Non
si può riassumere in poche parole il percorso della vita di Antonio Labriola[1], il quale da posizioni
vicine alla destra storica giovanile si orientò verso il socialismo quasi
raggiunti i suoi cinquanta anni. Ma in poco più di dieci anni intensi e
battaglieri ha lasciato in questo un’orma più profonda nel medio termine che
nell’immediato. Rileggere testi dai quali ci separano oltre centoventi anni ed
un mondo del tutto diverso può servire a liberarci dell’ombra di filosofi ed
economisti morti, rintracciando i nessi e concatenamenti che sono stati
conformati in un dato modo per effetto della pressione degli eventi e delle
necessità, dello scontro delle forze intorno a loro, ma che potevano e possono
essere altrimenti. Può anche ampliare ed approfondire la percezione che noi
abbiamo dei dilemmi del nostro tempo, mettere in questione e disturbare la
troppo tranquilla idea che siano “nuovi”. Che noi si stia sospesi sulla cresta
del tempo.
Il
grande dibattito del revisionismo, al quale Labriola partecipa a suo modo, è
uno di quei punti spessi della storia nei quali molte linee di senso si sono
intrecciate e dal quale, a loro modo, si determinano i piloni sui quali fu
costruito il grande edificio del socialismo e comunismo novecentesco, oggi da
tempo in rovina. Dalla trasformazione sociale, giuridica ed economica dell’Europa
sul finire dell’ottocento Bernstein trasse l’idea che la forza crescente ed
ormai matura del movimento dei lavoratori dovesse fare i conti in profondità con
l’accresciuta complessità delle forme di organizzazione dello Stato, e con l’estensione
delle forme giuridiche e politiche dentro il corpo sociale. E da ciò la
conclusione che la schematica della ‘filosofia della storia’ che si era consolidata
in una dogmatica per certi versi necessaria[2] andava superata, insieme
allo schema della rivoluzione francese, per il quale nell’arco di mesi un’altra
società si impone sulla rovina della precedente[3]. I punti di differenza
individuati furono il superamento della centralità assoluta dell’idea di “modo
di produzione” e l’identificazione di modernità e capitalismo, nel bene come
nel male. Il Bernsteindebatter terremota interamente il marxismo del tempo e
induce alcuni a parlare di prima (e finale) “crisi del marxismo”, e vede la
proposta di Bernstein completamente sconfitta, nel fuoco incrociato della
maggioranza di Kautsky e delle minoranze movimentiste di Liebknecht e Luxemburg
(e di Sorel), oltre che dei bolscevichi di Lenin che assumeranno un peso preponderante
negli anni venti.
Da
questo grumo di problemi emerge la geniale soluzione leninista che sposta
decisamente il focus dal modo di produzione capitalista, pensato sul modello tutto
sommato statico della produzione di fabbrica e realizzazione nella circolazione
delle merci, alla sua cosiddetta “fase suprema” imperialista. Il conflitto
bipolare tra lavoro e capitale, dove il primo è prodotto dall’arbeiter, il
lavoratore, in grado di associarsi cooperativamente e liberarsi dalla
disciplina della forma capitale, viene terremotato da un terzo polo: i
popoli oppressi[4].
L’intero processo di formazione del capitale viene ad essere riletto sub specie
allargata, e centrato sul problema dell’imperialismo, e l’ipotesi che si
potesse formare il soggetto del lavoratore collettivo cooperativo associato
marxiano (dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale) diventa irrealistica. È
dunque il Partito che deve fare le veci di questo processo automatico
inattingibile.
Ed
emerge anche l’altrettanto geniale, se pure incompiuta e non completa, sintesi
gramsciana. Che, pur dando al Partito un ruolo centrale di “nuovo Principe”,
pone la questione della lotta sul piano “sovrastrutturale” e quindi la
necessità di diventare egemone nella società, aggregando intorno a sé non più solo
l’arbeiter marxiano, quanto l’intera società.
