Dopo
aver discusso del primo dei “saggi sul materialismo storico”, il testo
del 1895 “In
memoria del Manifesto dei comunisti”, proseguiamo questa lettura di Labriola
con il secondo saggio del 1896, cui seguirà il terzo, “Discorrendo di
socialismo e di filosofia” (1898), e avrebbe dovuto dar seguito “Da un
secolo all’altro”, fermato allo stato di abbozzo dalla morte nel 1904.
Le
ricezioni dei “saggi” dovranno saltare un quarantennio, dopo l’iniziale l’apprezzamento
di Franz Mehring nel 1904 in sede di necrologio, e l’ancora più tempestivo
invito di Lenin nel 1897 di tradurlo in russo, o di Trockij l’anno seguente, o,
infine, il tardivo apprezzamento di Karl Korsch nel 1929. Per una vera ripresa
del pensiero di Labriola si dovrà arrivare alla ripresa e benedizione di
Togliatti che lo mette nell’albero genealogico del marxismo italiano insieme ai
remoti Vico, ed agli hegeliani Bernardo Spaventa e Francesco De Sanctis, ed,
ovviamente, ad Antonio Gramsci. Una linea genealogica, divenuta nel tempo scolastica,
che si radicava nella tradizione nazionale italiana molto profondamente,
finendo, anche contro le avvertenze e le intenzioni degli autori in oggetto, per
tradursi in una sorta di comodo sviluppo storico progressivo e lineare. La
lettura diretta dei testi disintegra questa percezione.
Certo,
l’insieme dell’opera soggiace alla critica che gli avanzerà Croce nelle sue
lettere a Gentile: mancanza di chiarezza, di schematismo, di ordine,
didatticismo, di capacità analitica e di discussione minuta. Un certo
“ondeggiare” che del resto anche lui, dettosi più portato alla parola che allo
scritto, riconosceva. Insomma, critica che peraltro estende a Marx ed Engels
stessi, di non elaborare sufficientemente il pensiero, lasciarlo “in forma
imprecisa e contraddittoria”[1]. Cosa che non gli
impedisce di far ripubblicare i saggi del vecchio maestro ed amico nel 1938.
Anche
per Labriola, del resto, la stessa dottrina di Marx è da percepire solo come
“filo conduttore” e non come “gran piano o disegno”. Per cui occorre seguire il
motto hegeliano per il quale “intendere è superare”, rifiutando ogni
“verbalismo” in favore del senso vivo e reale delle cose. Quello che riguarda i
soggetti “reali”, “ossia le forze positivamente operanti, gli uomini nelle
varie e circostanziate situazioni sociali proprie loro”[2]. Quel senso storico per il
quale se si esamina, ad esempio, la riforma luterana occorre avere ben chiaro
che le movenze sociali, la lotta delle classi emergenti, che ne fu motore
nascosto, visibile post factum, non impediscono che i protagonisti ne
fossero del tutto all’oscuro, e che agissero come hanno fatto, secondo le
precise circostanze date per così dire nella moneta di piccolo taglio della
reazione giorno per giorno all’insieme degli stimoli. Scrivere la storia
comporta infatti intenderla tutta intera, nocciolo e scorza. Chi, aggiunge
Labriola, “per zelo novizio” pensi che basti mettere in evidenza il momento economico
per buttare via il resto come inutile fardello, “di cui gli uomini si fossero
caricati a capriccio”, compirebbe quindi un errore capitale. Non bisogna, come
nella recezione del darwinismo, avere fretta di concludere ed abusare
dell’analogia.
