Su
“La fionda” si sta svolgendo un dibattito di grande interesse che ha
preso avvio il 21 maggio con un articolo[1] di Rolando Vitali, per poi
alimentarsi in particolare con il denso articolo[2] di Diego Melegari e
Fabrizio Capoccetti del 27 maggio, e al momento concludersi con il pezzo[3] del 4 giugno di Lorenzo
Biondi. La posta di questo scambio è l’analisi strategica del presente e delle
forze che in esso si muovono, e quindi l’identificazione delle azioni politiche
e relative alleanze. Dunque, è una posta di primaria importanza.
Per
confrontarsi con queste posizioni bisognerà ricostruire gli argomenti portati,
in particolare dall’articolo centrale, e descrivere cosa sta accadendo in
questa fase, quale è la forza che muove la situazione, come si può tentare di
reagire ad essa.
Parte
prima: l’argomentazione.
L’articolo
di Melegari e Capoccetti, che svolge un ruolo centrale di sistemazione delle
analisi e dei concetti, muove dal corretto sentore di un disastro incombente
sul paese per dedurne l’urgenza di un’azione e, insieme, da quella che chiama “asfissia
politica” dell’area del sovranismo costituzionale, democratico e di
ispirazione socialista, al quale sente di appartenere. Ed al quale sono
diretti, di converso, gli strali polemici di Vitali. Chiama “asfissia”, ovvero
la mancanza di fiato e quindi di vita, “politica” la condizione nella quale si respinge
l’energia vitale degli unici che effettivamente si muovono. Questa mossa è
prodotta, a loro parere, da una non ben chiara, ritrosia a comprendere, o ad
accettare, che la presunta dicotomia tra la piccola borghesia ed i ceti dei lavoratori
dipendenti proletari sia stata ormai definitivamente superata, o almeno
confusa, dalle trasformazioni neoliberali seguite al crollo del “compromesso
keynesiano”. La tesi dei nostri è che i due segmenti sociali non sono più
analiticamente e operativamente distinguibili, o non sono più identificabili
come opposti[4].
La questione del rigetto nascerebbe comunque dalla tendenza della piccola
borghesia a “intese neocorporative”[5] che saldano la prospettiva
di salariati e proprietari. Come sul punto si esprime Vitali. Per Vitali questa
intesa sarebbe, infatti, orientata a riaffermare una sorta di “keynesismo
nazionale”, rivolto alla protezione della media borghesia ma non del lavoro. O,
per dirlo in un altro modo, l’egemonia è saldamente tenuta dalla borghesia. In
questa parte della ricostruzione e critica di Melegari e Capoccetti all’articolo
di Vitali c’è una certa indeterminazione terminologica che è segno della
scivolosa natura dei ceti e gruppi sociali che si nomina. In primo momento,
come risalta dal titolo, sono nominati i “ceti medi impoveriti, micro e piccoli
imprenditori, commercianti, bottegai”, in un secondo l’intesa “neocorporativa”
è attribuita espressamente a “salariati” (che nello schema marxiano sono
proletari) nella loro connessione e solidarietà con i “proprietari”, infine, genericamente
alla “classe media”[6].
Come
sia, il problema politico è che queste frazioni di ceto, nominate,
spontaneamente confluiscono a dare forza a settori di destra del quadro
politico. E Vitali ne conclude che occorre abbandonarle, per ripristinare la
condizione della “autonomia”[7] che porti ad un “nuovo
modello sociale”, ponendo nuovamente la questione della gestione democratica
dei mezzi di produzione, ovvero la questione dei consigli di fabbrica e
produzione (o quella dei soviet).
Non
è difficile segnalare giustamente l’afasia di questa posizione da parte di
Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti.
Ma
quale è, allora, la via di uscita da questi dilemmi?
I nostri muovono dall’empirica confusione tra lavoratori salariati, organizzati
dal capitale, e piccole borghesie, anche esse in relazione di subalternità con
lo stesso. Una dicotomia che, appunto, non è più attuale.
Di
qui si slitta direttamente, sotto l’impressione iniziale (come vedremo immediatamente
decisiva nella prospettiva dei nostri) del fatto che a mobilitarsi oggi sono solo
i ceti medi impoveriti, alla denuncia dell’avvenuto disciplinamento degli
“strati sociali strettamente legati al campo produttivo”, e di quelli “più
direttamente coinvolti nel funzionamento dell’amministrazione pubblica”. Non si
muovono proprio perché più disciplinati[8]. Si tratterebbe di strati
educati nel tempo ad aderire “alla soggettivazione imprenditoriale”. E
si aggiunge, che “l’esercito proletario è stato sparpagliato per meglio
disciplinarlo”[9].
