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martedì 19 gennaio 2021

Antonio Labriola, “In memoria del manifesto dei comunisti”, 1895, I.

 


Non si può riassumere in poche parole il percorso della vita di Antonio Labriola[1], il quale da posizioni vicine alla destra storica giovanile si orientò verso il socialismo quasi raggiunti i suoi cinquanta anni. Ma in poco più di dieci anni intensi e battaglieri ha lasciato in questo un’orma più profonda nel medio termine che nell’immediato. Rileggere testi dai quali ci separano oltre centoventi anni ed un mondo del tutto diverso può servire a liberarci dell’ombra di filosofi ed economisti morti, rintracciando i nessi e concatenamenti che sono stati conformati in un dato modo per effetto della pressione degli eventi e delle necessità, dello scontro delle forze intorno a loro, ma che potevano e possono essere altrimenti. Può anche ampliare ed approfondire la percezione che noi abbiamo dei dilemmi del nostro tempo, mettere in questione e disturbare la troppo tranquilla idea che siano “nuovi”. Che noi si stia sospesi sulla cresta del tempo.

Il grande dibattito del revisionismo, al quale Labriola partecipa a suo modo, è uno di quei punti spessi della storia nei quali molte linee di senso si sono intrecciate e dal quale, a loro modo, si determinano i piloni sui quali fu costruito il grande edificio del socialismo e comunismo novecentesco, oggi da tempo in rovina. Dalla trasformazione sociale, giuridica ed economica dell’Europa sul finire dell’ottocento Bernstein trasse l’idea che la forza crescente ed ormai matura del movimento dei lavoratori dovesse fare i conti in profondità con l’accresciuta complessità delle forme di organizzazione dello Stato, e con l’estensione delle forme giuridiche e politiche dentro il corpo sociale. E da ciò la conclusione che la schematica della ‘filosofia della storia’ che si era consolidata in una dogmatica per certi versi necessaria[2] andava superata, insieme allo schema della rivoluzione francese, per il quale nell’arco di mesi un’altra società si impone sulla rovina della precedente[3]. I punti di differenza individuati furono il superamento della centralità assoluta dell’idea di “modo di produzione” e l’identificazione di modernità e capitalismo, nel bene come nel male. Il Bernsteindebatter terremota interamente il marxismo del tempo e induce alcuni a parlare di prima (e finale) “crisi del marxismo”, e vede la proposta di Bernstein completamente sconfitta, nel fuoco incrociato della maggioranza di Kautsky e delle minoranze movimentiste di Liebknecht e Luxemburg (e di Sorel), oltre che dei bolscevichi di Lenin che assumeranno un peso preponderante negli anni venti.

Da questo grumo di problemi emerge la geniale soluzione leninista che sposta decisamente il focus dal modo di produzione capitalista, pensato sul modello tutto sommato statico della produzione di fabbrica e realizzazione nella circolazione delle merci, alla sua cosiddetta “fase suprema” imperialista. Il conflitto bipolare tra lavoro e capitale, dove il primo è prodotto dall’arbeiter, il lavoratore, in grado di associarsi cooperativamente e liberarsi dalla disciplina della forma capitale, viene terremotato da un terzo polo: i popoli oppressi[4]. L’intero processo di formazione del capitale viene ad essere riletto sub specie allargata, e centrato sul problema dell’imperialismo, e l’ipotesi che si potesse formare il soggetto del lavoratore collettivo cooperativo associato marxiano (dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale) diventa irrealistica. È dunque il Partito che deve fare le veci di questo processo automatico inattingibile.

Ed emerge anche l’altrettanto geniale, se pure incompiuta e non completa, sintesi gramsciana. Che, pur dando al Partito un ruolo centrale di “nuovo Principe”, pone la questione della lotta sul piano “sovrastrutturale” e quindi la necessità di diventare egemone nella società, aggregando intorno a sé non più solo l’arbeiter marxiano, quanto l’intera società.

 

Labriola è un anello centrale, anche se sepolto di tutto questo. Pur violentemente ostile a Bernstein, che vede operare una “modesta” e “enciclopedica” (ovvero disordinata) opera di dissoluzione dell’autonomia del marxismo, muove dalla consapevolezza che “le ardenti, vive e frettolose aspettazioni di alcuni anni fa danno ormai di cozzo nelle più complicate resistenze dei rapporti economici, e nei più intricati ingranaggi del mondo politico”[5]. La sua soluzione, come vedremo, è di superare la tendenza all’ossificazione ed al dogmatismo, non più adatto ai tempi, ripensando il marxismo come “filosofia della prassi”. Prassi, sia ben inteso, che ha bisogno sia della filosofia sia di obiettivi e fini ben delineati ed ambiziosi[6].

