Ci
sono anni simbolici, nei quali passa la storia e che restano nella memoria come
spartiacque. Possiamo annoverare tra questi il 1914, il 1917, il 1929, il 1934,
il 1939, la grande tragedia del novecento, e, insieme, la grande promessa di
liberazione. Dopo abbiamo il 1945, il 1968, il 1978, l’ampliarsi della
promessa, la crescita, la liberazione del terzo mondo, la riduzione delle
ineguaglianze in occidente, il grande ciclo di lotte operaie nella secolare continuità
con quello ottocentesco. E poi le date del riflusso, il 1980, 1989-1991, 1992
(Maastricht), 1999 (Euro), 2001 (la Cina nel Wto). Le date della crisi, 2007,
2012, 2018.
Qui
cade lo spartiacque, il 2020.
Come
per ognuno degli anni simbolici elencati ci sarà da riflettere a lungo sugli
eventi ed i loro effetti.
Non
è accaduto tutto in questo anno, anzi, tutto quel che è
accaduto è solo l’esito per certi versi ovvio, necessario ed atteso, di lunghe
linee di crisi. Ambientali, economiche, sociali e politiche. Nel secondo
decennio del nuovo secolo il mondo si trovava sempre più in una fase di caos
sistemico[1] che era tenuto a fatica a
freno da potenze politico-militari ormai declinanti e da sistemi d’ordine
monetari costretti ad inventare sempre nuovi meccanismi per conservare la gerarchia
data[2]. Dalla fine del primo
decennio era ormai chiarissima la sempre maggiore fragilità del capitalismo
finanziarizzato occidentale, costantemente sull’orlo del crollo, e lo stato di
estrema sofferenza di quella dittatura del pensiero di economisti morti da
tempo e della legittimazione degli interessi che questi servivano nella quale
siamo da decenni. Dal manifesto fallimento delle guerre americane nel teatro
mediorientale era invece sempre più visibile l’appannamento della capacità di
proiezione imperiale statunitense, alla quale facevano da contrappunto la
riprese delle potenze regionali e dei rivali potenzialmente egemoni. Il progetto
europeo attraversava una crisi dalle molteplici direzioni; messo alla prova
dalla vicenda greca, specchio chiarissimo della natura semi-imperiale del
progetto di potenza continentale e dalla sua subalternità agli spiriti animali
e predatori del grande capitale. Al contempo le crisi politiche aperte dal
triplice colpo della Brexit, dell’elezione di Trump e delle tornate elettorali “antisistemiche”
(la più impressionante delle quali avvenne nel 2018 in Italia), laceravano da
tempo il tessuto sociale ed il dibattito pubblico con il “fantasma” del “populismo”.
La
fonte principale della fragilità della situazione, sulle linee di faglia
attivate dal 2020, era l’ossessione della crescita fondata sulle esportazioni
ed un modello di produzione di valore fondato sulla finanza. Modello ottenuto a
spese della selvaggia compressione del mercato interno e della capacità d’azione
della funzione pubblica. Ovvero attraverso la devastazione, anche oltre gli
intenti espressi, della capacità di resilienza del sistema pubblico di sicurezza
sociale in gran parte costruito durante l’ascesa del contropotere del movimento
socialista (tra l’ultimo quarto dell’ottocento e il terzo del novecento), anche,
bisogna ricordarlo, al fine di spegnere la spinta rivoluzionaria dei subalterni.
La fragilità deriva direttamente dalla vittoria senza freni di un sistema economico
mondiale che ha scelto di sacrificare la stabilità sociale, e quindi anche
quella politica, sull’altare del profitto spingendo sull’interconnessione
guidata dalle grandi aziende monopoliste e oligopoliste e la neutralizzazione
della capacità dello Stato di rispondere alle pressioni popolari[3].
L’altro
grande contesto del quale occorre tenere conto è la fase di ristrutturazione e parziale
ripiegamento del commercio mondiale che era in corso da anni. Il commercio
navale di lunga percorrenza (che corrisponde ai quattro quinti del totale) era
cresciuto complessivamente quasi triplicando dal 1980 al 2018. Ma dalla crisi
del 2008 si registrò un rallentamento della crescita dei volumi totali di
scambio e l’interruzione dell’espansione delle cosiddette “catene globali del
valore”[4]. Tra i fattori rilevanti le
tensioni tra Usa e Cina, in particolare a partire dal 2018[5], tensioni che nel 2019
avevano già portato ad una contrazione in termini assoluti del 3% (18 mila miliardi
di scambi di beni e 6 mila miliardi di servizi). In particolare, si
registrarono diminuzioni di scambi ante Covid in America Latina, negli Stati
Uniti e nel Giappone e in Cina che ridusse le sue importazioni. In un sistema
di scambi mondiale che vede come nodo chiave (se pur non necessariamente a
maggior valore aggiunto) la Cina, in quanto centro di produzione insostituibile
delle componenti dell’industria meccanica ed elettrica, oltre che, degli
ingredienti di base dell’industria farmaceutica (ma anche delle terre rare che
servono per moltissima elettronica), il ‘cigno nero’ della pandemia è intervenuto
quindi come un maglio.
