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venerdì 6 marzo 2020

Gunnar Myrdal, “Teoria economica e paesi sottosviluppati”




Nel 1954 le Nazioni Unite cominciarono a pubblicare dati sui redditi pro capite mondiali che evidenziarono come il trenta per cento della popolazione mondiale, quella nei paesi “ricchi”, deteneva l’ottanta per cento della ricchezza totale, lasciando a margine i paesi coloniali. Nel 1955 a Bandung fu convocata una Conferenza internazionale nella quale venne adoperato per la prima volta il termine “terzo mondo”. Partì un dibattito acceso nel quale finirono per confrontarsi posizioni “moderniste”, e “della dipendenza”, poi sviluppate come “teorie dei sistemi mondo”.
Nel 1957 uno dei più importanti economisti del tempo, tra gli intellettuali guida di una generazione e certamente della socialdemocrazia svedese, Gunnar Myrdal, che allora aveva cinquantanove anni e che quasi venti anni dopo vincerà il nobel insieme al suo acerrimo avversario Friedrich Hayek, scrisse questo libro, “Teoria economica e paesi sottosviluppati[1].
In tutto il mondo le colonie europee stavano guadagnano l’indipendenza. Avevano iniziato nella prima parte dell’ottocento i paesi centro e sud americani liberandosi dagli spagnoli (figure chiave furono Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins e tanti altri) il Messico quindi nel 1910 (intorno alle straordinarie figure di Pancho Villa e Aureliano Zapata[2]), poi in Asia fu il turno dell’India, dal dominio inglese (Gandhi e Nehru), nell’immediato dopoguerra delle Filippine (dagli Stati Uniti), dell’Indocina (dalla Francia), di Corea, Birmania, poi del Laos e la Cambogia. Ma ondate di nazionalismo si registrano anche nel medio oriente, ed in Africa. Nel 1957 la Costa d’Avorio fu la prima nazione subsahariana a guadagnare l’indipendenza, diventando il Ghana.