Labriola
è un anello centrale, anche se sepolto di tutto questo. Pur violentemente
ostile a Bernstein, che vede operare una “modesta” e “enciclopedica” (ovvero
disordinata) opera di dissoluzione dell’autonomia del marxismo, muove dalla
consapevolezza che “le ardenti, vive e frettolose aspettazioni di alcuni anni
fa danno ormai di cozzo nelle più complicate resistenze dei rapporti economici,
e nei più intricati ingranaggi del mondo politico”[5]. La sua soluzione, come
vedremo, è di superare la tendenza all’ossificazione ed al dogmatismo, non più
adatto ai tempi, ripensando il marxismo come “filosofia della prassi”. Prassi,
sia ben inteso, che ha bisogno sia della filosofia sia di obiettivi e fini ben
delineati ed ambiziosi[6].
Labriola
muove dall’esperienza della crisi economica del 1873, che lo allontana dal
liberismo[7] e lo porta, nelle “lettere
napoletane”[8],
a criticare distorsioni, insufficienze e mali del nascente stato italiano e del
ceto politico moderato del suo mentore (il filosofo e politico Bernardo Spaventa).
Da questo momento si impegna nelle lotte politiche fino a transitare nell’arco
di pochi anni alla militanza nel movimento socialista nascente. Nel 1876 la
crisi da sovrapproduzione di merci, impedite dal basso potere di acquisto
aggregato delle masse e la competizione accentuata su quelli esteri, sembrò a
Labriola confermare le tesi di Marx e provocò la caduta della “destra storica”.
Ma
la “sinistra storica”, che la sostituisce al potere dà subito mostra di
trasformismo (assorbendo parte del ceto politico ed intellettuale della destra,
ed imitandone le politiche su molti punti cruciali), per cui il filosofo si
sposta su posizioni più radicali. Nominato professore straordinario
all’università di Roma inizia proprio nel 1876 a dare lezioni agli operai
romani e nel 1979 compie un viaggio di studio in Germania, simpatizzando sempre
più con le idee socialiste. Dal 1887 è professore di filosofia della storia
all’università di Roma ed inizia a sostenere la necessità che lo Stato si
impegni nell’economia, per cui “equilibrando le forze radicali e conservative,
gradui intenzionalmente il progresso, e ne sia una consapevole e volontaria
funzione”. Nel 1990 inizia una corrispondenza con Filippo Turati che, però, già
due anni dopo critica severamente in una lettera ad Engels, dichiarando che la
concezione del partito dello stesso è solo “la vecchia canzone bakuniniana del
mettere insieme una combriccola di spostati della borghesia, di malcontenti per
temperamento, e di pessimisti per invidia, per formare un partito socialista
che vorrebbe poi dire una consorteria di politicanti”[9]. Si tratterebbe, insomma,
di “abbracciare tutti e contentare tutti”.
Questa
è la fase nella quale scrive il primo dei saggi con i quali introduce in modo sistematico
il marxismo in Italia: “In memoria del manifesto dei comunisti”, nel
1895[10], accolto molto
favorevolmente dallo stesso Engels. È il primo dei “saggi” sulla concezione
materialistica della storia, nei quali traghetta la tradizione dell’illuminismo
italiano[11],
e prende posizione nel conflitto sullo storicismo del secolo XIX contro le
interpretazioni positiviste ed evoluzioniste[12]. Labriola scriverà a
Engels di essere giunto al socialismo attraverso “la filosofia della storia di
Hegel e la psicologia dei popoli di Herbart”[13], ma naturalmente vi
giunge soprattutto attraverso l’osservazione del degrado della politica
italiana e della condizione dei ceti popolari, unitamente al disincanto verso i
“radicalucci e piccolo borghesi” che si affollano anche nei ranghi della
politica radicale e socialista. La questione centrale è di sottrarre il
proletariato alla deleteria influenza della chiesa cattolica e dotarlo di
autonomo pensiero teorico. Questa è la base anche dello scontro con il
vertice del partito socialista[14]. Il punto è nel conflitto
entro lo stesso partito tra, da una parte, chi come Turati ed il suo gruppo
dirigente cerca di accelerare al massimo la formazione di un vasto movimento,
aggregando in esso qualunque gruppo disponibile e quindi sperando che si possa in
seguito “inoculargli il virus socialista”, e chi, come appunto
Labriola, denuncia come ambigua questa impostazione, segnalando come
prioritaria la necessità di radicare la coscienza di classe nella massa
operaia.
