Leggeremo
in questo post un serrato dibattito tra un ricercatore indipendente inglese,
John Smith, e il famosissimo geografo marxista David Harvey. Smith attacca il
libro “La guerra perpetua”[1] nel saggio “Come David
Harvey nega l’imperialismo”[2], e la replica dello stesso
Harvey al libro di Prabhat e Utsa Patnaik “A theory of imperialism”, che
abbiamo già letto[3].
Ci sarà quindi la replica dello stesso Harvey[4] e la controreplica di Smith[5]. Inoltre, per allargare lo
sguardo, presteremo attenzione all’intervista a Utsa Patnaik, “Storia agraria e
imperialismo”[6]
al libro di John Smith, “Imperialism in the Twenty-First Century”, vincitore
del “Paul A Baran – Paul M Sweezy Memorial Award”[7], ed alla recensione di
Michael Roberts[8].
Cominciamo
dalla prima accusa del ricercatore di probabile orientamento trotskista all’anziano
geografo. Siamo nel 2018 e John Smith è, in particolare, colpito da una frase del
testo nel quale Harvey sembra cedere alla vulgata neoclassica che vede l’imperialismo
superato nella fase della mondializzazione. Afferma infatti Harvey che “lo
storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per
oltre due secoli è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”. Può
sembrare in effetti una descrizione obiettiva. Ed è, di fatto, una descrizione
che assumono molta parte dei marxisti occidentali[9] o “euro-marxisti”[10], in coincidenza con buona
parte della letteratura economica mainstream. Eppure è di assoluta e palmare
evidenza che enormi flussi di profitti sono accumulati dalle società
multinazionali, per grandissima maggioranza ‘occidentali’[11], sia in patria sia, in
misura maggiore, in opportuni paradisi fiscali. Seguendo la catena del valore
di un qualsiasi prodotto realizzato in un paese a basso costo del lavoro (e
sovra-sfruttando lo stesso) e rivenduto al termine di una lunghissima catena in
uno ad alto reddito[12] si registra non di rado
che il margine dei produttori primari, quando sono indipendenti, è di pochi
punti percentuali, mentre quello della casa madre che li distribuisce nell’ordine
dieci e più volte superiore. In altre parole, si registrano facilmente crescenti
flussi di plusvalore provenienti in ultima istanza da lavoratori cinesi,
bangladesi, messicani, e accumulati nelle capienti casseforti dei paesi
centrali. Questo è il fenomeno sul quale si concentra tematicamente il libro di
Smith.
Il
punto dirimente non è, infatti, l’apparenza di ricchezza registrabile nelle forme
di investimento, capitale fisso, e finanche capitale fisso sociale (ma
orientato a rendere possibili gli scambi e quindi soggetto al rischio di
mutarsi in un mucchio di ruggine se questi si riducono[13]), ma il controllo
effettivo dei flussi ed il potere che le metropoli esercitano sulle periferie
per ottenere i saggi di sfruttamento del lavoro vivo necessari a tenere in
piedi la meccanica complessiva.
La
contestazione del nostro muove da una ricerca sui flussi finanziari condotta
nel 2015 da ricercatori internazionali: “Financial flow and tax havens”[14]. In essa è prodotta una stima
dei trasferimenti netti di risorse tra i paesi sviluppati e in via di sviluppo
la quale mostra che il saldo, ancora nel 2012, era negativo in favore dei paesi
ricchi per duemila miliardi di dollari; circa l’8% del Pil dei paesi in
sviluppo. Una dimensione che vale circa il quadruplo del flusso nella direzione
opposta. In questo calcolo compaiono gli aiuti allo sviluppo, le rimesse degli
stipendi degli emigranti, i proventi del commercio, il servizio del debito, i
nuovi prestiti, gli Ide, i profitti rimpatriati, la fuga di capitali e via
dicendo. Un calcolo, sottolinea Smith che comprende anche la Cina. Inoltre, e
forse più importante, la ricerca mostra che questa somma, che va dal già enorme
8 % fino al 12% del Pil, includendo tracce più labili di scambi truffaldini e
sottofatturazioni, aumenta ulteriormente dal 1980 al 2011. Insomma, la
cosiddetta “inversione” dei flussi proposta da Harvey sarebbe solo un’illusione
ottica. La sola Africa sub-sahariana, una delle aree più povere, avrebbe perso
circa 800 miliardi e la fuga di capitali sarebbe in continua crescita. Al
contrario è in corso, ed accelera, “un cronico drenaggio di risorse dal mondo
in via di sviluppo”.
