La
casa editrice Meltemi, per la collana “Visioni eretiche”, ha pubblicato
da poco il libro di Alvaro Garcia Linera “Democrazia,
Stato, Rivoluzione” che raccoglie interventi del già vicepresidente
della Bolivia di Morales editi o pronunciati tra il 2013 ed il 2016, che è l’anno
di uscita del testo in edizione originaria.
Si
tratta di un testo importante e complesso. Perfettamente espressivo delle
difficoltà teoriche, di posizionamento politico coerente, e di innesto di
tradizioni culturali diverse, che sono all’opera, spesso in modo tuttavia fecondo,
nel contesto latinoamericano. L’autore ha un curriculum di indiscutibile
fattura: nato nelle Ande, in una città di media grandezza, capoluogo di
provincia e di dipartimento[1], a venti anni si
trasferisce in Messico dove studia matematica e frequenta gli ambienti
estremamente vivaci dei rifugiati di tutta l’America Latina alle prese con la
controffensiva imperiale statunitense degli anni settanta (la famosa “Operazione
Condor”[2]). Matura in questo
contesto una visione del marxismo sensibile ai processi rivoluzionari autoctoni
e al protagonismo indigeno, così importante nella sua terra dove la componente ‘europoide’
è ancora una minoranza piuttosto limitata. Dopo un tentativo a partire dal 1985
di mobilitazione india, fonda l’Ejericito guerrillero Tupac Katari (EGTK). Viene
arrestato e detenuto per cinque anni. Dall’inizio degli anni duemila, fino al
2005, quando vince le elezioni, partecipa al Movimento per il Socialismo (MAS) il
cui leader è l’indio Evo Morales, poi divenuto Presidente della Colombia.
In
estrema sintesi il testo tenta di trovare un equilibrio difficile tra posizioni
teoriche e tradizioni diverse nel confronto con la realtà sociale e l’urgenza
dell’azione nel cosiddetto “ciclo bolivariano”[3].
La
posizione teorica costruita da Linera può essere letta come una difficile
sintesi, apparentemente impossibile, tra:
-
una posizione universalista,
infarcita di idealismo astratto e piena di affermazioni che recuperano, o
riverberano, posizioni post-operaiste,
-
ed un localismo comunitario,
a sua volta in tensione con una sorta di pragmatismo statocentrico.
Giocano
in questo difficile sincretismo, del quale andremo a cercare le tracce nel libro,
significativi recuperi della teoria della dipendenza[4],
probabilmente assorbiti nell’ambiente culturale brasiliano, a fianco di una
teoria dello stato che va a riprendere da Poulantzas.
Lavorano
in direzione del globalismo universalista la III, VI e VII tesi, presentate nel
primo capitolo, e numerosi passaggi nell’intero testo. In particolare, la
diagnosi dell’appropriazione capitalista della forza produttiva comunitaria
universale data dalla conoscenza, e il sorgere di una condizione operaia estesa
a tutto il mondo (effetto congiunto dell’estensione dell’informazione e delle
catene produttive e di subfornitura), presente nella III tesi. O le fonti di “antagonismo
planetario” nell’accumulazione primitiva permanente (descritta nella II tesi) e
nella scissione tecnica dal metabolismo della natura (IV tesi), entrambe
confluenti in un nuovo modo di produzione sociale mondiale che potrebbe essere
anticapitalista (VI tesi). La settima tesi, in questa direzione, propone nuove
forme di mobilitazione sociale che riescano a tenere insieme la “forma comunità”
e la “forma moltitudine”. La prima “è il modo politico attraverso il quale la
proprietà comune della terra e la cultura organizzativa indigena si mobilitano
come autodeterminazione”, la seconda “è un modo flessibile di organizzazione di
varie classi sociali, dove il nucleo dirigente non è stabilito anticipatamente
ma è contingente e dipende dal corso della mobilitazione stessa”. Ma occorre notare
che anche in quest’ultima, vaghissimamente definita, è presente una torsione: “la
convergenza operaia si attua intorno ad identità territoriali locali, a
rivendicazioni specifiche legate alle condizioni di vita (servizi di base,
diritti di cittadinanza, ecc.), insieme ad altri settori sociali ugualmente
coinvolti in quelle rivendicazioni”. Si tratta quindi di un concetto
flessibile, ed intenzionalmente sfocato, che si farebbe preferire per il suo
essere “capace di rilanciare tematiche e di unire in modo accidentale le forme
sparse e nomadi della proletarizzazione contemporanea”[5]. Tutta questa
mobilitazione concettuale piuttosto difficile precipita, nella Nona tesi, nell’invocazione
di una “comunità universale” che sia “sintesi di potenzialità oggettive e volontà
intersoggettive”. Una “comunità” che, è da notare, “o sarà universale e
planetaria o non sarà affatto”.
