Scrive
in un passo giustamente famoso Antonio Gramsci: “in Oriente lo Stato era
tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato
e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si
scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo
una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di
casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto
domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale”[1].
Quando,
scrive ancora, gli Stati più avanzati, nei quali “la società civile è diventata
una struttura molto complessa e resistente alle ‘irruzioni’ catastrofiche dell’elemento
economico immediato (crisi, depressioni, ecc.)”, allora si può porre questa
precisa analogia: “le superstrutture della società civile sono come il sistema
delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito
attacco di artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo
avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento
dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea
difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi
crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si
organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano
uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né
abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria
forza e nel proprio avvenire.” E prosegue, “si tratta dunque di studiare con ‘profondità’
quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di
difesa nella guerra di posizione”[2].
Ma,
dunque, se così formidabili sono le difese, che vanno studiate “in profondità”,
quando va combattuta contro di esse una “guerra di movimento” (il cui prototipo
è la rivoluzione d’ottobre del 1917) e quando una “guerra di posizione”? E
questa non è l’unica possibile in occidente, come scrive Ilici, citato da
Gramsci[3]?
Ma,
ancora, si può scegliere? Risponde che “la verità è che non si può scegliere
la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità
schiacciante del nemico”, questa (di posizione) può essere imposta dai
rapporti generali delle forze in campo. Rapporti generali significa “tutto il
sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell’esercito
schierato”.
Presumere
dunque, come attribuisce alla Rosa Luxemburg, che l’esistenza di una crisi
economica, di per sé, provochi le condizioni della “guerra di manovra” (o “di
movimento”) è, per Gramsci, effetto di una rigidità ideologica, di ferreo determinismo
ideologico. Significa immaginare, cioè, che la semplice volontà, o il corso
indefettibile della struttura, possa di per se stesso: “1) aprire un varco
nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e
nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare
fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri
esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente
al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare
fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”[4].
Le
strutture, dunque, o le crisi (l’artiglieria nella metafora di Gramsci) non
contano? O, in altre parole, come avviene che da esse nasce effettivamente
il movimento storico? Nasce dalla forza materiale e dalla credenza popolare, o dalla
ideologia? In effetti forze materiali e ideologia, sono sempre e
necessariamente contenuto e forma del “blocco storico” che può rendersi
protagonista del cambiamento, perché “le forze materiali non sarebbero
concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero sghiribizzi
individuali senza le forze materiali”.
In
“Contenitori dell’ira e contenitori di potere”[5], tentavo di fissare queste
distinzioni all’opera nella coppia del “Momento Polanyi” (determinato da una
crisi che è molto più che meramente economica e che è la faccia visibile di una
fase di caos sistemico e perdita di egemonia) e del “Momento populista”, che ne
è la forma politica (o ideologica, se si preferisce).
Riassumiamo:
i sistemi di ordine egemonici, ed imperiali, della modernità contemporanea
(grosso modo la fase che sussegue al terzo quarto del secolo scorso) sono
definitivamente entrati in una fase di ‘caos sistemico’. La fase terminare
della finanziarizzazione e della globalizzazione, sulla quale ci affacciamo, ne
è immagine e manifestazione. L’Europa è uno dei baricentri di questo caos.
Nel
quadro di un “Momento Polanyi”, che si distende su tutti i decenni del nuovo
millennio, la rivolta del sociale alle costrizioni disgreganti dell’economico
trionfante, abbiamo assistito nel decennio trascorso ad un ciclo breve “populista”.
Una forma politica che si è nutrita, mimeticamente e senza riuscire a
determinare né egemonia, né nuovo blocco storico, del veleno che ha condotto
entro il “Momento Polanyi”.
Questo
ciclo è terminato perché, nella sua debolezza, non è riuscito a compiere i tre passi
indicati da Rosa Luxemburg ed è stato riassorbito. E’ stato riassorbito in
tutte le sue varianti.
Ha
avuto dei meriti, parzialmente ha compiuto la fase 1) dello schema (ha aperto
un varco), rompendo per un poco lo schema destra/sinistra polarizzato al
centro. Ma ha fallito in 2) organizzare le proprie truppe e formare quadri e
soprattutto 3) “creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità
di fine da raggiungere”. E lo ha fatto proprio perché si è limitato a
trovare quel che c’era, sia in termini di quadri, sia di concentrazione ideologica[6].