Labriola muove dall’esperienza della crisi economica del 1873, che lo allontana dal liberismo[7] e lo porta, nelle “lettere napoletane[8], a criticare distorsioni, insufficienze e mali del nascente stato italiano e del ceto politico moderato del suo mentore (il filosofo e politico Bernardo Spaventa). Da questo momento si impegna nelle lotte politiche fino a transitare nell’arco di pochi anni alla militanza nel movimento socialista nascente. Nel 1876 la crisi da sovrapproduzione di merci, impedite dal basso potere di acquisto aggregato delle masse e la competizione accentuata su quelli esteri, sembrò a Labriola confermare le tesi di Marx e provocò la caduta della “destra storica”.

Ma la “sinistra storica”, che la sostituisce al potere dà subito mostra di trasformismo (assorbendo parte del ceto politico ed intellettuale della destra, ed imitandone le politiche su molti punti cruciali), per cui il filosofo si sposta su posizioni più radicali. Nominato professore straordinario all’università di Roma inizia proprio nel 1876 a dare lezioni agli operai romani e nel 1979 compie un viaggio di studio in Germania, simpatizzando sempre più con le idee socialiste. Dal 1887 è professore di filosofia della storia all’università di Roma ed inizia a sostenere la necessità che lo Stato si impegni nell’economia, per cui “equilibrando le forze radicali e conservative, gradui intenzionalmente il progresso, e ne sia una consapevole e volontaria funzione”. Nel 1990 inizia una corrispondenza con Filippo Turati che, però, già due anni dopo critica severamente in una lettera ad Engels, dichiarando che la concezione del partito dello stesso è solo “la vecchia canzone bakuniniana del mettere insieme una combriccola di spostati della borghesia, di malcontenti per temperamento, e di pessimisti per invidia, per formare un partito socialista che vorrebbe poi dire una consorteria di politicanti”[9]. Si tratterebbe, insomma, di “abbracciare tutti e contentare tutti”.




Questa è la fase nella quale scrive il primo dei saggi con i quali introduce in modo sistematico il marxismo in Italia: “In memoria del manifesto dei comunisti”, nel 1895[10], accolto molto favorevolmente dallo stesso Engels. È il primo dei “saggi” sulla concezione materialistica della storia, nei quali traghetta la tradizione dell’illuminismo italiano[11], e prende posizione nel conflitto sullo storicismo del secolo XIX contro le interpretazioni positiviste ed evoluzioniste[12]. Labriola scriverà a Engels di essere giunto al socialismo attraverso “la filosofia della storia di Hegel e la psicologia dei popoli di Herbart”[13], ma naturalmente vi giunge soprattutto attraverso l’osservazione del degrado della politica italiana e della condizione dei ceti popolari, unitamente al disincanto verso i “radicalucci e piccolo borghesi” che si affollano anche nei ranghi della politica radicale e socialista. La questione centrale è di sottrarre il proletariato alla deleteria influenza della chiesa cattolica e dotarlo di autonomo pensiero teorico. Questa è la base anche dello scontro con il vertice del partito socialista[14]. Il punto è nel conflitto entro lo stesso partito tra, da una parte, chi come Turati ed il suo gruppo dirigente cerca di accelerare al massimo la formazione di un vasto movimento, aggregando in esso qualunque gruppo disponibile e quindi sperando che si possa in seguito “inoculargli il virus socialista”, e chi, come appunto Labriola, denuncia come ambigua questa impostazione, segnalando come prioritaria la necessità di radicare la coscienza di classe nella massa operaia.