Il
2020 è l’anno nel quale queste tensioni dalle gambe lunghe giungono ad esito.
In
un momento particolare. Già nel 2019 sembrava terminata una fase di
rivendicazione dei diritti individuali a partecipare alla promessa di
benessere, che era esercitata da quello che potremmo chiamare il “basso e
periferico”. Si divaricava la persistenza delle condizioni date dal “momento
Polanyi”[6] nel riflusso del “momento
populista”[7]. In altre parole, se il
primo permane ed anzi si accentua per effetto del progredire del “caos
sistemico”, il secondo appariva terminato in tutto l’occidente nella forma
presa nel secondo lustro del decennio (con l’importante eccezione, ora rimossa,
della guida statunitense). Infatti, questa, in alcuni luoghi e tempi in modo
più accentuato, in altri meno, si era presentata come chiusura nazionalistica, ricerca
di purezza identitaria (se non etnica), con una sorta di ostentato plebeismo,
vitalismo, protezionismo. In tutte le sue forme erano comuni alcune
caratteristiche proprie della lunga fase neoliberale e della disgregazione
sociale nella quale affondano le radici le ragioni della rivolta. Si trattava
in altre parole di un adattamento, con fortissimi elementi di continuità, allo
spirito del tempo neoliberale dal quale molti si sentivano traditi pur
senza essere in grado di pensare altro. Una reazione che si nutriva
ambiguamente dello stesso veleno[8] che
genera il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e iperindividualismo.
Ma se ne nutriva in larga misura inconsapevolmente, quindi senza essere in grado
di dosarlo in modo da farlo divenire farmaco.
Il
giudizio su questa fase già definita nelle sue linee essenziali ante la crisi
Covid è complesso ed ambivalente. I veicoli dell’espressione del “momento populista”,
in Italia come altrove[9], hanno:
-
interpretato la tensione di fondo del “momento
Polanyi” (che è dalla periferia al centro e dal basso all’alto), rompendo lo
schema destra/sinistra e polarizzandosi in una sorta di “centro radicale”,
-
politicizzato, almeno in una fase di
avvio, un attivismo tipicamente liberale che era cresciuto negli anni novanta,
ultimo rifugio individuale del dissenso e del disagio, sulla base di istanze di
“self-help” e di “sorveglianza” antipolitica,
-
fornito espressione allo spiazzamento,
riconosciuto come comune e quindi politico, di ceti e sezioni di classi sociali
che nel modello “flessibile” anni novanta erano state illuse di essere tra i
vincenti, ma che si ritrovavano ora sul bagnasciuga dall’evoluzione della tecnica
e delle dinamiche competitive.
Nel
compiere queste operazioni hanno utilizzato una tecnica mimetica del tempo, che
di fatto interpreta la domanda sociale come somma di domande individuali di
affermazione, pur senza averne piena consapevolezza. Il riflusso di questa fase
del “momento populista” si è avuta quando questi, che sono essenzialmente “contenitori
dell’ira”[10]
sono stati sfidati dal proprio successo a diventare anche “contenitori di
potere”. Allora tutte le contraddizioni sono esplose.
Eravamo
a questo punto quando la pandemia da Covid-19 ha investito il mondo. Si tratta
dell’ennesima zoonosi non particolarmente pericolosa ma di subdola capacità di
propagazione. Negli ultimi quaranta anni circa trenta milioni di persone sono
morte per effetto di malattie trasmesse da animali e che hanno “fatto il salto”
all’uomo. Si è trattato di batteri, virus, funghi, protisti, prioni o vermi che
si sono insediati in ospiti umani e da questi propagati nel mondo[11]. Ma questa volta ha
abbattuto le nostre difese. Perché?