Si
diceva che la stima includesse la Cina. Bene, per i ricercatori degli istituti
di ricerca che firmano lo studio in realtà il grande paese asiatico dal 1980 al
2012 avrebbe perso in favore dei centri mondiali millenovecento miliardi di
dollari, due terzi del totale dei deflussi complessivi dai paesi del cosiddetto
“sud” del mondo.
L’affermazione
di Harvey sarebbe, dunque, fattualmente errata. Ad aggravare la situazione alcuni
dei flussi che sembrano compensarsi in realtà aumentano la dipendenza dei paesi.
È il caso dei profitti rimpatriati, o trasferiti in paradisi fiscali, dalle
multinazionali (che funzionano come deflusso) e i nuovi investimenti diretti in
nuove industrie o imprese locali (gli Ide), che pur funzionando contabilmente
come flusso attivo a compensazione in realtà aumentano le porzioni di economia
locale sulle quali paesi e imprese estere esercitano controllo, oltre a porre
premesse per un aumento futuro dei rimpatri di profitti. Questa considerazione
vale anche per altri due flussi contabilmente opposti, ma sinergici, come i
servizi del debito e i nuovi prestiti. Inoltre, altro deflusso di valore
avviene attraverso il maggiore tasso di sfruttamento che si instaura, per
tramite degli investimenti diretti e quindi delle delocalizzazioni, per la
produzione di merci (materiali ed immateriali) vendute ad alto prezzo nei paesi
ricchi, ma prodotte con impiego di manodopera a basso o bassissimo prezzo nei
paesi in sviluppo.
Considerando
tutte queste dinamiche per Smith consegue semplicemente che la meccanica del
decentramento, e quindi della globalizzazione, è semplicemente orientata a
massimizzare l’estrazione di plusvalore e il suo trasferimento quasi integrale.
Si tratta, insomma, di “un nuovo stadio nello sviluppo dell’imperialismo”.
L’asse principale di questo sfruttamento è Nord-Sud.
Certo,
ci sono almeno due altri effetti rilevanti, ma secondari per Smith: la
finanziarizzazione e l’indebolimento (e quindi l’estrazione di maggior
plusvalore) anche dei lavoratori occidentali. L’imperialismo agirebbe, nel suo
complesso, in due direzioni contemporaneamente, attraverso un fenomeno di messa
in contatto subalterna favorito e reso possibile dall’incremento della finanza.
D’altra parte, Smith nega che questo effetto sia giunto fino ad erodere quasi
completamente il vantaggio per i lavoratori del “nord” globale (cosa che
porterebbe verso una convergenza), e sottolinea il valore delle barriere allo
spostamento delle persone nel contribuire a disciplinarle e sfruttarle, e
quindi a stabilizzare le ineguaglianze. In questo passaggio affondano alcune
delle divergenze con Harvey.
John Smith |
Insomma,
nell’analisi di John Smith, il fatto centrale dell’epoca neoliberale è semplicemente
il grande trasferimento globale della produzione dove il tasso di sfruttamento
è più alto, e l’impressionante spostamento al Sud del centro di gravità della
classe lavoratrice industriale.
Si
può dire in altro modo: la reazione del capitalismo alle difficoltà degli anni
settanta, si sarebbe mossa, in uno con una potente riaffermazione del dominio
statunitense, a danno dei paesi in via di decolonizzazione e del blocco socialista,
verso la riduzione del salario “al di sotto del suo valore”. Esattamente
come dice Marx nel Capitale quando illustra nel terzo libro le “cause
antagoniste” della tendenza alla caduta del saggio di profitto stesso.
È,
questo, il tema del “superfruttamento”[15].