Quando tutto questo accade le teorie dello sviluppo erano al loro avvio. Uno dei modelli più rilevanti era quello proposto in un articolo[3] del 1946, e poi in un libro nel 1957[4], da Evsey Domar, e successivamente da Harrod, che ipotizzava una relazione diretta tra stock di macchinari e capacità produttiva e quindi crescita. Malgrado il suo carattere rudimentale ne derivava una potente prescrizione: la crescita del Pil sarà proporzionale alla quota del Pil destinata alla spesa per investimenti. Ovvero alla quantità di macchinari, o per dirla diversamente, alla proporzione di investimento su Pil dell’anno precedente. Questa teoria prese forma sotto la spinta di due contesti dominanti: la grande depressione, che rendeva abbondante il fattore lavoro e, secondo, l’esperienza della crescita sovietica, trainata dagli investimenti industriali. Su questa base fu quindi formulata la teoria di Arthur Lewis per la quale, quindi, solo i macchinari sono il vincolo allo sviluppo. Ne derivava che si può stimare in modo semplice la quantità di investimenti necessari a innescare lo sviluppo: basta colmare il “gap finanziario” (ovvero il differenziale tra il tasso di risparmio locale e la crescita desiderata) con afflussi di capitali esteri. Ad esempio, basta creare dal nulla, come volle Nkrumah in Ghana, una grande diga e una fonderia di alluminio (entrambe con capitali esteri e privati). In alternativa gli investimenti necessari possono essere ottenuti grazie a “donazioni” (per lo più prestiti ad interesse) internazionali.
Oltre al modello di Harrod-Domar, pochi anni dopo il testo di Myrdal uscì “Gli stadi dello sviluppo economico[5] di Rostow che prevedeva la possibilità del “decollo verso la crescita che si autosostiene”, quando gli investimenti crescono abbastanza (come nel modello di Lewis e Domar). L’argomento non aveva una grande base empirica, ma faceva leva su una profonda necessità del tempo: mostrare che si poteva crescere anche senza seguire l’esempio sovietico. Il suo “manifesto non comunista”, sottotitolo del libro, riconosceva che la capacità del sistema centralizzato e pianificato sovietico di concentrare sugli investimenti grandi quantità di risparmi costituiva un grande vantaggio. La tesi era che, in modo non molto dissimile, il “gap finanziario” (tra il livello di investimenti possibile, dato il risparmio locale, e quello necessario per la crescita autosostenuta, o ‘decollo’), poteva essere colmato dall’occidente. La presenza di Rostow nelle amministrazioni americane democratiche, e la potenza della prospettiva, fecero aumentare gli aiuti del venticinque per cento, fino ad arrivare ai quattordici miliardi dell’amministrazione Johnson. Tutti questi aiuti crearono cattedrali nel deserto, infrastrutture e forte indebitamento, mentre in molti casi non aumentò, come previsto, l’autonoma capacità di risparmio (e quindi di servire il debito). Gli investimenti in questo modo prodotti non si manifestarono come precursore automatico della crescita, ma quasi sempre neppure come sua condizione necessaria (ancorché non sufficiente[6]).
Negli anni ottanta, a partire dalla dichiarazione di default del ministro delle Finanze Messicano[7], ci furono quindi default a cascata in America Latina, Africa (e anche Medio Oriente a seguito del calo del prezzo del petrolio[8]). La reazione degli organismi internazionali, in particolare della Banca Mondiale, fu di rilasciare altri prestiti, ma questa volta in cambio di riforme neoliberali. Dal 1980 la BM rilasciò nuovi prestiti solo a condizione di impegni dei governi a fare “riforme strutturali”, prima di allora non lo aveva mai fatto. Anche il Fondo Monetario Internazionale, che lo aveva fatto anche prima, inasprì le sue condizionalità. Gli “aggiustamenti accompagnati dalla crescita” diventarono lo slogan dell’epoca; BM e FMI concessero prestiti con aggiustamento e speranza di crescita durante gli anni ottanta a ripetizione[9]. Come scrive bene William Easterly, “l’operazione fu un successo per tutti, tranne che per il paziente. Negli anni ottanta e novanta ci furono molti prestiti, pochi aggiustamenti e poca crescita”[10]. La crescita fu anzi negativa, salvo che in Asia (dove crebbero le “tigri”), ma alla fine arrivò anche lì, nel 1997, la contrazione improvvisa. Un esempio, il Ghana ottenne tra il 1980 ed il 1994 ben diciannove prestiti con condizionalità, nel 1983 fece alcune riforme neoliberali e crebbe al modesto tasso del uno e quattro per cento annuo, l’Argentina quindici ed ebbe una fiammata di crescita al quattro per cento all’inizio degli anni novanta, con successivo crollo.

Insomma, le cose sono sempre molto più complesse rispetto ai semplicistici modelli monocausali delle scienze economiche. Non solo non c’è una relazione diretta e proporzionale tra investimenti in macchine e fabbriche e crescita economica, e quindi non si può identificare facilmente un “gap finanziario” finanziando il quale tutto si risolverà, ma i prestiti stessi, con o senza condizionalità (che peggiora le cose), finiscono per ridurre le prospettive di crescita.