In
questo snodo decisivo dell’argomentazione avviene un curioso
rovesciamento. Prendendo le mosse dall’impressione fattuale immediata
dell’effettiva prevalenza dell’attivismo dei ceti medi impoveriti e disconnessi
parzialmente (l’enorme esercito dei precari, dei finti autonomi, dei
professionisti proletarizzati, dei disoccupati di fatto), si pone il problema
dell’inattività degli altri ceti subalterni. Il rompicapo viene risolto
passando sotto accusa la maggiore organizzazione, interpretata come
connessione, via sindacato. Quindi il lavoro “buono” e continuo, se pur povero,
viene descritto sorprendentemente come più sensibile alla
“imprenditorializzazione”. E questa, infine, viene identificata come l’arma
inattivante principale. Dunque, cade la conclusione: “mentre la piccola
borghesia impoverita sembra effettivamente esprimersi nel registro dell’egoismo
corporativo, per questi strati di lavoro dipendente la mera difesa degli
interessi immediati, molti dei quali sarebbero in linea teorica facilmente
collegabili ad una strategia anti-globalista e anti-unionista, appare quasi uno
scenario utopico”. Insomma, si muovono gli unici che possono muoversi.
Questa
considerazione è forse lo specchio del fatto che, fino ad ora, l’area del
sovranismo costituzionale democratico e di ispirazione socialista è stato
egemonizzato, in termini di composizione di classe, proprio da questi ceti
intermedi indeboliti.
E
la conferma empirica di questa conclusione controintuitiva, che chiude un
problema, viene trovata nel fatto che il movimento di questi ceti era alla base
della fiammata di consenso del M5S e in parte della Lega nel 2018. Staccandosi
dalla sinistra globalista (e dalla destra altrettanto legata all’establishment
europeista) questi segmenti, che portarono al sud il voto al 5S a percentuali
mai viste in Italia, avrebbero insomma scelto un posizionamento di classe,
senza averne coscienza. Le istanze di protezione e le difese identitarie a
fronte del rischio percepito di ‘indigenizzazione’[10], sarebbero dunque il
terreno di un “immediato posizionamento di classe”.
Insomma,
per Melegari e Capoccetti, di qui si parte. Dal disagio e
dalla periferia, si potrebbe dire, e non dai ceti ancora garantiti, che sono il
residuale bacino di elezione delle sinistre[11].
Possiamo
proporre un’interpretazione alternativa, ma prima torniamo un attimo indietro.
Nel complesso discorso dei nostri, quale problema rendeva necessaria la mossa
di attribuire ai lavoratori salariati (i cosiddetti “proletari”) l’orientamento
alla soggettivazione imprenditoriale e, di converso, ai ceti medi
“bottegai”, il ruolo di nucleo centrale della “maggioranza atomizzata” che va
portato dalla propria parte perché strategico? Quello che fattualmente esiste
nelle formazioni attive, anche se talvolta solo sui social, questa
composizione. La dissonanza si risolve, attribuendo all’inerzia dei lavoratori
“forti” (che poi lo sono sempre meno) un carattere inibente neoliberale. È,
insomma, un artificio retorico che copre un paradosso: si muovono coloro che
sono più lontani e meno quelli che in teoria sono più vicini, per posizione
strutturale, a richiedere il superamento dell’inibizione neoliberale del ruolo
del pubblico[12].
Se
si accetta, però, la spiegazione posta ne deriva per gli autori che è
“assolutamente strategico” portare dalla propria parte proprio questi, direi per
primi questi (se non solo). In quanto solo così si può lottare “per” il
potere dello Stato. Ovvero, in un altro passaggio-snodo dell’argomento, con lo Stato
come campo del potere. Qui cade lo sguardo.
L’equazione
è lineare: i ceti che si muovono sono i soli che possono farlo e, dato che
l’obiettivo è prendere il potere, bisogna stare con loro[13].
Ma,
non sfugge agli autori, che se si deve passare di qui, allora non si può porre
la questione del potenziamento di Stato e servizio pubblico. I “bottegai” lo
odiano, e la rigetterebbero, facendo venir meno la strategia di presa del
potere. Allora bisogna aggirare il punto, articolando il discorso piuttosto
sulla “nazione”, come dicono, “come forma di integrazione sociale”. Non è molto
chiara, ma procediamo.
Inoltre,
qui risorge la lezione di Ernesto Laclau e la cultura degli autori: la
rivoluzione neoliberale avrebbe reso ormai insuperabile la destrutturazione dei
corpi collettivi, e quindi ciò, in qualche modo, dissolverebbe anche “la
distinzione e la dialettica tra interesse corporativo e interesse generale” e
l’articolazione ascendente tra “lotta sociale e costruzione politica”. Come è
lo Stato ad avere un potere in sé, che si può prendere, ed usare, nello stesso
modo le maggioranze sociali sono formate dalla politica, ovvero
dall’affermazione di una politica. Qui, in questa concezione specifica del
politico, è, in altre parole, incorporata una concezione interamente
strumentale delle maggioranze sociali, o, per dirlo diversamente, lo
schiacciamento diretto e totale delle maggioranze sociali in maggioranze
politiche.
Compare
qui, in posizione operativamente strategica, la nozione di “catene
equivalenziali”, come commistione, sporcatura, mescola, di interessi eterogenei
e anche opposti, intorno ad una retorica di successo ed una adeguata narrazione
e rappresentazione. Serve a tenere insieme, per il tempo che basta: chi odia lo
Stato e chi, invece, lo vuole potenziare; chi vuole ascendere alla posizione
dalla quale può nuovamente, e finalmente, sfruttare il lavoro debole (di
commessi, impiegati, operai) per vincere la lotta della vita e raggiungere il
proprio posto in essa, e chi, magari, vorrebbe ridurre il proprio grado di
sfruttamento e guadagnare condizioni di lavoro più dignitose; chi ha bisogno di
indebolire il lavoro per sfruttarlo e chi questo lavoro lo presta; chi abita le
periferie e chi ne fugge disperatamente; chi si sente in basso e chi in alto.