In
questo decisivo passaggio Smith richiama il contributo al dibattito dell’economista
brasiliano, teorico della dipendenza, Ruy Mauro Martini. Questi, facendo riferimento
alla nota distinzione di Marx tra “plusvalore assoluto”[16] e “plusvalore relativo”[17], argomenta che già nel
finire dell’ottocento quello che chiama, appunto, “supersfruttamento” nelle
colonie otteneva l’effetto di incrementare il plusvalore “relativo” anche
entro la Gran Bretagna. Questa proposta ricostruttiva di Marini, fatta propria
da Smith, sarà posta al centro della discussione di cui qui parliamo. Più
specificamente i nostri tendono ad enfatizzare il sovrasfruttamento che si dà
nelle periferie colonizzate, da parte degli agenti imperiali (in particolare
privati), mentre Harvey, secondo una linea interpretativa che cercherò di
articolare anche io, accoglie ma estende il concetto come processo strutturale,
facendo retrocedere sullo sfondo il caso dei paesi “del sud” come caso
particolare di dinamiche di sovrasfruttamento e sviluppo ineguale che si
applicano a diverse scale anche nel nord.
In
altri termini, il fenomeno generale, preso ad elevato livello di astrazione,
vede l’importazione di beni più a buon mercato rendere possibile al capitalismo
ridurre quello che Marx chiama tempo di lavoro necessario alla riproduzione
senza ridurre i livelli di consumo. L’effetto è massivamente presente nel
nostro mondo, a tutte le scale, e si è manifestato in grande evidenza durante
la mondializzazione degli anni novanta e zero: la possibilità di acquistare
camice di cotone a pochi euro, come altro, grazie alle importazioni a prezzi
calanti da paesi nei quali il costo del lavoro complessivo era inferiore, ha
consentito di abbassare i salari senza toccare il livello dei consumi che garantisce
la riproduzione. O, almeno, ha messo in moto una meccanica di riduzione
progressiva di quelli e questa graduale e sostenibile psicologicamente e
quindi socialmente e politicamente. Questa meccanica ha un vincitore, il
capitale delle regioni ad alto reddito, e diversi perdenti, i lavoratori “supersfruttati”
dei paesi coloniali e quelli “sfruttati” dei paesi ricchi. Il concetto di “supersfruttamento”
di Marini non è di tipo morale, e non corrisponde al concetto di plusvalore assoluto
marxiano ma si manifesta nel trasferimento di una parte della quota salari
(mediamente qualcosa nell’ordine del dieci per cento negli ultimi venti anni)
in fonte di accumulazione, ovvero in favore della quota profitti. Questo trasferimento
per lo più è ottenuto non solo aumentando il plusvalore relativo (aumentando,
ovvero, la produttività a parità di salario), bensì soprattutto remunerando la
forza lavoro al di sotto del suo valore effettivo. Questo effetto, che Marx considerava
di fatto non possibile, dato che violava il presupposto (medio, ovviamente) che
“le merci, e quindi anche la forza-lavoro, sono comprate e vendute [sempre] al
loro pieno valore”[18], può essere ottenuto
anche tramite il trasferimento di beni al di sotto del valore medio nei paesi
di destinazione e quindi tramite lo sfruttamento nelle ‘colonie’ o, in altre
parole, l’imperialismo. Ovviamente ciò si mostra anche ‘senza vesti’ nelle
periferie vere e proprie, dove la dinamica competitiva e la possibilità di
estrarre il plusvalore liberamente conducono alla possibilità di estendere il puro
e semplice ‘sovrasfruttamento’ fino ai suoi limiti fisici.
È
un meccanismo del quale abbiamo spesso parlato, e designato con linguaggio meno
rigoroso “circolo deflattivo”[19] e connesso con la
globalizzazione. Ovviamente al tempo di Marx si trattava di colonie e
semi-colonie, ed oggi si tratta, dopo la decolonizzazione del secondo
dopoguerra, di paesi semi-indipendenti. O, nel caso soprattutto della Cina, di
paesi semi-integrati e per certi versi semi-dipendenti[20]. Qui gioca le sue carte
Harvey, come vedremo, fornendo una lettura della stessa letteratura della
dipendenza meno schematica.