 

Oltre che l’influenza diretta sui più giovani Benedetto Croce e Giovanni Gentile, i saggi labrioliani hanno una relazione complessa con la recezione di Antonio Gramsci. I due sono solo in parte sovrapposti, Gramsci aveva 13 anni quando Labriola muore a 61, ma a Torino si avvicina alla filosofia crociana e condivide con questi e con Labriola l’ostilità per il positivismo e lo scientismo della Seconda Internazionale. Il giovane studioso sardo entra in contatto con il pensiero del filosofo di Cassino attraverso uno dei suoi professori, Annibale Pastore, nel 1914 a dieci anni dalla morte, che lo presenta come il “marxista antideterminista che si opponeva all’unitarismo monistico di ascendenza positivistica”[15]. Nei “Quaderni dal carcere” critica comunque, da una parte, il giudizio troppo favorevole sul colonialismo[16] e, dall’altra, un certo residuo di determinismo che affiora in molti passaggi; tuttavia valorizza con molta enfasi l’impostazione filosofica generale della “filosofia della praxis” labrioliana. Scriverà nel “Quaderni”: “In realtà il Labriola, affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, e autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi[17]. La ripresa della formula labriolana, nel lavoro dal carcere al principio degli anni trenta, deriva dal tentativo di liberarsi dei residui positivisti ed idealisti, e si associa allo sforzo di fare i conti con i vecchi maestri come Benedetto Croce o Giovanni Gentile, e la sua teoria dell’atto “puro”. Proprio contro questa oppone una “filosofia dell’atto impuro” ovvero nella sua realtà concreta, che fa uso della “filosofia della praxis” labriolana.

Vediamo meglio, dunque, quale è il punto.

Nel terzo saggio, di cui in seguito parleremo, tornando anche sulla ricezione gramsciana, Labriola dà questa definizione, come midollo del materialismo storico:

“Il materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E ciò non sarà un gran male; purché rimanga in fondo il nocciolo, che n’è, come a dire tutta la filosofia. Per esempio, dei postulati come questi:

– nel processo della praxis è la natura, ossia l’evoluzione storica dell’uomo:

- e dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, s’intende di eliminare la volgare opposizione tra pratica e teoria:

- perché in altri termini, la società è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale alle attitudini mentali e alle attitudini operative, così, da un’altra parte, nel concetto di storia del lavoro è implicita la forma sempre sociale stesso, e il variare di tale forma:

- l’uomo storico è sempre l’uomo socialee il presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia:

- e così via.”

 

Una concezione che si fonda su una visione della storia stessa come di qualcosa che “non poggia su la differenza di vero e di falso, o di giusto e d’ingiusto, e molto meno su la più astratta antitesi di possibile e reale; come se le cose stessero da un conto, e avessero d’altro conto le proprie ombre e fantasmi nelle idee. Essa è sempre tutto d’un pezzo, e poggia tutto sul processo di formazione e trasformazione della società: il che è da intendere in senso obiettivo, e indipendentemente da ogni nostro soggettivo gradimento o sgradimento”[18]. Ciò significa riconoscerne una qualche “necessità” che deriva da “leggi immanenti al proprio divenire”. Ma queste leggi, che non vanno interpretate in senso positivistico (sistematico obiettivo polemico del nostro), emergono “data la sua attuale struttura economica e dati gli attriti che questa da sé in se stessa necessariamente produce, fino a far crepaccio e dissolversi”[19]. Sono questi passi che sono segnalati da Gramsci come residui di determinismo, ma, pur non essendo la critica infondata, occorre prestare attenzione alle condizioni incorporate. L’attuale, il da sé in se stessa. Per Labriola in linea generale, alla luce del Manifesto, “la coscienza teoretica del socialismo sta oggi, come prima, e come starà sempre, nella intelligenza della sua necessità storica, ossia nella consapevolezza del modo della sua genesi”. Infatti, quello che chiama “comunismo critico” (per distinguerlo dal socialismo non marxista) sorge solo in condizioni specifiche. Quando le condizioni sociali sussistono e, contemporaneamente, quando esso “ha già tanta forza in sé da intendere che queste condizioni sono mutabili, e da intravvedere con quali mezzi e in che senso possono essere mutate”[20].

 

Ricapitoliamo: l’interpretazione essenziale del “comunismo critico” di Antonio Labriola, in opposizione a quella datane dalla Seconda Internazionale ed alla ricezione italiana, è di “filosofia della praxis”. Ovvero di una concezione della società, dell’uomo, e della storia come totalità che prescinde dalle distinzioni artificiali tra teoria e pratica, idee e materia. L’approccio di Labriola si nutre di questa tensione ad individuare l’aristotelica ‘tensione immanente ad un processo’ (dynamen on), o, con il suo linguaggio, le “leggi immanenti al proprio divenire”, dove il divenire, od il processo, è però sempre situazionalmente determinato. Deriva, cioè, “necessariamente” dalla struttura, ma solo fino a che questa permane e in se stessa determina contraddizioni insuperabili. Se quindi si dà una “necessità storica” del socialismo, come crede, questa deriva dalla doppia condizione della sussistenza di condizioni (“indipendentemente dal nostro gradimento o sgradimento”) e della capacità di capirle socialmente come mutabili. Torneremo, nella terza lettura, sui problemi interni di questa concezione.

