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sabato 30 maggio 2020

Domenico Losurdo, “La lotta di classe”



  
Il libro di Domenico Losurdo è stato pubblicato nel 2013 e rappresenta in qualche modo l’estensivo scavo archeologico dal quale viene tratta la tesi storico-ricostruttiva ad ampio raggio presentata nella sua ultima opera, “Il marxismo occidentale[1]. La tesi di fondo è che la lotta di classe ha forme molteplici, includenti sia lo scontro tra lavoro e capitale nel luogo della produzione e nella società, sia quello per la liberazione dalle forme di oppressione presenti nel mondo e, finanche, quello tra nazioni.
I due padri del marxismo, ovvero Karl Marx e Friedrich Engels, nelle loro opere e lettere, non hanno mai espresso in modo sistematico la tesi che Losurdo cerca di desumere dal loro lavoro, ovvero la connessione tra liberazione della classe operaia e liberazione nazionale. Ciò è onestamente riconosciuto, ma lo storico ritiene svolga un ruolo centrale nel loro pensiero ed a tal fine compie una profonda operazione di ricostruzione, andandone ad individuare le tracce nei testi e nella complessiva storia del marxismo.



Questa è la tesi, per certi versi paradossale, ma reputo ben fondata, del testo.

I due processi di liberazione articolano le tre forme di emancipazione per le quali i due filosofi lavorano: la “emancipazione umana”, la “emancipazione politica” e la “emancipazione universale”. Questa triplice emancipazione è il prodotto di un’azione sviluppata durante diversi decenni e avendo sempre di mira una costante attenzione alla politica estera, pungolata dalla turbolenta politica internazionale del tempo. Tempo che va dall’assestamento post guerre napoleoniche alla crisi del 1848 e poi alla progressiva creazione dei blocchi di potere, con stati guida e stati satellite di interposizione, che condurranno alla Prima guerra mondiale.
Del resto, il più famoso appello legato al nome dei nostri: “proletari di tutti i paesi unitevi!”, che conclude il Manifesto del Partito Comunista, chiudeva anche, come ricorda Losurdo, l’indirizzo inaugurale della Associazione Internazionale del 1864, sedici anni dopo.