Secondo
Smith, che attacca le posizioni che chiama euro-marxiste, per comprendere la
realtà delle reti di produzione globale non è sufficiente la distinzione
marxiana in plusvalore assoluto e relativo, ma è necessaria una “concezione
teorica del supersfuttamento”. Occorre cioè reintrodurre due variazioni che
Marx escluse esplicitamente dal suo modello, ma citandole, per ottenere le
semplificazioni o astrazioni necessarie: le variazioni internazionali nel tasso
di plusvalore e la compressione dei salari al di sotto del valore di riproduzione
della forza lavoro. Se al suo tempo questi due fenomeni potevano essere
considerati marginali, oggi sono centrali. Il terzo che ha assunto maggiore
spinta, in particolare a seguito delle fasi di ristrutturazione capitalista
come quelle seguite alle crisi finanziarie, o quella che si prepara, è la
riduzione del valore della forza lavoro (e quindi dei salari) attraverso la semplice
compressione dei livelli di consumo[21]. O, in altre parole, la
progressiva caduta della “convenzione”[22] di vita delle classi
lavoratrici e popolari.
L’arbitraggio
salariale, che è uno dei principali motori della
globalizzazione e che ormai non è più negato in pratica da nessuno, non è legato
strettamente all’estrazione di plusvalore assoluto, ovvero mera estensione dell’orario
di lavoro (pur presente), né relativo, derivato dall’introduzione di tecnologie.
Come ovvio ed empiricamente rilevabile, anzi, la delocalizzazione è l’alternativa
all’investimento tecnologico. Il meccanismo che spinge il capitale a potenziare
gli investimenti all’estero e delocalizzare sezioni della produzione nei paesi
a basso costo complessivo (ovvero in relazione alla produttività ottenuta) è
quello di riuscire complessivamente a ridurre i salari al di sotto del valore
che avrebbero in altre condizioni. Ottenere questo effetto è un autentico
miracolo, ma solo provvisorio. Si tratta di uno squilibrio dinamico conservato a
vantaggio del capitale, un assetto prodotto da imponenti politiche pubbliche, e
da rapporti internazionali specificamente ineguali, costantemente squilibrante
e rischiosamente soggetto ad accelerazioni. E’ possibile “ridurre il salario
sotto il proprio valore”, infatti, sia tramite il semplice comando e controllo
diretto, sia attraverso l’importazione competitiva di beni il cui valore
incorporato (ovvero il lavoro necessario a produrle) è sistematicamente
inferiore a quello caratteristico dell’ambiente, o mercato, nel quale è
tradotto in bene di scambio. In questo modo è possibile ridurre il salario
sotto il valore del paniere di beni e servizi necessario per riprodurlo, se
prodotti in loco. In altre parole, il trasferimento del plusvalore assoluto
e relativo estratto nei paesi semi-coloniali o semi-indipendenti produce l’effetto
nei paesi centrali di rendere possibile contrastare la tendenza alla caduta del
saggio di profitto contraendo i salari mentre al contempo resta consentita la
riproduzione (ed il consenso). Ma in qualche modo senza pagarla in salari.
In
questo modello a due ambienti, chiaramente schematico, sto scientemente forzando
lo schema smithiano, che è concentrato tematicamente e politicamente (un poco
come i coniugi Patnaik, del resto) sullo sfruttamento diretto dei paesi del “sud”
da parte del capitalismo internazionale. In altre parole, penso sia utile ‘aggiungere
un piano’. Quello al quale si ha lo sfruttamento indiretto (anche esso “sovra”)
delle economie del Nord (o del semi-Nord), anche esse “dipendenti”. In quanto,
come sostiene con altre parole anche Harvey, la dipendenza va in entrambe le
direzioni, e soprattutto è parte di un sistema sociale totale altamente disomogeneo
e strutturato per creare ovunque e sempre differenze e sfruttarle.
Si
può dire in altro modo: i salari erogati nei paesi centrali e nei paesi
periferici sono connessi strutturalmente attraverso il valore incorporato nelle
merci (materiali ed immateriali), portando complessivamente lo sfruttamento in “supersfruttamento”
negli uni e negli altri.
La
questione posta nella controversia è se sia in corso un effettivo avvicinamento
tra le posizioni dei lavoratori periferici e se ciò implichi l’obsolescenza del
concetto di imperialismo. Tema che emerge abbastanza nettamente anche nella discussione
con i coniugi Patnaik[23], anche se è rubricato da
Harvey come lotta al “determinismo geografico fisico”. Attraverso questa
controversia si intravedono poste più profonde, come quella se il rapporto, o
conflitto capitale-lavoro, centrale nella forma ortodossa della teoria
marxiana, sia ancora in grado di spiegare le dinamiche contemporanee, o se
occorra fare centro dall’accumulazione tramite riproduzione allargata[24], ovvero se il centro si
sia spostato sulla “accumulazione per espropriazione”[25]. E quindi come a volte si
esprime Harvey, sia mutato dalla centralità del tempo a quella dello spazio (e
della geopolitica).