Dunque:
“non c’è luogo qui, nella nostra
dottrina, né a confondersi col darwinismo, né a rievocare la concezione di una
qualunque forma, o mitica, o metaforica di fatalismo. Perché, se è vero che la
stessa poggia innanzi tutto su lo svolgimento della tecnica; e, cioè
dire, se è vero, che per effetto del successivo ritrovamento degl’istrumenti si
generano le successive spartizioni del lavoro, e con queste poi le
disuguaglianze, nel cui concorso più o meno stabile consiste il così detto
organismo sociale, gli è altrettanto vero che il ritrovamento di tali
instrumenti è causa ed effetto ad un tempo stesso di quelle condizioni e forme
della vita interiore che noi, isolandole nella astrazione psicologica,
chiamiamo fantasia, intelletto, ragione, pensiero e così via. Producendo
successivamente i varii ambienti sociali, ossia i successivi terreni
artificiali, l’uomo ha prodotto in pari tempo le modificazioni di sé stesso; e
in ciò consiste il nocciolo serio, la ragione concreta, il fondamento positivo
di ciò che, per varie combinazioni fantastiche e con varia architettura logica,
dà luogo presso gli ideologisti alla nozione del progresso umano”[3].
Tutto, insomma, accade per opera dell’uomo, ma non per sua integrale scelta critica, quanto per necessità, determinata dai bisogni e dalle occasioni, la quale a sua volta determina esperienza e “sviluppa organi interni ed esterni”. Il testo è di grande densità ed individua un punto di equilibrio tra il determinismo economicista e la tecnofilia verso il quale scivola costantemente il corpus marxiano e tanto più marxista e una concezione dell’uomo e della storia più ampia e politica, che successivamente sarà tentato da Gramsci. La dottrina che tenta di fondare come filosofia poggia[4], nel giro di pensiero che propone, su quello che chiama non tanto “la tecnica” (dizione che sarebbe di sapore kantiano) quanto il suo svolgimento. Ed “innanzi tutto” potrebbe leggersi nel contesto del giro, in principio nell’ordine espositivo. Dunque, la dottrina si eleva a partire da uno svolgimento che innesca una meccanica data: gli strumenti provocano come effetto divisioni del lavoro e di qui ineguaglianze. Però, poiché le ineguaglianze (proprie della divisione del lavoro prodotta dagli strumenti tecnici) concorrono a creare l’organismo sociale, seguirebbe che è la tecnica che lo produce. Evidentemente qui si sommano le nozioni marxiane e la sua formazione herbertiana. Abbiamo però fin qui condotto solo metà del giro, e questa metà sarebbe compatibile con forme di positivismo ed evoluzionismo. Nell’ordine espositivo viene ora la seconda metà del giro interpretativo che Labriola propone: tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero che questi strumenti non si trovano o cadono dal cielo. La scoperta della tecnica è sia causa quanto effetto delle condizioni della vita interiore sociale. Una totalità che nelle partizioni disciplinari (nelle quali l’ottocento fu maestro) si può chiamare in molti modi, ma sono unitarie. Queste forme e condizioni producono i diversi ambienti sociali e questi quelle piattaforme che chiama “i successivi terreni artificiali”. Insomma, l’uomo produce il mondo e anche se stesso. Tutto ciò è il progresso. Una nozione che, come si vede, non è positiva più di quanto sia negativa, non è materiale più di quanto sia spirituale.
Dopo
la previsione dell’insorgenza in Russia, che si sta sviluppando in una società
moderna, delle “condizioni di una rispondente rivoluzione politica”, sia pure condotte
a scapito degli ultimi avanzi del comunismo agrario (osservato a suo tempo
anche da Marx e dai populisti[5]), Labriola ribadisce che
lo stesso progresso, “la cui nozione è non solo empirica, ma sempre
circostanziata e per ciò limitata, non istà sul corso delle cose umane come un
destino od un fato, né qual comando di legge”. La dottrina socialista, in altre
parole, per Labriola non immagina la storia come una necessaria scala da
sant’Agostino ad Hegel, non è la visione intellettuale di un piano. Esistono sempre
degli “impedimenti”, i quali derivano dalla struttura sociale stessa. Struttura
che è attraversata e costituita dallo sforzo delle istituzioni e delle norme e
forme politiche di tenere in equilibrio le ineguaglianze economiche e perciò,
per l’autore, è continuamente instabile. Attraversata costantemente da una lotta
interna ed esterna, che riguarda e coinvolge lo Stato, il quale anche per lui,
come per Marx, è essenzialmente organo e strumento di una parte contro l’altra.