Cerchiamo di definire il contesto storico. Siamo in anni di grande trasformazione e turbolenza, nei quali l’assetto del mondo europeo uscito dalle guerre Napoleoniche, con il “concerto delle nazioni”[2] a guida austro-russa, fu prima messo sotto stress e poi rotto a seguito della guerra di Crimea e dei processi di State-building italiano e tedesco (rispettivamente anni cinquanta, sessanta e settanta). Inoltre, alcune questioni, come quella baltica e polacca, o quella irlandese, continuavano ad agitare variamente la scena. Ed infine era in corso in quegli anni l’estensione dell’industrializzazione nei paesi centro-europei con il suo seguito di trasformazioni e tensioni sociali. Sotto quest’ultimo profilo si disgregano, tra gli anni trenta e cinquanta, le corporazioni artigiane che perdono costantemente iscritti alla metà del secolo (salvo, in una prima fase, nel settore del lusso). A Berlino, ad esempio, nel 1840 ormai i tre quarti dei maestri artigiani, ovvero membri a pieno titolo delle corporazioni, per effetto della concorrenza dei modi di produzione di massa, non riuscivano più a pagare la quota base di associazione. Sono da queste forze (in particolare dai loro apprendisti e lavoranti) che si crea il nuovo proletariato di fabbrica nella prima fase, e non dal mondo contadino che, nel frattempo sta superando le forme di servitù e di legame alla terra. La stessa associazione che dà mandato di scrivere il “Manifesto”, nel 1848, la “Lega dei giusti”, poi rinominata in “Lega dei comunisti”, è alle sue origini sostanzialmente un’associazione di artigiani tedeschi trapiantati a Londra. Nella fase in cui si forma il pensiero sulle classi di Marx e Engels, questa lotta è in pieno svolgimento. In Francia per un certo periodo di tempo le vecchie corporazioni si trasformarono in associazioni semi-segrete di mutuo appoggio dette “compagnonnage[3], che coinvolsero qualcosa come centomila lavoratori. Queste associazioni di proto-sindacati erano però attraversate da enormi conflittualità inter-professionali ed interne e proprio nel 1848 ci fu un tentativo di unirle in un vero e proprio sindacato. Ma allo stato questi erano presenti solo in Gran Bretagna, anche se nella crisi della metà del secolo erano in ritirata. Tuttavia questa ritirata, ad esempio il fallimento dell’Associazione dei minatori della Gran Bretagna e dell’Irlanda costituita nel 1842 e forte di settantamila iscritti mostrò a molti che la soluzione era una più ampia rappresentanza politica. L’Associazione, come le altre di quel periodo sostanzialmente aveva un assetto mutualistico di tipo corporativo, cercava di ridurre la produzione per impedire il calo di prezzi e salari, e la sua crisi si era compiuta già nel 1848.
Più in generale, la crisi delle patate (aggredite da una malattia alla metà del secolo) e la diffusione dei prodotti industriali fecero sì che in tutti gli anni quaranta siano stati soprattutto gli artigiani specializzati, dotati di tradizioni solidaristiche e mutualistiche secolari (se pure corporative), ad avanzare richieste radicali. Nelle fabbriche vere e proprie, in cui un terzo degli addetti era formato da donne ed un quinto da bambini, le agitazioni erano invece meno pronunciate, per effetto del rischio di sostituzione e della scarsa propensione di quasi metà della forza lavoro all’organizzazione sociale e rivendicativa. Fa in qualche modo caso a parte la rivolta della Slesia (osservata anche dal giovane Marx) del 1844. I tessitori a mano, che erano in precedenza artigiani autonomi, vedendo peggiorare status e reddito per la concorrenza dell’industria meccanica, presero d’assalto la dimora degli Zwanzinger (ricchi mercanti locali) e ci furono undici morti. Cominciò a formarsi nella critica una “classe” unica che designa il maestro artigiano impoverito, il lavoratore di fabbrica che spesso è un ex artigiano, il minatore ed il lavoratore salariato urbano. La “classe operaia” è quindi una costruzione concettuale che si mette a fuoco esattamente negli anni in cui Marx ed Engels allargano la loro percezione politica e frequentano i circoli socialisti della diaspora tedesca e francese (seguendo la dinamica delle espulsioni politiche). Tra la metà degli anni quaranta e il ventennio successivo. Nello stesso periodo, nella più evoluta Gran Bretagna giungono alla crisi le impostazioni meramente corporative e tradizionali e le forme di mobilitazioni proto-sindacali o “cartiste”. Il forte focus che nella teoria viene attribuito a questo tema è storicamente determinato.