In
effetti, come riconosce anche Smith, molte delle questioni sono perfettamente
riconosciute da Harvey, che non nega affatto la persistenza dell’imperialismo,
inteso come sfruttamento delle popolazioni di una regione da parte di quelle di
un’altra. Ma tutto è preordinato ai “tentativi di aggiungere una dimensione
spaziale alla teoria marxista del capitalismo”, come riconosce Smith[26]. Tentativo che a suo
parere fallisce, sia per carenza di chiarezza concettuale sia per la difficoltà
ad incorporare nello schema di analisi i gradienti salariali, l’arbitraggio
globale del lavoro e i correlati spostamenti di popolazione.
Qui
si intravedono in filigrana le coppie oppositive tipiche di un confronto tra
scuole: Harvey è accusato di inclinare verso conseguenze e ricette “nazionaliste
e protezioniste”, e contemporaneamente (ma coerentemente) “riformiste”[27]. Cui, naturalmente, Smith
oppone una prospettiva che punta all’estensione dei conflitti, al crollo
complessivo di sistema, e intravede l’occasione di una nuova guerra intra-imperialista
(una terza guerra mondiale tra gli opposti imperialismi del capitale ‘occidentale’
contro cinese). Anzi, inquadra la guerra incombente (siamo in una fase
pre-terza guerra mondiale secondo lui) come occasione per la rivoluzione
mondiale. Utsa Patnaik, nella sua intervista del 2019[28], esprime una posizione
diversa nel momento in cui sottolinea l’incompletezza dell’opera di Marx,
carente dei progettati saggi su Stato, commercio estero e mercato mondiale, che
lo avrebbero messo a confronto con le carenze logiche e fattuali del
globalismo, oltre che della teoria dei vantaggi comparati (fortemente
interconnessa su un piano logicamente profondo con l’assioma che un mondo
piatto e uniforme, completamente interconnesso e mobile, sia più efficiente,
necessario per il pieno sviluppo delle forze produttive e quindi potenzialmente
più equo). Soprattutto, sottolinea che l’emigrazione è storicamente un fattore
di stabilizzazione delle ineguaglianze indotte dal capitalismo. I disoccupati in
eccesso, che potrebbero essere nucleo di una mobilitazione nei diversi paesi trovano
la soluzione di uscirne, disinnescando le contraddizioni. Questo effetto
prevale su quello, in controtendenza, di importare elementi potenzialmente
agitatori nel paese di destinazione. Per lo più le tensioni sono riassorbite
nei processi di promozione individuale che si attivano (per quanto difficili e
di lunga durata), inoltre le distanze culturali ostacolano l’azione collettiva
in modo altamente difficile da superare.
Opera di Danilo Bucchi |
David
Harvey nella sua replica[29] definisce “rigida e fissa”
la teoria dell’imperialismo di Smith, e, in modo in fondo non dissimile dalla
replica ai Patnaik, sceglie la strategia di dichiarare le posizioni degli
oppositori incorporabili come casi particolari, se del caso, della sua. Si tratta,
insomma, di teorie che, come quella a suo tempo avanzata da Lenin[30], sono “inadeguate a
descrivere le complesse forme di produzione, realizzazione e distribuzione –
siano esse spaziali, inter-territoriali e specifiche di un luogo – che si
stavano dispiegando in tutto il mondo”. In questa direzione la nostra
interpretazione plurilivello del concetto di ‘sovrasfruttamento’ può conservare
qualche utilità.
Casomai
dichiara affinità nello spirito del Giovanni Arrighi di “La geometria dell’imperialismo”[31], che lasciava cadere la
rigida geografia di centro e periferia in favore di “una più aperta e fluida analisi
delle mutevoli egemonie nel contesto del sistema mondo”. La cosa suonerebbe
così:
“Con questo nessuno di noi vuole
negare che il valore prodotto in un luogo finisce per esser appropriato in un
altro e che, in tutto ciò, vi un livello di brutalità spaventoso. Questo è,
tuttavia, il processo (e sottolineo l’importanza del termine ‘processo’)
che ci sforziamo di mappare, scoprire e teorizzare come meglio possiamo. Marx
ci ha insegnato che il metodo del materialismo storico non consiste nel partire
dai concetti per poi imporli alla realtà, ma, al contrario, dalle realtà sul
terreno al fine di scoprire i concetti astratti adeguati alla loro situazione.