Per
quanto tempo? Anche poco, poiché detta il tempo il calendario politico. Il
tempo di lottare “per” lo Stato, e non “nello” stesso, abbiamo letto.
Potrebbe
essere qui la chiave per comprendere una frase altrimenti oscura come la
dissoluzione de la “la distinzione e la dialettica tra interesse corporativo e
interesse generale”. L’interesse generale, perseguito e raggiunto vincendo la
gara (elettorale) “per” lo Stato,
viene raggiunto anche funzionalizzando forze corporative al di là della loro
stessa natura e scopi[14].
L’articolo
ha una sua coerenza interna piuttosto chiara, ma regge su alcune inavvertite
forzature. Il superamento della dicotomia, strutturale si direbbe, tra classi
lavoratrici poste alla base della piramide sociale e i ceti intermedi, o per
usare il termine la “piccola borghesia”, è dichiarata come conseguenza del
crollo del cosiddetto “compromesso keynesiano”. Tuttavia, egualmente, viene
dichiarato che dei due segmenti che non sarebbero più analiticamente
distinguibili (ma dei quali si muove solo uno), è il primo ad essere il più
compromesso con lo spirito neoliberale. Quindi è il primo a non essere un
referente plausibile, ad essere meramente “utopico”. Dunque, se pure è vero che
il secondo tende ad atteggiamenti neocorporativi, alla fine, per assoluta
mancanza di alternative, la presa del potere dello Stato è possibile solo con
il secondo per gli autori. Ciò sembrerebbe chiudere il discorso.
In
verità lo spirito neoliberale pervade l’intera società. Tuttavia, nel momento
in cui di questo viene focalizzato individualismo e “imprenditorializzazione” è
davvero singolare sostenere che micro e piccoli imprenditori, autonomi,
commercianti, ne siano meno impregnati di insegnanti, impiegati, operai e
funzionari pubblici. Sganciando questa assunzione (anzi rovesciandola) si resta
però in debito della spiegazione di un fatto: si muovono i secondi, per ora.
Qui l’approccio culturale degli autori forse fa schermo ad una spiegazione più
semplice: questi si muovono perché, lungi dall’essere una questione di cultura,
per ora soffrono di più, subendo direttamente e senza le protezioni residuali
del trentennio l’impatto di un arretramento della domanda aggregata interna e
delle trasformazioni ipercompetitive (essenzialmente messa in contatto)
dell’ultimo decennio. Si muovono perché per loro è più aspro lo scollamento tra
la promessa di autopromozione o di elevamento e la realtà di scivolamento e
stagnazione nella quale sono stati formati. Promessa sulla quale contano per
ancorare l’autoriconoscimento in una logica di competizione verticale propria
della soggettivazione come classe.
Ma
spostare l’enfasi da una debolezza cognitiva ad una strutturale porta con sé
anche una spiegazione alternativa dell’approccio neocorporativo, dell’odio per
l’eguaglianza che l’azione pubblica porta con sé, della polarità esattamente
opposta ad uno spirito socialista. Questi ceti e gruppi, quelli che Wright
Mills chiamava in mezzo al trentennio “un’insalata di occupazioni”, fatta di
dirigenti, professionisti, addetti alle vendite, impiegati, artigiani, piccoli
e medi imprenditori, accomunati da molto poco oltre a certi parametri di
reddito rilevati ex post e il desiderio di un certo status sociale,
vogliono ascendere. Vogliono staccarsi dai ceti popolari e dai lavoratori, e
vogliono, anzi che questi gli servano per farlo.
Il
fatto è che non tutto è narrazione, esistono delle vischiosità determinate
dalle posizioni rispetto all’insieme dell’organizzazione sociale ed il suo
sistema di distribuzione delle risorse. Autonomi, professionisti, micro e
piccoli imprenditori, “bottegai”, sono tutti datori di lavoro potenziali dei
lavoratori dipendenti. Guardano il rapporto di produzione dall’altro lato. È
vero che faticano ad essere realmente ‘ceto medio’, ovvero ad avere quella
adeguata protezione dai rischi della vita determinata dal possesso dei
capitali (relazionali, spaziali, culturali e soprattutto meramente economici),
perché la crisi li ha erosi. Ma è proprio per questo, e non altro, che si
muovono.
In
altre parole, si muovono per riguadagnare la distanza che li qualifica
ai loro occhi come ‘ceti medi’ e non per cambiare il sistema sociale di
produzione che crea queste gerarchie. Si muovono per riaffermare le
gerarchie ed il sistema neoliberale. Non è affatto un caso si muovano in
direzioni neocorporative e non è un caso siano ostili a qualsiasi azione
pubblica che non sia diretta ad un sostegno assistenziale esclusivamente a
loro.
Se
la scelta fosse seccamente di scegliere tra ceti lavoratori e medi
impoveriti, e il programma fosse favorire una trasformazione della società in
senso socialista, bisognerebbe concluderne che, casomai, è con i secondi che
non si può fare nulla[15].