D’altra parte, l’altra grande forza del secolo è il nazionalismo. Negli anni trenta la repressione della spinta autonomistica della Polonia, da parte della Russia, aveva avuto successo, ma nel 1846 scoppiò una nuova rivolta in Galizia. Bande contadine, guidate da Jakub Szela, distrussero cinquecento dimore signorili e mozzarono la testa degli occupanti. Le conseguenze della rivolta, sedata dall’esercito austriaco, furono una sorta di chiamata all’azione. Il 1848 fu mosso da questo insieme di fattori: la presenza di studenti enormemente cresciuti di numero, ma incerti sul proprio futuro, di classi artigiane che sentivano la concorrenza dell’industria britannica, ed il crollo della domanda con conseguenti licenziamenti e fallimenti. Tutte le capitali che furono il fulcro delle rivolte erano anche centri industriali o proto-industriali in crisi. Ma queste condizioni attivanti incontrarono il loro limite sia nelle contraddizioni di classe e ceto, e relativi obiettivi, sia nelle contraddizioni tra opposte rivendicazioni di autonomia nazionale. In particolare, nell’area centroeuropea e nell’impero multinazionale austriaco. In Ungheria, ad esempio, croati, serbi, slovacchi, sassoni e romeni si scontrarono con la maggioranza magiara. Tra i nazionalisti ungheresi si aprì un dibattito tra marginalizzazione e assimilazione. La rivolta delle minoranze, contro il governo rivoluzionario magiaro, fece alla fine leva su Vienna, dando seguito a jacquerie, milizie e veri e propri scontri tra eserciti, che provocarono quarantamila morti. Inoltre, la mobilitazione nazionalista contagiò anche Moldavia e Valachia, formalmente russe e ottomane, che intervennero con decisione.
La linea di conflitto tra radicali e liberali moderati, invece, si manifesterà, insieme a quella tra liberali e conservatori per l’intero secolo. Una delle più evidenti manifestazioni si ha nella chiamata di Luigi Napoleone Bonaparte, esule a Londra. Entro l’anno successivo la rivoluzione era rifluita.
Ma dal 1850 al 1870, anni formativi essenziali per il consolidamento della posizione politica dei fondatori, ai vecchi politici reazionari come il Principe di Metternich vengono sostituiti uomini più sensibili alle ragioni liberali come Cavour, Bismarck, Napoleone III e Disraeli. Uomini che si sforzarono a loro modo di cooptare le masse e sfruttare il nazionalismo. Questa situazione è quella nella quale la guerra di Crimea indebolisce fortemente gli imperi come quello russo, austriaco e ottomano e rilancia la Francia. Più in particolare la crisi del ’57 colpì ulteriormente l’Austria e aprì la finestra di opportunità nella quale si inserì, con il decisivo appoggio inglese, la risoluzione della questione italiana. Ma negli anni sessanta ci fu anche un’ulteriore rivolta polacca che attirò consensi in tutta Europa e sollevò la riprovazione di tutte le personalità della sinistra radicale, da Marx a Garibaldi. Naturalmente i polacchi furono egualmente schiacciati dai russi. Seguirono le guerre tedesche, prima con l’Austria e poi con la Francia, e la formazione della federazione intorno alla Prussia. Qui cadde la vicenda, cruciale per la formazione della teoria, della “Comune di Parigi”, intorno alla quale esperienza viene a termina l’agitazione giacobina e si affermò quella socialista.

In grandissima schematizzazione questo è il contesto.

Fuori dell’Europa ci furono la repressione della rivolta dei Boxer in Cina e dell’India occupata dagli Inglesi, la questione degli schiavi e la guerra civile in America.


I testi di questo periodo, “Il Manifesto” e “La miseria della filosofia”, denunciano lo sfruttamento del lavoro, che condanna la nascente classe operaia allo sfruttamento ma al contempo denunciano “lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”[4], cioè, come scrive Marx ne “La miseria”: “lo sfruttamento che ha luogo tra i popoli”. Questo specifico sfruttamento, nel caso della Polonia come in quello dell’Irlanda, “costituisce una delle principali fonti della ricchezza materiale” dei paesi sfruttatori. Ancora, nel 1849, in “Lavoro salariato e capitale”, si interroga su quelli che chiama “i rapporti economici che formano la base materiale delle attuali lotte di classe e nazionali”.

Questo è il termine che salta agli occhi attenti di Losurdo. È un plurale: “lotte di classe”. Il commento è netto: “lotte di classe. Il plurale non sta a denotare la ripetizione dell’identico, il continuo ricorrere nella medesima forma della medesima lotta di classe; no, il plurale rinvia alla molteplicità delle configurazioni che può assumere la lotta di classe”[5]. Un plurale che quindi include anche le lotte per l’emancipazione delle donne e razziali, e quelle nazionali. Quindi sono almeno quattro i movimenti che agitano la società del tempo e sono considerati emancipatori da Marx ed Engels: il movimento operaio, quello femminista e quello abolizionista. A questi si aggiunge, nelle appropriate condizioni, quello nazionale.
L’insieme di queste quattro istanze, con le loro complessità (le lotte nazionali, come accade in Ungheria, possono essere le une contro le altre agite, e possono anche essere utilizzate dalla reazione, ma, del resto anche le lotte operaie possono essere cooptate e quelle abolizioniste si intrecciano in modo complesso con l’emancipazione operaia), generano una condizione per la quale: “la lotta di classe non si presenta quasi mai allo stato puro, quasi mai si limita a coinvolgere i soggetti direttamente antagonisti; soprattutto, è proprio grazie a questa mancanza di ‘purezza’ che essa può sfociare in una rivoluzione sociale vittoriosa”[6].

