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mercoledì 20 gennaio 2021

Antonio Labriola, “Del materialismo storico. Delucidazione preliminare”, 1896, II

 

 

Dopo aver discusso del primo dei “saggi sul materialismo storico”, il testo del 1895 “In memoria del Manifesto dei comunisti”, proseguiamo questa lettura di Labriola con il secondo saggio del 1896, cui seguirà il terzo, “Discorrendo di socialismo e di filosofia” (1898), e avrebbe dovuto dar seguito “Da un secolo all’altro”, fermato allo stato di abbozzo dalla morte nel 1904.

Le ricezioni dei “saggi” dovranno saltare un quarantennio, dopo l’iniziale l’apprezzamento di Franz Mehring nel 1904 in sede di necrologio, e l’ancora più tempestivo invito di Lenin nel 1897 di tradurlo in russo, o di Trockij l’anno seguente, o, infine, il tardivo apprezzamento di Karl Korsch nel 1929. Per una vera ripresa del pensiero di Labriola si dovrà arrivare alla ripresa e benedizione di Togliatti che lo mette nell’albero genealogico del marxismo italiano insieme ai remoti Vico, ed agli hegeliani Bernardo Spaventa e Francesco De Sanctis, ed, ovviamente, ad Antonio Gramsci. Una linea genealogica, divenuta nel tempo scolastica, che si radicava nella tradizione nazionale italiana molto profondamente, finendo, anche contro le avvertenze e le intenzioni degli autori in oggetto, per tradursi in una sorta di comodo sviluppo storico progressivo e lineare. La lettura diretta dei testi disintegra questa percezione.




Certo, l’insieme dell’opera soggiace alla critica che gli avanzerà Croce nelle sue lettere a Gentile: mancanza di chiarezza, di schematismo, di ordine, didatticismo, di capacità analitica e di discussione minuta. Un certo “ondeggiare” che del resto anche lui, dettosi più portato alla parola che allo scritto, riconosceva. Insomma, critica che peraltro estende a Marx ed Engels stessi, di non elaborare sufficientemente il pensiero, lasciarlo “in forma imprecisa e contraddittoria”[1]. Cosa che non gli impedisce di far ripubblicare i saggi del vecchio maestro ed amico nel 1938.

Anche per Labriola, del resto, la stessa dottrina di Marx è da percepire solo come “filo conduttore” e non come “gran piano o disegno”. Per cui occorre seguire il motto hegeliano per il quale “intendere è superare”, rifiutando ogni “verbalismo” in favore del senso vivo e reale delle cose. Quello che riguarda i soggetti “reali”, “ossia le forze positivamente operanti, gli uomini nelle varie e circostanziate situazioni sociali proprie loro”[2]. Quel senso storico per il quale se si esamina, ad esempio, la riforma luterana occorre avere ben chiaro che le movenze sociali, la lotta delle classi emergenti, che ne fu motore nascosto, visibile post factum, non impediscono che i protagonisti ne fossero del tutto all’oscuro, e che agissero come hanno fatto, secondo le precise circostanze date per così dire nella moneta di piccolo taglio della reazione giorno per giorno all’insieme degli stimoli. Scrivere la storia comporta infatti intenderla tutta intera, nocciolo e scorza. Chi, aggiunge Labriola, “per zelo novizio” pensi che basti mettere in evidenza il momento economico per buttare via il resto come inutile fardello, “di cui gli uomini si fossero caricati a capriccio”, compirebbe quindi un errore capitale. Non bisogna, come nella recezione del darwinismo, avere fretta di concludere ed abusare dell’analogia.

