Raramente,
forse mai, un momento così solenne è stato fatto oggetto di un discorso così
inadeguato. Mai in tempo di pace un’intera nazione era stata fermata, limitati
gli spostamenti da paese a paese, da città a città, chiusi gli esercizi ad
orario da coprifuoco, ostacolati i normali spostamenti, impedite le
manifestazioni e qualunque riunione, dai matrimoni alle funzioni religiose, ai
funerali.
Mai
in tempo di pace.
Perché,
in effetti, non siamo più in tempo di pace.
Qualcuno
ci ha dichiarato guerra. E non è stato il coronavirus.
Lui
non è neppure un essere vivente, e non è tanto meno un’individualità (si tratta
di una nuvola di virus a Rna, continuamente mutanti). Il coronavirus si sta
semplicemente adattando ad un nuovo ambiente, essendo ‘saltato’ dal vecchio
ospite ad un altro. Non è una cosa particolarmente strana, noi conviviamo con
miliardi di organismi, batteri e virus, che sono integrati nel nostro
organismo, ma questo è nuovo.
Quella
che ci ha dichiarato guerra è la nostra stessa follia.
In linguaggio informatico sarebbe un difetto di sistema. Aver per decenni
ridotto la spesa sanitaria, portandola sotto il livello di un paese a reddito
pro capite medio come la Cina, eliminato quasi tutti i servizi territoriali di
prevenzione, ridotta la pubblica amministrazione sotto la media europea (16%
dei lavoratori). Solo Germania, Lussemburgo e Olanda hanno meno dipendenti
pubblici, paesi come la Scandinavia ne hanno il doppio. In generale siamo alla
metà dei paesi nordici, il 14% dei dipendenti, per 3,2 milioni di addetti. Per
fare un paragone con paesi simili, la Spagna ne ha il 15% e la Francia ben il
22%. Portarci al livello della famosa burocrazia e livello dei servizi pubblici
francesi significherebbe, dunque, assumere 1,5 milioni di addetti, portarci intanto
alla media europea corrisponderebbe a 0,4 milioni di assunzioni urgenti.
Se
avessimo più di 3.000 dispositivi di respirazione assistita, più di 5.000 posti
letto in rianimazione (300 in Campania), più di 100.000 medici specializzati,
se avessimo i 50.000 infermieri che mancano alle piante organiche, o non
avessimo chiuso per risparmiare centinaia di presidi ospedalieri, soprattutto
al sud, ora potremmo offrire soccorso.
Non
capiterebbe, come ho sentito su You Tube[1], che una povera donna con complicazioni
neurologiche possa ammalarsi a casa e non ricevere nessun soccorso e quindi
possa morire soffocata dopo solo due giorni. Non so se è vero, probabilmente
no, ma potrebbe facilmente diventarlo tra breve.
Dunque
siamo in guerra.
Il
13 maggio 1940 il primo ministro britannico, appena nominato, pronuncia un
drammatico discorso alla Camera dei Comuni, nella quale annuncia “blood,
toil, tears and sweat”. Non promette altro che “molti, molti lunghi mesi di
lotta e sofferenza”, ma anche lo scopo della lotta: “la vittoria”, per la
sopravvivenza.
Le
cose stanno così. Anche noi dobbiamo vincere perché se riusciamo a non lasciare
nessuno indietro, a prestare soccorso anche all’ultimo, a stringere il meno
fortunato nel nostro abbraccio, allora sopravviveremo come nazione e sapremo di
avere uno Stato.
Nel
post “Coronavirus,
cronache del crollo” di ieri raccontavo
di chi ci ha portati in questa guerra. Un sistema economico completamente privo
di capacità di assorbire shock di questo genere nel quale tutte le catene di
fornitura e produttive, di tutti i beni e servizi, sono ormai estese a livello
mondiale ed interconnesse, nel quale nulla o quasi si può produrre senza
ricevere componenti, materiali, competenze da qualche altra parte del mondo,
spesso a grandissima distanza. Un sistema nel quale l’intera catena economica è
eterodiretta, dai centri decisionali delle multinazionali, o dipende per
segmenti decisivi da fornitori che non possiamo controllare. Dunque, un modello
insostenibile sotto il profilo ambientale e fragilissimo sotto quello
economico. Che è stato interamente ed unicamente costruito, in una lunga fase
di follia e debolezza degli Stati, per sfruttare fino all’ultimo centesimo i
differenziali di prezzo e di potere che il capitale mobile riusciva a estorcere
a lavoratori deboli o a imprese subordinate[2].