Ma
qui interviene il vero punto centrale dello sguardo dei nostri: prendere il
potere dello Stato è il passaggio necessario per trasformare la società. Si prende
questo potere vincendo le elezioni. Si vincono le elezioni assommando, per
qualsiasi ragione e scopo effettivo, in un dato week end milioni di x su una
scheda. Si fa, insomma, con quello che si ha.
Si
tratta di un argomento forte. Ne oppongo un altro:
quando anche si prendessero i ruoli politici, il potere non è contenuto nella
figura organizzativa formalmente apicale, in nessun caso e tanto meno nella
macchina pubblica statuale. Il potere, quello effettivo, ovvero quello di
cambiare, è contenuto nelle relazioni circolanti in un molto più vasto sistema
ed ha carattere continuo, non discontinuo. Come la parabola del M5S, ed in
misura minore di Podemos, hanno mostrato in evidenza, un potere assunto sulla
base di ‘catene equivalenziali’ troppo lasche, che aggirano i conflitti invece
di trattarli e risolverli, trasmette debolezza nel momento in cui le figure
formalmente apicali restano esposte alla vischiosa potenza del potere. Messi di
fronte a procedure istituite automatiche, a funzionari che esprimono con forza
reticolare specifiche culture ed indirizzi, che rispecchiano relazioni sociali,
ad istituzioni ostili, ad una razionalità solida che gli si palesa e con la
quale mai avevano avuto a che fare, questi hanno dovuto ripiegare in disordine.
E questo arretramento, elettoralmente drammatico, che mostra l’inutilità di
questa via e distrugge preziosissimi patrimoni di fiducia pubblica, lascia
le cose esattamente come erano. Se accade la trasformazione della società è
fallita.
Ad
un vicolo cieco se ne contrappone un altro.
Certo,
la polemica posta verso il pezzo di Vitali è ben scelta, e la critica, che da
questo si assume, della “politica dei due tempi”[16], appropriata. In linea di
principio, inoltre, l’idea di connettere le lotte, senza cadere in forme sterili
di purismo, è intelligente. Ma una cosa è non “sovra-ordinare” tutto, un altro
non porre le questioni dirimenti per paura di scoprirsi nemici. Chi è nemico
lo resta. Non lo è per una questione di cognizione, di cultura, ma per una
questione di rapporti oggettivi. Intendiamoci, i rapporti sono sempre oggettivi
per un effetto di sistema totale, non in sé, dunque è sempre alle
caratteristiche di questo sistema ed alla dinamica che bisogna guardare.
Parte
seconda: la fase.
Vediamo
allora di descrivere cosa si muove nella fase. Poniamo alcune
affermazioni:
1. E’
da tempo in corso una spirale verso il basso, che alla difficoltà di
riproduzione del capitale, per la progressiva scomparsa della domanda interna
(e contrazione dell’estera), in tutte le sue articolazioni (incluso la quota di
capitale che si esprime nei ceti oggetto dell’attenzione dei nostri) risponde
in modo miope riducendo ancora di più i salari, aumentando la competizione tra
lavoratori, importandoli se necessario, e garantendo che sempre più costi siano
assorbiti dallo Stato. Alla fine, la protezione dei profitti privati,
assecondandone le inclinazioni allo sfruttamento crescente, aggrava il problema
e danneggia tutti.
2. Ma
questa dinamica è vissuta in modo asimmetrico, almeno per livello di urgenza,
tra coloro che sono connessi con le catene del valore in qualche modo,
sia pure a diverso livello di centralità e valore aggiunto, e coloro che ne vivono
al margine, impiegati in una insalata di lavoretti, di occasioni,
espedienti, variamente visibili e variamente sommersi[17].
3. È
vero che la tradizione divisione di classe, tra lavoratori salariati,
lavoratori autonomi e gestori dei capitali, si è in questi ultimi venti anni
enormemente articolata e complessificata, secondo molteplici linee.
Divaricandosi almeno in posizioni intermedie, con amplissimi strati di
lavoratori precari, intermittenti, ‘atipici’, deboli o debolissimi, esposti a
qualunque turbolenza e senza alcuna rete (in mezzo tra i “salariati” e gli
“inoccupati”). Inoltre, finti autonomi, persone che assommano tante piccole
attività semi-professionali, hobbistiche, artigianali, quasi-commerciali,
persino internazionali, pur di cumulare una qualche capacità di reddito, sempre
esposta sull’orlo del baratro e sempre aperta alla speranza del ‘decollo’ (in
mezzo tra sottoccupati e ceti medi imprenditoriali). Finte classi medie in
aspettativa, spesso sovracculturate. Terzo, ci sono i piccolissimi
capitali ed i loro solo provvisori gestori, incapsulati nelle nicchie
locali più improbabili, dediti ad equilibrismi continui, costantemente
ristrutturati e sempre affannosamente in cerca di ossigeno e credito da un
sistema in costante restringimento, come una garrota. La stratificazione di
segmenti di classe e di attività è, infine, scalata in una gerarchia di
ambienti geografici declinante sull’asse tra centri metropolitani,
mediamente più densi, attivi ed interconnessi, e quindi ricchi di opportunità,
e aree periferiche, notevolmente più diradate, lente e povere.
