil destinata alla spesa per
investimenti. Ovvero alla quantità di macchinari, o per dirla diversamente,
alla proporzione di investimento su Pil dell’anno precedente. Questa teoria prese
forma sotto la spinta di due contesti dominanti: la grande depressione, che
rendeva abbondante il fattore lavoro e, secondo, l’esperienza della crescita
sovietica, trainata dagli investimenti industriali. Su questa base fu quindi
formulata la teoria di Arthur Lewis per la quale, quindi, solo i macchinari
sono il vincolo allo sviluppo. Ne derivava che si può stimare in modo semplice
la quantità di investimenti necessari a innescare lo sviluppo: basta colmare il
“gap finanziario” (ovvero il differenziale tra il tasso di risparmio
locale e la crescita desiderata) con afflussi di capitali esteri. Ad esempio, basta
creare dal nulla, come volle Nkrumah in Ghana, una grande diga e una fonderia
di alluminio (entrambe con capitali esteri e privati). In alternativa gli
investimenti necessari possono essere ottenuti grazie a “donazioni” (per lo più
prestiti ad interesse) internazionali.
Oltre
al modello di Harrod-Domar, pochi anni dopo il testo di Myrdal uscì “Gli
stadi dello sviluppo economico”[5] di Rostow che prevedeva la
possibilità del “decollo verso la crescita che si autosostiene”, quando gli
investimenti crescono abbastanza (come nel modello di Lewis e Domar). L’argomento
non aveva una grande base empirica, ma faceva leva su una profonda necessità
del tempo: mostrare che si poteva crescere anche senza seguire l’esempio
sovietico. Il suo “manifesto non comunista”, sottotitolo del libro, riconosceva
che la capacità del sistema centralizzato e pianificato sovietico di concentrare
sugli investimenti grandi quantità di risparmi costituiva un grande vantaggio. La
tesi era che, in modo non molto dissimile, il “gap finanziario” (tra il livello
di investimenti possibile, dato il risparmio locale, e quello necessario per la
crescita autosostenuta, o ‘decollo’), poteva essere colmato dall’occidente. La presenza
di Rostow nelle amministrazioni americane democratiche, e la potenza della
prospettiva, fecero aumentare gli aiuti del venticinque per cento, fino ad arrivare
ai quattordici miliardi dell’amministrazione Johnson. Tutti questi aiuti
crearono cattedrali nel deserto, infrastrutture e forte indebitamento, mentre
in molti casi non aumentò, come previsto, l’autonoma capacità di risparmio (e
quindi di servire il debito). Gli investimenti in questo modo prodotti non si
manifestarono come precursore automatico della crescita, ma quasi sempre
neppure come sua condizione necessaria (ancorché non sufficiente[6]).
Negli
anni ottanta, a partire dalla dichiarazione di default del ministro delle
Finanze Messicano[7],
ci furono quindi default a cascata in America Latina, Africa (e anche Medio Oriente
a seguito del calo del prezzo del petrolio[8]). La reazione degli organismi
internazionali, in particolare della Banca Mondiale, fu di rilasciare altri prestiti,
ma questa volta in cambio di riforme neoliberali. Dal 1980 la BM rilasciò nuovi
prestiti solo a condizione di impegni dei governi a fare “riforme strutturali”,
prima di allora non lo aveva mai fatto. Anche il Fondo Monetario
Internazionale, che lo aveva fatto anche prima, inasprì le sue condizionalità. Gli
“aggiustamenti accompagnati dalla crescita” diventarono lo slogan dell’epoca;
BM e FMI concessero prestiti con aggiustamento e speranza di crescita durante
gli anni ottanta a ripetizione[9]. Come scrive bene William
Easterly, “l’operazione fu un successo per tutti, tranne che per il paziente. Negli
anni ottanta e novanta ci furono molti prestiti, pochi aggiustamenti e poca
crescita”[10].
La crescita fu anzi negativa, salvo che in Asia (dove crebbero le “tigri”), ma
alla fine arrivò anche lì, nel 1997, la contrazione improvvisa. Un esempio, il
Ghana ottenne tra il 1980 ed il 1994 ben diciannove prestiti con
condizionalità, nel 1983 fece alcune riforme neoliberali e crebbe al modesto
tasso del uno e quattro per cento annuo, l’Argentina quindici ed ebbe una
fiammata di crescita al quattro per cento all’inizio degli anni novanta, con successivo
crollo.