Il
fatto è che, più delle precedenti, questa pandemia interviene in una fase di
transizione delicata. Avevamo un sistema produttivo ed economico altamente
finanziarizzato e interconnesso, lasciato in dote dalla mondializzazione degli
ultimi trenta anni, che era ed è come un calice di cristallo. Esile,
elegante, sottile, durissimo e fragile. È stato lasciato crescere per decenni
sulla base della ricerca costante, sotto la spinta di una concorrenza più o
meno manipolata e secondo il principio della massima accumulazione a brevissimo
termine. Il sistema di premi e punizioni che il sistema ha elargito ai suoi
attori (a partire dai manager fino all’ultimo lavoratore) puntava
parossisticamente sul rendimento a brevissimo termine, come se mai potesse
arrivare una crisi.
Quando
il cigno nero di un’epidemia di media pericolosità, capace di mettere contemporaneamente
milioni di persone in condizioni di aver bisogno di soccorso (se non contenuta
in qualche modo), è giunta, subitaneamente ha messo i sistemi sanitari e di
assistenza dell’intero mondo “civile” di fronte alla consapevolezza di non aver
accumulato abbastanza scorte per l’inverno. Nell’antico Egitto le ricorrenti
carestie avevano insegnato ad una casta sacerdotale e politica avveduta la
necessità di mettere da parte, anno su anno, ingenti scorte per affrontarle.
Limitavano la crescita, certo, ma rappresentavano l’assicurazione che la
carestia, con il correlato di epidemie, invasioni, sommosse, rivoluzioni, non
sarebbe arrivata un brutto giorno a distruggere tutto. Invece la nostra
furbissima economia neoliberale, e i governi di quegli Stati che per decenni
abbiamo descritto come residui di epoche passate e sostanzialmente inutili e
dannosi, ha pensato che pagare il costo assicurativo di avere una robusta
sanità ed efficienti servizi territoriali di prevenzione fosse uno spreco. Li abbiamo
quindi lentamente smantellati. Tenere ospedali di riserva per quando sarebbe
giunta una emergenza, formare più medici, potenziare la rete dei medici di
prossimità, creare ambulatori, avere industrie strategiche, anche se
leggermente meno competitive, che potessero garantire le forniture di ciò che
sarebbe stato necessario, è sembrato un lusso superfluo. Come in ogni altro
settore.
Siamo
quindi andati avanti per mesi cercando di non far esplodere la nostra fragilissima
sanità (che porterebbe con sé il resto dell’organizzazione civile) e di non far
collassare l’economia. Ottenendo ingenti danni sanitari (oltre settantamila
morti) ed economici. Il motivo è che noi non abbiamo il controllo delle nostre
vite e della nostra società ed economia.
Come
avevo scritto a marzo[12] un governo realmente
sovrano, avrebbe dovuto far altro:
“Intanto una cosa semplicissima,
garantire che qualunque esigenza economica sarebbe stata coperta dallo Stato
per l’intera durata della crisi. Che qualunque fattura non pagata sarebbe stata
scontata a vista dallo Stato (non con crediti di imposta, in denaro sonante).
Che per qualunque esigenza di cassa e liquidità avrebbe potuto andare in Cassa
depositi e prestiti (come ha fatto la Germania). Garantire credibilmente che
non c’erano limiti alla spesa perché garantiti dalla Banca Centrale e dallo
Stato. Assicurare che lo Stato stesso, per un congruo tempo, avrebbe garantito
di farsi acquirente di ultima istanza.
Ed in cambio lo Stato
avrebbe dovuto chiedere l’ingresso nel capitale delle aziende strategiche (nella
sanità, nelle infrastrutture, nella farmaceutica, nell’energia, nell’ambiente,
nell’agroindustria, l’informatica, la robotica, le telecomunicazioni)
proteggendole dalle scalate e garantendone la funzione di interesse pubblico.
Garantire quindi la circolazione
e la distribuzione, se del caso precettando le aziende che non volessero
restare attive, se strategiche, garantendo la loro operatività.
Estendere, infine, le
produzioni urgenti e strategiche, come tardivamente stiamo facendo con i
respiratori, fornendo ordini certi, capitali ed assistenza tecnica”.
Quindi
dovremmo lavorare per sostituire il calice di cristallo con una coppa di ferro.
Riguadagnare una parziale indipendenza, vedere l’organizzazione a rete leggera
come un lusso che non sempre ci si può permettere, riempire i magazzini,
ridondare. Capire che la mondializzazione senza limiti e le “catene del valore
globali” sono un progetto sbagliato, che avvantaggia troppi pochi e fa pagare
il prezzo delle crisi a tutti gli altri. Ritornare ad avere al centro le attività
produttive, accorciare le catene logistiche, ripensare città e territori.
Poi
c’è un altro piano che si è manifestato in questo anno.