4. Di
tutto questo mondo che soffre, si muovono -salvo frange quantitativamente
irrilevanti di attivisti- solo coloro che riescono ad organizzarsi per linee
corporative, reciprocamente impermeabili. Si tratta dell’avvio di un “assalto
ai forni”, condotto per fazioni. I ristoratori, i commercianti, gli operatori
turistici, i professionisti, le piccole imprese, le grandi, le banche,
assicurazioni, il settore edile, ... chiunque abbia la possibilità di mostrarsi
come gruppo e di avere qualche organizzazione di riferimento e supporto.
Assalto di chi ha più voce, chi ha organismi stabili, oliati e ben
relazionati in grado di rappresentare (è il caso delle grandi imprese che si
appoggiano sulla stentorea voce di Confindustria). Tutti organismi internamente
egemonizzati dalla relativa frazione di capitale e dai suoi gruppi dirigenti.
5. Percependo
chiaramente questo movimento che va, senza soluzione di continuità, dalle
frazioni di ceti medi impoveriti, ma organizzati, alle grandi organizzazioni
datoriali, con una mossa del cavallo[18] di grande impatto, i
grandi paesi guida della Ue hanno proposto una meccanica a tre punte per
affrontare la crisi derivata dallo shock pandemico mondiale: un significativo
stimolo rivolto alla ristrutturazione del funzionamento dei sistemi economici
nazionali in direzione di efficientamento, integrazione funzionale,
gerarchizzazione territoriale; il sostegno temporaneo, fortemente discrezionale
e quindi strettamente negoziato sotto il tavolo, della Bce alla liquidità; la
minaccia pendente di richiamare lo squilibrio del rapporto debito/Pil,
destinato ad esplodere nel breve termine, riattivando il Fiscal Compact. La
prima punta agisce secondo la logica dei fondi strutturali ed è potenzialmente
asimmetrica (sicuramente in relazione al tempo), e quindi è redistributiva ma
trasmette anche, nella sua meccanica concreta, rafforzamento del principio
d’ordine centro/periferia[19]; la seconda agisce
tramite il Pepp, recentemente rafforzato, ma è soggetto al complesso quadro
aperto dalla sentenza della Corte Costituzionale tedesca[20], e comunque come d’uso
esprime anch’esso una logica d’ordine; il terzo è inevitabile, dato che in
questo quadro è altamente improbabile esista il capitale politico per scrivere
nuovi trattati ed approvarli, con l’austerità torneranno i suoi effetti.
6. Ma
qui cade il punto. La meccanica delle tre punte divaricherà
il paese ulteriormente, rinsalderà i ceti medio-alti, in particolare delle aree
e filiere centrali, consentirà a tutti coloro che direttamente o indirettamente
riusciranno ad accedere al beneficio della redistribuzione (che sarà calibrato
nei tavoli molteplici sulla verticale Berlino, Bruxelles, Parigi, Roma e i
tavoli di concertazione aperti in quest’ultima) di rialzarsi, tornando in zona
confort (e quindi disattivarsi), mentre lascerà i veri ceti popolari e del lavoro,
e le frange più periferiche dei ceti medi e autonomi, sul bagnasciuga,
appesantendoli con una netta riduzione del welfare (e quindi del reddito
indiretto) e con i ventilati, ulteriori, indebolimenti e flessibilizzazione
richiesti a gran voce. Non è per caso che questi odiano lo Stato e l’azione
pubblica.
In
questo quadro, quale è la forza che muove la situazione?
La
forza in campo è di natura sistemica. Il sistema di potere uscito dalle due
guerre sta andando fuori dei suoi cardini, ed ogni centro di potenza e di
aggregazione dei capitali reagisce cercando di ricreare internamente l’ordine e
canalizzando le forze. Di fronte ad una dinamica di riorganizzazione e
concentrazione di potere e capitale che è andata avanti, accelerando, almeno
negli ultimi trenta anni e mentre si giungeva abbastanza evidentemente al
limite della tenuta socio-politica e quindi economica (la seconda dipendendo in
modo profondo dalla prima), lo shock pandemico ha spinto la situazione ad un
tale punto di fragilità da rompere il sistema di vincoli inibenti.
Sta
partendo, allora, una grande operazione di rafforzamento del controllo
“carolingio”, germanocentrico, rivolto a sostenere i campioni “core”, aumentare
l’integrazione subalterna e organica delle filiere produttive europee, segmentandole
meglio da quelle esterne. Nel farlo si creeranno ulteriori vie di deflusso
finanziario ed umano dai paesi periferici. Questo meccanismo potrebbe
surrogare, anche se parzialmente, ai contraccolpi possibili della
frammentazione geopolitica mondiale, andando a sostituire gli investimenti in
beni capitali della Cina e creando una forma sui generis di ‘domanda interna’
di tipo propriamente imperiale. Il sistema europeo, lungi dal diventare realmente
‘federale’ evolverebbe in direzione di una relazione sistemica centro/periferia
probabilmente con elementi di novità, ma più vicino al modello della relazione
tra Stati Uniti e paesi del continente (Nord e Sudamerica) che non a quella
interna agli Stati Uniti stessi.
Parte
terza: che agenda politica?
