Il
libro di Domenico Losurdo è stato
pubblicato nel 2013 e rappresenta in qualche modo l’estensivo scavo
archeologico dal quale viene tratta la tesi storico-ricostruttiva ad ampio
raggio presentata nella sua ultima opera, “Il marxismo occidentale”[1]. La tesi di fondo è che la
lotta di classe ha forme molteplici, includenti sia lo scontro tra lavoro e
capitale nel luogo della produzione e nella società, sia quello per la liberazione
dalle forme di oppressione presenti nel mondo e, finanche, quello tra nazioni.
I
due padri del marxismo, ovvero Karl Marx e Friedrich Engels, nelle loro opere e
lettere, non hanno mai espresso in modo sistematico la tesi che Losurdo cerca
di desumere dal loro lavoro, ovvero la connessione tra liberazione della classe
operaia e liberazione nazionale. Ciò è onestamente riconosciuto, ma lo storico ritiene
svolga un ruolo centrale nel loro pensiero ed a tal fine compie una profonda
operazione di ricostruzione, andandone ad individuare le tracce nei testi e
nella complessiva storia del marxismo.
Questa
è la tesi, per certi versi paradossale, ma reputo ben fondata, del testo.
I
due processi di liberazione articolano le tre forme di emancipazione per le quali
i due filosofi lavorano: la “emancipazione umana”, la “emancipazione politica”
e la “emancipazione universale”. Questa triplice emancipazione è il prodotto di
un’azione sviluppata durante diversi decenni e avendo sempre di mira una
costante attenzione alla politica estera, pungolata dalla turbolenta politica
internazionale del tempo. Tempo che va dall’assestamento post guerre napoleoniche
alla crisi del 1848 e poi alla progressiva creazione dei blocchi di potere, con
stati guida e stati satellite di interposizione, che condurranno alla Prima
guerra mondiale.
Del
resto, il più famoso appello legato al nome dei nostri: “proletari di tutti
i paesi unitevi!”, che conclude il Manifesto del Partito Comunista, chiudeva
anche, come ricorda Losurdo, l’indirizzo inaugurale della Associazione
Internazionale del 1864, sedici anni dopo.
Cerchiamo
di definire il contesto storico. Siamo in anni di grande trasformazione e turbolenza,
nei quali l’assetto del mondo europeo uscito dalle guerre Napoleoniche, con il “concerto
delle nazioni”[2]
a guida austro-russa, fu prima messo sotto stress e poi rotto a seguito della
guerra di Crimea e dei processi di State-building italiano e tedesco (rispettivamente
anni cinquanta, sessanta e settanta). Inoltre, alcune questioni, come quella
baltica e polacca, o quella irlandese, continuavano ad agitare variamente la
scena. Ed infine era in corso in quegli anni l’estensione dell’industrializzazione
nei paesi centro-europei con il suo seguito di trasformazioni e tensioni sociali.
Sotto quest’ultimo profilo si disgregano, tra gli anni trenta e cinquanta, le
corporazioni artigiane che perdono costantemente iscritti alla metà del secolo
(salvo, in una prima fase, nel settore del lusso). A Berlino, ad esempio, nel
1840 ormai i tre quarti dei maestri artigiani, ovvero membri a pieno titolo
delle corporazioni, per effetto della concorrenza dei modi di produzione di
massa, non riuscivano più a pagare la quota base di associazione. Sono da
queste forze (in particolare dai loro apprendisti e lavoranti) che si crea il
nuovo proletariato di fabbrica nella prima fase, e non dal mondo contadino che,
nel frattempo sta superando le forme di servitù e di legame alla terra. La stessa
associazione che dà mandato di scrivere il “Manifesto”, nel 1848, la “Lega
dei giusti”, poi rinominata in “Lega dei comunisti”, è alle sue
origini sostanzialmente un’associazione di artigiani tedeschi trapiantati a
Londra. Nella fase in cui si forma il pensiero sulle classi di Marx e Engels,
questa lotta è in pieno svolgimento. In Francia per un certo periodo di tempo
le vecchie corporazioni si trasformarono in associazioni semi-segrete di mutuo
appoggio dette “compagnonnage”[3], che coinvolsero qualcosa
come centomila lavoratori. Queste associazioni di proto-sindacati erano però attraversate
da enormi conflittualità inter-professionali ed interne e proprio nel 1848 ci
fu un tentativo di unirle in un vero e proprio sindacato. Ma allo stato questi
erano presenti solo in Gran Bretagna, anche se nella crisi della metà del
secolo erano in ritirata. Tuttavia questa ritirata, ad esempio il fallimento
dell’Associazione dei minatori della Gran Bretagna e dell’Irlanda costituita
nel 1842 e forte di settantamila iscritti mostrò a molti che la soluzione era
una più ampia rappresentanza politica. L’Associazione, come le altre di quel
periodo sostanzialmente aveva un assetto mutualistico di tipo corporativo, cercava
di ridurre la produzione per impedire il calo di prezzi e salari, e la sua
crisi si era compiuta già nel 1848.