Come
si reagisce in guerra, una volta che si è capito chi è il nemico?
Ricordando
chi si è. Noi, il popolo, siamo tutto. Loro, i lontani contabili ed i
vicini servi del profitto e delle rendite, sono niente.
È
quindi ora di combattere. Ed è ora che la nostra casa comune apra le sue porte,
che accolga tutti e non lasci fuori, al freddo, nessuno.
Quando
si è in guerra si fanno misure da guerra. È il momento, non si
può aspettare, il paese non può aspettare l’autorizzazione. Non può aspettare
che il nemico si impietosisca. Quando persino il direttore del Sole 24 ore, in
televisione, dice che l’Italia deve andare per conto suo se l’Europa tentenna[3], è chiaro che chi parla di
compatibilità con l’astratta contabilità da bottegai germanica deve essere
trattato come un traditore della patria nell’ora più buia.
Vediamo
che sta succedendo.
Provo
a fare uno schema, basandomi su un modello[4] a quattro settori del
sistema economico italiano: “stato”, “famiglie”, “imprese”, “estero”. Schematicamente:
lo Stato spende 500 miliardi, incassandoli con le tasse ed impegna 3 milioni di
lavoratori[5]; Il settore delle famiglie
spende 1.000 miliardi di consumi e riceve due terzi di questa somma dalle
imprese per lavoro dipendente ed il resto dallo Stato o sotto forme di lavoro
autonomo e professionale o per redditi da capitale[6]; Il settore delle imprese (70%
di servizio) produce valore aggiunto per 1.780 miliardi ed impiega 17 milioni
di lavoratori. Dal settore estero sono importati 510 miliardi di beni e servizi
ed esportati 560 miliardi.
Ora,
immaginiamo che le misure adottate (“zona rossa” estesa all’intero paese,
limitazioni nella circolazione, chiusure selettive), comportino a partire dall’immediato
e poi progressivamente per sei mesi un calo del 50% del commercio all’ingrosso e
dettaglio, del 10% dei servizi alle imprese e del 20% dei settori professionali[7]. Sul montante complessivo
dei redditi delle famiglie l’impatto diretto potrebbe essere qualcosa nell’ordine
del 5%. Calcolando un moltiplicatore ragionevole potrebbe salire al 6-8%.
Questo impatto si ripartirebbe come impulso deflazionistico per metà all’estero,
riducendo le importazioni (ma dall’estero potrebbero arrivare analoghi input,
man mano che l’epidemia procede negli altri paesi), e per metà sul mercato
interno.
Potrebbe
valere in modo grezzo qualcosa come 3 punti di Pil, e comportare nuovi
disoccupati pari a 2 milioni di persone.
Ma
ciò solo se il sistema delle imprese produttive (30% del valore aggiunto, 5
milioni di addetti diretti) non viene toccato e se la logistica resta non toccata
dal crollo del commercio (in altre parole, se i flussi si spostano su altri
canali di acquisto, ma le persone comprano). Facciamo l’ipotesi che, invece, il
settore produttivo, messo in crisi dalla riduzione della mobilità personale e,
in misura maggiore, dalle difficoltà della logistica integrata mondiale, abbia
un massiccio calo congiunturale del 30% e, similmente, la logistica[8]. In questo caso l’impatto distruggerebbe
600 miliardi di valore aggiunto su base annuale (ovvero 300 in sei mesi) e una quota di investimenti.
Ma avrebbe impatto anche sui 3,5 milioni di addetti diretti dell’industria e
sul milione della logistica. Un crollo di questa misura si può stimare
impatterebbe sul reddito degli addetti provocando un’ulteriore riduzione dei
consumi, inoltre aggiungerebbe 1,5 milioni di disoccupati diretti. Trattandosi
di posti di lavoro di buona qualità, questi potrebbero portare ad un impatto
indiretto molto significativo.
Agendo sul
monte complessivo dei redditi delle famiglie tutto ciò potrebbe impattare in
modo analogo per un altro 4% di Pil in meno, che con lo stesso moltiplicatore
salirebbe al 7-8%. L’impulso deflazionario complessivo che stiamo rischiando
sarebbe quindi, con queste assunzioni, nell’ordine del 16% del reddito medio
delle famiglie italiane.