Insomma,
le cose sono sempre molto più complesse rispetto ai semplicistici modelli monocausali
delle scienze economiche. Non solo non c’è una relazione diretta e
proporzionale tra investimenti in macchine e fabbriche e crescita economica, e
quindi non si può identificare facilmente un “gap finanziario” finanziando il
quale tutto si risolverà, ma i prestiti stessi, con o senza condizionalità (che
peggiora le cose), finiscono per ridurre le prospettive di crescita.
Nel
1956, e poi nel 1957[11], Robert Solow pensò di
aver trovato la soluzione. Nel lungo periodo la crescita non dipende dai
macchinari, ma dalla tecnologia. Calcolando la crescita per lavoratore negli
Stati Uniti la stima di Solow era che ben sette ottavi dipendeva dalla tecnologia.
La focalizzazione sulla produttività del lavoro, dalla quale deriva la
dotazione di beni e servizi pro-capite che viene fatta coincidere con la
crescita, conduce a rendere evidente che la mera crescita del numero di
macchine per lavoratore va soggetta rapidamente ai rendimenti decrescenti (non
posso mettere le mani su più di una macchina alla volta). Ne derivava, nei
risultati proposti, che il reddito da impianti e macchine è parte minore del
Pil (circa un terzo), dato che resiste grosso modo dagli anni cinquanta a tutti
gli ottanta. A causa del rendimento decrescente il mero aumento dei macchinari non
era la strada della crescita (è la “sorpresa di Solow”), e quindi il
risparmio non sostiene la crescita. Ciò che lo fa è il progresso tecnico. Ciò
perché, semplicemente, il cambiamento tecnologico permette di ottenere un
livello di produzione superiore utilizzano la stessa quantità di lavoro.
La
ricerca di direzioni causali semplici e modellabili matematicamente, una delle
specialità di Solow, lo portò, allora, anche nel suo influente libro successivo[12], a concluderne che il
progresso tecnico aveva luogo per ragioni non economiche, dato che
dipendeva dall’avanzamento delle conoscenze scientifiche.
Questa
nuova modellazione indusse una delle più fuorvianti linea di ragionamento della
storia delle teorie dello sviluppo, quando applicata allo sviluppo dei paesi “sottosviluppati”.
Partendo dall’assunzione controfattuale che tutti i paesi hanno accesso alla
stessa tecnologia (sono, insomma, in grado di accedere alla frontiera del sapere),
ritornò subito ad individuare nei macchinari la differenza. Ma ora si penserà
che, data la scarsità di partenza di macchinari rispetto al lavoro, proprio la
legge dei rendimenti decrescenti evidenziata da Solow produrrà maggiori
rendimenti in questi ultimi paesi, che quindi raggiungeranno quelli ricchi. Insomma,
“i paesi poveri dei tropici saranno più fortemente incentivati a crescere
rapidamente rispetto ai paesi ricchi, che stanno crescendo a un tasso pari al
progresso tecnico”[13]. O, per dirla
diversamente, i paesi che hanno una bassa dotazione di capitale compenseranno automaticamente,
dato che il capitale affluisce dove rende di più. Alla fine, i poveri
cresceranno più rapidamente dei ricchi e il sistema si appianerà in un
equilibrio generale.
Si
tratta di una idea ottimista che ha un fortissimo e persistente radicamento.
Ovviamente
non è andato affatto così, i capitali sono andati nell’altra direzione e la
produttività si è ancora divaricata, le tecnologie non sono state affatto ubique
e disponibili a tutti, e i paesi non hanno avuto convergenze generalizzate.
Ricapitoliamo.
All’avvio
degli anni cinquanta, mentre molti paesi iniziarono a decolonizzarsi, emerse il
dibattito sullo sviluppo del “terzo mondo”. Nel 1957 uscirono
contemporaneamente tre contributi influenti: quello di Domar, di Solow e di
Myrdal. Il primo ed il secondo cercarono una causa centrale dello sviluppo, per
Domar fu trovata nella spesa per investimenti, per Solow nella dotazione
tecnologica. Le due linee ebbero una pratica coincidenza nella politica (Arthur
Lewis e Walt Whitman Rostow negli anni sessanta) di colmare un “gap finanziario”
per avviare la convergenza. Nelle versioni più ottimiste ciò sarebbe avvenuto automaticamente,
a cura del libero mercato e del movimento dei capitali, perché a parità di
tecnologia (dato che esiste) il capitale investito rende di più dove le
macchine sono minori.