Nel 1956, e poi nel 1957[11], Robert Solow pensò di aver trovato la soluzione. Nel lungo periodo la crescita non dipende dai macchinari, ma dalla tecnologia. Calcolando la crescita per lavoratore negli Stati Uniti la stima di Solow era che ben sette ottavi dipendeva dalla tecnologia. La focalizzazione sulla produttività del lavoro, dalla quale deriva la dotazione di beni e servizi pro-capite che viene fatta coincidere con la crescita, conduce a rendere evidente che la mera crescita del numero di macchine per lavoratore va soggetta rapidamente ai rendimenti decrescenti (non posso mettere le mani su più di una macchina alla volta). Ne derivava, nei risultati proposti, che il reddito da impianti e macchine è parte minore del Pil (circa un terzo), dato che resiste grosso modo dagli anni cinquanta a tutti gli ottanta. A causa del rendimento decrescente il mero aumento dei macchinari non era la strada della crescita (è la “sorpresa di Solow”), e quindi il risparmio non sostiene la crescita. Ciò che lo fa è il progresso tecnico. Ciò perché, semplicemente, il cambiamento tecnologico permette di ottenere un livello di produzione superiore utilizzano la stessa quantità di lavoro.
La ricerca di direzioni causali semplici e modellabili matematicamente, una delle specialità di Solow, lo portò, allora, anche nel suo influente libro successivo[12], a concluderne che il progresso tecnico aveva luogo per ragioni non economiche, dato che dipendeva dall’avanzamento delle conoscenze scientifiche.
Questa nuova modellazione indusse una delle più fuorvianti linea di ragionamento della storia delle teorie dello sviluppo, quando applicata allo sviluppo dei paesi “sottosviluppati”. Partendo dall’assunzione controfattuale che tutti i paesi hanno accesso alla stessa tecnologia (sono, insomma, in grado di accedere alla frontiera del sapere), ritornò subito ad individuare nei macchinari la differenza. Ma ora si penserà che, data la scarsità di partenza di macchinari rispetto al lavoro, proprio la legge dei rendimenti decrescenti evidenziata da Solow produrrà maggiori rendimenti in questi ultimi paesi, che quindi raggiungeranno quelli ricchi. Insomma, “i paesi poveri dei tropici saranno più fortemente incentivati a crescere rapidamente rispetto ai paesi ricchi, che stanno crescendo a un tasso pari al progresso tecnico”[13]. O, per dirla diversamente, i paesi che hanno una bassa dotazione di capitale compenseranno automaticamente, dato che il capitale affluisce dove rende di più. Alla fine, i poveri cresceranno più rapidamente dei ricchi e il sistema si appianerà in un equilibrio generale.
Si tratta di una idea ottimista che ha un fortissimo e persistente radicamento.
Ovviamente non è andato affatto così, i capitali sono andati nell’altra direzione e la produttività si è ancora divaricata, le tecnologie non sono state affatto ubique e disponibili a tutti, e i paesi non hanno avuto convergenze generalizzate.

Ricapitoliamo.
All’avvio degli anni cinquanta, mentre molti paesi iniziarono a decolonizzarsi, emerse il dibattito sullo sviluppo del “terzo mondo”. Nel 1957 uscirono contemporaneamente tre contributi influenti: quello di Domar, di Solow e di Myrdal. Il primo ed il secondo cercarono una causa centrale dello sviluppo, per Domar fu trovata nella spesa per investimenti, per Solow nella dotazione tecnologica. Le due linee ebbero una pratica coincidenza nella politica (Arthur Lewis e Walt Whitman Rostow negli anni sessanta) di colmare un “gap finanziario” per avviare la convergenza. Nelle versioni più ottimiste ciò sarebbe avvenuto automaticamente, a cura del libero mercato e del movimento dei capitali, perché a parità di tecnologia (dato che esiste) il capitale investito rende di più dove le macchine sono minori.
Negli anni ottanta e poi novanta questo flusso di capitali, per investimenti spesso mal disegnati e soprattutto completamente orientati all’esportazione (inoltre per impianti di proprietà esogena), determinò continue crisi del debito e politiche di “aggiustamento strutturale”, imposte per rinnovarlo, ancora più controproducenti. Non solo non si ebbe “decollo verso la crescita che si autosostiene”, ma si ebbe, al contrario, sempre più dipendenza dai flussi finanziari esteri e dalle imprese multinazionali.

Ma nel 1957 Gunnar Myrdal aveva proposto una teoria molto meno semplicistica, che aveva due difetti cruciali: non era matematizzabile e non forniva risposte semplici.
La partenza era figlia dei tempi, cioè della scoperta dell’ineguaglianza individuale e tra i paesi e della rivolta dei paesi “sottosviluppati”, due anni prima la Conferenza di Bandung. Ma immediatamente il cinquantanovenne economista svedese mise il dito nella piaga: il fallimento e l’inadeguatezza della scienza economica occidentale deriva dai suoi assunti “non logici”, che sono delle razionalizzazioni di interessi ben definiti. L’accento fu posto sull’assunzione della tendenza agli equilibri stabili e la focalizzazione su “fattori economici”, quando quelli “non economici” sono normalmente più rilevanti.
Di qui la sua proposta essenziale: un’analisi più realistica deve essere imperniata sull’abbandono della ipotesi della tendenza all’equilibrio. I processi molto spesso funzionano al contrario, continuano a tendere ad allontanarsi dall’equilibrio seguendo causazioni circolari e cumulative. Ogni mutamento non genera una reazione equilibrante di segno contrario, ma produce effetti che lo rafforzano. O, con le sue parole:

“l’idea che desidero esprimere in questo libro è che, al contrario, normalmente non esiste una siffatta tendenza verso una automatica e spontanea stabilizzazione del sistema sociale. Il sistema non si muove per se stesso verso una sorta di equilibrio tra le forze, ma tende continuamente ad allontanarsi da tale posizione.
Di norma un cambiamento provoca cambiamenti non in senso contrario, ma, all’opposto, continuamente complementari, i quali spingono il sistema nella stessa direzione del cambiamento primario ma vanno molto più in là di esso. In forza di questa causazione circolare un processo sociale tende a diventare cumulativo e spesso a procedere con moto accelerato”.

Quale esemplificazione richiamò allora il suo studio sull’ineguaglianza razziale negli Stati Uniti, condotto negli anni quaranta, dove i neri sono più poveri, ignoranti, discriminati. Le tre cose sono connesse in una causazione circolare nella quale non esiste un fattore fondamentale (ad esempio il primo, di natura economica). Operare con questa consapevolezza, innescando un cambiamento e seguendolo nelle sue causazioni circolari, potenziandole, può innescare quel “sollevarsi con le proprie forze” e quel “processo di sviluppo che si sostiene da sé” (in riferimento alla teoria appena presentata[14] da Rostow) che si cercava. Altri esempi semplici sono gli effetti “viziosi” a cascata di un improvviso disastro. Come l’incendio di una fabbrica importante in una piccola città, travolta dalle onde secondarie dell’impatto (perdita di lavoro, di potere si acquisto dei lavoratori, degli esercizi che questi alimentavano, dei lavoratori di questi, del loro potere di acquisto, degli esercizi che questi alimentavano, ….).
Sulla base di questa concettualizzazione la conclusione generale che l’economista svedese propone fu che, al contrario dei modelli ottimisti dell’economia (ad esempio alle conseguenze di quello di Solow), il gioco delle forze di mercato porta alla continua crescita delle ineguaglianze (se non sono contrastate).
Ancora:

“Se le cose fossero lasciate al libero gioco delle forze di mercato senza interventi di politica economica, la produzione industriale, il commercio, le banche, le assicurazioni, la navigazione, quasi tutte queste attività economiche che in un’economia in sviluppo tendono  a dare una remunerazione superiore alla media – ed inoltre la scienza, l’arte, la letteratura, l’istruzione, l’alta cultura in genere – verrebbero ad addensarsi in certe località e regioni, lasciando il resto del paese più o meno stagnante”[15].

In conseguenza si avrebbero effetti di riflesso a carico delle migrazioni, dei movimenti di capitale e di commercio che sono soggetti a processi cumulativi e di riflesso. O, con altre parole, “l’espansione di una località ha effetti di riflusso sulle altre”. Tra i più importanti ci sono i movimenti di capitale, che sono strettamente connessi con la tendenza ad una crescente ineguaglianza, in quanto il sistema bancario nel suo complesso è strumento di travaso del risparmio dalle regioni più povere a quelle più ricche. Insomma, il modello di gravitazione che Myrdal utilizza funziona esattamente in senso contrario di quello che, fallacemente, è stato successivamente dedotto dalla “sorpresa di Solow”.
Naturalmente tra gli effetti cumulativi incidono in modo molto importante quelli non economici (ad esempio la relazione tra marginalizzazione, ineguaglianza e richiusura religiosa), mentre in alcuni casi possono essere presenti anche controtendenze. Ovvero “effetti di diffusione”. Questi ultimi sono fortemente sopravvalutati dalla letteratura di geografia economica[16].