Come
agisce questa forza sulle dinamiche e le contraddizioni in seno al popolo
richiamate in questa discussione?
In
primo luogo, comprendendo quale è il progetto di paese nel quadro del progetto
europeo e nella competizione mondiale. In secondo luogo, chiarendo chi se ne
giova e quali altre linee di frattura si aprono (e quali si chiudono). In terzo
luogo, identificando chi ne paga le spese.
La
questione è di capire, in una situazione dinamica, non tanto chi si muove oggi,
ma chi è nella posizione di fare leva per agire nel conflitto in essere
contrastandone la forza motrice. Contrastandola per indurre l’avvio di un
riequilibrio dei rapporti di forze che possa indurre degli elementi di
socialismo, dei quali c’è assoluto bisogno. Senza i quali nessuna soluzione
potrà essere trovata neppure ai dilemmi sistemici sommariamente descritti. Per
fare questo non si deve partire dalla mera fotografia dell’esistente, immaginando
che chi oggi è attivo o inattivo lo resti sempre, e non bisogna immaginare la
questione del potere come un episodio singolo. Una “presa”. Bisogna
comprendere, e bene, cosa è per noi il popolo e cosa sono i suoi
nemici. Sapendo che verso i nemici si combatte, verso il popolo si lavora a
creare unità di interesse e sentire.
In
sé la contraddizione tra chi intende elevarsi abbassando gli altri, ovvero
aumentando il saggio di sfruttamento a proprio vantaggio, e chi ne subisce
l’azione sistemica è una contraddizione antagonista. Che può sia scivolare in
una relazione con nemici, sia essere ricondotta ad una dimensione organicamente
equilibrata, ma solo se viene trattata espressamente[21]. Inserendo i desideri, le
pulsioni, e le ambizioni delle diverse soggettività sociali in un quadro non
competitivo, socialista, appunto. Si tratta allora di distinguere tra
inimicizia e divergenza (di rappresentazione, teoria delle funzioni sociali,
prospettiva temporale). Tra la lotta e la discussione.
Nella
misura in cui le molteplici divisioni di classe indicate in questi interventi sono
riconducibili ad una contraddizione in seno al popolo, e non ad un rapporto tra
nemici, si può in linea di principio ricondurre e saldare in un più ampio
progetto. Ovvero lavorare alla costruzione di un blocco sociale capace di
cambiamento. Come ebbe a dire Mao: “le contraddizioni in seno al popolo sono
contraddizioni che esistono sulla base di una fondamentale identità degli
interessi del popolo”[22]. La fondamentale identità
degli interessi, che, sola, può definire per noi la nozione di “popolo”, emerge
quindi direttamente dalla lettura storica della fase. Dall’interesse a
interrompere la spirale verso il basso, comprendere l’unità dei marginali, e
degli intermedi con i lavoratori tutti, ad uscire dalla logica dell’assalto
egoistico ai forni, ad ostacolare e ricondurre ad interesse realmente generale
la mossa delle tre punte. Anche le contraddizioni che possono essere
considerate per se stesse antagoniste, come quelle tra chi ha interesse diretto
ed immediato a massimizzare l’estrazione di plusvalore per sé (ad esempio,
pagando meno un aiutante domestico, un impiegato, un segretario, un commesso),
possono essere volte, comprendendo le caratteristiche strutturali di fase, a
contraddizioni non antagoniste, e quindi “nel popolo”. Sapendo che, come
appunto scrive Mao: “tutte le questioni di carattere ideologico e tutte le
controversie in seno al popolo possono essere risolte solo con metodi
democratici, con i metodi della discussione, della critica, della persuasione e
dell’educazione; non possono essere risolte con metodi coercitivi e repressivi.” È essenziale che, per ottenerlo, si immagini
la situazione in modo dinamico e si parta dall’atteggiamento della ricerca
dell’unità, passando attraverso una critica aperta e franca, una discussione
aperta, volta alla correzione di errori e incoerenze, per puntare nuovamente
all’unità[23].
Tenendo conto contemporaneamente degli interessi degli individui, dei
collettivi e dello Stato. Identificando l’unità specifica e necessaria tra
classe e nazione. O meglio, tra le classi alleate e complementari e la nazione
nella sua indipendenza e capacità di autodeterminazione.
Tornando
all’ottimo articolo di Melegari e Capoccetti, è insomma chiaro che si tratta di
una situazione complessa e che non si presta a divaricazioni a priori tra amici
e nemici (a meno, naturalmente, non si rivelino per tali su qualche posta
concreta nell’ambito del processo politico). Tuttavia, è anche chiaro che non
c’è una scontata identificazione di tutto l’arco dei marginali e subalterni
come “popolo”. Ma tutto questo è, naturalmente per effetto del format
dell’articolo, costretto in formule. Ed allora si salta a definire il ceto
medio come orizzonte permanente dell’azione politica: “un’alleanza necessaria e
senza scadenza”.
Certo,
hanno ragione Melegari e Capoccetti, a temere che una qualche “assiomatica di
classe” (quella contro la quale, peraltro, lavorava anche il testo di Mao) impedisca
di cogliere le opportunità che pure il tempo riserva, ma la questione non è
di quanto aspettare, quanto di dove andare.