Ha
creato alla fine solo “contenitori dell’ira”, che si limitavano a
raccogliere l’attivismo individualista neoliberale degli anni novanta[7] e la sua attitudine alla “sorveglianza”[8]. Inoltre, facevano leva
sul risentimento indirizzandolo verso figure individuali (le “caste”, le “generazioni”
dei baby boomers, la burocrazia, …) anziché verso strutture di nessi e
produzione di potere. Antistatalismo, disintermediazione, moralismo e profondo
individualismo ne sono stati la cifra.
Il
riassorbimento ha sfruttato queste debolezze, l’incapacità di farsi
potere, e ha ampliato la tendenza a valere come distrazione sistemica, connaturata
alla cosa.
Insomma,
gli assaliti non si sono demoralizzati e non hanno perso fiducia nelle proprie
forze, e la robusta catena di fortezze e casamatte ha retto.
Ciò
vuol dire che bisogna arrendersi? Direi tutt’altro.
Occorre
ancora più azione politica e “filosofia della praxis”, che deve essere
interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si noti, “trasformare”,
non assorbire. Se c’è stato un punto specifico nel quale il “primopopulismo”
è divenuto solo “contenitore dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore
di (nuovo) potere”, è l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Il
cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono
stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto
individuale su tutti. Non ha davvero esercitato quella “fantasia concreta” che
è capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne
la volontà collettiva”.
Nelle
“Notarelle sul Machiavelli”[9], è contenuta una netta
opposizione che parla ancora al presente:
-
tra l’azione collettiva messa in
campo da un “partito”, capace di creare ex-novo una volontà
collettiva per indirizzare verso mete concrete e razionali, ma nuove (“di una
concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza
storica effettuale e universalmente conosciuta”);
-
e l’azione storico politica che si
manifesta in modo rapido e fulmineo, resa necessaria da un grande pericolo
imminente, e che si manifesta in un individuo focale (qui ovviamente
sta parlando con la necessaria prudenza di Mussolini). Questa azione, nella
condizione di pericolo, “crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del
fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che,
altrimenti, potrebbero, se fatte agire, “distruggere il carattere ‘carismatico’
del condottiero)”. Il fatto è che, al contrario della prima strada, “un’azione
immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto
respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e
riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e
nuove strutture nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo
originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente,
sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non
decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla”.
La
prima strada, in altre parole, è rivolta alla creazione di una “volontà
collettiva” nuova, e di un nuovo “senso comune”, intorno al quale, facendo
leva sia sulla praxis sia sulla educazione e la critica, si possa creare[10] una direzione politica
originale ed organica.
La
seconda strada, invece, si nutre dell’energia reattiva, fondata sul senso
comune che è già in campo e su passioni e fanatismo. È radicalmente acritica e
manca sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può
sembrare altro, è un movimento restaurativo.
Ne
abbiamo avuto una notevolissima dimostrazione con i movimenti apparentemente
rivoluzionari, ma in realtà di riaffermazione della logica neoliberale, del
secondo decennio del secolo in corso. Movimenti “di tipo boulangista” nel suo
linguaggio[11].
Un
movimento “di tipo boulangista” viene facilmente neutralizzato, quando fallisce
lo sfondamento e si incastra nelle casamatte della seconda linea. Allora queste
imparano in fretta ad incorporarlo. Non ha mai rappresentato un’autentica sfida
sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e alla ideologia che tiene insieme lo
Stato.
Non
ci sono dunque due strade possibili, ce ne è una. Bisogna comprendere cosa è
accaduto ed evitare, accuratamente, di ripeterlo. Non bisogna muoversi
sempre nello stesso circolo in forma di volta in volta minore. Non limitarsi a
produrre sempre più piccoli “contenitori dell’ira” senza prospettiva
strategica.
Ma,
soprattutto, se non si può scegliere che tipo di guerra combattere, bisogna
continuare a stare sul campo, politici, materiali e populisti ad un tempo,
dicevo. Non fare think thank, ma “guerra di posizione”[12].
[1] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal
Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60 bis.
[2] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal
Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[3] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal
Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60.
[4] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal
Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18.
[5] - “Dai
‘contenitori dell’ira’ ai ‘contenitori di potere’”.
[6] - Nel febbraio 2014, al momento dell’esplosione del
fenomeno del Movimento 5 Stelle, con simpatia del resto immutata nel tempo,
scrissi che il Movimento aveva trovato, quasi per caso, assorbendo l’umore del
paese, una sua posizione. E continuavo: “Ma
questo non è preciso, ciò che viene assorbito e condensato è l’umore, il
linguaggio, i lemmi, gli enunciati, i blocchi emotivi di un nuovo popolo che si sta separando nel paese.