Dunque, in sintesi, i mutamenti sono soggetti a processi di causazione circolare e cumulativa che coinvolgono fattori economici e non economici, senza una prevalenza a priori degli uni o degli altri, e che derivano dal saldo tra “effetti di diffusione” ed “effetti di riflusso”. Non si può presumere un tendenza all’equilibrio, e, anzi, in genere si dà l’opposto. Altra notazione importante è che gli “effetti di diffusione” (per i quali, ad esempio, una nuova fabbrica produce incremento del lavoro, questo delle spese locali, quindi della domanda di nuovi beni e servizi, questi aggiungono attività e via dicendo) si verificano in funzione del livello di sviluppo raggiunto e, quindi, sono più forti nei paesi più ricchi e più deboli nei paesi più poveri. Anche la “diffusione” tende ad essere ineguale (e, del resto, quando fondata sulla mobilità dei fattori, ad esempio capitale e lavoro, tende a provocare di converso “effetti di riflusso” altrove).
È qui che interviene lo Stato. Che cerca di rafforzare i primi e contrastare i secondi, cosa che entro certi limiti accade anche nei cosiddetti “Stati oppressori”, perché sono tenuti a tenere conto delle pressioni popolari. Ma vale soprattutto per gli stati democratici (il modello a cui pensa è evidentemente la socialdemocrazia svedese), nella quale il mantenimento del pieno impiego e l’aumento della produzione è la principale meta politica di una società sempre più egualitaria. Cosa che determina quella che chiama, siamo lo ricordo al termine degli anni cinquanta, “una tranquilla contentezza”. E precisamente “un avvicinamento alla armonia degli interessi individuali” che non è “la vecchia armonia del diritto naturale, dell’utilitarismo e della teoria dell’equilibrio economico, generato dalle forze naturali del mercato”.

Si tratta in gran parte di una ‘armonia creata’, creata attraverso le interferenze politiche di una società organizzata sul modo di operare delle forze di mercato le quali, se lasciate a se stesse, avrebbero condotto ad una disarmonia. Ma questo avvicinarsi ad un’armonia di interessi è strettamente circoscritta alla nazione. Lo Stato di benessere è nazionalistico[17].

Ciò, significa anche che i prezzi non sono determinati dal mercato, ma sono manipolati.
Ciò in linea estesa avviene perché, come scrive, “a livello tanto internazionale quanto nazionale il commercio non opera di per se stesso per l’eguaglianza. Al contrario, esso può avere dei forti effetti di riflusso sui paesi sottosviluppati”. O, in altre parole, “un ampliarsi del mercato soddisfa in primo luogo i paesi più ricchi e più avanzati le cui industrie occupano posizioni di comando e sono già fortificate dalle economie esterne circostanti, mentre i paesi sottosviluppati corrono continuamente il pericolo di vedere deprezzate le importazioni a basso prezzo da parte dei paesi industriali le poche industrie che essi possiedono, e particolarmente quelli di piccole dimensioni e il loro artigianato se essi non lo proteggono”[18].
Quel che accade è infatti che quando non vi è scarsità di manodopera non specializzata, ad onta del semplicistico modello di Solow (tale per essere riducibile a modello matematico[19]), “i miglioramenti tecnologici trasferiscono i vantaggi ai paesi importatori”. O, per dirlo in altro modo, “il commercio da solo tende ad effetti di riflusso”, similmente operano i movimenti di capitale. Invece di attrarre i capitali i paesi sottosviluppati lo esportano, insieme alla loro manodopera in eccesso. Nell’ambito di queste relazioni bilaterali, in qualche modo forzate dai rapporti di forza, quel che accade è un peggioramento progressivo delle ragioni di scambio.