Oltre
che l’influenza diretta sui più giovani Benedetto Croce e Giovanni Gentile, i
saggi labrioliani hanno una relazione complessa con la recezione di Antonio Gramsci.
I due sono solo in parte sovrapposti, Gramsci aveva 13 anni quando Labriola
muore a 61, ma a Torino si avvicina alla filosofia crociana e condivide con
questi e con Labriola l’ostilità per il positivismo e lo scientismo della
Seconda Internazionale. Il giovane studioso sardo entra in contatto con il
pensiero del filosofo di Cassino attraverso uno dei suoi professori, Annibale
Pastore, nel 1914 a dieci anni dalla morte, che lo presenta come il “marxista
antideterminista che si opponeva all’unitarismo monistico di ascendenza
positivistica”[15].
Nei “Quaderni dal carcere” critica comunque, da una parte, il giudizio
troppo favorevole sul colonialismo[16] e, dall’altra, un certo
residuo di determinismo che affiora in molti passaggi; tuttavia valorizza con
molta enfasi l’impostazione filosofica generale della “filosofia della praxis”
labrioliana. Scriverà nel “Quaderni”: “In realtà il Labriola, affermando
che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica,
e autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente
la filosofia della prassi”[17]. La ripresa della formula
labriolana, nel lavoro dal carcere al principio degli anni trenta, deriva dal
tentativo di liberarsi dei residui positivisti ed idealisti, e si associa allo
sforzo di fare i conti con i vecchi maestri come Benedetto Croce o Giovanni
Gentile, e la sua teoria dell’atto “puro”. Proprio contro questa oppone una
“filosofia dell’atto impuro” ovvero nella sua realtà concreta, che fa
uso della “filosofia della praxis” labriolana.
Vediamo
meglio, dunque, quale è il punto.
Nel
terzo saggio, di cui in seguito parleremo, tornando anche sulla ricezione
gramsciana, Labriola dà questa definizione, come midollo del materialismo
storico:
“Il
materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso
stesso una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E
ciò non sarà un gran male; purché rimanga in fondo il nocciolo, che n’è, come a
dire tutta la filosofia. Per esempio, dei
postulati come questi:
–
nel processo della praxis è la
natura, ossia l’evoluzione storica dell’uomo:
-
e dicendo praxis, sotto questo aspetto
di totalità, s’intende di eliminare la volgare opposizione tra pratica e
teoria:
-
perché in altri termini, la società è la storia del lavoro, e come, da una
parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo
rispettivamente proporzionato e proporzionale alle attitudini mentali e alle
attitudini operative, così, da un’altra parte, nel concetto di storia del
lavoro è implicita la forma sempre sociale stesso, e il variare di tale forma:
-
l’uomo storico è sempre l’uomo sociale, e il
presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia:
-
e così via.”
Una
concezione che si fonda su una visione della storia stessa come di qualcosa che
“non poggia su la differenza di vero e di falso, o di giusto e d’ingiusto, e
molto meno su la più astratta antitesi di possibile e reale; come se le cose
stessero da un conto, e avessero d’altro conto le proprie ombre e fantasmi
nelle idee. Essa è sempre tutto d’un pezzo, e poggia tutto sul processo
di formazione e trasformazione della società: il che è da intendere in senso
obiettivo, e indipendentemente da ogni nostro soggettivo gradimento o
sgradimento”[18].
Ciò significa riconoscerne una qualche “necessità” che deriva da “leggi
immanenti al proprio divenire”. Ma queste leggi, che non vanno interpretate in
senso positivistico (sistematico obiettivo polemico del nostro), emergono “data
la sua attuale struttura economica e dati gli attriti che questa da
sé in se stessa necessariamente produce, fino a far crepaccio e
dissolversi”[19].