Perché
il problema non è di prendere lo Stato, come fosse una macchina. Ma è di
cambiarlo. E questo può avvenire solo se le forze sociali che trasportano
verso di esso restano attive e consapevoli dietro le spalle, stringendo e
limitando ad un tempo. O, meglio, se in esse, come un pesce nell’acqua, si
nuota. Se la ‘base sociale’ e la ‘base di massa’ restano in una relazione
organicamente coerente ed adatta alle sfide della fase.
La
natura di questa acqua è il punto dirimente; non è questione
di retorica, di narrazione, di colpo di mano. Il punto è che se si vuole essere
cambiamento bisogna che le contraddizioni siano individuate, affrontate,
risolte. Che gli amici siano distinti dai nemici, lo Stato dal potere.
[2] - Diego Melegari, Fabrizio
Capoccetti, “I ‘bottegai’, l’ultimo argine?
Spunti per una politica oltre purismo e subalternità”.
[4] - Non è del tutto chiaro a cosa si
riferisca, nel testo, il concetto di superamento della dicotomia.
[5] - Ricordiamo che il termine
“neocorporativo” è riferito storicamente non già alle corporazioni medioevali
che si dissolvono nel primo ventennio del XIX secolo in vista della
trasformazione in proletariato di fabbrica, ma alla costruzione ideologica e
pratica dei fascismi, tutti, che puntano su una organizzazione della società
verticale, alla quale aderiscono lavoratori e capitalisti, uniti dall’interesse
di sezione economica, anziché da quello di classe. Interesse dei commercianti,
appunto, della logistica, delle diverse branche dell’industria, e via dicendo.
[6] - Sulla classe media e la sua
crisi si veda Arnaldo Bagnasco, “La questione del ceto medio”, 2016; Christophe Guilly, “La società non esiste”, 2018; Branko Milanovic, “Mondi divisi”, 2005; e per una lettura storica
il classico Paolo Sylos Labini, “Saggio sulle classi sociali”, 1974.
[7] - Nota formula della sinistra
extraparlamentare degli anni settanta. L’autonomia della classe dalle dinamiche
del capitale.
[8] - Anche questa è una nota formula
della sinistra extraparlamentare degli anni settanta ed echeggia le critiche di
Autonomia Operaia (1973-1979) e, prima, Lotta Continua (1969-1976) al
sindacato, colpevole di riportare l’energia operaia in un quadro di
compatibilità borghese.
[9] - Considerazione, questa, che si
muove in altra direzione.
[10] - Ovvero della incidenza
dell’immigrazione nelle aree di vita periferiche di questi ceti che, pur se
salariati, condividono la debolezza economica con buona parte delle classi
medie inferiori, alle quali appartengono peraltro.
[11] - Talvolta solo con divisione di
età, i padri al Pd ed i figli alla sinistra radicale.
[12] - Peraltro, alcuni dibattiti
chiave, come quello sul Covid e le misure di protezione sociale via
distanziamento, o quelle sui complotti che sarebbero dietro ogni azione
pubblica, come le vaccinazioni, l’autorizzazione a introdurre nuove tecnologie
di telecomunicazione, gli obblighi generali, mostrano che in realtà anche
l’area attiva è molto lontana dal volere un ruolo del pubblico centrale, e
condivide, pur senza esserne cosciente, l’ostilità neoliberale ad ogni forma di
regolazione.
[13] - Noto, a margine, che l’argomento
di impossibilità è interamente di natura culturale, questi, i ceti lavoratori
dipendenti e/o proletari, sarebbero più compromessi con il neoliberalismo,
ovvero con la sua modalità di costruzione del soggetto. Alla stessa conclusione
si poteva arrivare anche avanzando argomenti di tipo organizzativo (ma allora
ne discendeva un terreno di lotta), o materiale (ma allora la soggettività
imprenditoriale sarebbe stata un cattivo marcatore).
[14] - A questa posizione, se fosse
corretta, si potrebbe replicare in molti modi. Uno è che non funziona così, non
ci sono strumenti e scopi, separati. Nelle formazioni sociali, forma, strumento
e scopo sono con-fusi. Dunque, non si può utilizzare forze contro la propria
natura, manipolandole linguisticamente. Sullo specifico del corporativismo ci
si può riferire all’ultima delle lezioni sul fascismo di Palmiro Togliatti. In
essa, dedicata appunto al “corporativismo”, che in Italia prende la forma
“socialista” di “realizzazione del principio di collaborazione di classe
nell’ambito dell’organizzazione economica”. In linea generale questa è la
sintesi dell’elemento posto dal capitalista e quello del lavoratore. L’elemento
“essenziale e sostanziale”, senza il quale non si parlerebbe di corporativismo
nella condizione di una società capitalista, è la collaborazione di classe,
ovvero l’eliminazione del concetto stesso di lotta di classe per via della
condivisione di obiettivi e la relativa collaborazione. Come opportunamente
sottolinea il nostro, questa idea della collaborazione corporativa non è
specifico, né invenzione, del fascismo. Si trova nel proudhonismo e in alcune
correnti socialiste o nelle versioni cattoliche ispirate dalla “Rerum novarum”.
Ma qui cade proprio il punto politico, e la leva, in quanto la collaborazione
tra interessi frontalmente contrapposti, nella stessa organizzazione, non è
realmente realizzabile. Ci sarà sempre la prevalenza dell’uno o dell’altro.