Questa è la condizione nella quale si sviluppa, per buone ragioni, il nazionalismo dei paesi sottosviluppati, che, per Myrdal “fanno bene a prendere misure che ragionevolmente siano atte ad aumentare il proprio benessere economico ma dovrebbero evitare quelle misure politiche che non siano vantaggiose alla propria nazione nei loro effetti ultimi e globali”. Dunque cosa? Pianificazione statale, sottrazione di reddito nazionale al consumo per destinarlo all’investimento (qui sembra essere ancora influenzato da Domar), ed un certo grado di frugalità[20].
Si tratta di cercare intenzionalmente di avviare un processo cumulativo indotto e controllato. Ma per farlo bisogna pianificare in termini reali, e non di costi e profitti, e di proteggere gli investimenti dalle forze del mercato. Questo passaggio cruciale è giustificato da Myrdal con la ragione che il sistema dei prezzi non fornisce criteri razionali[21]. La questione si pone in modo abbastanza cruciale, seguiamola: i vari elementi dei sistemi dei prezzi, costi monetari, prezzi e tassi di profitto, sono i termini nei quali si deve formulare il piano; le mete fissate devono cercare di modificare proprio le condizioni nelle quali funziona il sistema dei prezzi; ma i criteri devono essere “del tutto estranei al al sistema dei prezzi”, o, in altre parole, “non esiste nessun criterio ‘obiettivo’ per la pianificazione economica”. Il piano ed i suoi obiettivi sono determinati da decisioni politiche e nel processo politico. La vivace discussione con Ludvig von Mises, per il quale ogni forma di pianificazione economica non poteva che fallire a causa dell’assenza proprio dei criteri economici (guidati dai prezzi) era connessa con questa idea: che fosse indispensabile un “criterio obiettivo”. Si tratta di una espressione generica e grezza che fa del sistema dei prezzi il nostro padrone, mentre dovrebbe essere un servitore.
Il rovesciamento è particolarmente acuto nell’accusa di “arbitrarietà”, perché è esattamente l’opposto.

raggiungere dei risultati più profondi della registrazione dei fenomeni di mercato, ed accertare come opererebbero le intricate correlazione di un processo di sviluppo cumulativo pianificato è un compito analitico di estrema difficoltà. Se sono nel giusto, però, non vi è altra via per una razionale pianificazione economica che tentare il calcolo di queste correlazioni in termini reali e non come esse sono in modo distorto rappresentate dal sistema dei prezzi, dai costi e dai profitti. Se la pianificazione pratica, almeno per lungo tempo si deve basare su valutazioni molto approssimative di vantaggi complementari ai profitti, ciò nondimeno le valutazioni devono riguardare i fenomeni sociali ed economici che sono di gran lunga meno accessibili[22].

Tutto ciò, soprattutto per un paese sottosviluppato, comporterà anche esercitare dei bisogni speciali di protezione dalla concorrenza insostenibile. Ovvero l’abbandono della “fallace dottrina del libero commercio, logicamente insostenibile”. Ma comporterà anche la vittoria della sfida di potenziare la ricerca e l’istruzione di base.
Uno dei punti chiave è che, date le meccaniche di funzionamento libero dei prezzi e dei movimenti di merci, capitali e persone, mentre nella teoria economica mainstream, che è una razionalizzazione di interessi esistenti, si assume che “il commercio dà inizio ad un movimento tendente alla perequazione dei redditi” la verità è all’opposto. “E’ del tutto normale che da un commercio non ostacolato tra due paesi, dei quali uno sia industrializzato e l’altro sottosviluppato, si origini un processo cumulativo tendente all’impoverimento ed al ristagno del secondo”[23].

La cosa appare del tutto diversa se si comprende che bisogna inserire tutti i fattori del sistema sociale in un processo di causazione circolare e cumulativa. Ma una teoria simile non sarebbe mai “inquadrabile in uno schema puramente econometrico”.

Questo è ciò che l’ha perduta.