Sono questi passi che sono segnalati da Gramsci come residui di determinismo,
ma, pur non essendo la critica infondata, occorre prestare attenzione alle
condizioni incorporate. L’attuale, il da sé in se stessa. Per
Labriola in linea generale, alla luce del Manifesto, “la coscienza
teoretica del socialismo sta oggi, come prima, e come starà sempre, nella
intelligenza della sua necessità storica, ossia nella consapevolezza del modo
della sua genesi”. Infatti, quello che chiama “comunismo critico” (per
distinguerlo dal socialismo non marxista) sorge solo in condizioni
specifiche. Quando le condizioni sociali sussistono e, contemporaneamente, quando
esso “ha già tanta forza in sé da intendere che queste condizioni sono
mutabili, e da intravvedere con quali mezzi e in che senso possono essere
mutate”[20].
Ricapitoliamo:
l’interpretazione essenziale del “comunismo critico” di Antonio Labriola, in
opposizione a quella datane dalla Seconda Internazionale ed alla ricezione
italiana, è di “filosofia della praxis”. Ovvero di una concezione della
società, dell’uomo, e della storia come totalità che prescinde dalle
distinzioni artificiali tra teoria e pratica, idee e materia. L’approccio di
Labriola si nutre di questa tensione ad individuare l’aristotelica ‘tensione
immanente ad un processo’ (dynamen on), o, con il suo linguaggio, le “leggi
immanenti al proprio divenire”, dove il divenire, od il processo, è però
sempre situazionalmente determinato. Deriva, cioè, “necessariamente” dalla
struttura, ma solo fino a che questa permane e in se stessa determina
contraddizioni insuperabili. Se quindi si dà una “necessità storica” del
socialismo, come crede, questa deriva dalla doppia condizione della sussistenza
di condizioni (“indipendentemente dal nostro gradimento o sgradimento”) e della
capacità di capirle socialmente come mutabili. Torneremo, nella terza lettura,
sui problemi interni di questa concezione.
E
quale è, nella società storicamente data, la radice di questa necessità,
dunque? Scrive:
“il
proletariato non è accessorio, un ammenicolo, una escrescenza, un male
eliminabile di questa società in cui viviamo; ma è il suo sostrato, la sua
condizione essenziale, il suo effetto inevitabile, e, a sua volta, la causa che
conserva e mantiene in essere la società stessa; onde non può emanciparsi se
non emancipando tutto o tutti, ossia rivoluzionando integralmente la forma
della produzione”[21].
Cioè:
“il
capitale non può impossessarsi della produzione se non a patto di
proletarizzare, e non può continuare ad esistere, ad essere fruttifero, ad
accumularsi, o moltiplicarsi e trasformarsi, se non a patto di salariare i
proletarizzati. E questi, a lor volta, non possono esistere e rinnovarsi se non
a condizione di darsi a mercede, come forza lavoro, il cui uso è abbandonato alla
discrezione, cioè alla convenienza dei possessori del capitale”[22].
Nella
ricezione del nostro il Manifesto fa solo questo. Non dà e non potrebbe
dare alcuna forma della società futura, ma diagnostica il necessario crollo di
quella presente. Crollo, attenzione, che “non può essere inoculato ad arte, né
impostato ab extra”, ma che avverrà “per il proprio peso”. Perché la forma di
produzione capitalistica genera in sé l’ampliamento della forma salariata
proletaria, di pari passo all’espansione e concentrazione del capitale, e
quindi determina le condizioni della crescente e progressiva ribellione
contro le forme giuridiche del possesso del capitale stesso.
Ovviamente
c’è chi a questa diagnosi non crede o si oppone, chi, scrive Labriola, pensa
che “il liberalismo, che è la società degli eguali in diritto presuntivo, segni
l’estremo limite della evoluzione umana, e che di là da esso non possa darsi
che regresso. A ciò s’accomodano volentieri tutti quelli, che nella sola
successiva estensione della forma borghese a tutto il mondo ripongono la
ragione ed il fine di ogni progresso”[23]. Non solo i liberali,
seguono questa idea, ma anche coloro che ne sono apparentemente opposti,
infatti “non rare volte accade che tale sentimento, nella sua forma
pessimistica, operi inconsapevolmente su molti di quelli che vanno ad
ingrossare, con gli altri déclassés, le file dell’anarchismo”.