 

Dunque:

 

non c’è luogo qui, nella nostra dottrina, né a confondersi col darwinismo, né a rievocare la concezione di una qualunque forma, o mitica, o metaforica di fatalismo. Perché, se è vero che la stessa poggia innanzi tutto su lo svolgimento della tecnica; e, cioè dire, se è vero, che per effetto del successivo ritrovamento degl’istrumenti si generano le successive spartizioni del lavoro, e con queste poi le disuguaglianze, nel cui concorso più o meno stabile consiste il così detto organismo sociale, gli è altrettanto vero che il ritrovamento di tali instrumenti è causa ed effetto ad un tempo stesso di quelle condizioni e forme della vita interiore che noi, isolandole nella astrazione psicologica, chiamiamo fantasia, intelletto, ragione, pensiero e così via. Producendo successivamente i varii ambienti sociali, ossia i successivi terreni artificiali, l’uomo ha prodotto in pari tempo le modificazioni di sé stesso; e in ciò consiste il nocciolo serio, la ragione concreta, il fondamento positivo di ciò che, per varie combinazioni fantastiche e con varia architettura logica, dà luogo presso gli ideologisti alla nozione del progresso umano[3].

 

Tutto, insomma, accade per opera dell’uomo, ma non per sua integrale scelta critica, quanto per necessità, determinata dai bisogni e dalle occasioni, la quale a sua volta determina esperienza e “sviluppa organi interni ed esterni”. Il testo è di grande densità ed individua un punto di equilibrio tra il determinismo economicista e la tecnofilia verso il quale scivola costantemente il corpus marxiano e tanto più marxista e una concezione dell’uomo e della storia più ampia e politica, che successivamente sarà tentato da Gramsci. La dottrina che tenta di fondare come filosofia poggia[4], nel giro di pensiero che propone, su quello che chiama non tanto “la tecnica” (dizione che sarebbe di sapore kantiano) quanto il suo svolgimento. Ed “innanzi tutto” potrebbe leggersi nel contesto del giro, in principio nell’ordine espositivo. Dunque, la dottrina si eleva a partire da uno svolgimento che innesca una meccanica data: gli strumenti provocano come effetto divisioni del lavoro e di qui ineguaglianze. Però, poiché le ineguaglianze (proprie della divisione del lavoro prodotta dagli strumenti tecnici) concorrono a creare l’organismo sociale, seguirebbe che è la tecnica che lo produce. Evidentemente qui si sommano le nozioni marxiane e la sua formazione herbertiana. Abbiamo però fin qui condotto solo metà del giro, e questa metà sarebbe compatibile con forme di positivismo ed evoluzionismo. Nell’ordine espositivo viene ora la seconda metà del giro interpretativo che Labriola propone: tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero che questi strumenti non si trovano o cadono dal cielo. La scoperta della tecnica è sia causa quanto effetto delle condizioni della vita interiore sociale. Una totalità che nelle partizioni disciplinari (nelle quali l’ottocento fu maestro) si può chiamare in molti modi, ma sono unitarie. Queste forme e condizioni producono i diversi ambienti sociali e questi quelle piattaforme che chiama “i successivi terreni artificiali”. Insomma, l’uomo produce il mondo e anche se stesso. Tutto ciò è il progresso. Una nozione che, come si vede, non è positiva più di quanto sia negativa, non è materiale più di quanto sia spirituale.

 

Dopo la previsione dell’insorgenza in Russia, che si sta sviluppando in una società moderna, delle “condizioni di una rispondente rivoluzione politica”, sia pure condotte a scapito degli ultimi avanzi del comunismo agrario (osservato a suo tempo anche da Marx e dai populisti[5]), Labriola ribadisce che lo stesso progresso, “la cui nozione è non solo empirica, ma sempre circostanziata e per ciò limitata, non istà sul corso delle cose umane come un destino od un fato, né qual comando di legge”. La dottrina socialista, in altre parole, per Labriola non immagina la storia come una necessaria scala da sant’Agostino ad Hegel, non è la visione intellettuale di un piano. Esistono sempre degli “impedimenti”, i quali derivano dalla struttura sociale stessa. Struttura che è attraversata e costituita dallo sforzo delle istituzioni e delle norme e forme politiche di tenere in equilibrio le ineguaglianze economiche e perciò, per l’autore, è continuamente instabile. Attraversata costantemente da una lotta interna ed esterna, che riguarda e coinvolge lo Stato, il quale anche per lui, come per Marx, è essenzialmente organo e strumento di una parte contro l’altra.