[1] - Gunnar Myrdal, “Teoria economica e paesi sottosviluppati”, London, 1957, ed it. Feltrinelli, 1959.
[3] - Evsey Domar, “Capital expansion, rate of growth and employment”, Econometrica, 14 aprile 1946
[4] - Evsey Domar, “Essay in the theory of economici growth”, Oxford 1957.
[5] - Walt Whitman Rostow, “Gli stadi dello sviluppo economico”, Cambridge 1960.
[6] - Come, invece, si cominciò a dire negli anni settanta. Come mostra William Easterly in “Lo sviluppo inafferrabile”, 2001, è molto più rilevante il rapporto tra lavoro ed investimenti e le tecnologie disponibili.
[7] - Il 18 agosto 1982, Jesus Silva Herzog, ministro delle Finanze messicano, annunciò che il paese non avrebbe più potuto pagare gli interessi sul debito alle banche commerciali con le quali era indebitato. Ciò si verificava in quanto le stesse banche non erano più disponibili a concedere altri prestiti per fare la rotazione del vecchio debito. Si bloccarono tutti i prestiti a paesi in condizioni simili.
[8] - I guai arrivano infatti sempre in branco, la crisi del debito seguiva all’innalzamento dei tassi causato dal richiamo di capitali adoperato dalla FED di Volcker per risolvere il problema del ‘doppio deficit’ degli anni settanta; ciò provocò il default dei debitori, ma la crisi internazionale che ne seguì fece calare i prezzi delle materie prime, provocando la crisi di quei paesi che dipendevano dalla loro vendita.
[9] - In media sei a paese in Africa, cinque in America Latina e quattro in Asia.
[10] - William Easterly, “Lo sviluppo inafferrabile”, op.cit., p.127.
[11] - Robert Solow, “Technical change and the aggregate production function”,  in “Review of economics and statistics”, 29, 1957.
[12] - Robert Solow, “Growth theory: an exposition”, Oxford University Press, 1987
[13] - William Easterly, “Lo sviluppo inafferrabile”, op.cit., p.69.
[14] - Walt Whitman Rostow, “The take-off in to sustained Growth”, in “Economic Journal”, 1956, cit. p.34.
[15] - Gunnar Myrdal, op.cit., p.41.
[16] - Ad esempio si veda il recente contributo di Enrico Moretti, “La nuova geografia del lavoro”, 2014.
[17] - Myrdal, op. cit. p.67
[18] - Myrdal, op.cit. p.71
[19] - Tutta la polemica di Myrdal, in anni cruciali per l’affermazione di poco successiva dell’impostazione neoliberale, è rivolta alla riduzione ex ante che la disciplina compie mutilando dal suo campo epistemico i fenomeni “non economici” e per essi essenzialmente tutti quelli non quantificabili. Il modello della causazione circolare e cumulativa è proposto come più realistico, pur sapendo che non è matematizzabile. Uno dei punti cruciali dell’affermazione di questo paradigma è la pubblicazione nel 1953, dell’articolo di Milton Friedman “La metodologia dell’economia positiva”, influenzato dal clima neo-positivista. Milton Friedman in questo articolo e più in generale nel suo lavoro punta ad affrontare i problemi metodologici che si presentano nella costruzione di una “distinta scienza positiva”. In particolare è alla ricerca di un criterio di demarcazione per definire quando una qualsiasi ipotesi o teoria possa essere accettata (ovviamente provvisoriamente) come parte del corpo di conoscenza positiva. L’obiettivo è di trovare, cioè, l’accesso a modelli che restituiscano alla fine un’immagine del mondo autosufficiente dalla discussione e dalla chiarificazione condotta in comune. O, se vogliamo, modelli che solo gli addetti, gli iniziati, siano preposti a decrittare (come era una volta per l’autorevole Oracolo di Delfi). Lo standard proposto da Chicago convince il mondo politico e quello economico che la quantificazione e modellazione, al modo della fisica, è ciò che serve. La promessa è molto potente, la previsione è denaro, è fiducia, è sicurezza, quindi è potere.
[20] - Myrdal, op.cit. p.110
[21] - Qui l’economista svedese ricorda la vasta polemica, condotta in prima persona con Von Mises negli anni venti. Il quale, come il suo allievo Hayek, obietterà sempre che i prezzi sono adattamento spontaneo, mentre la pianificazione in ogni sua forma è arbitrarietà.
[22] - Myrdal, op.cit. p.118
[23] - Myrdal, op.cit. p. 128

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