Cfr. Palmiro Togliatti, “Lezioni sul fascismo”, Editori Riuniti, 2019,
in particolare p. 160.
[15] - E’ ovvio che questa conclusione
sarebbe meramente oppositiva. Con quel che si muove si entra sempre in
relazione, ma conoscendone caratteristiche e agendo entro le contraddizioni
esistenti, tra queste e la situazione, per determinare il sistema di alleanze
ed egemonia idoneo a produrre la trasformazione necessaria. Non per aderirvi.
[16] - Ovvero di quella tattica che
vede un primo momento di formazione di un Comitato di Liberazione, volto a
ripristinare lo spazio democratico con chiunque (quindi anche con forze come la
Lega, che molto ambiguamente perseguono questa agenda) per poi, in secondo
tempo, lottare per l’affermazione degli interessi di classe, schierando i
vecchi alleati su sponde contrapposte.
[17] - I primi, i visibili, sono circa
25 milioni, solo 4 impegnati in attività manifatturiere e gli altri nel
vastissimo e complesso mondo dei ‘servizi’. Qui si va dai 6 milioni di persone
del commercio, i 5 milioni della Pubblica Amministrazione i 2,5 dei servizi di
intrattenimento e 3,2 di attività professionali. I secondi sono stimati in
circa 4 milioni di persone. Poi abbiamo i disoccupati effettivi, che dovrebbero
essere 6 milioni.
[18] - Mi permetto di rinviare a “La mossa del cavallo. Francia e
Germania, Ue e cronache del crollo”.
[19]
- Andranno in questa
direzione gli investimenti, coordinati e orientati dalla Ue, secondo i
desiderata anche del nostro sistema industriale e datoriale. Ad esempio, Carlo
Bonomi anticipando il “Piano strategico 2030-50” che Confindustria presenterà
al governo in autunno, ha indicato le priorità essenziali in: investimenti in
innovazione e ricerca, capitale umano, sostenibilità ambientale e sociale delle
produzioni, nuove forme organizzative e contrattuali, qualificazione e sostegno
alle filiere dell’export. Tradotto tutto ciò si avranno concentrazioni di
investimenti in sistemi di digitalizzazione dei processi industriali
(“industria 4.0”), il cui fornitore essenziale è Siemens, e della finanza
(“FinTech 4.0”), criptovalute e App, oltre che capacità di Big Data sempre più
evolute, ulteriore segmentazione verso l’alto ed il basso della formazione (con
probabile estensione verso il basso della Dad ed altre tecniche di
“efficientamento didattico”), inserimento di normative e standard tecnici che
inducano ad una maggiore intensificazione del capitale organico e quindi
concentrazione utilizzando come cavallo di troia la necessità di implementare la
sostenibilità, forme contrattuali ancora più flessibili, potenziamento della
estroversione dell’economia. Molte di queste cose sono presenti e tradotte in
incentivi pubblici nel “Piano Transizione 4.0” del Ministero dello Sviluppo
Economico che era allegato alle prime bozze del Decreto Rilancio e sarà
certamente proposto in occasione degli Stati generali dell’economia, appena
avranno raggiunto un accordo.
[21] - Anche in questa direzione gioca
rileggere il testo togliattiano, in particolare le indicazioni sul lavoro da
fare entro i sindacati fascisti (l’ambiente più ostile si possa immaginare),
non lavorando per sabotarli bensì perché in essi siano sollevate le questioni,
posti in evidenza i nodi critici, sollecitata l’esplicitazione dell’azione a
difesa dei lavoratori, pungolati e se del caso reclamati i fiduciari fascisti
di fabbrica. Comprendendo ogni spazio come “complesso di rapporti di classe” le
cui potenzialità sono da esprimere, sfruttando interamente le possibilità
offerte dalla situazione. Cfr. Palmiro Togliatti, “Lezioni sul fascismo”,
cit., p.105 e seg.
[22] - Mao Tze Tung, “Sulla giusta
soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”, 1957, XI sessione
allargata della Conferenza suprema dello stato.
[23] - Come scrive: “partire dal
desiderio di unità, distinguere chiaramente la ragione dal torto per mezzo
della critica o della lotta e raggiungere una nuova unità su una nuova base”.
Buongiorno Visalli, posso consigliarle due libri che secondo me meritano una bella recensione.
RispondiEliminaUno è La tragedia dell'euro di Ashoka Mody. Non ho ancora preso in mano il libro, ma per quanto ho avuto modo di capire tramite diverse citazioni, sembra un lavoro molto ampio e organico, una sorta di enciclopedia della questione Euro. Il prestigio dell'autore e la sua terzietà, per così dire, un economista indiano naturalizzato americano, dovrebbero deporre a suo favore presso un'ampia gamma di potenziali lettori. L'altro è Le luttes des classes en France au XXI siècle di Emmanuel Todd, una descrizione stupefacente della situazione francese, da uno dei maggiori intellettuali e interpreti della storia contemporanea viventi. Di suo, imprescindibile è anche L'invention de l'Europe, che probabilmente andrebbe integrato con il suo più recente volume sull'origine dei sistemi familiari.