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lunedì 25 maggio 2020

Alvaro Garcia Linera, “Democrazia, Stato, Rivoluzione”.




La casa editrice Meltemi, per la collana “Visioni eretiche”, ha pubblicato da poco il libro di Alvaro Garcia Linera “Democrazia, Stato, Rivoluzione” che raccoglie interventi del già vicepresidente della Bolivia di Morales editi o pronunciati tra il 2013 ed il 2016, che è l’anno di uscita del testo in edizione originaria.
Si tratta di un testo importante e complesso. Perfettamente espressivo delle difficoltà teoriche, di posizionamento politico coerente, e di innesto di tradizioni culturali diverse, che sono all’opera, spesso in modo tuttavia fecondo, nel contesto latinoamericano. L’autore ha un curriculum di indiscutibile fattura: nato nelle Ande, in una città di media grandezza, capoluogo di provincia e di dipartimento[1], a venti anni si trasferisce in Messico dove studia matematica e frequenta gli ambienti estremamente vivaci dei rifugiati di tutta l’America Latina alle prese con la controffensiva imperiale statunitense degli anni settanta (la famosa “Operazione Condor”[2]). Matura in questo contesto una visione del marxismo sensibile ai processi rivoluzionari autoctoni e al protagonismo indigeno, così importante nella sua terra dove la componente ‘europoide’ è ancora una minoranza piuttosto limitata. Dopo un tentativo a partire dal 1985 di mobilitazione india, fonda l’Ejericito guerrillero Tupac Katari (EGTK). Viene arrestato e detenuto per cinque anni. Dall’inizio degli anni duemila, fino al 2005, quando vince le elezioni, partecipa al Movimento per il Socialismo (MAS) il cui leader è l’indio Evo Morales, poi divenuto Presidente della Colombia.



In estrema sintesi il testo tenta di trovare un equilibrio difficile tra posizioni teoriche e tradizioni diverse nel confronto con la realtà sociale e l’urgenza dell’azione nel cosiddetto “ciclo bolivariano”[3].
La posizione teorica costruita da Linera può essere letta come una difficile sintesi, apparentemente impossibile, tra:
-          una posizione universalista, infarcita di idealismo astratto e piena di affermazioni che recuperano, o riverberano, posizioni post-operaiste,
-          ed un localismo comunitario, a sua volta in tensione con una sorta di pragmatismo statocentrico.
Giocano in questo difficile sincretismo, del quale andremo a cercare le tracce nel libro, significativi recuperi della teoria della dipendenza[4], probabilmente assorbiti nell’ambiente culturale brasiliano, a fianco di una teoria dello stato che va a riprendere da Poulantzas.

Lavorano in direzione del globalismo universalista la III, VI e VII tesi, presentate nel primo capitolo, e numerosi passaggi nell’intero testo. In particolare, la diagnosi dell’appropriazione capitalista della forza produttiva comunitaria universale data dalla conoscenza, e il sorgere di una condizione operaia estesa a tutto il mondo (effetto congiunto dell’estensione dell’informazione e delle catene produttive e di subfornitura), presente nella III tesi. O le fonti di “antagonismo planetario” nell’accumulazione primitiva permanente (descritta nella II tesi) e nella scissione tecnica dal metabolismo della natura (IV tesi), entrambe confluenti in un nuovo modo di produzione sociale mondiale che potrebbe essere anticapitalista (VI tesi). La settima tesi, in questa direzione, propone nuove forme di mobilitazione sociale che riescano a tenere insieme la “forma comunità” e la “forma moltitudine”. La prima “è il modo politico attraverso il quale la proprietà comune della terra e la cultura organizzativa indigena si mobilitano come autodeterminazione”, la seconda “è un modo flessibile di organizzazione di varie classi sociali, dove il nucleo dirigente non è stabilito anticipatamente ma è contingente e dipende dal corso della mobilitazione stessa”. Ma occorre notare che anche in quest’ultima, vaghissimamente definita, è presente una torsione: “la convergenza operaia si attua intorno ad identità territoriali locali, a rivendicazioni specifiche legate alle condizioni di vita (servizi di base, diritti di cittadinanza, ecc.), insieme ad altri settori sociali ugualmente coinvolti in quelle rivendicazioni”. Si tratta quindi di un concetto flessibile, ed intenzionalmente sfocato, che si farebbe preferire per il suo essere “capace di rilanciare tematiche e di unire in modo accidentale le forme sparse e nomadi della proletarizzazione contemporanea”[5]. Tutta questa mobilitazione concettuale piuttosto difficile precipita, nella Nona tesi, nell’invocazione di una “comunità universale” che sia “sintesi di potenzialità oggettive e volontà intersoggettive”. Una “comunità” che, è da notare, “o sarà universale e planetaria o non sarà affatto”.