Più
in generale, la crisi delle patate (aggredite da una malattia alla metà del
secolo) e la diffusione dei prodotti industriali fecero sì che in tutti gli
anni quaranta siano stati soprattutto gli artigiani specializzati, dotati di
tradizioni solidaristiche e mutualistiche secolari (se pure corporative), ad
avanzare richieste radicali. Nelle fabbriche vere e proprie, in cui un terzo
degli addetti era formato da donne ed un quinto da bambini, le agitazioni erano
invece meno pronunciate, per effetto del rischio di sostituzione e della scarsa
propensione di quasi metà della forza lavoro all’organizzazione sociale e
rivendicativa. Fa in qualche modo caso a parte la rivolta della Slesia (osservata
anche dal giovane Marx) del 1844. I tessitori a mano, che erano in precedenza
artigiani autonomi, vedendo peggiorare status e reddito per la concorrenza dell’industria
meccanica, presero d’assalto la dimora degli Zwanzinger (ricchi mercanti
locali) e ci furono undici morti. Cominciò a formarsi nella critica una “classe”
unica che designa il maestro artigiano impoverito, il lavoratore di fabbrica
che spesso è un ex artigiano, il minatore ed il lavoratore salariato urbano. La
“classe operaia” è quindi una costruzione concettuale che si mette a fuoco
esattamente negli anni in cui Marx ed Engels allargano la loro percezione
politica e frequentano i circoli socialisti della diaspora tedesca e francese
(seguendo la dinamica delle espulsioni politiche). Tra la metà degli anni
quaranta e il ventennio successivo. Nello stesso periodo, nella più evoluta Gran
Bretagna giungono alla crisi le impostazioni meramente corporative e
tradizionali e le forme di mobilitazioni proto-sindacali o “cartiste”. Il forte
focus che nella teoria viene attribuito a questo tema è storicamente determinato.
D’altra
parte, l’altra grande forza del secolo è il nazionalismo. Negli anni
trenta la repressione della spinta autonomistica della Polonia, da parte della
Russia, aveva avuto successo, ma nel 1846 scoppiò una nuova rivolta in Galizia.
Bande contadine, guidate da Jakub Szela, distrussero cinquecento dimore
signorili e mozzarono la testa degli occupanti. Le conseguenze della rivolta,
sedata dall’esercito austriaco, furono una sorta di chiamata all’azione. Il 1848
fu mosso da questo insieme di fattori: la presenza di studenti enormemente
cresciuti di numero, ma incerti sul proprio futuro, di classi artigiane che sentivano
la concorrenza dell’industria britannica, ed il crollo della domanda con
conseguenti licenziamenti e fallimenti. Tutte le capitali che furono il fulcro
delle rivolte erano anche centri industriali o proto-industriali in crisi. Ma queste
condizioni attivanti incontrarono il loro limite sia nelle contraddizioni di
classe e ceto, e relativi obiettivi, sia nelle contraddizioni tra opposte rivendicazioni
di autonomia nazionale. In particolare, nell’area centroeuropea e nell’impero
multinazionale austriaco. In Ungheria, ad esempio, croati, serbi, slovacchi,
sassoni e romeni si scontrarono con la maggioranza magiara. Tra i nazionalisti
ungheresi si aprì un dibattito tra marginalizzazione e assimilazione. La rivolta
delle minoranze, contro il governo rivoluzionario magiaro, fece alla fine leva
su Vienna, dando seguito a jacquerie, milizie e veri e propri scontri tra eserciti,
che provocarono quarantamila morti. Inoltre, la mobilitazione nazionalista contagiò
anche Moldavia e Valachia, formalmente russe e ottomane, che intervennero con
decisione.