 

E, ancora,

 

questa società delle antitesi, che si regge a stato, è sempre, per quanto in varie forme e modi, l’opposizione della città e della campagna, dell’artigiano e del contadino, del proletario e del padrone, del capitalista e del lavoratore, e così via da non finirla, e mette sempre capo, con varie complicazioni e modalità, in una gerarchia, o che ciò accada per quadro fisso di privilegio come nel Medio Evo, o che, nelle dissimulate forme del diritto presuntivamente eguale per tutti, ciò si avveri per l’azione automatica della concorrenza economica, come è ora”[6].

 

Con formula felice: “la relatività del progresso è per noi, dunque, la conseguenza inevitabile delle antitesi di classe”.

 

Per cui, ad esempio, lo sviluppo delle macchine porta non solo al trionfo della scienza, ma anche “per le condizioni antitetiche della compagine sociale”, produce gli strumenti della proletarizzazione e della subordinazione delle campagne. Quindi, in un subitaneo rovesciamento, “il progresso visto così, ed appreso nella sua chiara nozione, ci appare come il compendio morale ed intellettuale di tutte le umane miserie, e di tutte le materiali disuguaglianze”.

 

Se quanto fino ad ora scritto è rivolto contro la tentazione di rileggere il marxismo come determinismo positivista, e quindi viene speso contro l’atteggiamento della Seconda Internazionale, purtuttavia come abbiamo visto il materialismo di Labriola non consente neppure di accettare un dualismo che veda le idee come qualcosa di separato e primario. Secondo il suo modo di esprimersi, infatti, “le idee non cascano dal cielo”, sono solo un altro prodotto dell’attività umana e si formano sempre entro circostanze date. Nella maturità dei tempi, secondo l’azione di determinati bisogni che cercano di avere soddisfazione. Hanno sempre un lato tecnico e suppongono un terreno di condizioni sociali di possibilità. Derivano, insomma dal lavoro (di cui il pensiero è esso stesso una forma).

Come le idee anche le classi sociali non emergono dalla terra, non sono presenti in natura, ma neppure per questo si può dire che esse derivino dal caso o dall’arbitrio. Invece sono formazioni che nascono storicamente e socialmente “entro ed attorno” ad una determinata forma di produzione. Per cui nel secolo XIX dalla rovina economica delle classi dei piccoli proprietari e dei contadini nacque insieme il capitale e le nuove città intorno alle nuove fabbriche, nuove forme di miseria e nuove forme di ricchezza, tutte dimensioni tenute a braccetto e separate. Insieme sorse anche una nuova forma dello Stato, e nuove cerchie di interessati alla sua esistenza. Si è trattato, dunque, di una necessità che deriva direttamente dalle differenziazioni economiche; un sistema di forze che mantiene l’equilibrio, o lo impone con la forza. Quindi così come la società non è un corpo omogeneo, ma una particolareggiata articolazione, “anzi un multiforme complesso di interessi antitetici, così accade, che alcune volte i reggitori dello stato tendano ad isolarsi, e in tale isolamento si contrappongano a tutta intera la società. E poi, in secondo luogo, accade, che organi e funzioni create la prima volta a benefizio di tutti, degenerino in abusi di consorterie, di conventicole e di camorre. Di qui le aristocrazie e le gerarchie nate dall’uso dei poteri politici, e di qui le dinastie; le quali formazioni, viste alla luce della semplice logica, paiono irrazionali del tutto”[7].