Queste affermazioni, che sul piano pratico avranno uno specifico significato più avanti, si collegano non solo alla formazione dell’autore e della lunga tradizione socialista (sempre impregnata, se pur in modo complesso, di universalismo illuminista), quanto alla convinzione che, come scrive, “la gente non lotta se non ha una prospettiva sia concreta sia ideale”[6]. Ovvero bisogna prendere in considerazione, tornando a progettare di cambiare il mondo, una transizione che abbia nuovamente di mira un orizzonte epocale. Un orizzonte che “obiettivamente”, dovrà essere “planetario, comunitario e naturalmente sostenibile”.
Certo, Linera sa che questa prospettiva è, a dir poco, remota. Ma è convinto che mentre si lavora per quello che chiama “il socialismo globale”, le forme socialiste ibride e bastarde, non ultimo per la consapevolezza che gli viene dalla nozione di dipendenza, possono in effetti solo “resistere”[7].

Questi elementi ideali, piuttosto astratti al limite del fumoso, si imperniano comunque in almeno tre elementi di concretezza, in grado di riscattarli:
-          da una parte c’è una critica molto severa della sinistra radicale, che rinuncia alla lotta per la costruzione di un nuovo senso comune, ovvero l’insieme dei giudizi e pregiudizi attraverso i quali la gente dà un senso al mondo, per illudersi di poter “cambiare il mondo” attraverso il rifugiarsi negli interstizi della vita quotidiana[8]. Ovvero rinunciando alla lotta per il potere, che è di fatto lasciata alle destre. La sinistra, insomma, si deve “liberare del lutto”.
-          Dall’altra la disponibilità a misurarsi concretamente nella prassi dello stato e nel processo di costruzione e ricostruzione costante di una nuova base sociale.
-          Infine, una concreta concettualizzazione del processo rivoluzionario e di presa del potere come successione di quelle che chiama fasi “Gramsci” inframmezzate da fasi “Lenin”.

L’obiettivo della trasformazione socialista viene descritto da Linera come una “completa messa in comune”, ovvero l’attivazione e conservazione nel tempo di un processo di “esondazione democratica, socializzazione delle decisioni in mano ad una società che si auto-organizza nei movimenti sociali”[9]. Un’autoorganizzazione mossa dal livello locale e comunitario la quale, tuttavia, essendo orientata ad obiettivi universalisti, al termine per stabilizzarsi dovrà giungere a qualcosa come una “grande comunità universale dei popoli”. Vedremo alla fine che questo esito, a suo dire necessario, è reso coerente da ragioni sia ideali sia pragmatiche. Le seconde derivano direttamente dall’esperienza del fallimento multiplo delle speranze della liberazione dalla dipendenza tramite la disconnessione (il “delinking”) degli anni settanta[10].

In definitiva in Linera troviamo, in tensione interna costante: universalismo irenico, forse tatticamente esplicitato, comunitarismo concretamente connesso con le comunità indio ed il loro concetto di “buen vivir”[11], e, terzo, una sorta di pragmatismo statocentrico.

L’esperienza che lo informa, del resto, è il portato di un intellettuale profondamente locale (anche se appartenente alle élite bianche), che si forma recependo le lotte ed i fallimenti contro lo “sviluppo del sottosviluppo[12], passa per una esperienza di guerriglia e il carcere, e viene trascinato al potere da imponenti mobilitazioni intorno alla rivendicazione di beni comuni essenziali come l’acqua. Negli anni che intercorrono tra il 2005 e l’edizione del libro è impegnato direttamente al governo del paese in posizione apicale. Sulla frontiera, per dire, dello scontro tra il concetto di “buen vivir”, introdotto nella costituzione, e la necessità di “resistere”, e quindi di potenziare lo Stato e la sua indipendenza.