E,
ancora,
“questa società delle antitesi, che
si regge a stato, è sempre, per quanto in varie forme e modi, l’opposizione
della città e della campagna, dell’artigiano e del contadino, del proletario e
del padrone, del capitalista e del lavoratore, e così via da non finirla, e
mette sempre capo, con varie complicazioni e modalità, in una gerarchia, o che
ciò accada per quadro fisso di privilegio come nel Medio Evo, o che, nelle
dissimulate forme del diritto presuntivamente eguale per tutti, ciò si avveri
per l’azione automatica della concorrenza economica, come è ora”[6].
Con
formula felice: “la relatività del progresso è per noi, dunque, la
conseguenza inevitabile delle antitesi di classe”.
Per
cui, ad esempio, lo sviluppo delle macchine porta non solo al trionfo della
scienza, ma anche “per le condizioni antitetiche della compagine sociale”, produce
gli strumenti della proletarizzazione e della subordinazione delle campagne.
Quindi, in un subitaneo rovesciamento, “il progresso visto così, ed appreso
nella sua chiara nozione, ci appare come il compendio morale ed intellettuale
di tutte le umane miserie, e di tutte le materiali disuguaglianze”.
Se
quanto fino ad ora scritto è rivolto contro la tentazione di rileggere il marxismo
come determinismo positivista, e quindi viene speso contro l’atteggiamento
della Seconda Internazionale, purtuttavia come abbiamo visto il materialismo di
Labriola non consente neppure di accettare un dualismo che veda le idee come
qualcosa di separato e primario. Secondo il suo modo di esprimersi, infatti, “le
idee non cascano dal cielo”, sono solo un altro prodotto dell’attività
umana e si formano sempre entro circostanze date. Nella maturità dei tempi,
secondo l’azione di determinati bisogni che cercano di avere soddisfazione. Hanno
sempre un lato tecnico e suppongono un terreno di condizioni sociali di
possibilità. Derivano, insomma dal lavoro (di cui il pensiero è esso stesso una
forma).
Come
le idee anche le classi sociali non emergono dalla terra, non sono
presenti in natura, ma neppure per questo si può dire che esse derivino dal
caso o dall’arbitrio. Invece sono formazioni che nascono storicamente e
socialmente “entro ed attorno” ad una determinata forma di produzione. Per cui
nel secolo XIX dalla rovina economica delle classi dei piccoli proprietari e
dei contadini nacque insieme il capitale e le nuove città intorno alle nuove
fabbriche, nuove forme di miseria e nuove forme di ricchezza, tutte dimensioni tenute
a braccetto e separate. Insieme sorse anche una nuova forma dello Stato, e nuove
cerchie di interessati alla sua esistenza. Si è trattato, dunque, di una
necessità che deriva direttamente dalle differenziazioni economiche; un sistema
di forze che mantiene l’equilibrio, o lo impone con la forza. Quindi così come
la società non è un corpo omogeneo, ma una particolareggiata articolazione,
“anzi un multiforme complesso di interessi antitetici, così accade, che alcune
volte i reggitori dello stato tendano ad isolarsi, e in tale isolamento si
contrappongano a tutta intera la società. E poi, in secondo luogo, accade, che
organi e funzioni create la prima volta a benefizio di tutti, degenerino in
abusi di consorterie, di conventicole e di camorre. Di qui le aristocrazie e le
gerarchie nate dall’uso dei poteri politici, e di qui le dinastie; le quali
formazioni, viste alla luce della semplice logica, paiono irrazionali del
tutto”[7].