Negli
anni ottanta e poi novanta questo flusso di capitali, per investimenti spesso
mal disegnati e soprattutto completamente orientati all’esportazione (inoltre
per impianti di proprietà esogena), determinò continue crisi del debito e
politiche di “aggiustamento strutturale”, imposte per rinnovarlo, ancora più
controproducenti. Non solo non si ebbe “decollo verso la crescita che si
autosostiene”, ma si ebbe, al contrario, sempre più dipendenza dai flussi
finanziari esteri e dalle imprese multinazionali.
Ma
nel 1957 Gunnar Myrdal aveva proposto una teoria molto meno semplicistica,
che aveva due difetti cruciali: non era matematizzabile e non forniva risposte
semplici.
La
partenza era figlia dei tempi, cioè della scoperta dell’ineguaglianza
individuale e tra i paesi e della rivolta dei paesi “sottosviluppati”, due anni
prima la Conferenza di Bandung. Ma immediatamente il cinquantanovenne economista
svedese mise il dito nella piaga: il fallimento e l’inadeguatezza della scienza
economica occidentale deriva dai suoi assunti “non logici”, che sono delle
razionalizzazioni di interessi ben definiti. L’accento fu posto sull’assunzione
della tendenza agli equilibri stabili e la focalizzazione su “fattori economici”,
quando quelli “non economici” sono normalmente più rilevanti.
Di
qui la sua proposta essenziale: un’analisi più realistica deve essere imperniata
sull’abbandono della ipotesi della tendenza all’equilibrio. I processi molto
spesso funzionano al contrario, continuano a tendere ad allontanarsi dall’equilibrio
seguendo causazioni circolari e cumulative. Ogni mutamento non genera
una reazione equilibrante di segno contrario, ma produce effetti che lo
rafforzano. O, con le sue parole:
“l’idea che desidero
esprimere in questo libro è che, al contrario, normalmente non esiste una
siffatta tendenza verso una automatica e spontanea stabilizzazione del sistema sociale.
Il sistema non si muove per se stesso verso una sorta di equilibrio tra le
forze, ma tende continuamente ad allontanarsi da tale posizione.
Di norma un cambiamento
provoca cambiamenti non in senso contrario, ma, all’opposto, continuamente
complementari, i quali spingono il sistema nella stessa direzione del
cambiamento primario ma vanno molto più in là di esso. In forza di questa
causazione circolare un processo sociale tende a diventare cumulativo e spesso
a procedere con moto accelerato”.
Quale
esemplificazione richiamò allora il suo studio sull’ineguaglianza razziale
negli Stati Uniti, condotto negli anni quaranta, dove i neri sono più poveri, ignoranti,
discriminati. Le tre cose sono connesse in una causazione circolare nella quale
non esiste un fattore fondamentale (ad esempio il primo, di natura economica). Operare
con questa consapevolezza, innescando un cambiamento e seguendolo nelle sue
causazioni circolari, potenziandole, può innescare quel “sollevarsi con le
proprie forze” e quel “processo di sviluppo che si sostiene da sé” (in
riferimento alla teoria appena presentata[14] da Rostow) che si
cercava. Altri esempi semplici sono gli effetti “viziosi” a cascata di un
improvviso disastro. Come l’incendio di una fabbrica importante in una piccola
città, travolta dalle onde secondarie dell’impatto (perdita di lavoro, di
potere si acquisto dei lavoratori, degli esercizi che questi alimentavano, dei
lavoratori di questi, del loro potere di acquisto, degli esercizi che questi
alimentavano, ….).
Sulla
base di questa concettualizzazione la conclusione generale che l’economista
svedese propone fu che, al contrario dei modelli ottimisti dell’economia (ad
esempio alle conseguenze di quello di Solow), il gioco delle forze di mercato
porta alla continua crescita delle ineguaglianze (se non sono contrastate).
Ancora:
“Se le cose fossero
lasciate al libero gioco delle forze di mercato senza interventi di politica
economica, la produzione industriale, il commercio, le banche, le assicurazioni,
la navigazione, quasi tutte queste attività economiche che in un’economia in sviluppo
tendono a dare una remunerazione
superiore alla media – ed inoltre la scienza, l’arte, la letteratura, l’istruzione,
l’alta cultura in genere – verrebbero ad addensarsi in certe località e regioni,
lasciando il resto del paese più o meno stagnante”[15].