Iniziare dai concetti, come fa John Smith, significa impelagarsi in un crudo
idealismo.
Dunque,
sulla base di quanto si sta verificando sul campo, preferisco lavorare su una
teoria dello sviluppo geografico ineguale, delle proliferanti e differenti
forme di divisione del lavoro, a una comprensione delle catene globali delle
merci e dei fix spaziali, nonché dei luoghi di produzione (in particolare,
l’urbanizzazione – tema fondamentale, del quale John Smith è ignaro) e della
costruzione e distruzione di economie regionali, entro le quali potrebbe
formarsi, temporaneamente, una certa coerenza “strutturale” (o “regime di
valore regionale”), prima che potenti forze di devalorizzazione e
accumulazione tramite e espropriazione dispieghino forme di distruzione
creativa. Tali forze influiscono non solo su quanto accade nel Sud globale, ma
anche sul Nord in via di deindustrializzazione.
Il
mio è un tentativo di osservare tutto ciò attraverso il prisma delle
differenziali mobilità geografiche del capitale, del lavoro, del denaro e della
finanza e, ancora, gettare uno sguardo al crescente potere dei rentier, nonché
ai mutevoli equilibri di potere tra le varie fazioni del capitale (ad esempio
tra produzione e finanza), così come a quelli fra capitale e lavoro.”
A
ben vedere la differenza è di accentuazione e di partizione. Ma più
specificamente di orizzonte politico. Porre, come fa Harvey, l’attenzione sui “regimi
di valore regionale”, rischia dal lato di Smith di inclinare verso forme “nazionaliste
e protezioniste”, mentre accentrare l’attacco sui trasferimenti ineguali di
valore (che il nostro non nega) conduce alla soluzione del mondo uniformato
dalla rivoluzione e alla scomparsa degli stati.
Può
sembrare, come è capitato con i Patnaik, un dialogo tra reciprocamente sordi. Ma,
in realtà è uno scontro di agende politiche, per certi versi uno scontro tra
realismo[32]
e utopismo[33].
[1] - David Harvey, “La guerra
perpetua”, Il Saggiatore, 2003.
[2] - John Smith, “Come David Harvey nega l’imperialismo”,
Nuestra
America XXI, numero 14 (dicembre 2017).
[4] - David Harvey, “La realtà sul terreno: replica di David Harvey a John
Smith”.
[5] - John Smith, “Le
realtà imperialiste e i miti di David Harvey”, 20 marzo 2017.
[8] - Michael Roberts, “Imperialismo
e supersfruttamento”.
[9] - Per usare un termine di Losurdo,
“Il
marxismo occidentale”, 2017.
[10] - Per usare il termine impiegato
da Smith.
[11] - Userò qui il termine ‘occidentali’
sempre nell’accezione non geografica di economie di mercato sviluppate di tipo
prevalentemente occidentale, ad esempio quella nordamericana ma anche tedesca,
brasiliana ma anche giapponese, coerana ma anche sudafricana e via dicendo.
[12] - Si veda, ad esempio, il ciclo
del caffè descritto dallo stesso John Smith in “Imperialism
in a Coffee-cup”, Open Democracy, 2019.
[13] - Ad esempio, una struttura
portuale notevolmente sovradimensionata rispetto alle esigenze del territorio
servito. O meglio che sono correttamente dimensionate solo se il territorio
servito è vastissimo e la struttura svolge il suolo di anello di passaggio.
[14] - Centre for Applied Research,
Norwegian School of Economics Global Financial Integrity, Jawaharlal Nehru
University, Instituto de Estudos Socioeconômicos Nigerian, Institute of Social
and Economic Research, Financia
Flow and tax havens, dicembre 2015.