In opposizione ai paradigmi alternativi, proposti dalle varie frazioni della borghesia liberale e dai movimenti socialisti concorrenti, come quello di Le Bon, Bentham, Tocqueville, ma anche di Proudhon e Bakunin, Marx ed Engels, per Losurdo, mettono proprio per questo a punto una teoria generale del conflitto sociale sotto l’etichetta di “lotta di classe”. Una etichetta necessariamente sfocata. Ciò perché il conflitto si propone sempre sul terreno della storia e non può essere definito a priori in una teoria. Deve tenere conto delle molteplici forme in cui si presenta e della sua intrinseca ambiguità. Come scrive Losurdo:

la vita è caratterizzata da un’infinità di conflitti che si sviluppano tra gli individui per le più diverse ragioni, ma qui si tratta di analizzare i conflitti che vedono come protagonisti non i singoli individui bensì soggetti sociali e che, in modo diretto o indiretto, immediato o mediato, rinviano all’ordinamento sociale, a questa o a quella essenziale articolazione della divisione del lavoro e dell’ordinamento sociale[7].

Le ‘lotte di classe’ sono, quindi, delle lotte per il riconoscimento che concretizzano un universale determinato e concreto. Un approccio piuttosto diverso dal naturalismo giuridico coevo, che funziona come giustificazione dell’ordinamento esistente. L’operazione che compiono i fondatori è, insomma, di fondazione di una sorta di umanesimo positivo che passa attraverso la critica dei processi di reificazione, ma la definisce nella concretezza della lotta. Si tratta di un intreccio inestricabile di punto di vista ‘scientifico’, che si propone come oggettivo, e di condanna morale. È proprio quest’ultima, la condanna morale, in primo luogo, e non la componente scientifica che spiega, per Losurdo, l’appello alla rivoluzione. Questo è, per Marx, una sorta di imperativo categorico.
Ciò significa che, malgrado le letture prevalenti, la teoria del conflitto, ovvero della ‘lotta di classe’, non è solo economicista, ma eminentemente storica e necessariamente plurale. La lotta per il riconoscimento non è solo liberazione dalla reificazione (che non è solo del proletariato, ma coinvolge anche la borghesia[8]), ma più profondamente lotta per la conquista dell’autostima. E questo è uno degli effetti che transita dagli individui ai popoli. L’oppressione dei popoli si manifesta, infatti, nello stato di schiacciamento e soggezione, sempre anche come carenza di autostima. È questa che impedisce la reazione.

Il libro di Losurdo insiste nel superare, nell’analisi del significato della lotta di classe, quella che chiama la “logica binaria”, e che talvolta si registra anche in Marx stesso. Una lettura, cioè, che vede solo contraddizione semplice nel conflitto sociale (opponendo, ad esempio, ricchi a poveri) e non consente di comprendere nella loro intera estensione i movimenti di emancipazione. Una emancipazione la cui base sociale non è costituita esclusivamente dai poveri, ed il cui tema non è esclusivamente la ricchezza.
Così come, al contrario, talvolta i poveri si fanno cooptare dal “socialismo imperiale” che al suo tempo mise a punto Disraeli quando andò al potere. L’imperialismo, costringendo i popoli a sottostare al rapporto di estrazione coloniale, spegneva infatti la lotta di classe nei lavoratori, consentendo la distribuzione di un piccolo “dividendo” (sia economico sia di autostima). È questo il senso in cui la lotta di classe tra le nazioni poteva entrare in conflitto con la lotta di classe entro la nazione. Disraeli, campione dell’imperialismo e del diritto delle razze superiori, porta il conflitto ad un altro livello.
Ecco che si comprende come non sia questione di semplice distribuzione; come scrive Losurdo: “ben lungi dallo scaturire da una presunta evidenza empirica, la presa di coscienza rivoluzionaria presuppone la comprensione dei rapporti politici e sociali che vanno ben al di là del conflitto tra borghesia e proletariato”[9]. Può capitare e capita che le lotte di liberazione, di “classe” contro “classe” a livello planetario, possano coinvolgere anche classi sociali che localmente non sono oppresse. Bisogna quindi indagare, con attenzione ed individualmente, la configurazione interna di ciascun conflitto, ma anche il modo in cui si questo articola, si struttura.