In
conseguenza si avrebbero effetti di riflesso a carico delle migrazioni, dei
movimenti di capitale e di commercio che sono soggetti a processi cumulativi e
di riflesso. O, con altre parole, “l’espansione di una località ha effetti
di riflusso sulle altre”. Tra i più importanti ci sono i movimenti di capitale,
che sono strettamente connessi con la tendenza ad una crescente ineguaglianza,
in quanto il sistema bancario nel suo complesso è strumento di travaso del risparmio
dalle regioni più povere a quelle più ricche. Insomma, il modello di gravitazione
che Myrdal utilizza funziona esattamente in senso contrario di quello che,
fallacemente, è stato successivamente dedotto dalla “sorpresa di Solow”.
Naturalmente
tra gli effetti cumulativi incidono in modo molto importante quelli non economici
(ad esempio la relazione tra marginalizzazione, ineguaglianza e richiusura
religiosa), mentre in alcuni casi possono essere presenti anche controtendenze.
Ovvero “effetti di diffusione”. Questi ultimi sono fortemente sopravvalutati
dalla letteratura di geografia economica[16].
Dunque,
in sintesi, i mutamenti sono soggetti a processi di causazione circolare e
cumulativa che coinvolgono fattori economici e non economici, senza una
prevalenza a priori degli uni o degli altri, e che derivano dal saldo tra “effetti
di diffusione” ed “effetti di riflusso”. Non si può presumere un
tendenza all’equilibrio, e, anzi, in genere si dà l’opposto. Altra notazione
importante è che gli “effetti di diffusione” (per i quali, ad esempio, una
nuova fabbrica produce incremento del lavoro, questo delle spese locali, quindi
della domanda di nuovi beni e servizi, questi aggiungono attività e via
dicendo) si verificano in funzione del livello di sviluppo raggiunto e, quindi,
sono più forti nei paesi più ricchi e più deboli nei paesi più poveri. Anche la
“diffusione” tende ad essere ineguale (e, del resto, quando fondata sulla
mobilità dei fattori, ad esempio capitale e lavoro, tende a provocare di
converso “effetti di riflusso” altrove).
È
qui che interviene lo Stato. Che cerca di rafforzare i primi e contrastare i secondi,
cosa che entro certi limiti accade anche nei cosiddetti “Stati oppressori”,
perché sono tenuti a tenere conto delle pressioni popolari. Ma vale soprattutto
per gli stati democratici (il modello a cui pensa è evidentemente la socialdemocrazia
svedese), nella quale il mantenimento del pieno impiego e l’aumento della
produzione è la principale meta politica di una società sempre più egualitaria.
Cosa che determina quella che chiama, siamo lo ricordo al termine degli anni
cinquanta, “una tranquilla contentezza”. E precisamente “un avvicinamento alla
armonia degli interessi individuali” che non è “la vecchia armonia del diritto
naturale, dell’utilitarismo e della teoria dell’equilibrio economico, generato
dalle forze naturali del mercato”.
“Si tratta in gran parte di una ‘armonia
creata’, creata attraverso le interferenze politiche di una società organizzata
sul modo di operare delle forze di mercato le quali, se lasciate a se stesse,
avrebbero condotto ad una disarmonia. Ma questo avvicinarsi ad un’armonia di
interessi è strettamente circoscritta alla nazione. Lo Stato di benessere è
nazionalistico”[17].
Ciò,
significa anche che i prezzi non sono determinati dal mercato, ma sono
manipolati.
Ciò
in linea estesa avviene perché, come scrive, “a livello tanto internazionale
quanto nazionale il commercio non opera di per se stesso per l’eguaglianza. Al contrario,
esso può avere dei forti effetti di riflusso sui paesi sottosviluppati”. O, in
altre parole, “un ampliarsi del mercato soddisfa in primo luogo i paesi più
ricchi e più avanzati le cui industrie occupano posizioni di comando e sono già
fortificate dalle economie esterne circostanti, mentre i paesi sottosviluppati
corrono continuamente il pericolo di vedere deprezzate le importazioni a basso
prezzo da parte dei paesi industriali le poche industrie che essi possiedono, e
particolarmente quelli di piccole dimensioni e il loro artigianato se essi non
lo proteggono”[18].
Quel
che accade è infatti che quando non vi è scarsità di manodopera non
specializzata, ad onta del semplicistico modello di Solow (tale per essere riducibile
a modello matematico[19]), “i miglioramenti
tecnologici trasferiscono i vantaggi ai paesi importatori”. O, per dirlo in
altro modo, “il commercio da solo tende ad effetti di riflusso”, similmente
operano i movimenti di capitale. Invece di attrarre i capitali i paesi
sottosviluppati lo esportano, insieme alla loro manodopera in eccesso. Nell’ambito
di queste relazioni bilaterali, in qualche modo forzate dai rapporti di forza,
quel che accade è un peggioramento progressivo delle ragioni di scambio.