La
linea di conflitto tra radicali e liberali moderati, invece, si manifesterà,
insieme a quella tra liberali e conservatori per l’intero secolo. Una delle più
evidenti manifestazioni si ha nella chiamata di Luigi Napoleone Bonaparte,
esule a Londra. Entro l’anno successivo la rivoluzione era rifluita.
Ma
dal 1850 al 1870, anni formativi essenziali per il consolidamento della posizione
politica dei fondatori, ai vecchi politici reazionari come il Principe di
Metternich vengono sostituiti uomini più sensibili alle ragioni liberali come
Cavour, Bismarck, Napoleone III e Disraeli. Uomini che si sforzarono a loro
modo di cooptare le masse e sfruttare il nazionalismo. Questa situazione è
quella nella quale la guerra di Crimea indebolisce fortemente gli imperi come
quello russo, austriaco e ottomano e rilancia la Francia. Più in particolare la
crisi del ’57 colpì ulteriormente l’Austria e aprì la finestra di opportunità
nella quale si inserì, con il decisivo appoggio inglese, la risoluzione della
questione italiana. Ma negli anni sessanta ci fu anche un’ulteriore rivolta
polacca che attirò consensi in tutta Europa e sollevò la riprovazione di tutte
le personalità della sinistra radicale, da Marx a Garibaldi. Naturalmente i polacchi
furono egualmente schiacciati dai russi. Seguirono le guerre tedesche, prima
con l’Austria e poi con la Francia, e la formazione della federazione intorno
alla Prussia. Qui cadde la vicenda, cruciale per la formazione della teoria,
della “Comune di Parigi”, intorno alla quale esperienza viene a termina l’agitazione
giacobina e si affermò quella socialista.
In
grandissima schematizzazione questo è il contesto.
Fuori
dell’Europa ci furono la repressione della rivolta dei Boxer in Cina e dell’India
occupata dagli Inglesi, la questione degli schiavi e la guerra civile in America.
I
testi di questo periodo, “Il Manifesto” e “La miseria della filosofia”,
denunciano lo sfruttamento del lavoro, che condanna la nascente classe operaia
allo sfruttamento ma al contempo denunciano “lo sfruttamento di una nazione da
parte di un’altra”[4],
cioè, come scrive Marx ne “La miseria”: “lo sfruttamento che ha luogo
tra i popoli”. Questo specifico sfruttamento, nel caso della Polonia come in
quello dell’Irlanda, “costituisce una delle principali fonti della ricchezza
materiale” dei paesi sfruttatori. Ancora, nel 1849, in “Lavoro salariato e
capitale”, si interroga su quelli che chiama “i rapporti economici che
formano la base materiale delle attuali lotte di classe e nazionali”.
Questo
è il termine che salta agli occhi attenti di Losurdo. È un plurale: “lotte
di classe”. Il commento è netto: “lotte di classe. Il plurale non sta a
denotare la ripetizione dell’identico, il continuo ricorrere nella medesima
forma della medesima lotta di classe; no, il plurale rinvia alla molteplicità
delle configurazioni che può assumere la lotta di classe”[5]. Un plurale che quindi include
anche le lotte per l’emancipazione delle donne e razziali, e quelle nazionali. Quindi
sono almeno quattro i movimenti che agitano la società del tempo e sono
considerati emancipatori da Marx ed Engels: il movimento operaio, quello
femminista e quello abolizionista. A questi si aggiunge, nelle appropriate
condizioni, quello nazionale.