La tensione tra la parte della sua vita passata nelle lotte comunitarie e la sua esperienza di vicepresidente dello Stato plurinazionale di Colombia è mediata da una complessa teoria dello Stato che va a prendere in Poulantzas. Lo Stato è una condensazione materiale di un rapporto di forza tra le classi, traduce relazioni di dominio, le riproduce incessantemente, ma è pieno di crepe. Di spazi indeterminati che possono sfuggire alla mera riproduzione e possono essere veicolo di un nuovo ordine sociale. C’è sempre la possibilità di innovazione, di rottura o di crollo. Lo Stato è un flusso, una trama fluida di relazioni, ma anche di simboli e discorsi. Ad uno stesso momento è un processo, un agglomerato di rapporti sociali che si istituzionalizzano, si regolarizzano e di stabilizzano. Si tratta, dunque, di un paradossale e continuo processo di stabilizzazione, che storicamente costruisce anche un comune, ma in modo gerarchizzato. Produce una regolarizzazione gerarchizzata di beni comuni.
Non è tanto uno strumento, quanto un’arena nella quale bisogna lottare, evitando qualsiasi posizione elitista e rinunciataria.

Qui si apre la questione, per la quale si appoggia anche allo stesso pensatore greco, della via democratica al socialismo per la quale sono necessarie due cose: la difesa ed estensione del pluralismo politico e della democrazia rappresentativa, ma anche, e contemporaneamente, della democrazia diretta. Le libertà politiche e la democrazia rappresentativa stessa sono anche il risultato delle lotte popolari, incorporano estensioni del riconoscimento e fanno parte di un patrimonio di memoria collettiva che va tutelato. Al contempo aiuta la riproduzione del regime statale, che normalmente è capitalista, ma, e contemporaneamente, sancisce diritti sociali e unifica collettività di classe, oltre ad essere un terreno fertile per risvegliare possibilità democratiche in grado di spingersi più in là. Nella democrazia rappresentativa, scrive Linera, può esprimersi parte della forza organizzativa raggiunta dalle classi subalterne. Ma queste possono esprimersi anche attraverso forme di irradiazione diretta, comunitaria. Quindi si può concludere: “questa dualità della democrazia, rappresentativa e partecipativa, diretta, comunitaria è la chiave per comprendere la via democratica al socialismo”[13]. Questa prospettiva è distinta dalla nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ma passa per un’estensione illimitata degli spazi deliberativi e quindi esecutivi della società, sia nella gestione delle questioni pubbliche, sia alla fine nella produzione e gestione della ricchezza sociale.
Questa via democratica, è chiaro, è sempre un lungo processo.

In uno dei momenti più interessanti del libro Linera sistematizza la propria esperienza e individua in via generale la successione di momenti di “lotta di posizione” e di “lotta di movimento”, come caratteristica specifica di questo lungo processo. La prima si riferisce alla lezione di Gramsci. Le classi lavoratrici devono cercare di esercitare un’autentica egemonia, devono dirigere e convincere la maggior parte delle classi sociali verso un’altra società, un altro Stato ed un’altra economia. Si tratta di un “prolungato lavoro culturale, discorsivo, organizzativo e simbolico che stabilirà nodi di irradiazione territoriale nello spazio sociale e la cui efficacia viene messa alla prova nel momento dello svuotamento e sgretolamento del grado di tolleranza morale tra governanti e governati o nei momenti di disponibilità della società a revocare gli schemi logici e morali dell’ordine sociale dominante”[14]. Quando ciò avviene, e non si può mai sapere quando accadrà, allora il lento lavoro paziente di costruzione simbolica, culturale ed organizzativa mette improvvisamente alla prova la propria capacità di “articolare le speranze mobilitanti a partire dalle potenzialità latenti che si agitano nel tessuto delle classi subalterne”. È il momento in cui si manifesta, ad un tratto, un “equilibrio catastrofico” tra due progetti di società. Si tratta di quello che chiama il “momento Robespierre”, nel quale occorre passare risolutamente ad un atteggiamento leninista. Giunti a questo punto non si tratta più di convincere, bisogna vincere.
Quando si entra in epoche rivoluzionarie è, in altre parole, perché i pilastri del consenso e dell’adesione tra le classi si sono deteriorati, allora si apre la crisi e subentra il caos sistemico. La società si frammenta e si aprono cicli di protesta. La strategia rivoluzionaria consiste nel sapere quando bisogna passare da una fase di lotta di posizione ad una di movimento.
Ma se si passa il “momento” positivamente, allora bisogna subito tornare ad articolare il discorso, mobilitare simboli e valori, e convincere il resto della società della necessità della riforma morale ed intellettuale. Allora bisogna lavorare con il “principio speranza” a costruire una nuova forma statuale. Da “Lenin” si torna a “Gramsci”.