Può persino accadere che il riconoscimento dell’autodeterminazione a un popolo rafforzi il nemico principale del movimento di liberazione dei popoli oppressi presi nel loro complesso: non si deve perdere di vista il conflitto delle libertà che può insorgere. In altre parole, occorre sì respingere la mutilazione delle lotte di classe, ma ciò non significa ignorare il problema per cui una situazione storica (e soprattutto una grande crisi storica) può costringere a una gerarchizzazione delle lotte di classe[10].

Alcuni esempi sono il problema della guerra di secessione, o quello della vicenda ungherese. Ciò che va compreso non è la posizione astratta dei singoli attori, ma il complessivo conflitto delle libertà. Una categoria analitica, questa, di grande potenza esplicativa. Il giudizio di un conflitto per il riconoscimento, o per la libertà, può scaturire solo dall’analisi concreta della situazione concreta, storicamente data, e osservando il funzionamento complessivo dei giochi attivati tra i diversi attori, nonché gli effetti su di essi. Talvolta una lotta per la liberazione è, allo stesso momento o per i suoi effetti, lotta per lo schiacciamento e l’oppressione di altri e va ricondotta, quindi, ai suoi effetti complessivi e sistemici per essere giudicata.
Ma se si supera la logica binaria, cosa ne è dell’internazionalismo? Se questo fosse letto astrattamente come lo scontro puro tra una ‘controrganizzazione internazionale del lavoro’ contro una ‘cospirazione cosmopolita del capitale’, allora il significato sarebbe immediatamente evidente. Ma il quadro, anche in questo caso, esce dalla logica binaria e si complica. Tenendo conto della molteplicità delle lotte di classe, in particolare della questione nazionale (ovvero coloniale), la solidarietà da mobilitare talvolta è riferita ad una singola classe sociale, talaltra ad un popolo nel suo complesso, quando questo si trova a lottare contro quello che Marx nomina come “lo sfruttamento di una nazione da parte dell’altra”.
Può sembrare in contraddizione con lo slogan del 1848, e c’è in effetti una tensione, ma la lettura larga che Losurdo compie delle fonti gli consente di sottolineare un semplice fatto. Immaginare un fronte di lotta trasversale ed omogeneo, che attraversi così, semplicemente ed una volta per sempre, il campo della lotta internazionalista ricade nella stessa critica che Marx stesso, negli anni successivi, avanza verso Louis Blanc. Questi identificava nel suo proprio popolo, quello francese, l’incarnazione del cosmopolitismo (meritandosi l’appellativo di “democratico imperialista” che si atteggia a rivoluzionario). Oppure la critica del “cinismo da cretino” di Proudhon, che condannava la lotta polacca in quanto “nazionalista”. Alla fine, Engels, nel 1882, ne concluderà che “un movimento internazionale del proletariato è possibile solo tra nazioni indipendenti”[11], in quanto una “sincera cooperazione” è possibile solo tra eguali.
In altri termini, data la necessità di superare i rapporti di dipendenza e soggezione, quando il proletariato polacco si mette alla testa della lotta di indipendenza nazionale, portando con sé anche le altre classi, allora svolge con questo solo fatto un “ruolo internazionalista”. Il ruolo internazionalista ha basi oggettive, e non soggettive, perché getta le fondamenta necessarie per una cooperazione diversamente impossibile. Fino a che i paesi sono connessi con una catena di sfruttamento e disprezzo le classi dominanti hanno buon gioco, negli uni e negli altri, di cooptare quelle subalterne distribuendo una parte del ‘dividendo’ del dominio. Ovvero una quota di risorse estratte, sotto forma di migliori salari estratti dalle ragioni di scambio istituite con le colonie (minor prezzo delle materie prime, o del lavoro importato, e maggior prezzo dei prodotti esportati nei mercati ‘captivi’) e, probabilmente principalmente, una parte del senso di superiorità implicato nel rapporto di dominio. Questa strategia di controllo, che al tempo di Marx è messa a punto dai politici della seconda generazione, Disraeli e Napoleone III, ma anche Bismarck, impedisce la rivoluzione nei paesi avanzati e perpetua le condizioni di schiavitù negli uni e negli altri. È, quindi, il vero nodo della situazione, qualunque lotta internazionalista passa di qui.