L’insieme
di queste quattro istanze, con le loro complessità (le lotte nazionali, come
accade in Ungheria, possono essere le une contro le altre agite, e possono
anche essere utilizzate dalla reazione, ma, del resto anche le lotte operaie
possono essere cooptate e quelle abolizioniste si intrecciano in modo complesso
con l’emancipazione operaia), generano una condizione per la quale: “la lotta
di classe non si presenta quasi mai allo stato puro, quasi mai si limita a
coinvolgere i soggetti direttamente antagonisti; soprattutto, è proprio grazie
a questa mancanza di ‘purezza’ che essa può sfociare in una rivoluzione sociale
vittoriosa”[6].
In
opposizione ai paradigmi alternativi, proposti dalle varie frazioni della
borghesia liberale e dai movimenti socialisti concorrenti, come quello di Le
Bon, Bentham, Tocqueville, ma anche di Proudhon e Bakunin, Marx ed Engels, per
Losurdo, mettono proprio per questo a punto una teoria generale del conflitto sociale
sotto l’etichetta di “lotta di classe”. Una etichetta necessariamente sfocata. Ciò
perché il conflitto si propone sempre sul terreno della storia e non può essere
definito a priori in una teoria. Deve tenere conto delle molteplici forme in
cui si presenta e della sua intrinseca ambiguità. Come scrive Losurdo:
“la vita è caratterizzata da un’infinità
di conflitti che si sviluppano tra gli individui per le più diverse ragioni, ma
qui si tratta di analizzare i conflitti che vedono come protagonisti non i singoli
individui bensì soggetti sociali e che, in modo diretto o indiretto, immediato
o mediato, rinviano all’ordinamento sociale, a questa o a quella essenziale
articolazione della divisione del lavoro e dell’ordinamento sociale”[7].
Le
‘lotte di classe’ sono, quindi, delle lotte per il riconoscimento che
concretizzano un universale determinato e concreto. Un approccio piuttosto diverso
dal naturalismo giuridico coevo, che funziona come giustificazione dell’ordinamento
esistente. L’operazione che compiono i fondatori è, insomma, di fondazione di
una sorta di umanesimo positivo che passa attraverso la critica dei processi di
reificazione, ma la definisce nella concretezza della lotta. Si tratta di un
intreccio inestricabile di punto di vista ‘scientifico’, che si propone come
oggettivo, e di condanna morale. È proprio quest’ultima, la condanna morale, in
primo luogo, e non la componente scientifica che spiega, per Losurdo, l’appello
alla rivoluzione. Questo è, per Marx, una sorta di imperativo categorico.
Ciò
significa che, malgrado le letture prevalenti, la teoria del conflitto, ovvero
della ‘lotta di classe’, non è solo economicista, ma eminentemente storica e
necessariamente plurale. La lotta per il riconoscimento non è solo liberazione
dalla reificazione (che non è solo del proletariato, ma coinvolge anche la
borghesia[8]), ma più profondamente lotta
per la conquista dell’autostima. E questo è uno degli effetti che transita
dagli individui ai popoli. L’oppressione dei popoli si manifesta, infatti, nello
stato di schiacciamento e soggezione, sempre anche come carenza di autostima. È
questa che impedisce la reazione.
Il
libro di Losurdo insiste nel superare, nell’analisi del significato della lotta
di classe, quella che chiama la “logica binaria”, e che talvolta si registra
anche in Marx stesso. Una lettura, cioè, che vede solo contraddizione semplice nel
conflitto sociale (opponendo, ad esempio, ricchi a poveri) e non consente di
comprendere nella loro intera estensione i movimenti di emancipazione. Una emancipazione
la cui base sociale non è costituita esclusivamente dai poveri, ed il cui tema
non è esclusivamente la ricchezza.
Così
come, al contrario, talvolta i poveri si fanno cooptare dal “socialismo
imperiale” che al suo tempo mise a punto Disraeli quando andò al potere. L’imperialismo,
costringendo i popoli a sottostare al rapporto di estrazione coloniale,
spegneva infatti la lotta di classe nei lavoratori, consentendo la
distribuzione di un piccolo “dividendo” (sia economico sia di autostima). È questo
il senso in cui la lotta di classe tra le nazioni poteva entrare in conflitto
con la lotta di classe entro la nazione. Disraeli, campione dell’imperialismo e
del diritto delle razze superiori, porta il conflitto ad un altro livello.