Poi
ci sono coloro i quali ammettono la tensione, ma la considerano spostabile
all’infinito e quindi il punto “teorico” della rivoluzione differibile. Sono i
“riformisti”, per i quali la collisione risolutiva tra le dinamiche messe in
moto dalle forze produttive e la forma sociale della produzione stessa si
dissolverebbe ed estenuerebbe in “infiniti particolari attriti”,
moltiplicandosi in collisioni particolari, generate dalla concorrenza economica
stessa, e potrebbe essere indefinitamente deviata dalle arti del governo,
attuandosi in un costante “ritocco e riparazione”. Per essi i “comunisti
critici” sarebbero, insomma, utopisti.
A
questa obiezione di utopismo (tra i suoi contemporanei Bernstein e Kautsky ed
in Italia il gruppo di Turati, tutti en block), Labriola replica che il Manifesto
compie una previsione storica del crollo sotto il proprio peso del modo di
produzione capitalista, ma questa non implica una data specifica. Né anticipa
la configurazione sociale futura. Non replica quindi la mossa “dell’eroico fra
Dolcino”[24],
che riprende le profezie di Giacchino da Fiore[25], né si tratta di ripetere
i tentativi dei foureristi, o di Owen, di farsi setta che si ritrae dal mondo
per creare la perfetta comunanza. Si tratta piuttosto della denuncia di una legge
di movimento di carattere morfologico. Individuare gli elementi dei
fatti storici e le relazioni tra questi, la natura in generale degli attriti e
contrasti che si danno sempre in forma specifica e storicamente determinata.
Aiutare ad individuare un “filo conduttore” che poi, però, deve essere inteso
caso per caso, perché il tempo è in continua formazione.
Nel
seguito viene ripresa la famosa formulazione di “Per la critica
dell’economia politica”[26], per la quale i rapporti
giuridici e le forme politiche dello stato hanno la loro radice nei rapporti
materiali della vita, e che, più profondamente, “l’anatomia della società
civile [ovvero di questi] è da cercare nell’economia politica”. Come scrive
Marx:
“nella
produzione sociale della loro vita gli uomini entrano fra loro in rapporti
determinati, necessarii e indipendenti dal loro arbitrio, cioè rapporti di
produzione, i quali corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle
materiali forze di produzione. L’insieme di tali rapporti costituisce la
struttura economica della società, ossia la base reale, su la quale si eleva
una soprastruzione politica e giuridica, e alla quale corrispondono determinate
forme sociali della coscienza. La maniera della produzione della vita materiale
determina innanzi tutto e soprattutto il processo sociale, politico e
intellettuale della vita. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo
essere, ma è all’incontro il suo essere sociale che determina la sua coscienza
[…]”[27].
Coerentemente
con quanto scritto sopra, sottolinea Labriola, Marx era uscito dall’arena
politica perché le condizioni della, pur necessaria, rivoluzione, non erano
più. La reazione aveva battuto qualunque forma di opposizione sociale dopo
il 1848, sia essa patriottica, liberale, democratica. Lo stesso era accaduto in
Inghilterra con mezzi diversi. Come scrive, “le condizioni indispensabili allo
sviluppo del movimento democratico e proletario vennero ad un tratto a mancare.