Questa
è la condizione nella quale si sviluppa, per buone ragioni, il nazionalismo dei
paesi sottosviluppati, che, per Myrdal “fanno bene a prendere misure che
ragionevolmente siano atte ad aumentare il proprio benessere economico ma
dovrebbero evitare quelle misure politiche che non siano vantaggiose alla
propria nazione nei loro effetti ultimi e globali”. Dunque cosa? Pianificazione
statale, sottrazione di reddito nazionale al consumo per destinarlo all’investimento
(qui sembra essere ancora influenzato da Domar), ed un certo grado di frugalità[20].
Si
tratta di cercare intenzionalmente di avviare un processo cumulativo indotto e
controllato. Ma per farlo bisogna pianificare in termini reali, e non di costi
e profitti, e di proteggere gli investimenti dalle forze del mercato. Questo
passaggio cruciale è giustificato da Myrdal con la ragione che il sistema dei
prezzi non fornisce criteri razionali[21]. La questione si pone in
modo abbastanza cruciale, seguiamola: i vari elementi dei sistemi dei prezzi,
costi monetari, prezzi e tassi di profitto, sono i termini nei quali si deve
formulare il piano; le mete fissate devono cercare di modificare proprio le
condizioni nelle quali funziona il sistema dei prezzi; ma i criteri devono
essere “del tutto estranei al al sistema dei prezzi”, o, in altre parole, “non
esiste nessun criterio ‘obiettivo’ per la pianificazione economica”. Il piano
ed i suoi obiettivi sono determinati da decisioni politiche e nel processo
politico. La vivace discussione con Ludvig von Mises, per il quale ogni forma
di pianificazione economica non poteva che fallire a causa dell’assenza proprio
dei criteri economici (guidati dai prezzi) era connessa con questa idea: che
fosse indispensabile un “criterio obiettivo”. Si tratta di una espressione
generica e grezza che fa del sistema dei prezzi il nostro padrone, mentre
dovrebbe essere un servitore.
Il
rovesciamento è particolarmente acuto nell’accusa di “arbitrarietà”, perché è
esattamente l’opposto.
“raggiungere dei risultati più
profondi della registrazione dei fenomeni di mercato, ed accertare come
opererebbero le intricate correlazione di un processo di sviluppo cumulativo
pianificato è un compito analitico di estrema difficoltà. Se sono nel giusto,
però, non vi è altra via per una razionale pianificazione economica che tentare
il calcolo di queste correlazioni in termini reali e non come esse sono in modo
distorto rappresentate dal sistema dei prezzi, dai costi e dai profitti. Se la
pianificazione pratica, almeno per lungo tempo si deve basare su valutazioni
molto approssimative di vantaggi complementari ai profitti, ciò nondimeno le
valutazioni devono riguardare i fenomeni sociali ed economici che sono di gran
lunga meno accessibili”[22].
Tutto
ciò, soprattutto per un paese sottosviluppato, comporterà anche esercitare dei
bisogni speciali di protezione dalla concorrenza insostenibile. Ovvero l’abbandono
della “fallace dottrina del libero commercio, logicamente insostenibile”. Ma comporterà
anche la vittoria della sfida di potenziare la ricerca e l’istruzione di base.
Uno
dei punti chiave è che, date le meccaniche di funzionamento libero dei prezzi e
dei movimenti di merci, capitali e persone, mentre nella teoria economica mainstream,
che è una razionalizzazione di interessi esistenti, si assume che “il commercio
dà inizio ad un movimento tendente alla perequazione dei redditi” la verità è
all’opposto. “E’ del tutto normale che da un commercio non ostacolato tra due
paesi, dei quali uno sia industrializzato e l’altro sottosviluppato, si origini
un processo cumulativo tendente all’impoverimento ed al ristagno del secondo”[23].
La
cosa appare del tutto diversa se si comprende che bisogna inserire tutti i
fattori del sistema sociale in un processo di causazione circolare e
cumulativa. Ma una teoria simile non sarebbe mai “inquadrabile in uno schema
puramente econometrico”.
Questo
è ciò che l’ha perduta.
[1] - Gunnar Myrdal, “Teoria economica e paesi sottosviluppati”, London,
1957, ed it. Feltrinelli, 1959.
[2] - Si veda “7
marzo 1911, la rivoluzione messicana”.