Ecco
che si comprende come non sia questione di semplice distribuzione; come scrive Losurdo:
“ben lungi dallo scaturire da una presunta evidenza empirica, la presa di
coscienza rivoluzionaria presuppone la comprensione dei rapporti politici e
sociali che vanno ben al di là del conflitto tra borghesia e proletariato”[9]. Può capitare e capita che
le lotte di liberazione, di “classe” contro “classe” a livello planetario,
possano coinvolgere anche classi sociali che localmente non sono oppresse. Bisogna
quindi indagare, con attenzione ed individualmente, la configurazione interna
di ciascun conflitto, ma anche il modo in cui si questo articola, si struttura.
“Può persino accadere che il
riconoscimento dell’autodeterminazione a un popolo rafforzi il nemico
principale del movimento di liberazione dei popoli oppressi presi nel loro
complesso: non si deve perdere di vista il conflitto delle libertà che
può insorgere. In altre parole, occorre sì respingere la mutilazione delle
lotte di classe, ma ciò non significa ignorare il problema per cui una situazione
storica (e soprattutto una grande crisi storica) può costringere a una
gerarchizzazione delle lotte di classe”[10].
Alcuni
esempi sono il problema della guerra di secessione, o quello della vicenda
ungherese. Ciò che va compreso non è la posizione astratta dei singoli attori,
ma il complessivo conflitto delle libertà. Una categoria analitica, questa,
di grande potenza esplicativa. Il giudizio di un conflitto per il riconoscimento,
o per la libertà, può scaturire solo dall’analisi concreta della situazione
concreta, storicamente data, e osservando il funzionamento complessivo dei giochi
attivati tra i diversi attori, nonché gli effetti su di essi. Talvolta una
lotta per la liberazione è, allo stesso momento o per i suoi effetti, lotta per
lo schiacciamento e l’oppressione di altri e va ricondotta, quindi, ai suoi
effetti complessivi e sistemici per essere giudicata.
Ma
se si supera la logica binaria, cosa ne è dell’internazionalismo? Se questo
fosse letto astrattamente come lo scontro puro tra una ‘controrganizzazione
internazionale del lavoro’ contro una ‘cospirazione cosmopolita del capitale’,
allora il significato sarebbe immediatamente evidente. Ma il quadro, anche in
questo caso, esce dalla logica binaria e si complica. Tenendo conto della molteplicità
delle lotte di classe, in particolare della questione nazionale (ovvero
coloniale), la solidarietà da mobilitare talvolta è riferita ad una singola classe
sociale, talaltra ad un popolo nel suo complesso, quando questo si trova a lottare
contro quello che Marx nomina come “lo sfruttamento di una nazione da parte
dell’altra”.
Può
sembrare in contraddizione con lo slogan del 1848, e c’è in effetti una
tensione, ma la lettura larga che Losurdo compie delle fonti gli consente di sottolineare
un semplice fatto. Immaginare un fronte di lotta trasversale ed omogeneo, che attraversi
così, semplicemente ed una volta per sempre, il campo della lotta
internazionalista ricade nella stessa critica che Marx stesso, negli anni
successivi, avanza verso Louis Blanc. Questi identificava nel suo proprio popolo,
quello francese, l’incarnazione del cosmopolitismo (meritandosi l’appellativo
di “democratico imperialista” che si atteggia a rivoluzionario). Oppure la
critica del “cinismo da cretino” di Proudhon, che condannava la lotta polacca
in quanto “nazionalista”. Alla fine, Engels, nel 1882, ne concluderà che “un
movimento internazionale del proletariato è possibile solo tra nazioni indipendenti”[11], in quanto una “sincera
cooperazione” è possibile solo tra eguali.