Il successo del MAS è, del resto, passato per queste fasi. Partendo da una base sociale indigena, dopo la vittoria elettorale l’ha fatta penetrare nel corpo dello Stato, promuovendola, per poi confrontarsi con le caratteristiche di enclave esportatrice della Bolivia e le classi e frazioni di classe che la presidiavano. La Bolivia è, infatti, una società coloniale e razzializzata, e lo sforzo del nuovo governo è stato di superare entrambe le caratteristiche, impiegando parte significativa del dividendo di esportazione per sollevare ed introdurre la componente india, che assomma due terzi della popolazione, nella società.
Questo, però, alla lunga ha fatto nascere altri problemi, che si sono presentati nel momento in cui la base materiale economica che ha portato al potere Evo Morales, la piccola produzione mercantile, rurale ed urbana, si è trovata alle prese con la creazione di una nuova burocrazia statale per processo di affiliazione tramite le reti sindacali. Gradualmente si è attivato un capovolgimento della composizione di classe del potere statale che ha aperto tensioni sia verso l’alto (con le vecchie classi dominanti) sia all’interno. Linera evoca in questo contesto, ante i fatti recenti, il rischio che si aprano delle crepe e si presenti all’uscio la “sindrome di Allende”[15]. Si è creata in sostanza una sorta di “borghesia intermedia”, strettamente dipendente dallo Stato la quale, nei timori espressi, potrebbe (come in effetti farà) funzionare da zavorra. Inoltre, si sono aperte tensioni tra lo Stato stesso e alcuni movimenti sociali, spesso a causa di ben specifiche derive corporative[16] nelle quali gli interessi particolari hanno finito per scontrarsi con interessi generali irrinunciabili.
È qui che Linera vede il rischio di restaurazione che, in effetti, si verificherà in seguito[17].

Questo rischio si presenta anche per le difficoltà di tenere in costante equilibrio le dinamiche interne, la creazione e conservazione di una base industriale, la distribuzione delle risorse ricavate, e la dipendenza dai mercati esteri (e quindi dai loro intermediari sociali, le vecchie élite, dirette eredi di quelle coloniali). È questo il motivo specifico ed eminentemente pratico per il quale viene recuperata da Linera la storica affermazione per la quale non si può costruire il socialismo in un solo paese. Il motivo è che non c’è un mercato mondiale che regola le relazioni senza esercitare pressione imperiale.
Un’economia realmente sociale e comunitaria, quindi, potrà solo emergere in un contesto continentale e mondiale. Nel frattempo, ogni paese dovrà resistere come può (ed è evidente che più piccolo e debole è un paese, quanto più difficile è il compito). Per resistere chi esercita il potere statuale dovrà cercare di governare per tutti, ma senza accontentare tutti. Dovrà lavorare per neutralizzare i settori imprenditoriali ma senza diventare autarchici, dato che non esistono le condizioni. Bisognerà cercare di distribuire la ricchezza e di politicizzare la società.

Sono queste le debolezze con le quali chiude il libro: la scarsa riforma morale, la difficoltà posta nel rinnovo della leadership, la scarsa integrazione economica continentale e nazionale.

Sono le difficoltà sulle quali, alla fine, l’esperienza di Evo Morales cadrà.