Che si incrocia nei bar, nelle strade, nei negozi dietro i banconi, negli
uffici spesso cambiati, a spasso nei giardini, di fronte ad una partita di
calcio o nelle sue curve. Un popolo certamente arrabbiato, vittimizzato, stanco
di sentirsi inutile, sprecato, rigettato, isolato e capace di riconoscersi.
Questo “popolo” ha costruito se stesso intorno a un’identificazione negativa;
“non”, per differenza dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande
impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle
<caste>, dal denaro.” E, ancora: “Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi
temibile, pericolosa. Intendiamoci, anche io sotto alcuni profili la considero
tale. Alcuni dei “materiali” di montaggio mi appaiono “nemici”. E li
combatterò. Ma non si capisce nulla se non si vede che in questo c’è del
nuovo. Si rischia di fare la fine di De Maistre con la
Rivoluzione Francese. Di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia.
Dato che un’aristocrazia schiavista ed imperialista resta tale, anche quando ha
come nemico Napoleone, io vorrei restare in equilibrio. Allora tornerei qui,
Grillo non costruisce il suo movimento, lo trova a tentoni e
per tentativi. Si tratta della storia di una co-evoluzione”.“una sorta di “spugna”. L’elemento più costante, in essa è
morale. Anzi moralistico. E’ uno schema
noi-loro che proietta nel nemico di turno ogni bruttura ed ogni colpa, lo fa
responsabile del dolore e dell’insuccesso, del fallimento. Lo rende balsamo
delle ferite.” Concludendo: “Ciò che gonfia le vele è la capacità di non
avere forma e di prendere tutte le forme, contemporaneamente. E’ la tecnica
dello spettacolo. E’ la società che in esso si rispecchia e il nuovo popolo che
si muove dentro questi <frame>.” Si veda, “Grillo
e Casaleggio. Trovare la forma”.
[7] - Si legga Colin Crouch, “Postdemocrazia”, 2003
[8] - Si legga Pierre Rosanvallon, “La
politica nell’era della sfiducia”,
[9] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal
Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, 10
[10] - Il Partito, questo è essenziale, non assorbe il senso
comune, senza sottoporlo
a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base
di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una
riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti,
ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di
priorità, metri di giudizio).
[11] - Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto. Quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1. il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi; 3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto; 5. e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.
[12] - Che definivo così: “non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa ed una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Ciò non significa produrre infinite versioni ‘socialiste’ dei think thank neoliberali che hanno fatto da base alla svolta neoliberale (quando per loro si è trattato di passare, tra gli anni sessanta e settanta, dalla “guerra di posizione” a quella “di movimento”), perché è diversissima la base di potere e l’attivazione di risorse. Ma deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme, sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili: l’autochiarificazione teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi analitiche e meccaniche causali e funzionali, da una parte, e l’immersione nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata della stessa formulazione teorica, dall’altra. Riflessione in azione, dunque, e costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Ciò deve significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed autoformazione anche teorica.
Inchiesta,
mobilitazione, lotta sui temi e nei conflitti nella sfera pubblica, tesseramento,
militanza, creazione di collettivo e di comunità, divisione del lavoro ed
organizzazione, e poi, discussioni sulla fase, sulle opzioni, sulle idee, messa
alla prova reciproca, creazione di lealtà. Tutto questo è “lotta di
posizione”, mentre si cerca di produrre collettivamente influenza, caposaldo
per caposaldo, giorno per giorno. Ovunque”.
[7] - Si legga Colin Crouch, “Postdemocrazia”, 2003
[11] - Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto. Quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1. il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi; 3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto; 5. e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.
[12] - Che definivo così: “non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa ed una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Ciò non significa produrre infinite versioni ‘socialiste’ dei think thank neoliberali che hanno fatto da base alla svolta neoliberale (quando per loro si è trattato di passare, tra gli anni sessanta e settanta, dalla “guerra di posizione” a quella “di movimento”), perché è diversissima la base di potere e l’attivazione di risorse. Ma deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme, sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili: l’autochiarificazione teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi analitiche e meccaniche causali e funzionali, da una parte, e l’immersione nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata della stessa formulazione teorica, dall’altra. Riflessione in azione, dunque, e costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Ciò deve significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed autoformazione anche teorica.
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