In
altri termini, data la necessità di superare i rapporti di dipendenza e
soggezione, quando il proletariato polacco si mette alla testa della lotta di
indipendenza nazionale, portando con sé anche le altre classi, allora svolge con
questo solo fatto un “ruolo internazionalista”. Il ruolo internazionalista
ha basi oggettive, e non soggettive, perché getta le fondamenta necessarie per
una cooperazione diversamente impossibile. Fino a che i paesi sono connessi con
una catena di sfruttamento e disprezzo le classi dominanti hanno buon gioco,
negli uni e negli altri, di cooptare quelle subalterne distribuendo una parte
del ‘dividendo’ del dominio. Ovvero una quota di risorse estratte, sotto forma
di migliori salari estratti dalle ragioni di scambio istituite con le colonie
(minor prezzo delle materie prime, o del lavoro importato, e maggior prezzo dei
prodotti esportati nei mercati ‘captivi’) e, probabilmente principalmente, una
parte del senso di superiorità implicato nel rapporto di dominio. Questa strategia
di controllo, che al tempo di Marx è messa a punto dai politici della seconda
generazione, Disraeli e Napoleone III, ma anche Bismarck, impedisce la
rivoluzione nei paesi avanzati e perpetua le condizioni di schiavitù negli uni
e negli altri. È, quindi, il vero nodo della situazione, qualunque lotta
internazionalista passa di qui.
Il
passaggio è cruciale, come scrive Engels: “senza l’autonomia e l’unità
restituite a ciascuna nazione europea non è possibile l’unione internazionale del
proletariato”. Quindi in Europa due nazioni “hanno il dovere di essere
nazionali prima che internazionali”, queste sono le nazioni schiacciate
colonialmente, ed il cui sfruttamento di fatto impedisce la presa di coscienza
delle proprie catene anche al proletariato dei paesi dominanti. Quindi l’Irlanda
e la Polonia. Il vero sciovinismo è rappresentato dal cosiddetto “internazionalismo
repubblicano” nei paesi imperialisti.
Come
scrive, in conclusione, Losurdo:
“E’ una regola generale: allorché ignora
la questione nazionale, l’internazionalismo si rovescia del suo contrario; la
rimozione delle particolarità nazionali in nome di un astratto ‘internazionalismo’
rende più facile per una nazione determinata di presentarsi come l’incarnazione
dell’universale, e in ciò per l’appunto consiste lo sciovinismo e anzi lo
sciovinismo più esaltato”[12].
Questa
lettura delle radici del marxismo prosegue a partire dal capitolo “Passaggio
a sud-est”, con una più netta focalizzazione del rapporto complesso, ma
necessario, tra questione nazionale e lotta di classe, condotta, come sarà più
compiutamente fatto nel suo ultimo libro, focalizzando l’esperienza teorica e
pratica del leninismo. Si parte dal “Che fare?”[13], nel quale viene
analizzato il successo del capitalismo imperiale e l’impatto delle tecniche propagandistiche
sulle masse. Lenin critica il sindacalismo e fa appello all’intelligenza
critica sottolineando l’enorme importanza della questione nazionale, facendosi
al contempo, beffa della “rivoluzione allo stato puro” che mai si incontra
nella pratica. La direzione della lotta può scaturire solo da un’analisi
concreta della situazione concreta. La formula diventa, “proletari di
tutti i paesi unitevi, e popoli oppressi del mondo intero unitevi”. In occasione
del Congresso dei popoli d’oriente, del 1920, il socialismo viene connesso, da Lenin
ed organicamente, con la liberazione su larga scala dai vincoli coloniali[14]. Qui si innesta, in
sostanza, una duplice lotta per il riconoscimento.
Questa
impostazione viene confermata ed approfondita anche da Mao Tze Tung, e dalla
vittoriosa rivoluzione anticoloniale, nazionalista e socialista cinese. Si afferma
la piena identità della lotta nazionale, contro l’oppressione ed umiliazione
coloniale occidentale o giapponese, e della lotta di classe. Ma la lotta è anche
“di classe” in un terzo senso, dei quattro indicati inizialmente: è anche di
razza. Cosa che si manifesta in evidenza nella lotta sovietica contro il
nazismo, che avrebbe voluto ridurre i popoli slavi allo stato di schiavitù.