La schiera, non certo molto numerosa, dei comunisti del Manifesto, che s’era
mescolata alla rivoluzione, e poi dopo partecipò a tutti gli atti di
resistenza, vide da ultimo troncata la sua attività col memorabile processo di
Colonia. I sopravvissuti del movimento tentarono di ricominciare a Londra; ma a
breve andare Marx ed Engels ed altri volsero le spalle ai rivoluzionari di
professione, e si ritrassero dall’azione prossima. La crisi era passata. Una
lunga pausa sopraggiungeva”[28]. Dunque, si dedicarono a
“intendere la reazione” perché il punto è che il “comunismo critico” non
“fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse”. Non
segue neppure la generosa posizione di George Sorel. È una sola cosa con il
movimento proletario, ma non è una sorta di seminario che ne formi gli stati
maggiori, opera come “coscienza della rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze,
come coscienza delle sue difficoltà”[29]. Per questo, espulso nel
1849 dal Belgio e poi lasciata Parigi, e riparato a Londra, Marx prima tenta di
riavviare la rivista “Neue Rehinischhe Zeitung”, e poi di ricostruire la
“Lega dei Comunisti”. Ma le frazioni che si determinano continuamente,
la litigiosità tra gli emigrati[30], e le condizioni generali
ormai del tutto sfavorevoli, in particolare dopo il colpo di stato bonapartista
del 1851, determinano sia il ritiro di Engels a Manchester (resteranno separati
per venti anni), sia la concentrazione di Marx nel solo lavoro scientifico. Si
tratta per loro, appunto, ora di capire che cosa sia successo.
Sviluppando
questa impostazione Labriola resta convinto che se lo sfruttamento e la creazione
del proletariato (inoltre la sua estensione ed intensificazione) restano
necessità proprie della forma capitalista, e quindi insuperabili per
quanto la borghesia tenti di ammorbidirlo con legislazioni “sociali”[31], tuttavia nessun colpo di
mano può accelerare “lo sviluppo delle cose”. La strada è quella della
progressiva istruzione della massa, per cui, al di là della episodica e
velleitaria presa di un Hotel de Ville[32], “la dittatura del
proletariato non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni,
ma deve essere e sarà il risultato dei proletarii stessi, che siano, già in sé,
e per lungo esercizio, una organizzazione politica”[33].
Ciò
non implica il più ferreo determinismo, proprio di chi legge il marxismo sub
specie del positivismo, dell’evoluzionismo spenceriano, ma l’applicazione
dialettica della concezione materialistica della storia. Labriola, che si era
avvicinato ad Hegel nei circoli napoletani[34] della prima metà del
secolo, vede insomma la storia come produzione e riproduzione della vita reale
nella sua interezza. Chi riduce ciò al solo fattore economico, equivocando sul
termine “base”, non ne comprende la profonda immersione nella “società civile”.
Come dice peraltro lo stesso Marx, “trasforma quella proposizione in una frase
vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi
momenti della soprastruttura […] esercitano pure la loro influenza sul corso
delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo
preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed
attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come
elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali […] se non
fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia
sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado”[35].
Sulla
base di questa struttura concettuale ripresa dalla formulazione labriolana, ma
comprendendola e quindi superandola, la “filosofia della prassi” sarà
connessa da Gramsci alla categoria di “egemonia” come capacità di proporre una
prospettiva più ampia, inclusiva, potente e universale di quelle proposte dalle
classi antagoniste.
Ne
riparleremo nel terzo saggio.
[1] - Nato a Cassino il 2 luglio 1843
e morto a Roma il 12 febbraio 1904, è stato uno dei più importanti filosofi
italiani del suo tempo, allievo di Bernardo Spaventa (1817-1883) e
successivamente allontanatosi dalla destra storica per avvicinarsi al socialismo
marxista.
[2] - La crescita del movimento nelle
condizioni della metà del XIX secolo, tra la classe operaia, richiedeva la costruzione
di miti in grado di motivare semplificando, e soprattutto, in modo non tanto
dissimile da quello della parusia per i primi cristiani, di annunciare l’imminenza
e stretta necessità della vittoria. Si trattava in un certo senso di una forma
di falsa coscienza necessaria, alla quale lo stesso ultimo Engels mise mano, ma
che fu in particolare sviluppata dai suoi luogotenenti tra i quali il
principale fu Karl Kautsky.
[3] - Schema al quale per vicinanza
biografica era inconsapevolmente legato lo stesso Marx, nato ad appena trenta
anni dagli eventi in oggetto e a pochi anni dalla caduta di Napoleone, questi
ancora vivente.