 

E quale è, nella società storicamente data, la radice di questa necessità, dunque? Scrive:

 

“il proletariato non è accessorio, un ammenicolo, una escrescenza, un male eliminabile di questa società in cui viviamo; ma è il suo sostrato, la sua condizione essenziale, il suo effetto inevitabile, e, a sua volta, la causa che conserva e mantiene in essere la società stessa; onde non può emanciparsi se non emancipando tutto o tutti, ossia rivoluzionando integralmente la forma della produzione”[21].

 

Cioè:

“il capitale non può impossessarsi della produzione se non a patto di proletarizzare, e non può continuare ad esistere, ad essere fruttifero, ad accumularsi, o moltiplicarsi e trasformarsi, se non a patto di salariare i proletarizzati. E questi, a lor volta, non possono esistere e rinnovarsi se non a condizione di darsi a mercede, come forza lavoro, il cui uso è abbandonato alla discrezione, cioè alla convenienza dei possessori del capitale”[22].

 

Nella ricezione del nostro il Manifesto fa solo questo. Non dà e non potrebbe dare alcuna forma della società futura, ma diagnostica il necessario crollo di quella presente. Crollo, attenzione, che “non può essere inoculato ad arte, né impostato ab extra”, ma che avverrà “per il proprio peso”. Perché la forma di produzione capitalistica genera in sé l’ampliamento della forma salariata proletaria, di pari passo all’espansione e concentrazione del capitale, e quindi determina le condizioni della crescente e progressiva ribellione contro le forme giuridiche del possesso del capitale stesso.

Ovviamente c’è chi a questa diagnosi non crede o si oppone, chi, scrive Labriola, pensa che “il liberalismo, che è la società degli eguali in diritto presuntivo, segni l’estremo limite della evoluzione umana, e che di là da esso non possa darsi che regresso. A ciò s’accomodano volentieri tutti quelli, che nella sola successiva estensione della forma borghese a tutto il mondo ripongono la ragione ed il fine di ogni progresso”[23]. Non solo i liberali, seguono questa idea, ma anche coloro che ne sono apparentemente opposti, infatti “non rare volte accade che tale sentimento, nella sua forma pessimistica, operi inconsapevolmente su molti di quelli che vanno ad ingrossare, con gli altri déclassés, le file dell’anarchismo”.

Poi ci sono coloro i quali ammettono la tensione, ma la considerano spostabile all’infinito e quindi il punto “teorico” della rivoluzione differibile. Sono i “riformisti”, per i quali la collisione risolutiva tra le dinamiche messe in moto dalle forze produttive e la forma sociale della produzione stessa si dissolverebbe ed estenuerebbe in “infiniti particolari attriti”, moltiplicandosi in collisioni particolari, generate dalla concorrenza economica stessa, e potrebbe essere indefinitamente deviata dalle arti del governo, attuandosi in un costante “ritocco e riparazione”. Per essi i “comunisti critici” sarebbero, insomma, utopisti.

 

A questa obiezione di utopismo (tra i suoi contemporanei Bernstein e Kautsky ed in Italia il gruppo di Turati, tutti en block), Labriola replica che il Manifesto compie una previsione storica del crollo sotto il proprio peso del modo di produzione capitalista, ma questa non implica una data specifica. Né anticipa la configurazione sociale futura. Non replica quindi la mossa “dell’eroico fra Dolcino”[24], che riprende le profezie di Giacchino da Fiore[25], né si tratta di ripetere i tentativi dei foureristi, o di Owen, di farsi setta che si ritrae dal mondo per creare la perfetta comunanza. Si tratta piuttosto della denuncia di una legge di movimento di carattere morfologico. Individuare gli elementi dei fatti storici e le relazioni tra questi, la natura in generale degli attriti e contrasti che si danno sempre in forma specifica e storicamente determinata. Aiutare ad individuare un “filo conduttore” che poi, però, deve essere inteso caso per caso, perché il tempo è in continua formazione.