In
una delle sezioni più interessanti del libro Losurdo descrive le lotte interne
che Lenin ha dovuto superare, contro la sinistra parolaia, attardata sullo
slogan inattuale dell’estinzione dello Stato, e finanche del denaro, e le forme
meno plausibili di ascetismo universalista (il ‘cattivo’ universalismo,
astratto) e di rozzo egualitarismo. Alcuni esempi sono le polemiche con
Lazorevic, o quello che Lenin chiama “l’ascetismo cristiano con vernice
socialista”. Qualcosa che punta a collettivizzare la miseria, mentre il tema,
anche di sopravvivenza della rivoluzione, è piuttosto di porre rimedio alla
fame. Per farlo serve sia andare a scuola dai paesi occidentali, per imparare a
gestire una società industriale, sia cooptare parte dei tecnici “borghesi”.
Scriverà
lo stesso Lenin nel 1922:
“quando trionferemo su scala
mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine nelle vie di alcune
delle più grandi città del mondo. Questo sarebbe l’impiego più ‘giusto’ e più
evidentemente edificante che si possa fare dell’oro, per le generazioni che non
hanno scordato come per l’oro furono massacrati dieci milioni di uomini e altri
trenta furono storpiati nella ‘grande’ guerra ‘liberatrice’ del 1014-18 […] e come
per questo stesso oro ci si prepara a massacrare certamente venti milioni di
uomini e storpiarne sessanta in una guerra [che si approssima].
Però, per quanto ‘giusto’,
per quanto utile, per quanto umano sarebbe questo impiego dell’oro […], ora occorre
risparmiare l’oro nella Russia sovietica, venderlo quanto più caro è possibile,
servirsene per acquistare al miglio prezzo possibile. Chi vive tra i lupi
impara a ululare”[15].
Ma
dal ricco occidente, in sostanza dall’altra parte dei fucili che restano
puntati contro l’Urss, ci sono anche voci di intellettuali che si alzano contro
la Nep e contro la deviazione presa dalla rivoluzione. Losurdo descrive quella
di Simone Weil[16],
che alla “lotta di classe” oppone posizioni populiste.
Come
tenterà con grande successo successivamente Deng Xiaoping, ma sulla base degli
avanzamenti di Mao, si tratta di essere concreti e sopravvivere. Per farlo attrarre
il capitale straniero senza dargli il potere, usare i tecnici, senza perdere il
controllo. Come dice Losurdo: “il capitalismo di Stato in una società in cui il
potere appartiene al capitale, e il capitalismo di stato in uno Stato
proprietario sono due concetti diversi”[17]. O, con le parole di Mao,
“la nostra politica attuale è di porre dei limiti al capitalismo e non di distruggerlo”.
Eppure,
lamenta il nostro, con l’eccezione di Arrighi[18], nessuno ha apprezzato
questo punto capitale nel giudizio sulla parabola cinese. Dalla ragione per la
quale questo avviene ripartirà infatti nella sua ultima opera.
La
questione, nella Nep come nella repubblica cinese, in termini propriamente
marxisti non è se esistono dei borghesi, o dei capitalisti, ma se questi
riescono a costituirsi come “classe per sé”[19].
In
definitiva sembra a Losurdo che vi sia una “oscillazione” in Marx; che in esso
convivano Fichte ed Hegel, una speranza rivoluzionaria ed un idealismo della
prassi. Inoltre, sia all’opera una decisa sottovalutazione della questione del
diritto, che ricompare nella teoria solo con Deng[20]. Così come è solo con i
cinesi che compaiono la faticosa riscoperta dell’utilità del mercato (oscurato
dall’abbandono della Nep) e la distinzione, cruciale tra ‘produzione mercantile’
e ‘produzione capitalista’. Ovvero la distinzione tra le contraddizioni
propriamente di classe (quando due o più classi per sé si contrappongono) e
le contraddizioni che non sono di classe. Il saggio del 1956 “Sulla
giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”[21], di Mao Tze Tung appare
decisivo in proposito. Ci torneremo.