[4] - Si veda le tesi di Lenin al
secondo congresso della III internazionale del 1920, ripresi e commentati in “Vladimir
Lenin, ‘tesi sulle questioni nazionali e coloniali”. Per una lettura molto
più ampia rimando al mio Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[5] - Antonio Labriola, “Democrazia
e socialismo in Italia”, Milano 1054, p. 89.
[6] - La critica che Gramsci, e lo stesso
Labriola, sviluppano verso Bernstein si impernia su questo punto. Lo smarrimento
dei fini del socialismo, ridotto ad una sorta di radicalismo democratico, priva
lo stesso “movimento” della sua forza propulsiva. Come dice “senza la
prospettiva di fini concreti non si riesce a mantenere il movimento”. Antonio
Gramsci, “Quaderni dal carcere”, Vol I, p. 1099.
[7] - Un giornalista tedesco, F.
Kumberger, ebbe a dire in questa circostanza che la libertà dei liberali era
“libera volpe in libero pollaio”.
[8] - Pubblicate da “La nazione”
nel 1872.
[9] - Lettera a Engels del maggio
1892.
[10] - Pubblicato sulla rivista di
Sorel “Le devenir social”.
[11] - In particolare, la filosofia
della storia di Vico, ripreso appunto dallo stesso Labriola, ma anche da Sorel
(“Etudes sur Vico”, 1896) e Lafargue e consigliato dallo stesso Marx a Lassale
nel 1861.
[12] - Si possono riassumere a
grandissima quota due opposte interpretazioni dello storicismo riattivato da
Vico: una romantica, che considera lo sviluppo storico secondo il modello della
crescita organica degli esseri viventi; l’altra che cerca una scienza della
società e leggi dello sviluppo. Espressione massima della prima è Hegel, della
seconda Saint Simon, Comte ed infine la ricezione positivista di Darwin operata
da Spencer.
[13] - Herbart è l’iniziatore di due
nuove “scienze dello spirito”, la “psicologia dei popoli” e la “linguistica
comparata”, attraverso i quali ricerca in un grande sistema di pensiero
l’elaborazione scientifica dei fatti del sapere storico. In esso intravede la
chiave di una “spiegazione genetica dei fatti”, che sia insieme concreta e
sobria. Che eviti di tentare di dar conto della realtà “temerariamente”,
attraverso “un paio di parole magiche”.
[14] - Dal 1891 si scontra aspramente
con Leopold Jacoby, Achille Loria e Enrico Ferri, Turati dà a Labriola “del
tedesco, dell’ideologo, dell’ignaro della vita, dell’amante della linea
logica”; Anna Kuliscioff lo irride (il “professorissimo”).
[15] - Cit. in, Angelo D’Orsi, “Gramsci”,
Feltrinelli 2017, p.71.
[16] - Antonio Gramsci, “Quaderni
dal carcere”, quaderno 8, Appunti di filosofia, $ 200, Einaudi, 1975,
p.1061 (vedi anche p. 1366).
[17] - Antonio Gramsci, “Quaderni
dal carcere”, cit., p.
[18] - Antonio Labriola, “In memoria
del manifesto dei comunisti”, Centoautori, 2020, p.23. ed. or. 1895. Anche
in Antonio Labriola, “Saggi sul materialismo storico”, Editori Riuniti,
2019, pp.31-81.
[19] - Ivi, p.26
[20] - Ivi, p.41
[21] - Ivi, p.44
[22] - Ivi., p.49
[23] - Ivi., p. 64
[24] - Labriola spende ricerche, ed un
corso universitario, intorno alla figura di questo monaco che predica un
ritorno apocalittico del cristianesimo puramente evangelico. Si tratta di un
movimento vicino sia agli albigesi sia alla “pataria”, che nasce nel contesto
delle violente mutazioni della società del tempo, in cui contadini liberati dai
feudi vengono violentemente proletarizzati dai vicini liberi comuni. Siamo al
principio del XIV secolo nella valle del Po, dove condizioni di incipiente
modernizzazione si scontrano con le rigidità e le forme giuridiche della chiesa
e del potere locale. Gioca una potente funzione aggregante e mobilitante il
“mito” e, in qualche misura, il ricordo o tramando nei testi e nelle
tradizioni, delle origini fantastiche del cristianesimo stesso come setta degli
“assolutamente eguali” (Ivi, p.261).