 

Nel seguito viene ripresa la famosa formulazione di “Per la critica dell’economia politica[26], per la quale i rapporti giuridici e le forme politiche dello stato hanno la loro radice nei rapporti materiali della vita, e che, più profondamente, “l’anatomia della società civile [ovvero di questi] è da cercare nell’economia politica”. Come scrive Marx:

 

“nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano fra loro in rapporti determinati, necessarii e indipendenti dal loro arbitrio, cioè rapporti di produzione, i quali corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di produzione. L’insieme di tali rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale, su la quale si eleva una soprastruzione politica e giuridica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. La maniera della produzione della vita materiale determina innanzi tutto e soprattutto il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è all’incontro il suo essere sociale che determina la sua coscienza […]”[27].

 

Coerentemente con quanto scritto sopra, sottolinea Labriola, Marx era uscito dall’arena politica perché le condizioni della, pur necessaria, rivoluzione, non erano più. La reazione aveva battuto qualunque forma di opposizione sociale dopo il 1848, sia essa patriottica, liberale, democratica. Lo stesso era accaduto in Inghilterra con mezzi diversi. Come scrive, “le condizioni indispensabili allo sviluppo del movimento democratico e proletario vennero ad un tratto a mancare. La schiera, non certo molto numerosa, dei comunisti del Manifesto, che s’era mescolata alla rivoluzione, e poi dopo partecipò a tutti gli atti di resistenza, vide da ultimo troncata la sua attività col memorabile processo di Colonia. I sopravvissuti del movimento tentarono di ricominciare a Londra; ma a breve andare Marx ed Engels ed altri volsero le spalle ai rivoluzionari di professione, e si ritrassero dall’azione prossima. La crisi era passata. Una lunga pausa sopraggiungeva”[28]. Dunque, si dedicarono a “intendere la reazione” perché il punto è che il “comunismo critico” non “fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse”. Non segue neppure la generosa posizione di George Sorel. È una sola cosa con il movimento proletario, ma non è una sorta di seminario che ne formi gli stati maggiori, opera come “coscienza della rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze, come coscienza delle sue difficoltà”[29]. Per questo, espulso nel 1849 dal Belgio e poi lasciata Parigi, e riparato a Londra, Marx prima tenta di riavviare la rivista “Neue Rehinischhe Zeitung”, e poi di ricostruire la “Lega dei Comunisti”. Ma le frazioni che si determinano continuamente, la litigiosità tra gli emigrati[30], e le condizioni generali ormai del tutto sfavorevoli, in particolare dopo il colpo di stato bonapartista del 1851, determinano sia il ritiro di Engels a Manchester (resteranno separati per venti anni), sia la concentrazione di Marx nel solo lavoro scientifico. Si tratta per loro, appunto, ora di capire che cosa sia successo.

Sviluppando questa impostazione Labriola resta convinto che se lo sfruttamento e la creazione del proletariato (inoltre la sua estensione ed intensificazione) restano necessità proprie della forma capitalista, e quindi insuperabili per quanto la borghesia tenti di ammorbidirlo con legislazioni “sociali”[31], tuttavia nessun colpo di mano può accelerare “lo sviluppo delle cose”. La strada è quella della progressiva istruzione della massa, per cui, al di là della episodica e velleitaria presa di un Hotel de Ville[32], “la dittatura del proletariato non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e sarà il risultato dei proletarii stessi, che siano, già in sé, e per lungo esercizio, una organizzazione politica”[33].

 

Ciò non implica il più ferreo determinismo, proprio di chi legge il marxismo sub specie del positivismo, dell’evoluzionismo spenceriano, ma l’applicazione dialettica della concezione materialistica della storia. Labriola, che si era avvicinato ad Hegel nei circoli napoletani[34] della prima metà del secolo, vede insomma la storia come produzione e riproduzione della vita reale nella sua interezza. Chi riduce ciò al solo fattore economico, equivocando sul termine “base”, non ne comprende la profonda immersione nella “società civile”. Come dice peraltro lo stesso Marx, “trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi momenti della soprastruttura […] esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali […] se non fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado”[35].

 

Sulla base di questa struttura concettuale ripresa dalla formulazione labriolana, ma comprendendola e quindi superandola, la “filosofia della prassi” sarà connessa da Gramsci alla categoria di “egemonia” come capacità di proporre una prospettiva più ampia, inclusiva, potente e universale di quelle proposte dalle classi antagoniste.

 

Ne riparleremo nel terzo saggio.