[1] - Si tratta di Cochabamba, 2.500 metri sul livello del mare, 600.000 abitanti, fondata nel 1500, sede del Parlamento dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur).
[2] - Una vasta controffensiva americana iniziata nel 1968, da parte dell’amministrazione Nixon, e che interessò il Cile, l’Argentina, la Bolivia, il Perù, il Paraguay e l’Uruguay.
[3] - Si tratta del ciclo di elezioni vinte dalle sinistre populiste e socialiste latinoamericane che si incarna nella vittoria di Chavez in Venezuela, in Brasile con Lula, Ecuador con Correa, Uruguay con Mujica, e Argentina con de Kirchner. L’elemento comune a queste esperienze molto differenziate è l’antiliberismo e quindi l’atteggiamento molto critico con l’imperialismo americano. L’unica esperienza che resiste, assediata, è quella Venezuelana.
[5] - Alvaro Garcia Linera, op.cit., p. 32.
[6] - Ivi., p.50.
[7] - Ivi., p.196.
[8] - Ivi, p.47.
[9] - Ivi, p.87.
[10] - In grande sintesi la stagione di mobilitazione che si svolse nel secondo dopoguerra, nel duplice contesto della guerra fredda e della decolonizzazione del terzo mondo, si era nutrita della speranza di poter superare lo “sviluppo del sottosviluppo” (ovvero la cattura dei paesi deboli ed esteroflessi dalla dipendenza da capitali e mercati esteri) direttamente attraverso politiche di disconnessione e di cura dei “campioni nazionali”, oltre che diversificazione ed industrializzazione autonome. Ma tale strategia, in assenza delle condizioni tecniche e politiche adatte, e per effetto della dipendenza delle élite locali dai flussi che di cercava di interrompere, ebbe successo solo in alcuni paesi orientali (ad esempio la Corea del sud), dove attivò una catena di processi di crescita “a staffetta”. Nei paesi dell’America Latina, ovvero nel “cortile di casa” nordamericano, fu richiamata all’ordine (sia dall’esterno, sia dall’interno). Ne seguirono colpi di stato e processi di arretramento politico che indussero tutti i protagonisti di quella stagione a rifugiarsi in varie forme di globalismo compensativo. Il risultato sarà la “teoria dei sistemi mondo”, che postula la soluzione solo mondiale del dilemma della crescita autonoma ed autosostenuta, ritenuta ormai impossibile.
[11] - Un concetto di derivazione dalla comunità india ed inserito nella nuova costituzione bolivariana nel dicembre 2007. Una nuova costituzione che riconosce il carattere plurinazionale dello stato e garantisce i diritti dei popoli originari. I principi istituiti sono il “Ama suwa” (non essere pigro, non essere bugiardo, non rubare), il “suma quamana” (Buen vivir) il “ñandereko” (vivere una vita armoniosa), il “teko kavi” (vivere una vita buona) lo “ivi Maradi” (terra senza male) e il “qhapaj ñan” (cammino o vita nobile)”. Si tratta di ricercare una stretta relazione con la terra, con i “chacras” dove fiorisce la vita e che forniscono agli uomini sostentamento, quindi anche con gli animali, ma pure con il lavoro collettivo nella “minga”. Il sumak kawsay andino è associato alla vita di comunità, in equilibrio con la natura e con il mondo spirituale. I popoli indigeni americani, le società contadine e, in generale, tutte le comunità legate alla terra non cercano di cambiare il mondo quanto piuttosto di comprenderlo, credono nell’equilibrio e nell’armonia fra tutte le forme viventi. Il buen vivir non esclude nessuno anzi incorpora una pluralità di elementi che appartengono alla cosmovisione dei diversi popoli indigeni: visione del futuro, conoscenze e saperi, etica e spiritualità, relazione con la madre terra. I popoli indigeni conducono il loro cammino di apprendimento e socializzazione nella “chacra”, in relazione con l’elemento terra. E’ attraverso di essa che viene insegnato ad amare e ad amarla.
[12] - Formula di Andre Gunder Frank, si veda, ad esempio, “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina”.
[13] - Ivi., p. 83.
[14] - Ivi, p.78.
[15] - Ovvero di una divaricazione drammatica nella base sociale, con distacco delle piccole borghesie, davanti alla crisi, e caduta del governo, in quel caso, nel 1973, con un sanguinoso colpo di stato.
[16] - Ivi, p.161.
[17] - Il governo di Evo Morales, dopo la terza rielezione, fu rovesciato da una operazione condotta dalle élite bianche del paese, con la complicità non solo esterna, dei sempiterni Usa, ma anche di frazioni di nuova borghesia che nella crisi economica causata dalle difficoltà internazionali non voleva essere chiamata a pagarne il prezzo.

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