[25] - Gioacchino da Fiore (1145 -
1202) è stato un monaco cistercense, figlio di un notaio e abate di Corazzo
fino al 1187. Esonerato dal papa Clemente III fondò l’eremo di San Giovanni in
Fiore e fondò l’ordine florense. Scrisse diverse opere teologiche, alcune
perse, come il “De articulis fidei” e il “De unitate seu essentia trintatis”,
oltre alcune opere esegetiche e raccolte di sermoni. La storia è riletta da
Gioacchino come una successione di stadi, che porterà all’epoca dello Spirito,
un’epoca di suprema libertà, perfetta carità, completa spiritualità. Guidata in
questo da un ordine religioso perfetto.
[26] - Karl Marx, “Per la critica
dell’economia politica”, 1859.
[27] - Marx, 1859, cit. in Labriola,
ivi, p.73
[28] - Ivi, p. 76
[29] - Ivi., p. 80
[30] - Ad esempio, Nicolao Merkel
riporta l’episodio del banchetto del24 febbraio 1851, per celebrare tra esuli
la rivoluzione del 1848, nel quale i seguaci di Marx furono buttati fuori a
bastonate da Kinkel ed i suoi. La divergenza, che attraversava la “Lega” era
tra chi, come l’esule del Baden, voleva ritornare alla clandestinità
cospirativa e chi, come Marx ed Engels, reputava che il riflusso dipendesse da
condizioni storiche ed oggettive e quindi bisognasse lavorare con pazienza ad
una larga e pubblica organizzazione dei lavoratori. Per dieci anni i due amici
si isolarono dall’ambiente tossico dei gruppuscoli radicali. Cfr. Nicola
Merkel, “Karl Marx”, Laterza, 2010, p.94. Si veda anche, Marco Simonic,
“Invito al pensiero di Marx”, Mursia, 2017, p.24.
[31] - Le legislazioni sociali sono
introdotte a seguito della grande crisi in tutti i paesi a capitalismo
avanzato, in Inghilterra, Germania e Francia…
[32] - Il riferimento è, ovviamente,
alla Comune di Parigi
[33] - Ivi. p. 88
[34] - La ricezione di Hegel in Italia
si avvia nel 1832, da parte di Gian Domenico Romagnosi, che ne critica la
filosofia della storia, e poi di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo. In ogni
caso negli ambienti risorgimentali sono recepite la nozione di libertà, intesa
come la liberazione dell’umanità attraverso la lotta dello spirito nella sua
esistenza storica, e l’idea di progresso e liberazione per tutte le nazioni. Ma
a Napoli, nell’arco dal 1840 al 1876, intellettuali come Bernardo Spaventa e
Francesco De Sanctis ne sviluppano il portato filosofico. Come scrive Pasquale
Villari a Bernardo Spaventa nel 1850: “Fare intendere Hegel all’Italia,
vorrebbe dire rigenerare l’Italia […] Senza filosofia non si può diventar
nazione, e filosofia italica oggi non v’è, né vi è speranza, se qualche giovane
ardito non si spinge innanzi: ardisci. L’Italia non deve correre dietro alle
pedate di nessuno, ha bisogno di trovare un sistema che rappresenti tutta la
nazionalità, che raccolga quanti elementi di vita sono in tutta la penisola;
ma, prima di tutto, ha bisogno di ritrovare la coscienza di sé medesima, ed a
questo nessun sistema è più capace dell’hegeliano. (Spaventa 1923, 78)”. Di
seguito l’antipositivismo dello stesso Labriola indusse l’attenzione di una
nuova generazione di studiosi di cui i più eminenti sono Benedetto Croce e
Giovanni Gentile, entrambi formati agli studi hegeliani.
[35] - Lettera a Engels del 8 maggio
1970.
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