Il passaggio è cruciale, come scrive Engels: “senza l’autonomia e l’unità restituite a ciascuna nazione europea non è possibile l’unione internazionale del proletariato”. Quindi in Europa due nazioni “hanno il dovere di essere nazionali prima che internazionali”, queste sono le nazioni schiacciate colonialmente, ed il cui sfruttamento di fatto impedisce la presa di coscienza delle proprie catene anche al proletariato dei paesi dominanti. Quindi l’Irlanda e la Polonia. Il vero sciovinismo è rappresentato dal cosiddetto “internazionalismo repubblicano” nei paesi imperialisti.
Come scrive, in conclusione, Losurdo:

E’ una regola generale: allorché ignora la questione nazionale, l’internazionalismo si rovescia del suo contrario; la rimozione delle particolarità nazionali in nome di un astratto ‘internazionalismo’ rende più facile per una nazione determinata di presentarsi come l’incarnazione dell’universale, e in ciò per l’appunto consiste lo sciovinismo e anzi lo sciovinismo più esaltato[12].

Questa lettura delle radici del marxismo prosegue a partire dal capitolo “Passaggio a sud-est”, con una più netta focalizzazione del rapporto complesso, ma necessario, tra questione nazionale e lotta di classe, condotta, come sarà più compiutamente fatto nel suo ultimo libro, focalizzando l’esperienza teorica e pratica del leninismo. Si parte dal “Che fare?[13], nel quale viene analizzato il successo del capitalismo imperiale e l’impatto delle tecniche propagandistiche sulle masse. Lenin critica il sindacalismo e fa appello all’intelligenza critica sottolineando l’enorme importanza della questione nazionale, facendosi al contempo, beffa della “rivoluzione allo stato puro” che mai si incontra nella pratica. La direzione della lotta può scaturire solo da un’analisi concreta della situazione concreta. La formula diventa, “proletari di tutti i paesi unitevi, e popoli oppressi del mondo intero unitevi”. In occasione del Congresso dei popoli d’oriente, del 1920, il socialismo viene connesso, da Lenin ed organicamente, con la liberazione su larga scala dai vincoli coloniali[14]. Qui si innesta, in sostanza, una duplice lotta per il riconoscimento.