Con
questi scenari non è affatto improbabile una severissima recessione compresa tra
quella del 2009 (perdita di 6 punti di Pil) e quella successiva del 2012-13
(perdita di 4 punti) ed i disoccupati salirebbero di quasi 4 milioni
aggiuntivi.
Il
punto è stabilire che manovra dovrebbe fare un governo all’altezza del momento
per fermare una valanga che si propagherebbe come fuoco nella steppa,
attraverso il calo della domanda. In parte potrebbe riassorbire qualche quota
di disoccupazione con assunzioni di emergenza nella sanità (che ha 0,6 milioni
di addetti) in modo da poter garantire il soccorso necessario a ciascuno, e nei
servizi sociali e tecnici. Ma difficilmente in tempi rapidi si potrebbe andare
oltre poche centinaia di migliaia di assunzioni, e il gap con la Francia non
potrebbe essere colmato.
Dandosi
nel medio periodo l’obiettivo di arrivare a 1,5 milioni di assunzioni
aggiuntive nella P.A., bisognerebbe però, subito, compensare almeno il 75% del
calo dei redditi cumulato che potrebbe essere stimato, se va bene, a 90
miliardi complessivi in sei mesi, ovvero compensare 15 miliardi al mese. Ciò
oltre un danno fiscale di circa 40 miliardi, 6 al mese[9]. Inoltre, sono
indispensabili investimenti urgenti nella sanità per alcuni miliardi.
La
misura macroeconomica della manovra dovrebbe essere dunque di oltre 110-130
miliardi, ovvero quasi 20 miliardi al mese in media. Naturalmente tali somme
andrebbero impegnate progressivamente, solo man mano che gli impulsi di crisi,
propagandosi, richiedano interventi correttivi e compensativi[10]. Di questi almeno 10
miliardi al mese dovrebbero essere destinati al sostegno del reddito.
Questo
per combattere la guerra.
Ma
come usarli in modo sia efficace sia equo? Oltre agli investimenti diretti
nella sanità, bisognerebbe investire risorse in attività capaci di colpire
l’occupazione potenzialmente lasciata libera dalla contrazione, nella
produzione socialmente e tecnicamente necessaria, nella riorganizzazione della
distribuzione, nei servizi civili, …
Ricapitoliamo,
se vogliamo vincere dobbiamo, e man mano che si rende necessario:
1- Investire
con modalità di urgenza tutte le somme necessarie nella sanità, dando priorità
alle macchine salvavita, ai Dpi, al personale medico ed infermieristico, quindi
alle strutture, ai centri territoriali, ai servizi sociali di prevenzione;
2- Requisire
tutte le strutture disponibili, se necessarie ad erogare servizi
indispensabili, soprattutto al sud;
3- Precettare
tutto il personale necessario ad erogare i servizi di prima necessità;
4- Garantire
con mezzi pubblici la distribuzione, precettandola o sostituendola, se le
catene logistiche interne dovessero entrare in crisi;
5- Imporre
alle industrie idonee, qualunque sia la nazionalità della proprietà, programmi di
fabbricazione, fornendogli specifiche, assistenza tecnica, mandati, per rendere
indipendente il paese delle principali forniture strategiche, partendo da
quelle mediche, in considerazione del possibile crollo delle supply chain
mondiali;
6- Nazionalizzare
tutte le imprese, finanziarie o non, che dovessero entrare in crisi non
risolvibile per effetto della crisi e quindi creare un veicolo di gestione
delle imprese pubbliche e nazionalizzate, sul modello della vecchia Iri;
7- Per
gestire tutto questo con il minimo dell’inefficienza, creare un centro di
pianificazione di emergenza, dotato dei necessari poteri;
8- In
favore del sostegno del reddito, sospendere immediatamente il pagamento dei
mutui e degli affitti (provvedendo con risorse pubbliche ad attenuare l’impatto
sulle controparti), per chiunque dichiari una riduzione del reddito superiore
al 30%;
9- Integrare
il reddito, con la Cig in deroga o Reddito di Cittadinanza straordinario, di
chiunque dichiari una riduzione tra il 30% ed il 100% del reddito, fino al
massimo di 1.000 euro;
10- Sospendere
per sei mesi in modo generalizzato i pagamenti fiscali a tutti i cittadini ed a
tutte le imprese con un fatturato inferiore a una soglia da definire;
11- Sospendere
per tre mesi ogni rateizzazione, a qualsiasi titolo;
12- Sospendere,
e poi revocare, tutte le normative europee che fossero in conflitto con queste
misure di emergenze, necessarie per la sopravvivenza della nazione;
13- Sospendere,
e poi revisionare profondamente, la normativa bancaria di Basilea;
14- Sospendere,
e poi revocare, il Mes.