Alla
fine della storia si è avuto il crollo del campo socialista, e “finalmente” è
potuto anche tornare il colonialismo[22], ovvero hanno potuto
essere rilanciati in grande stile i progetti imperiali e coloniali, mettendo fuori
gioco l’Onu e creando quell’insieme di meccaniche e rapporti di forza che
chiamiamo “globalizzazione”. In questo contesto la lotta di classe è stata
finalmente maledetta o rimossa (rispettivamente Hannah Arendt o Jurgen Habermas
per Losurdo). Nel secondo autore lo snodo che rende possibile considerarla finalmente
“obsoleta” è, semplicemente, il successo nella pacificazione sociale creata
dallo Stato Sociale novecentesco[23], e abbastanza paradossalmente
l’erosione della sovranità (ovvero della sua precondizione operativa).
Le
lotte di classe, dunque, si frammentano. Alcuni spezzoni prendono la via,
ambigua, del movimento femminista, altre quella del populismo, ovvero della “lotta
contro coloro che comandano” (Simone Weil)[24]. In altre parole, avendo
perso la prospettiva della liberazione concreta resta il rimpianto di una
mitica pienezza originaria e della trasfigurazione degli oppressi. In una certa
misura anche il culto del ribelle ne è espressione. Si puntano le carte su un
processo di autogratificazione e autoriconoscimento individuale che, in assenza
delle condizioni materiali del riscatto almeno ottiene quelle immateriali.
Dunque,
il populismo, per Losurdo, è visto come assolutizzazione di contraddizioni che invece
devono restare aperte per essere feconde; della dialettica masse/potere che viene
risolta con la condanna del potere in quanto tale. Ma la condanna del potere
implica inazione.
Questa
mossa ingenua indica alla fine solo l’incapacità di tracciare una linea di
demarcazione tra la rivoluzione e la controrivoluzione. E quindi la condanna in
blocco di ogni rapporto di divisione del lavoro e organizzazione. Condanna che,
essendo ineffettuale ed impossibile, si traduce necessariamente ed
esclusivamente nel rigetto delle forme politiche di divisione del lavoro ed
organizzazione, incluso quelle democratiche. Un rigetto che, per una necessità
stringente lascia passare, non viste, solo quelle che passano per codici non
linguistici, come il denaro.
La
condanna in blocco di rivoluzione e controrivoluzione, insomma, si presenta con
le vesti nascoste di quest’ultima.
[1] - Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”, Laterza 2017.
[2] - Si chiama “Concerto delle
nazioni”, l’accordo di fatto uscito dal Congresso di Vienna per il quale le
maggiori potenze europee, in particolare Russia ed Austria, si impegnavano a
soccorrersi a vicenda se fosse stato necessario, al fine di contenere e
reprimere altre rivolte o rivoluzioni. Questo accordo negli anni venti e trenta
fu onorato in molteplici occasioni, facendo marciare le truppe (in genere
austriache) ogni qual volta un governo cadeva sotto la spinta delle forze
liberali e progressiste.
[3] - Cfr, Richard Evans, “Alla conquista
del potere. Europa 1815-1914”, Laterza, 2020, p.220.
[4] - Losurdo, cit., p.15.
[5] - Ivi, p. 19.
[6] - Ivi, p.27.
[7] - Ivi, p.53.
[8] - Ivi, p.103.
[9] - Ivi, p.121.
[10] - Ivi, p.131.
[11] - Lettera a Karl Kautsky del 7
febbraio 2882.
[12] - Losurdo, cit., p.143.
[13] - Lenin, “Che fare?”, Editori
riuniti, 1968.
[15] - Lenin, “L’importanza dell’oro
oggi e dopo la vittoria completa del socialismo”, Opere complete, vol. 33,
p.96.
[16] - Losurdo, cit., p.200.
[17] - Ivi, p.223.
[18] - Giovanni Arrighi, “Adam
Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2009.
[19] - Scrivono Marx ed Engels nella “Ideologia
tedesca”: “i singoli individui formano una classe solo in quanto debbono
condurre una lotta contro un’altra classe; per il resto essi si ritrovano l’uno
di contro all’altro come nemici e concorrenti”, cit., p.235.
[20] - Losurdo, cit., p.247.
[22] - Come ebbe a dire il New York
Times nel 1993, cit in Losurdo, p.261.
[23] - Ivi, p.288.
[24] - Ivi, p 325.
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