[3] - Evsey Domar, “Capital expansion,
rate of growth and employment”, Econometrica, 14 aprile 1946
[4] - Evsey Domar, “Essay in the
theory of economici growth”, Oxford 1957.
[5] - Walt Whitman Rostow, “Gli
stadi dello sviluppo economico”, Cambridge 1960.
[6] - Come, invece, si cominciò a dire
negli anni settanta. Come mostra William Easterly in “Lo sviluppo
inafferrabile”, 2001, è molto più rilevante il rapporto tra lavoro ed
investimenti e le tecnologie disponibili.
[7] - Il 18 agosto 1982, Jesus Silva
Herzog, ministro delle Finanze messicano, annunciò che il paese non avrebbe più
potuto pagare gli interessi sul debito alle banche commerciali con le quali era
indebitato. Ciò si verificava in quanto le stesse banche non erano più
disponibili a concedere altri prestiti per fare la rotazione del vecchio
debito. Si bloccarono tutti i prestiti a paesi in condizioni simili.
[8] - I guai arrivano infatti sempre
in branco, la crisi del debito seguiva all’innalzamento dei tassi causato dal
richiamo di capitali adoperato dalla FED di Volcker per risolvere il problema
del ‘doppio deficit’ degli anni settanta; ciò provocò il default dei debitori,
ma la crisi internazionale che ne seguì fece calare i prezzi delle materie prime,
provocando la crisi di quei paesi che dipendevano dalla loro vendita.
[9] - In media sei a paese in Africa,
cinque in America Latina e quattro in Asia.
[10] - William Easterly, “Lo
sviluppo inafferrabile”, op.cit., p.127.
[11] - Robert Solow, “Technical change and
the aggregate production function”, in “Review
of economics and statistics”, 29, 1957.
[12] - Robert Solow, “Growth theory:
an exposition”, Oxford University Press, 1987
[13] - William Easterly, “Lo
sviluppo inafferrabile”, op.cit., p.69.
[14] - Walt Whitman Rostow, “The take-off
in to sustained Growth”, in “Economic Journal”, 1956, cit. p.34.
[15] - Gunnar Myrdal, op.cit., p.41.
[16] - Ad esempio si veda il recente
contributo di Enrico Moretti, “La
nuova geografia del lavoro”, 2014.
[17] - Myrdal, op. cit. p.67
[18] - Myrdal, op.cit. p.71
[19] - Tutta la polemica di Myrdal, in
anni cruciali per l’affermazione di poco successiva dell’impostazione
neoliberale, è rivolta alla riduzione ex ante che la disciplina compie mutilando
dal suo campo epistemico i fenomeni “non economici” e per essi essenzialmente
tutti quelli non quantificabili. Il modello della causazione circolare e
cumulativa è proposto come più realistico, pur sapendo che non è matematizzabile.
Uno dei punti cruciali dell’affermazione di questo paradigma è la pubblicazione
nel 1953, dell’articolo di Milton Friedman “La
metodologia dell’economia positiva”, influenzato dal clima neo-positivista.
Milton
Friedman in questo articolo e più in generale nel suo lavoro punta ad affrontare i problemi
metodologici che si presentano nella costruzione di una “distinta scienza
positiva”. In particolare è
alla ricerca di un criterio di demarcazione per definire quando una qualsiasi
ipotesi o teoria possa essere accettata (ovviamente provvisoriamente) come
parte del corpo di conoscenza positiva. L’obiettivo è di trovare, cioè,
l’accesso a modelli che restituiscano alla fine un’immagine del mondo
autosufficiente dalla discussione e dalla chiarificazione condotta in comune.
O, se vogliamo, modelli che solo gli addetti, gli iniziati, siano preposti a
decrittare (come era una volta per l’autorevole Oracolo di Delfi). Lo
standard proposto da Chicago convince il mondo politico e quello economico che
la quantificazione e modellazione, al modo della fisica, è ciò che serve. La promessa è molto potente, la previsione
è denaro, è fiducia, è sicurezza, quindi è potere.
[20] - Myrdal, op.cit. p.110
[21] - Qui l’economista svedese ricorda
la vasta polemica, condotta in prima persona con Von Mises negli anni venti. Il
quale, come il suo allievo Hayek, obietterà sempre che i prezzi sono
adattamento spontaneo, mentre la pianificazione in ogni sua forma è
arbitrarietà.
[22] - Myrdal, op.cit. p.118
[23] - Myrdal, op.cit. p. 128
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