[15] - Si intende, come cercheremo di
chiarire, per “super” sfruttamento, uno sfruttamento che va oltre il livello “normale”
nel quale il valore prodotto viene reso a disposizione del lavoratore fino al punto
di riproduzione della capacità che è prestata al ciclo produttivo. Ad esempio,
se per riprodurre un mese di vita è necessario disporre di una casa, sessanta
pasti, una certa dotazione di energia, alcuni vestiti e altri beni durevoli e
di intrattenimento, il salario che consente di comprarli è di equilibrio, la
forza-lavoro è comprata al suo prezzo. Se la produttività del lavoratore
consente di produrre i beni il cui valore di scambio è eguale a tale salario in
quattro ore al giorno per ventuno giorni, le altre quattro ore di lavoro sono
produttrici di plusvalore attraverso il plus-lavoro e quindi definiscono il
saggio di sfruttamento. Ci sono due forme attraverso le quali può darsi il “sovrasfruttamento”.
Il primo, più ovvio, evidenziato da Smith, è la contrazione del salario in
condizioni inferiori alla ‘convenzione’, tipica delle economie di esportazione.
La seconda è indiretta. Se i vestiti, i beni durevoli e alcuni altri beni nel
paniere di riproduzione sono forniti sottoprezzo, a causa della presenza di
lavoro meno costoso nelle periferie, allora si può abbassare il salario sotto
il (vecchio) livello di riproduzione e lo “sfruttamento”, senza cambiare le ore
lavorate, diventa “super sfruttamento”. Questo effetto è il dividendo
imperiale.
[16] - Si intende per “plusvalore
assoluto” la quota dei profitti della quale si appropria l’imprenditore semplicemente
aumentando le ore di lavoro senza incremento della produttività.
[17] - Si intende per “plusvalore
relativo” la quota dei profitti della quale si appropria l’imprenditore
aumentando l’efficienza della produzione (attraverso investimenti di capitale o
modifiche organizzative).
[18] - Karl Marx, “Il Capitale”,
Vol. III.
[19] - Si intende “circolo deflattivo”
una condizione strutturale di stagnazione-contrazione determinata da un assetto
delle relazioni internazionali e regolatorie. Si tratta della specifica
conseguenza del cambio dell’assetto nell’equilibrio dei poteri derivante dai
problemi egemonici maturati negli anni sessanta e settanta del novecento e
giunti a maturazione a partire dagli ottanta. Per certi versi è un nuovo
compromesso sociale a rapporti di forza invertiti, rispetto a quello del
welfare state. Nel contesto di un’impostazione economica essenzialmente deflattiva, si
crea la condizione per un allargamento della base produttiva, con il
coinvolgimento di centinaia di milioni di nuovi lavoratori, che produce effetti
molteplici sia sulla distribuzione sociale sia sui costi dei beni industriali e
quindi sul consumo. A partire dagli anni settanta, e via via più velocemente,
calano i prezzi relativi dei beni industriali di massa e questo, malgrado
l’erosione del reddito della parte attiva della popolazione, crea sia una
sensazione crescente di ricchezza diffusa sia il fenomeno sociale e culturale
del “consumismo”. Dunque, le condizioni per la creazione di un consenso su
nuove basi: sul consumo anziché sul lavoro. L’anello
autorafforzante posto al centro di questo modello di rapporti sociali è basato
su: la deregolazione e flessibilizzazione, il disinvestimento in occidente e la
creazione di capitale mobile eccedente, lo spostamento di produzioni all’estero
e la messa in concorrenza dei lavoratori, la deflazione dei prezzi e
stagnazione, il riciclaggio di parte della finanza eccedente in credito facile
per sostenere alcuni consumi ed investimenti. L’intero anello è sostenuto dalla
competizione innescata dalla mobilità e autonomizzazione del capitale. Dall’angolo
visuale di John Smith e dei coniugi Patnaik esso è fondato necessariamente ed
operativamente sull’imperialismo.
[20] - Smith nel suo articolo assume
una posizione terza tra l’imperialismo americano e in genere delle potenze
capitaliste e il “capitalismo di stato” cinese che, nella misura in cui è, a
suo parere, in transizione verso il capitalismo non può che assumere posture
imperialiste. Si tratta, come evidente, di una posizione di ispirazione trotskista
come l’autore.