 

Infine, si deve dire che lo Stato non è Idea che si esplica nella storia, ma più prosaicamente:

“un reale ordinamento di difese per garantire e perpetuare un metodo di convivenza, il cui fondamento è, o una forma di produzione economica, o un accordo ed una transazione tra diverse forme. A farla più breve, lo Stato suppone, o un sistema di proprietà, o l’accordo tra più sistemi di proprietà. In ciò è il fondamento di ogni sua arte, al cui esercizio occorre, che lo Stato stesso divenga una potenza economica, e che abbia anche i mezzi e i modi per far passare la proprietà nelle mani degli uni e nelle mani degli altri. Quando, per effetto di una rinnovazione acuta e violenta delle forme della produzione, occorre di provvedere ad un insolito e straordinario spostamento dei rapporti di proprietà (p. es. abolizione della manomorta e del feudo, abolizione dei monopolii commerciali), allora la vecchia forma politica è insufficiente, e la rivoluzione è necessaria per creare il nuovo organo che esegua la trasformazione economica”[8].

 

Una forma, quella della statualità o comunque della forma politica della ineguaglianza, che è sempre esistita ma si è articolata nei diversi luoghi e tempi nei più diversi modi.

Potrà essa mai essere superata, si chiede Labriola, giunto a questo punto? Ci sarà mai una forma di produzione comunistica, che annulli le disuguaglianze e quindi la necessità dello Stato stesso? La risposta che dà è che questo risultato si otterrà “dall’immanente processo della storia” e non come postulato della critica o come meta volontaria. In questi passi Gramsci rinviene il residuo di determinismo, ma comunque soggetto alle complesse avvertenze sospensive disseminate nel testo. Questa previsione si compie piuttosto dall’osservazione della produzione capitalistica stessa, si tratta quindi di una deduzione a base empirica. La produzione capitalistica, infatti, socializza continuamente il modo del produrre (con il crescere del modo industriale e la forma della fabbrica come base della società), inoltre lega il lavoro vivo alle “condizioni obiettive della tecnica” e, infine, concentra sempre più la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di pochi. Ma questi pochi, “come azionisti e negoziatori di azioni si trovano sempre più assenti dal lavoro immediato, la cui direzione passa all’intelligenza[9].

 

Il punto, la dimensione razionale di questa previsione eroica, è che:

“col crescere della coscienza di tale situazione nei proletarii, cui l’insegnamento della solidarietà viene dalle condizioni stesse della loro reggimentazione, e col decrescere della capacità dei detentori del capitale a conservare la privata direzione del lavoro produttivo, si verrà ad un punto in cui, di un modo o nell’altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e profitto privato, la produzione passerà all’associazione collettiva, ossia sarà comunistica. Così cesseranno tutte le disuguaglianze, che non siano quelle naturali del sesso, dell’età, del temperamento e della capacità, cesseranno, cioè, tutte le ineguaglianze che hanno attinenza con le classi economiche, e anzi da queste son generate. E sparite le classi verrà meno la possibilità dello stato, come dominio dell’uomo sull’uomo. Il governo tecnico e pedagogico dell’intelligenza sarebbe l’unico ordine della società”[10].

 

Anche la formazione del diritto, lungo la sua storia a partire dalla codificazione romana al giusnaturalismo sei-settecentesco è connessa con questo mutamento continuo della forma della soggezione. Si tratta del riflesso intellettuale delle rivoluzioni che sono state prodotte dalla pratica e nello sviluppo delle forze produttive e delle tecniche. Nella continua alterazione tra la produttività del lavoro e la coordinazione dei cooperanti al mutare degli strumenti (in senso ampio) occorrenti alla produzione stessa. In altre parole “il processo ed il progresso della tecnica, come sono l’indice, così sono la condizione di ogni altro processo e progresso”.