[1] - Nato a Cassino il 2 luglio 1843 e morto a Roma il 12 febbraio 1904, è stato uno dei più importanti filosofi italiani del suo tempo, allievo di Bernardo Spaventa (1817-1883) e successivamente allontanatosi dalla destra storica per avvicinarsi al socialismo marxista.

[2] - La crescita del movimento nelle condizioni della metà del XIX secolo, tra la classe operaia, richiedeva la costruzione di miti in grado di motivare semplificando, e soprattutto, in modo non tanto dissimile da quello della parusia per i primi cristiani, di annunciare l’imminenza e stretta necessità della vittoria. Si trattava in un certo senso di una forma di falsa coscienza necessaria, alla quale lo stesso ultimo Engels mise mano, ma che fu in particolare sviluppata dai suoi luogotenenti tra i quali il principale fu Karl Kautsky.

[3] - Schema al quale per vicinanza biografica era inconsapevolmente legato lo stesso Marx, nato ad appena trenta anni dagli eventi in oggetto e a pochi anni dalla caduta di Napoleone, questi ancora vivente.

[4] - Si veda le tesi di Lenin al secondo congresso della III internazionale del 1920, ripresi e commentati in “Vladimir Lenin, ‘tesi sulle questioni nazionali e coloniali”. Per una lettura molto più ampia rimando al mio Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[5] - Antonio Labriola, “Democrazia e socialismo in Italia”, Milano 1054, p. 89.

[6] - La critica che Gramsci, e lo stesso Labriola, sviluppano verso Bernstein si impernia su questo punto. Lo smarrimento dei fini del socialismo, ridotto ad una sorta di radicalismo democratico, priva lo stesso “movimento” della sua forza propulsiva. Come dice “senza la prospettiva di fini concreti non si riesce a mantenere il movimento”. Antonio Gramsci, “Quaderni dal carcere”, Vol I, p. 1099.

[7] - Un giornalista tedesco, F. Kumberger, ebbe a dire in questa circostanza che la libertà dei liberali era “libera volpe in libero pollaio”.

[8] - Pubblicate da “La nazione” nel 1872.

[9] - Lettera a Engels del maggio 1892.

[10] - Pubblicato sulla rivista di Sorel “Le devenir social”.

[11] - In particolare, la filosofia della storia di Vico, ripreso appunto dallo stesso Labriola, ma anche da Sorel (“Etudes sur Vico”, 1896) e Lafargue e consigliato dallo stesso Marx a Lassale nel 1861.

[12] - Si possono riassumere a grandissima quota due opposte interpretazioni dello storicismo riattivato da Vico: una romantica, che considera lo sviluppo storico secondo il modello della crescita organica degli esseri viventi; l’altra che cerca una scienza della società e leggi dello sviluppo. Espressione massima della prima è Hegel, della seconda Saint Simon, Comte ed infine la ricezione positivista di Darwin operata da Spencer.

[13] - Herbart è l’iniziatore di due nuove “scienze dello spirito”, la “psicologia dei popoli” e la “linguistica comparata”, attraverso i quali ricerca in un grande sistema di pensiero l’elaborazione scientifica dei fatti del sapere storico. In esso intravede la chiave di una “spiegazione genetica dei fatti”, che sia insieme concreta e sobria. Che eviti di tentare di dar conto della realtà “temerariamente”, attraverso “un paio di parole magiche”.

[14] - Dal 1891 si scontra aspramente con Leopold Jacoby, Achille Loria e Enrico Ferri, Turati dà a Labriola “del tedesco, dell’ideologo, dell’ignaro della vita, dell’amante della linea logica”; Anna Kuliscioff lo irride (il “professorissimo”).

[15] - Cit. in, Angelo D’Orsi, “Gramsci”, Feltrinelli 2017, p.71.

[16] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal carcere”, quaderno 8, Appunti di filosofia, $ 200, Einaudi, 1975, p.1061 (vedi anche p. 1366).

[17] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal carcere”, cit., p.

[18] - Antonio Labriola, “In memoria del manifesto dei comunisti”, Centoautori, 2020, p.23. ed. or. 1895. Anche in Antonio Labriola, “Saggi sul materialismo storico”, Editori Riuniti, 2019, pp.31-81.