[21] - Su questo tema si può leggere
Andy Higginbottom, “The
third form of surplus value increase”, 2009; “Structure
and essence in Capital I: extra surplus-value and the stages of capitalism”,
2013; “Imperial
rent in practice and theory”, 2014;
[22] - Per “convenzione” si intende il
livello medio dei consumi indispensabili che una data società considera
corrispondenti ad una vita “decente”. E quindi sotto i quali una persona si
sente necessariamente mal riuscita, svalutata, incompleta. E’ un set di valori
e bisogni convenzionale nel senso che non si tratta di un valore naturale,
meramente animale (altrimenti basterebbero un tot di calorie giornaliere, come
sia ottenute), ma di un valore sociale. Strettamente dipendente dall’ambiente
di vita ed in qualche misura anche dalle tradizioni di gruppo e familiari. Il
concetto è già presente in Engels nella sua opera del 1844, “La
situazione della classe operaia in Inghilterra”.
[24] - Ovvero sul problema di riprodurre
il capitale al termine di ogni ciclo di produzione-realizzazione. Problema al
centro delle controversie della socialdemocrazia tedesca e non solo al termine
del XIX secolo.
[25] - Con la sua focalizzazione sulla “accumulazione
per espropriazione”, o “capitalismo estrattivo”, Harvey propone di spostare l’accento
critico dalle contraddizioni nella produzione (e quindi dello sfruttamento) in
quelle della realizzazione di valore (e quindi dello scambio ineguale). Il punto
fondamentale si ha quando il valore è prodotto in un ambiente (es. in Cina, con
la sua “convenzione” e le sue condizioni strutturali) e realizzato in un altro
(es. in Italia, con la sua “convenzione” e condizioni strutturali). Oggi, per
Harvey, il capitalismo recupera valore fondando sulla circolazione, più che
sulla produzione, e quindi basandosi su una geografia complessa. Nel contesto
di questi rapporti un meccanismo che prende spazio è quello, normale nel
capitalismo, del puro e semplice “spossessamento” senza contropartita, o con
contropartite largamente insufficienti. Questo meccanismo è sempre stato
presente, ma ha particolare rilevanza nelle fasi di crisi e transizione.
[27] - In particolare, nella
conclusione di David Harvey, “La guerra perpetua: analisi di un nuovo imperialismo”,
pp. 171-172.
[28] - Utsa Patnaik, “Intervista a Utsa Patnaik: storia agraria e imperialismo”,
2019.
[29] - David Harvey, “La
realtà sul terreno: replica di David Harvey a John Smith”
[30] - Lenin, “L’imperialismo,
fase suprema del capitalismo”, 1915.
[31] - Giovanni Arrighi, “La geometria
dell’imperialismo”, Feltrinelli, 1978.
[32] - Un esempio del realismo di
Harvey è nella sua replica all’accusa di “riformismo” avanzata da Smith con
riferimento al suo libro “La crisi perpetua”: “Egli si prende gioco del modo in
cui, in La guerra perpetua: analisi del nuovo imperialismo, mi crogiolerei
all’idea di “un New Deal dell’imperialismo più benevolo”. Dal contesto si
evince come stessi dicendo che questa era l’unica via possibile all’interno del modo di
produzione capitalistico. All’epoca (2003) era evidente l’assenza di un
movimento della classe lavoratrice anche remotamente in grado di definire
un’alternativa al capitalismo, e quest’ultimo si stava dirigendo verso una
spiacevole sorpresa, del tipo effettivamente verificatosi nel 2007-8 (sì, ho
chiaramente previsto la probabilità di tutto ciò nel 2003, in La guerra perpetua: analisi
del nuovo imperialismo). Dato che la susseguente, e prevedibile, crisi è stata
risolta espropriando ulteriormente intere popolazioni di gran parte della loro
ricchezza e patrimoni, sono convinto sarebbe stato meglio per la sinistra
appoggiare un’alternativa di tipo keynesiano (il che, per inciso, è quanto in
seguito implementato dalla Cina).”
[33] - Iscrivo nel secondo la solida
insistenza di Smith ad accusare le limitazioni all’emigrazione come causa dell’indebolimento
e sovraffollamento nei paesi del sud (in quanto, evidentemente, se la
popolazione lavorativa in surplus emigrasse le condizioni di forza sul mercato
del lavoro locale cambierebbero. Come ovvio, l’emigrazione in occidente di un
paio di miliardi di lavoratori devasterebbe le condizioni di sostenibilità
sociale e politica. E, dal punto di vista di Smith, provocherebbe il crollo.
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