Infine,
si deve dire che lo Stato non è Idea che si esplica nella storia, ma più
prosaicamente:
“un reale ordinamento
di difese per garantire e perpetuare un metodo di convivenza, il cui fondamento
è, o una forma di produzione economica, o un accordo ed una transazione tra
diverse forme. A farla più breve, lo Stato suppone, o un sistema di proprietà,
o l’accordo tra più sistemi di proprietà. In ciò è il fondamento di ogni sua
arte, al cui esercizio occorre, che lo Stato stesso divenga una potenza
economica, e che abbia anche i mezzi e i modi per far passare la proprietà
nelle mani degli uni e nelle mani degli altri. Quando, per effetto di una
rinnovazione acuta e violenta delle forme della produzione, occorre di provvedere
ad un insolito e straordinario spostamento dei rapporti di proprietà (p. es.
abolizione della manomorta e del feudo, abolizione dei monopolii commerciali),
allora la vecchia forma politica è insufficiente, e la rivoluzione è necessaria
per creare il nuovo organo che esegua la trasformazione economica”[8].
Una
forma, quella della statualità o comunque della forma politica della
ineguaglianza, che è sempre esistita ma si è articolata nei diversi luoghi e
tempi nei più diversi modi.
Potrà
essa mai essere superata, si chiede Labriola, giunto a questo punto? Ci sarà
mai una forma di produzione comunistica, che annulli le disuguaglianze e quindi
la necessità dello Stato stesso? La risposta che dà è che questo risultato
si otterrà “dall’immanente processo della storia” e non come postulato della
critica o come meta volontaria. In questi passi Gramsci rinviene il residuo di
determinismo, ma comunque soggetto alle complesse avvertenze sospensive
disseminate nel testo. Questa previsione si compie piuttosto dall’osservazione
della produzione capitalistica stessa, si tratta quindi di una deduzione a base
empirica. La produzione capitalistica, infatti, socializza continuamente il
modo del produrre (con il crescere del modo industriale e la forma della
fabbrica come base della società), inoltre lega il lavoro vivo alle “condizioni
obiettive della tecnica” e, infine, concentra sempre più la proprietà dei mezzi
di produzione nelle mani di pochi. Ma questi pochi, “come azionisti e
negoziatori di azioni si trovano sempre più assenti dal lavoro immediato, la
cui direzione passa all’intelligenza”[9].
Il
punto, la dimensione razionale di questa previsione eroica, è che:
“col crescere della
coscienza di tale situazione nei proletarii, cui l’insegnamento della
solidarietà viene dalle condizioni stesse della loro reggimentazione, e col
decrescere della capacità dei detentori del capitale a conservare la privata
direzione del lavoro produttivo, si verrà ad un punto in cui, di un modo o
nell’altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e profitto
privato, la produzione passerà all’associazione collettiva, ossia sarà
comunistica. Così cesseranno tutte le disuguaglianze, che non siano quelle
naturali del sesso, dell’età, del temperamento e della capacità, cesseranno,
cioè, tutte le ineguaglianze che hanno attinenza con le classi economiche, e
anzi da queste son generate. E sparite le classi verrà meno la possibilità
dello stato, come dominio dell’uomo sull’uomo. Il governo tecnico e pedagogico
dell’intelligenza sarebbe l’unico ordine della società”[10].
Anche
la formazione del diritto, lungo la sua storia a partire dalla codificazione
romana al giusnaturalismo sei-settecentesco è connessa con questo mutamento
continuo della forma della soggezione. Si tratta del riflesso intellettuale
delle rivoluzioni che sono state prodotte dalla pratica e nello sviluppo delle
forze produttive e delle tecniche. Nella continua alterazione tra la
produttività del lavoro e la coordinazione dei cooperanti al mutare degli
strumenti (in senso ampio) occorrenti alla produzione stessa. In altre parole
“il processo ed il progresso della tecnica, come sono l’indice, così sono la
condizione di ogni altro processo e progresso”.
Ovviamente
tutto questo non implica la frase “da cretino” che tutto si riduca alla
dimensione economica, o che con poche formulette a memoria sia detto l’intero
scibile umano. Come se la Divina Commedia possa essere compendiata nel numero
di panni di lana che il mercato di Firenze negozia in un anno. Non si tratta infatti
di separare ancora accidente da sostanza, parvenza da realtà, fenomeno dal
nocciolo, ma di spiegare intreccio e complesso in quanto tali; “si tratta della
storia non del suo scheletro”. Si tratta “del racconto e non dell’astrazione”,
e quindi è sempre “un’arte”.