Questa impostazione viene confermata ed approfondita anche da Mao Tze Tung, e dalla vittoriosa rivoluzione anticoloniale, nazionalista e socialista cinese. Si afferma la piena identità della lotta nazionale, contro l’oppressione ed umiliazione coloniale occidentale o giapponese, e della lotta di classe. Ma la lotta è anche “di classe” in un terzo senso, dei quattro indicati inizialmente: è anche di razza. Cosa che si manifesta in evidenza nella lotta sovietica contro il nazismo, che avrebbe voluto ridurre i popoli slavi allo stato di schiavitù.  
In una delle sezioni più interessanti del libro Losurdo descrive le lotte interne che Lenin ha dovuto superare, contro la sinistra parolaia, attardata sullo slogan inattuale dell’estinzione dello Stato, e finanche del denaro, e le forme meno plausibili di ascetismo universalista (il ‘cattivo’ universalismo, astratto) e di rozzo egualitarismo. Alcuni esempi sono le polemiche con Lazorevic, o quello che Lenin chiama “l’ascetismo cristiano con vernice socialista”. Qualcosa che punta a collettivizzare la miseria, mentre il tema, anche di sopravvivenza della rivoluzione, è piuttosto di porre rimedio alla fame. Per farlo serve sia andare a scuola dai paesi occidentali, per imparare a gestire una società industriale, sia cooptare parte dei tecnici “borghesi”.
Scriverà lo stesso Lenin nel 1922:

quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine nelle vie di alcune delle più grandi città del mondo. Questo sarebbe l’impiego più ‘giusto’ e più evidentemente edificante che si possa fare dell’oro, per le generazioni che non hanno scordato come per l’oro furono massacrati dieci milioni di uomini e altri trenta furono storpiati nella ‘grande’ guerra ‘liberatrice’ del 1014-18 […] e come per questo stesso oro ci si prepara a massacrare certamente venti milioni di uomini e storpiarne sessanta in una guerra [che si approssima].
Però, per quanto ‘giusto’, per quanto utile, per quanto umano sarebbe questo impiego dell’oro […], ora occorre risparmiare l’oro nella Russia sovietica, venderlo quanto più caro è possibile, servirsene per acquistare al miglio prezzo possibile. Chi vive tra i lupi impara a ululare[15].

Ma dal ricco occidente, in sostanza dall’altra parte dei fucili che restano puntati contro l’Urss, ci sono anche voci di intellettuali che si alzano contro la Nep e contro la deviazione presa dalla rivoluzione. Losurdo descrive quella di Simone Weil[16], che alla “lotta di classe” oppone posizioni populiste.

Come tenterà con grande successo successivamente Deng Xiaoping, ma sulla base degli avanzamenti di Mao, si tratta di essere concreti e sopravvivere. Per farlo attrarre il capitale straniero senza dargli il potere, usare i tecnici, senza perdere il controllo. Come dice Losurdo: “il capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e il capitalismo di stato in uno Stato proprietario sono due concetti diversi”[17]. O, con le parole di Mao, “la nostra politica attuale è di porre dei limiti al capitalismo e non di distruggerlo”.
Eppure, lamenta il nostro, con l’eccezione di Arrighi[18], nessuno ha apprezzato questo punto capitale nel giudizio sulla parabola cinese. Dalla ragione per la quale questo avviene ripartirà infatti nella sua ultima opera.
La questione, nella Nep come nella repubblica cinese, in termini propriamente marxisti non è se esistono dei borghesi, o dei capitalisti, ma se questi riescono a costituirsi come “classe per sé”[19].

In definitiva sembra a Losurdo che vi sia una “oscillazione” in Marx; che in esso convivano Fichte ed Hegel, una speranza rivoluzionaria ed un idealismo della prassi. Inoltre, sia all’opera una decisa sottovalutazione della questione del diritto, che ricompare nella teoria solo con Deng[20]. Così come è solo con i cinesi che compaiono la faticosa riscoperta dell’utilità del mercato (oscurato dall’abbandono della Nep) e la distinzione, cruciale tra ‘produzione mercantile’ e ‘produzione capitalista’. Ovvero la distinzione tra le contraddizioni propriamente di classe (quando due o più classi per sé si contrappongono) e le contraddizioni che non sono di classe. Il saggio del 1956 “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo[21], di Mao Tze Tung appare decisivo in proposito. Ci torneremo.