 

Ovviamente tutto questo non implica la frase “da cretino” che tutto si riduca alla dimensione economica, o che con poche formulette a memoria sia detto l’intero scibile umano. Come se la Divina Commedia possa essere compendiata nel numero di panni di lana che il mercato di Firenze negozia in un anno. Non si tratta infatti di separare ancora accidente da sostanza, parvenza da realtà, fenomeno dal nocciolo, ma di spiegare intreccio e complesso in quanto tali; “si tratta della storia non del suo scheletro”. Si tratta “del racconto e non dell’astrazione”, e quindi è sempre “un’arte”.

Né si lascia definire semplicemente secondo la freccia indefettibile ed orientata del “progresso”. Come abbiamo visto, e nel seguito Labriola ricostruisce anche nello sviluppo di storia delle idee, anche l’idea di progresso, figlia del secolo, non cade dal cielo.  Appare e si fa centrale nel periodo eroico della vita politica ed intellettuale della borghesia trionfante sull’antico regime. Nella sostanza questa idea implicherebbe che il capitalismo è la forma di produzione che sola è capace di estendersi a tutta la terra e uniformare tutto. Tutto il genere umano viene ristretto come un unico campo di concorrenza e tutta la terra come un unico mercato. E che tutto ciò che storicamente lo precede prepara questo coronamento.

 

Più in generale in questo saggio, come nell’opera complessiva dell’ultimo Labriola, sembra di rintracciare una tensione tra le “opere” e le “forme della coscienza” degli uomini concreti. Sfuggendo alla svalorizzazione delle seconde come “ideologia”, cosa che avrebbe scavato un solco sotto la stessa possibilità di fare il lavoro del teorico e di fondare una “filosofia della prassi”. Contro la tendenziale dissoluzione della riduzione delle seconde ad “ideologia”, e quindi alla loro svalutazione radicale, viene rimessa in circolo l’intera questione della coppia “struttura”/”sovrastruttura” e una nozione di progresso come mero avanzamento. E con essa la subordinazione della forma sociale all’agire economico. Una più ampia visione dell’uomo immerso nella natura e nella società.

 

Di qui si arriverò, ma ne parleremo al prossimo saggio, alla posizione di Antonio Gramsci per il quale:


l’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, sviluppare se stesso. Che il ‘miglioramento’ etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è ‘individuale’, ma essa non si realizza e si sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente ‘politico’, poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua ‘umanità’, la sua ‘natura umana’”[11].

 

 

 

 

 



[1] - Opinione condivisa, ad esempio, da un interprete altrettanto eccessivo, polemico, attaccabrighe e pronto alla battuta tagliente di Labriola, come Costanzo Preve, per il quale Marx non ha sistematizzato alcun “ismo”, limitandosi a produrre un modello epistemologico ed alcuni concetti interpretativi (“modo di produzione”, “forze produttive sociali”, “rapporti sociali di produzione”, “ideologia”), lasciandoli “aperti”. Marx, insomma, sarebbe “un campo aperto di contraddizioni” che solo in parte saranno ricucite (ma facendo un certo grado di violenza necessaria) da Engels e dalla seconda internazionale (in particolare Kautsky) che fornirono uno sbocco politico ed una capacità egemonica creando una dottrina. Si veda Costanzo Preve, “Storia critica del marxismo”, La Città del Sole, 2007, p.88-90.

[2] - Antonio Labriola, “Saggi sul materialismo storico”, Editori Riuniti, 2019, p.89.

[3] - Ivi, p. 100

[4] - Torna qui la metafora marxiana della “base” e della “soprastruttura”, citata indirettamente in questo atto di poggiare, di appoggiarsi ed elevarsi su.

[6] - Ivi, p.109

[7] - Ivi, p.136

[8] - Ivi., p.137

[9] - straordinario passaggio, scritto nel 1896, quando Hilferding interverrà con il suo “Il capitale finanziario”, solo nel 1910, e il noto passaggio dei “Grundisse” non è noto.

[10] - Ivi., p.138

[11] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal carcere”, “La filosofia di Croce”, II, cit., p. 1338.

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