Né
si lascia definire semplicemente secondo la freccia indefettibile ed orientata
del “progresso”. Come abbiamo visto, e nel seguito Labriola ricostruisce anche
nello sviluppo di storia delle idee, anche l’idea di progresso, figlia del
secolo, non cade dal cielo. Appare e si
fa centrale nel periodo eroico della vita politica ed intellettuale della
borghesia trionfante sull’antico regime. Nella sostanza questa idea implicherebbe
che il capitalismo è la forma di produzione che sola è capace di estendersi a
tutta la terra e uniformare tutto. Tutto il genere umano viene ristretto come
un unico campo di concorrenza e tutta la terra come un unico mercato. E che
tutto ciò che storicamente lo precede prepara questo coronamento.
Più
in generale in questo saggio, come nell’opera complessiva dell’ultimo Labriola,
sembra di rintracciare una tensione tra le “opere” e le “forme della coscienza”
degli uomini concreti. Sfuggendo alla svalorizzazione delle seconde come “ideologia”,
cosa che avrebbe scavato un solco sotto la stessa possibilità di fare il lavoro
del teorico e di fondare una “filosofia della prassi”. Contro la
tendenziale dissoluzione della riduzione delle seconde ad “ideologia”, e quindi
alla loro svalutazione radicale, viene rimessa in circolo l’intera questione
della coppia “struttura”/”sovrastruttura” e una nozione di progresso come mero avanzamento.
E con essa la subordinazione della forma sociale all’agire economico. Una più
ampia visione dell’uomo immerso nella natura e nella società.
Di
qui si arriverò, ma ne parleremo al prossimo saggio, alla posizione di Antonio Gramsci
per il quale:
“l’uomo è da concepire come un
blocco storico di elementi oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in
rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, sviluppare se stesso. Che il ‘miglioramento’
etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli
elementi costitutivi dell’individualità è ‘individuale’, ma essa non si
realizza e si sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei
rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in
vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto
massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo
è essenzialmente ‘politico’, poiché l’attività per trasformare e dirigere
coscientemente gli altri uomini realizza la sua ‘umanità’, la sua ‘natura umana’”[11].
[1] - Opinione condivisa, ad esempio,
da un interprete altrettanto eccessivo, polemico, attaccabrighe e pronto alla
battuta tagliente di Labriola, come Costanzo Preve, per il quale Marx non ha
sistematizzato alcun “ismo”, limitandosi a produrre un modello epistemologico
ed alcuni concetti interpretativi (“modo di produzione”, “forze produttive
sociali”, “rapporti sociali di produzione”, “ideologia”), lasciandoli “aperti”.
Marx, insomma, sarebbe “un campo aperto di contraddizioni” che solo in parte
saranno ricucite (ma facendo un certo grado di violenza necessaria) da Engels e
dalla seconda internazionale (in particolare Kautsky) che fornirono uno sbocco
politico ed una capacità egemonica creando una dottrina. Si veda Costanzo
Preve, “Storia critica del marxismo”, La Città del Sole, 2007, p.88-90.
[2] - Antonio Labriola, “Saggi sul
materialismo storico”, Editori Riuniti, 2019, p.89.
[3] - Ivi, p. 100
[4] - Torna qui la metafora marxiana
della “base” e della “soprastruttura”, citata indirettamente in questo atto di
poggiare, di appoggiarsi ed elevarsi su.
[5] - Si veda, ad esempio, “Il
‘Manifesto del Partito Comunista’: la prefazione del 1882 all’edizione russa”.
[6] - Ivi, p.109
[7] - Ivi, p.136
[8] - Ivi., p.137
[9] - straordinario passaggio, scritto
nel 1896, quando Hilferding interverrà con il suo “Il capitale finanziario”,
solo nel 1910, e il noto passaggio dei “Grundisse” non è noto.
[10] - Ivi., p.138
[11] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal
carcere”, “La filosofia di Croce”, II, cit., p. 1338.
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