Alla fine della storia si è avuto il crollo del campo socialista, e “finalmente” è potuto anche tornare il colonialismo[22], ovvero hanno potuto essere rilanciati in grande stile i progetti imperiali e coloniali, mettendo fuori gioco l’Onu e creando quell’insieme di meccaniche e rapporti di forza che chiamiamo “globalizzazione”. In questo contesto la lotta di classe è stata finalmente maledetta o rimossa (rispettivamente Hannah Arendt o Jurgen Habermas per Losurdo). Nel secondo autore lo snodo che rende possibile considerarla finalmente “obsoleta” è, semplicemente, il successo nella pacificazione sociale creata dallo Stato Sociale novecentesco[23], e abbastanza paradossalmente l’erosione della sovranità (ovvero della sua precondizione operativa).
Le lotte di classe, dunque, si frammentano. Alcuni spezzoni prendono la via, ambigua, del movimento femminista, altre quella del populismo, ovvero della “lotta contro coloro che comandano” (Simone Weil)[24]. In altre parole, avendo perso la prospettiva della liberazione concreta resta il rimpianto di una mitica pienezza originaria e della trasfigurazione degli oppressi. In una certa misura anche il culto del ribelle ne è espressione. Si puntano le carte su un processo di autogratificazione e autoriconoscimento individuale che, in assenza delle condizioni materiali del riscatto almeno ottiene quelle immateriali.

Dunque, il populismo, per Losurdo, è visto come assolutizzazione di contraddizioni che invece devono restare aperte per essere feconde; della dialettica masse/potere che viene risolta con la condanna del potere in quanto tale. Ma la condanna del potere implica inazione.
Questa mossa ingenua indica alla fine solo l’incapacità di tracciare una linea di demarcazione tra la rivoluzione e la controrivoluzione. E quindi la condanna in blocco di ogni rapporto di divisione del lavoro e organizzazione. Condanna che, essendo ineffettuale ed impossibile, si traduce necessariamente ed esclusivamente nel rigetto delle forme politiche di divisione del lavoro ed organizzazione, incluso quelle democratiche. Un rigetto che, per una necessità stringente lascia passare, non viste, solo quelle che passano per codici non linguistici, come il denaro.

La condanna in blocco di rivoluzione e controrivoluzione, insomma, si presenta con le vesti nascoste di quest’ultima.


[1] - Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”, Laterza 2017.
[2] - Si chiama “Concerto delle nazioni”, l’accordo di fatto uscito dal Congresso di Vienna per il quale le maggiori potenze europee, in particolare Russia ed Austria, si impegnavano a soccorrersi a vicenda se fosse stato necessario, al fine di contenere e reprimere altre rivolte o rivoluzioni. Questo accordo negli anni venti e trenta fu onorato in molteplici occasioni, facendo marciare le truppe (in genere austriache) ogni qual volta un governo cadeva sotto la spinta delle forze liberali e progressiste.
[3] - Cfr, Richard Evans, “Alla conquista del potere. Europa 1815-1914”, Laterza, 2020, p.220.
[4] - Losurdo, cit., p.15.
[5] - Ivi, p. 19.
[6] - Ivi, p.27.
[7] - Ivi, p.53.
[8] - Ivi, p.103.
[9] - Ivi, p.121.
[10] - Ivi, p.131.
[11] - Lettera a Karl Kautsky del 7 febbraio 2882.
[12] - Losurdo, cit., p.143.
[13] - Lenin, “Che fare?”, Editori riuniti, 1968.
[15] - Lenin, “L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo”, Opere complete, vol. 33, p.96.
[16] - Losurdo, cit., p.200.
[17] - Ivi, p.223.
[18] - Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2009.
[19] - Scrivono Marx ed Engels nella “Ideologia tedesca”: “i singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta contro un’altra classe; per il resto essi si ritrovano l’uno di contro all’altro come nemici e concorrenti”, cit., p.235.
[20] - Losurdo, cit., p.247.
[21] - Si veda qui.
[22] - Come ebbe a dire il New York Times nel 1993, cit in Losurdo, p.261.
[23] - Ivi, p.288.
[24] - Ivi, p 325.

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