Queste
affermazioni, che sul piano pratico avranno uno specifico significato più
avanti, si collegano non solo alla formazione dell’autore e della lunga
tradizione socialista (sempre impregnata, se pur in modo complesso, di
universalismo illuminista), quanto alla convinzione che, come scrive, “la gente
non lotta se non ha una prospettiva sia concreta sia ideale”[6]. Ovvero bisogna prendere
in considerazione, tornando a progettare di cambiare il mondo, una transizione
che abbia nuovamente di mira un orizzonte epocale. Un orizzonte che “obiettivamente”,
dovrà essere “planetario, comunitario e naturalmente sostenibile”.
Certo,
Linera sa che questa prospettiva è, a dir poco, remota. Ma è convinto che
mentre si lavora per quello che chiama “il socialismo globale”, le forme
socialiste ibride e bastarde, non ultimo per la consapevolezza che gli viene dalla
nozione di dipendenza, possono in effetti solo “resistere”[7].
Questi
elementi ideali, piuttosto astratti al limite del fumoso, si imperniano comunque
in almeno tre elementi di concretezza, in grado di riscattarli:
-
da una parte c’è una critica molto
severa della sinistra radicale, che rinuncia alla lotta per la costruzione
di un nuovo senso comune, ovvero l’insieme dei giudizi e pregiudizi attraverso
i quali la gente dà un senso al mondo, per illudersi di poter “cambiare il
mondo” attraverso il rifugiarsi negli interstizi della vita quotidiana[8]. Ovvero rinunciando alla
lotta per il potere, che è di fatto lasciata alle destre. La sinistra, insomma,
si deve “liberare del lutto”.
-
Dall’altra la disponibilità a misurarsi
concretamente nella prassi dello stato e nel processo di costruzione e
ricostruzione costante di una nuova base sociale.
-
Infine, una concreta
concettualizzazione del processo rivoluzionario e di presa del potere come
successione di quelle che chiama fasi “Gramsci” inframmezzate da fasi “Lenin”.
L’obiettivo
della trasformazione socialista viene descritto da Linera come una “completa
messa in comune”, ovvero l’attivazione e conservazione nel tempo di un processo
di “esondazione democratica, socializzazione delle decisioni in mano ad una
società che si auto-organizza nei movimenti sociali”[9]. Un’autoorganizzazione mossa
dal livello locale e comunitario la quale, tuttavia, essendo orientata ad
obiettivi universalisti, al termine per stabilizzarsi dovrà giungere a qualcosa
come una “grande comunità universale dei popoli”. Vedremo alla fine che questo
esito, a suo dire necessario, è reso coerente da ragioni sia ideali sia
pragmatiche. Le seconde derivano direttamente dall’esperienza del fallimento
multiplo delle speranze della liberazione dalla dipendenza tramite la disconnessione
(il “delinking”) degli anni settanta[10].
In
definitiva in Linera troviamo, in tensione interna costante: universalismo irenico,
forse tatticamente esplicitato, comunitarismo concretamente connesso con
le comunità indio ed il loro concetto di “buen vivir”[11], e, terzo, una sorta di pragmatismo
statocentrico.
L’esperienza
che lo informa, del resto, è il portato di un intellettuale profondamente
locale (anche se appartenente alle élite bianche), che si forma recependo le lotte
ed i fallimenti contro lo “sviluppo del sottosviluppo”[12], passa per una esperienza
di guerriglia e il carcere, e viene trascinato al potere da imponenti mobilitazioni
intorno alla rivendicazione di beni comuni essenziali come l’acqua. Negli anni
che intercorrono tra il 2005 e l’edizione del libro è impegnato direttamente al
governo del paese in posizione apicale. Sulla frontiera, per dire, dello
scontro tra il concetto di “buen vivir”, introdotto nella costituzione, e la
necessità di “resistere”, e quindi di potenziare lo Stato e la sua indipendenza.