[19] - Ivi, p.26

[20] - Ivi, p.41

[21] - Ivi, p.44

[22] - Ivi., p.49

[23] - Ivi., p. 64

[24] - Labriola spende ricerche, ed un corso universitario, intorno alla figura di questo monaco che predica un ritorno apocalittico del cristianesimo puramente evangelico. Si tratta di un movimento vicino sia agli albigesi sia alla “pataria”, che nasce nel contesto delle violente mutazioni della società del tempo, in cui contadini liberati dai feudi vengono violentemente proletarizzati dai vicini liberi comuni. Siamo al principio del XIV secolo nella valle del Po, dove condizioni di incipiente modernizzazione si scontrano con le rigidità e le forme giuridiche della chiesa e del potere locale. Gioca una potente funzione aggregante e mobilitante il “mito” e, in qualche misura, il ricordo o tramando nei testi e nelle tradizioni, delle origini fantastiche del cristianesimo stesso come setta degli “assolutamente eguali” (Ivi, p.261).

[25] - Gioacchino da Fiore (1145 - 1202) è stato un monaco cistercense, figlio di un notaio e abate di Corazzo fino al 1187. Esonerato dal papa Clemente III fondò l’eremo di San Giovanni in Fiore e fondò l’ordine florense. Scrisse diverse opere teologiche, alcune perse, come il “De articulis fidei” e il “De unitate seu essentia trintatis”, oltre alcune opere esegetiche e raccolte di sermoni. La storia è riletta da Gioacchino come una successione di stadi, che porterà all’epoca dello Spirito, un’epoca di suprema libertà, perfetta carità, completa spiritualità. Guidata in questo da un ordine religioso perfetto.

[26] - Karl Marx, “Per la critica dell’economia politica”, 1859.

[27] - Marx, 1859, cit. in Labriola, ivi, p.73

[28] - Ivi, p. 76

[29] - Ivi., p. 80

[30] - Ad esempio, Nicolao Merkel riporta l’episodio del banchetto del24 febbraio 1851, per celebrare tra esuli la rivoluzione del 1848, nel quale i seguaci di Marx furono buttati fuori a bastonate da Kinkel ed i suoi. La divergenza, che attraversava la “Lega” era tra chi, come l’esule del Baden, voleva ritornare alla clandestinità cospirativa e chi, come Marx ed Engels, reputava che il riflusso dipendesse da condizioni storiche ed oggettive e quindi bisognasse lavorare con pazienza ad una larga e pubblica organizzazione dei lavoratori. Per dieci anni i due amici si isolarono dall’ambiente tossico dei gruppuscoli radicali. Cfr. Nicola Merkel, “Karl Marx”, Laterza, 2010, p.94. Si veda anche, Marco Simonic, “Invito al pensiero di Marx”, Mursia, 2017, p.24.

[31] - Le legislazioni sociali sono introdotte a seguito della grande crisi in tutti i paesi a capitalismo avanzato, in Inghilterra, Germania e Francia…

[32] - Il riferimento è, ovviamente, alla Comune di Parigi

[33] - Ivi. p. 88

[34] - La ricezione di Hegel in Italia si avvia nel 1832, da parte di Gian Domenico Romagnosi, che ne critica la filosofia della storia, e poi di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo. In ogni caso negli ambienti risorgimentali sono recepite la nozione di libertà, intesa come la liberazione dell’umanità attraverso la lotta dello spirito nella sua esistenza storica, e l’idea di progresso e liberazione per tutte le nazioni. Ma a Napoli, nell’arco dal 1840 al 1876, intellettuali come Bernardo Spaventa e Francesco De Sanctis ne sviluppano il portato filosofico. Come scrive Pasquale Villari a Bernardo Spaventa nel 1850: “Fare intendere Hegel all’Italia, vorrebbe dire rigenerare l’Italia […] Senza filosofia non si può diventar nazione, e filosofia italica oggi non v’è, né vi è speranza, se qualche giovane ardito non si spinge innanzi: ardisci. L’Italia non deve correre dietro alle pedate di nessuno, ha bisogno di trovare un sistema che rappresenti tutta la nazionalità, che raccolga quanti elementi di vita sono in tutta la penisola; ma, prima di tutto, ha bisogno di ritrovare la coscienza di sé medesima, ed a questo nessun sistema è più capace dell’hegeliano. (Spaventa 1923, 78)”. Di seguito l’antipositivismo dello stesso Labriola indusse l’attenzione di una nuova generazione di studiosi di cui i più eminenti sono Benedetto Croce e Giovanni Gentile, entrambi formati agli studi hegeliani.

[35] - Lettera a Engels del 8 maggio 1970.

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