Questo
è il minimo per continuare ad essere un paese civile.
[1] - Questo video: https://www.youtube.com/watch?v=ZgJHdun0TGs
[2] - Inoltre questo modello è
esattamente lo stesso che ha compresso per decenni il reddito e l’indipendenza
dei lavoratori in occidente, rendendo ovvio che la maggior parte delle persone
viva con contratti senza protezioni, precari, a tempo, con singole settimane di
risparmi, sovraindebitati. Fa stare l’economia in costante stato di carenza di
domanda, per cui i prezzi dei beni di prima necessità continuano a calare, e
tutti coloro che li producono sono giorno dopo giorno alla disperata ricerca di
un modo di risparmiare qualche costo di produzione, anche se comporta andarsi a
cercare un fornitore dall’altra parte del mondo che costa il 2 per cento meno
di quello sotto casa, che chiude. È così che ci siamo trovati senza
mascherine.
[3] - Fabio Tamburini su La 7: “Se
l'Europa continua a tentennare segna la sua fine, ed è giusto che l'Italia vada
per conto suo. [..] I soldi per salvare le banche sono stati trovati ora vanno
trovati per salvare l'economia reale”.
[5] - Si veda http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/attivita_istituzionali/formazione_e_gestione_del_bilancio/bilancio_di_previsione/bilancio_semplificato/ lo Stato spende 500 miliardi all’anno di spese
correnti e 78 di interessi quota parte (49) dei 320 miliardi di investimenti,
inoltre impiega 3,2 milioni di lavoratori, riceve un totale di 510 miliardi di
tasse (260 dalle imprese), cui vanno aggiunti 65 miliardi di entrate non
tributarie.
[6] - 700 miliardi di redditi da
lavoro dipendente dalle imprese, 150 dallo Stato, oltre che, probabilmente, 150
da lavoro autonomo e professionale. Si possono stimare per differenza 200
miliardi di reddito da capitale e rendite. Infine, questo settore paga circa 250
miliardi di tasse.
[7] - Il commercio, secondo
alcune stime, vale qualcosa come 190 miliardi, i servizi alle imprese 50 e i
servizi professionali altri 60 miliardi. Un impatto del genere sui redditi
degli addetti diretti alle filiere coinvolte impatterebbe per ca. 100 miliardi
e potrebbe produrre, al netto delle tasse, una riduzione dei consumi stimabile
in ca. 50 miliardi per sei mesi. Poi c’è l’impatto sul rilevante settore del
turismo, se non altro per differimento e rinvio di vacanze.
[8] - Che vale almeno altri 100
miliardi.
[9] - Queste
stime sono ottenute dalle assunzioni di cui sopra, su dati Istat 2019, e valutando
prudenzialmente un basso contagio intersettoriale, oltre una limitatissima
trasmissione di impulsi di crisi dall’estero.
[10]
- Chiaramente il proporzionamento della manovra non è un compito espletabile
con le poche informazioni disponibili e senza l’ausilio di un modello di
simulazione adeguato, che non sia, ovviamente escludendo modelli di “output gap”
e modelli dell’equilibrio generale, come quelli impiegati nelle Banche Centrali,
o al Ministero delle Finanze, noti per fallire sistematicamente le previsioni.
A caldo, questo "siamo in guerra" mi ha ricordato Skerritt, che di fronte al secondo uragano si rivolse all'assemblea dell'ONU proprio dicendo, dalla sua piccola e resilient Dominica, "questa e' una guerra, e non l'abbiamo dichiarata noi". Ottimo anche il metodo che usi, attento alle ultime frontiere della rivoluzione causale. Mi pare che non solo Judea Pearl, ma praticamente tutti gli scienziati e medici che usano modelli causali siano poco noti in Italia. O sbaglio? Grazie, Alfonso
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