La
tensione tra la parte della sua vita passata nelle lotte comunitarie e la sua
esperienza di vicepresidente dello Stato plurinazionale di Colombia è mediata
da una complessa teoria dello Stato che va a prendere in Poulantzas. Lo Stato è
una condensazione materiale di un rapporto di forza tra le classi, traduce
relazioni di dominio, le riproduce incessantemente, ma è pieno di crepe. Di spazi
indeterminati che possono sfuggire alla mera riproduzione e possono essere
veicolo di un nuovo ordine sociale. C’è sempre la possibilità di innovazione,
di rottura o di crollo. Lo Stato è un flusso, una trama fluida di relazioni, ma
anche di simboli e discorsi. Ad uno stesso momento è un processo, un agglomerato
di rapporti sociali che si istituzionalizzano, si regolarizzano e di
stabilizzano. Si tratta, dunque, di un paradossale e continuo processo di
stabilizzazione, che storicamente costruisce anche un comune, ma in modo
gerarchizzato. Produce una regolarizzazione gerarchizzata di beni comuni.
Non
è tanto uno strumento, quanto un’arena nella quale bisogna lottare, evitando
qualsiasi posizione elitista e rinunciataria.
Qui
si apre la questione, per la quale si appoggia anche allo stesso pensatore
greco, della via democratica al socialismo per la quale sono necessarie
due cose: la difesa ed estensione del pluralismo politico e della democrazia
rappresentativa, ma anche, e contemporaneamente, della democrazia diretta. Le libertà
politiche e la democrazia rappresentativa stessa sono anche il risultato delle
lotte popolari, incorporano estensioni del riconoscimento e fanno parte di un
patrimonio di memoria collettiva che va tutelato. Al contempo aiuta la
riproduzione del regime statale, che normalmente è capitalista, ma, e contemporaneamente,
sancisce diritti sociali e unifica collettività di classe, oltre ad essere un
terreno fertile per risvegliare possibilità democratiche in grado di spingersi
più in là. Nella democrazia rappresentativa, scrive Linera, può esprimersi
parte della forza organizzativa raggiunta dalle classi subalterne. Ma queste
possono esprimersi anche attraverso forme di irradiazione diretta, comunitaria.
Quindi si può concludere: “questa dualità della democrazia, rappresentativa e
partecipativa, diretta, comunitaria è la chiave per comprendere la via
democratica al socialismo”[13]. Questa prospettiva è
distinta dalla nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ma passa per un’estensione
illimitata degli spazi deliberativi e quindi esecutivi della società, sia nella
gestione delle questioni pubbliche, sia alla fine nella produzione e gestione
della ricchezza sociale.
Questa
via democratica, è chiaro, è sempre un lungo processo.
In
uno dei momenti più interessanti del libro Linera sistematizza la propria esperienza
e individua in via generale la successione di momenti di “lotta di posizione” e
di “lotta di movimento”, come caratteristica specifica di questo lungo
processo. La prima si riferisce alla lezione di Gramsci. Le classi lavoratrici
devono cercare di esercitare un’autentica egemonia, devono dirigere e
convincere la maggior parte delle classi sociali verso un’altra società, un
altro Stato ed un’altra economia. Si tratta di un “prolungato lavoro culturale,
discorsivo, organizzativo e simbolico che stabilirà nodi di irradiazione
territoriale nello spazio sociale e la cui efficacia viene messa alla prova nel
momento dello svuotamento e sgretolamento del grado di tolleranza morale tra
governanti e governati o nei momenti di disponibilità della società a revocare
gli schemi logici e morali dell’ordine sociale dominante”[14]. Quando ciò avviene, e
non si può mai sapere quando accadrà, allora il lento lavoro paziente di
costruzione simbolica, culturale ed organizzativa mette improvvisamente alla
prova la propria capacità di “articolare le speranze mobilitanti a partire
dalle potenzialità latenti che si agitano nel tessuto delle classi subalterne”.
È il momento in cui si manifesta, ad un tratto, un “equilibrio catastrofico”
tra due progetti di società. Si tratta di quello che chiama il “momento Robespierre”,
nel quale occorre passare risolutamente ad un atteggiamento leninista. Giunti a
questo punto non si tratta più di convincere, bisogna vincere.
Quando
si entra in epoche rivoluzionarie è, in altre parole, perché i pilastri del
consenso e dell’adesione tra le classi si sono deteriorati, allora si apre la
crisi e subentra il caos sistemico. La società si frammenta e si aprono cicli
di protesta. La strategia rivoluzionaria consiste nel sapere quando bisogna
passare da una fase di lotta di posizione ad una di movimento.
Ma
se si passa il “momento” positivamente, allora bisogna subito tornare ad
articolare il discorso, mobilitare simboli e valori, e convincere il resto
della società della necessità della riforma morale ed intellettuale. Allora bisogna
lavorare con il “principio speranza” a costruire una nuova forma statuale. Da “Lenin”
si torna a “Gramsci”.
Il
successo del MAS è, del resto, passato per queste fasi. Partendo da una base
sociale indigena, dopo la vittoria elettorale l’ha fatta penetrare nel corpo
dello Stato, promuovendola, per poi confrontarsi con le caratteristiche di
enclave esportatrice della Bolivia e le classi e frazioni di classe che la
presidiavano. La Bolivia è, infatti, una società coloniale e razzializzata, e
lo sforzo del nuovo governo è stato di superare entrambe le caratteristiche, impiegando
parte significativa del dividendo di esportazione per sollevare ed introdurre
la componente india, che assomma due terzi della popolazione, nella società.
Questo,
però, alla lunga ha fatto nascere altri problemi, che si sono presentati nel
momento in cui la base materiale economica che ha portato al potere Evo
Morales, la piccola produzione mercantile, rurale ed urbana, si è trovata alle
prese con la creazione di una nuova burocrazia statale per processo di
affiliazione tramite le reti sindacali. Gradualmente si è attivato un
capovolgimento della composizione di classe del potere statale che ha aperto
tensioni sia verso l’alto (con le vecchie classi dominanti) sia all’interno.
Linera evoca in questo contesto, ante i fatti recenti, il rischio che si aprano
delle crepe e si presenti all’uscio la “sindrome di Allende”[15]. Si è creata in sostanza una
sorta di “borghesia intermedia”, strettamente dipendente dallo Stato la quale,
nei timori espressi, potrebbe (come in effetti farà) funzionare da zavorra. Inoltre,
si sono aperte tensioni tra lo Stato stesso e alcuni movimenti sociali, spesso
a causa di ben specifiche derive corporative[16] nelle quali gli interessi
particolari hanno finito per scontrarsi con interessi generali irrinunciabili.
È
qui che Linera vede il rischio di restaurazione che, in effetti, si verificherà
in seguito[17].
Questo
rischio si presenta anche per le difficoltà di tenere in costante equilibrio le
dinamiche interne, la creazione e conservazione di una base industriale, la
distribuzione delle risorse ricavate, e la dipendenza dai mercati esteri (e
quindi dai loro intermediari sociali, le vecchie élite, dirette eredi di quelle
coloniali). È questo il motivo specifico ed eminentemente pratico per il quale
viene recuperata da Linera la storica affermazione per la quale non si può
costruire il socialismo in un solo paese. Il motivo è che non c’è un mercato
mondiale che regola le relazioni senza esercitare pressione imperiale.
Un’economia
realmente sociale e comunitaria, quindi, potrà solo emergere in un contesto
continentale e mondiale. Nel frattempo, ogni paese dovrà resistere come può (ed
è evidente che più piccolo e debole è un paese, quanto più difficile è il
compito). Per resistere chi esercita il potere statuale dovrà cercare di
governare per tutti, ma senza accontentare tutti. Dovrà lavorare per neutralizzare
i settori imprenditoriali ma senza diventare autarchici, dato che non esistono
le condizioni. Bisognerà cercare di distribuire la ricchezza e di politicizzare
la società.
Sono
queste le debolezze con le quali chiude il libro: la scarsa riforma morale, la
difficoltà posta nel rinnovo della leadership, la scarsa integrazione economica
continentale e nazionale.
Sono
le difficoltà sulle quali, alla fine, l’esperienza di Evo Morales cadrà.
[1] - Si tratta di Cochabamba, 2.500
metri sul livello del mare, 600.000 abitanti, fondata nel 1500, sede del
Parlamento dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur).
[2] - Una vasta controffensiva
americana iniziata nel 1968, da parte dell’amministrazione Nixon, e che
interessò il Cile, l’Argentina, la Bolivia, il Perù, il Paraguay e l’Uruguay.
[3] - Si tratta del ciclo di elezioni
vinte dalle sinistre populiste e socialiste latinoamericane che si incarna
nella vittoria di Chavez in Venezuela, in Brasile con Lula, Ecuador con Correa,
Uruguay con Mujica, e Argentina con de Kirchner. L’elemento comune a queste esperienze
molto differenziate è l’antiliberismo e quindi l’atteggiamento molto critico
con l’imperialismo americano. L’unica esperienza che resiste, assediata, è quella
Venezuelana.
[4] - Si veda “Sviluppi
della teoria della dipendenza”.
[5] - Alvaro Garcia Linera, op.cit.,
p. 32.
[6] - Ivi., p.50.
[7] - Ivi., p.196.
[8] - Ivi, p.47.
[9] - Ivi, p.87.
[10]
- In grande sintesi la
stagione di mobilitazione che si svolse nel secondo dopoguerra, nel duplice
contesto della guerra fredda e della decolonizzazione del terzo mondo, si era
nutrita della speranza di poter superare lo “sviluppo del sottosviluppo” (ovvero
la cattura dei paesi deboli ed esteroflessi dalla dipendenza da capitali e
mercati esteri) direttamente attraverso politiche di disconnessione e di cura
dei “campioni nazionali”, oltre che diversificazione ed industrializzazione
autonome. Ma tale strategia, in assenza delle condizioni tecniche e politiche
adatte, e per effetto della dipendenza delle élite locali dai flussi che di
cercava di interrompere, ebbe successo solo in alcuni paesi orientali (ad
esempio la Corea del sud), dove attivò una catena di processi di crescita “a
staffetta”. Nei paesi dell’America Latina, ovvero nel “cortile di casa” nordamericano,
fu richiamata all’ordine (sia dall’esterno, sia dall’interno). Ne seguirono
colpi di stato e processi di arretramento politico che indussero tutti i
protagonisti di quella stagione a rifugiarsi in varie forme di globalismo
compensativo. Il risultato sarà la “teoria dei sistemi mondo”, che postula la
soluzione solo mondiale del dilemma della crescita autonoma ed autosostenuta,
ritenuta ormai impossibile.
[11] - Un concetto di derivazione dalla
comunità india ed inserito nella nuova costituzione bolivariana nel dicembre
2007. Una nuova costituzione che riconosce il carattere plurinazionale dello
stato e garantisce i diritti dei popoli originari. I principi istituiti sono il
“Ama suwa” (non essere pigro, non essere bugiardo, non rubare), il “suma
quamana” (Buen vivir) il “ñandereko” (vivere una vita armoniosa), il “teko
kavi” (vivere una vita buona) lo “ivi Maradi” (terra senza male) e il “qhapaj
ñan” (cammino o vita nobile)”. Si tratta di ricercare una stretta relazione con
la terra, con i “chacras” dove fiorisce la vita e che forniscono agli uomini
sostentamento, quindi anche con gli animali, ma pure con il lavoro collettivo
nella “minga”. Il sumak kawsay andino è associato alla vita di comunità, in
equilibrio con la natura e con il mondo spirituale. I popoli indigeni
americani, le società contadine e, in generale, tutte le comunità legate alla
terra non cercano di cambiare il mondo quanto piuttosto di comprenderlo,
credono nell’equilibrio e nell’armonia fra tutte le forme viventi. Il buen
vivir non esclude nessuno anzi incorpora una pluralità di elementi che
appartengono alla cosmovisione dei diversi popoli indigeni: visione del futuro,
conoscenze e saperi, etica e spiritualità, relazione con la madre terra. I
popoli indigeni conducono il loro cammino di apprendimento e socializzazione
nella “chacra”, in relazione con l’elemento terra. E’ attraverso di essa che
viene insegnato ad amare e ad amarla.
[12] - Formula di Andre Gunder Frank,
si veda, ad esempio, “Capitalismo
e sottosviluppo in America Latina”.
[13] - Ivi., p. 83.
[14] - Ivi, p.78.
[15] - Ovvero di una divaricazione
drammatica nella base sociale, con distacco delle piccole borghesie, davanti
alla crisi, e caduta del governo, in quel caso, nel 1973, con un sanguinoso
colpo di stato.
[16] - Ivi, p.161.
[17] - Il governo di Evo Morales, dopo
la terza rielezione, fu rovesciato da una operazione condotta dalle élite
bianche del paese, con la complicità non solo esterna, dei sempiterni Usa, ma
anche di frazioni di nuova borghesia che nella crisi economica causata dalle
difficoltà internazionali non voleva essere chiamata a pagarne il prezzo.
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