L’intera
società umana si fonda sul bisogno di protezione,
e l’età moderna nasce dalla paura. Dalla grande crisi sistemica che attraversò
il continente tra la Pace di Cateau-Cambrésis del 1559 alla fine della “guerra
dei trent’anni” nel 1648. Le “guerre di religione” devastarono il continente,
accompagnandosi con malattie ad andamento epidemico, fino a che emerse l’assetto
moderno. Il liberalesimo, lo Stato nazionale e l’affidamento al sistema della
tecnoscienza.
Come
accade costantemente si tratta di conseguimenti ambigui. Ma la promessa
che fonda l’ordine sociale moderno, in continuità con quello antico ma senza il
collante manifesto[13] religioso, è nella sua
essenza di protezione e prosperità. Tuttavia, nella soluzione liberale, di
protezione pubblica e libertà individuale su cui far poggiare la
promessa di prosperità. La soluzione del “male minore”[14] è attraversata da questa
linea di contraddizione: le tecnostrutture che vengono create e costantemente
accresciute si devono fermare sulla soglia dell’individuo possessore.
Per
questo motivo l’abbandono nelle mani di una pandemia
che fa crollare i sistemi tecno-scientifici di protezione, ovvero l’infrastruttura
sanitaria, è una minaccia esistenziale per l’ordine sociale e la vita
organizzata. Si tratta, si faccia attenzione, di una minaccia esistenziale per qualunque
ordine sociale. Moderno o antico, capitalista o non, occidentale o orientale,
del Nord e del Sud. Anche nel Sud del mondo, durante i processi di
State-building nel processo di decolonizzazione (1945-75) le proposte di
legittimazione delle nuove formazioni politiche nei confronti delle
preesistenti strutture, a volte tribali, sono passate per l’estensione dei
servizi sanitari. La minaccia non è solo per la vita di alcune, o molte,
persone (da sempre la protezione può includere il sacrificio), ma per la funzione
degli Stati di proteggerle. Per questo tutti i paesi del mondo hanno attraversato,
prima o dopo, lo stesso ciclo: scoperta, minimizzazione, attesa, allarme,
misure parziali, lock down. Invariabilmente non appena la minaccia è stata
percepita socialmente come reale ed imminente lo Stato ha reagito enfatizzando,
con misure drammatiche e campagne di comunicazione insistite, la sua offerta di
protezione. Ovvero ribadendo la propria legittimazione ad esistere[15].
La
minaccia dal punto di vista strutturale dello Stato è quindi minaccia alla
propria legittimazione, non direttamente alla vita dei cittadini e neppure all’economia.
Entrambe sono importanti (la seconda in particolare), ma quando la sfida è alla
propria stessa esistenza allora devono retrocedere. Questo è il motivo per il
quale questa volta anche le esigenze di potentissimi gruppi di pressione (si
pensi allo sport, o al sistema del trasporto) sono state messe da parte in un
attimo.
Molte
cose che appaiono incomprensibili si spiegano in questo modo. E si spiegano sotto
questo profilo le differenze di efficacia delle misure prese, non tanto per la
maggiore o minore volontà di protezione (che pure esiste sulla scala tra regimi
d’ordine più smaccatamente neoliberali e regimi più pubblicocentrici), quanto
per la diversa fragilità fisica, strutturale, politica nella quale abbiamo
incontrato la sfida. I paesi occidentali, cultori della “fine dello Stato”,
hanno chi più chi meno in questi anni promosso una “cultura del rischio” che
rende più difficile (sul piano operativo, psicologico e politico) esercitare la
necessaria funzione di protezione. Quelli orientali, molto più comunitari, hanno
reagito con più prontezza ed energia.
L’Italia
in questo 2020, pur avendo avuto l’avviso dell’epidemia partita a Wuhan da due
mesi, si è fatta cogliere impreparata dal “paziente zero”. La prima reazione è
stata blanda seguendo i pressanti inviti confindustriali, seguiti dai
principali politici nazionali, a continuare ad andare ai baretti. Esemplare la
visita di Zingaretti ai navigli che gli costò il primo contagio. Colpita successivamente
dal treno in accelerazione dell’epidemia, e compreso forse allora il concetto
semplice di malattia “infettiva”, l’Italia tutta si è chiusa in un Lock Down
severo con i cittadini e lassista con le imprese. Nessuno poteva uscire di
casa, pena le più tremende sanzioni, ma le imprese erano state quasi tutte
inserite, sulla base di un’autocertificazione, nel novero delle
“indispensabili”. Il risultato è che i lavoratori hanno dovuto pagare il prezzo
di esporsi al rischio, e alle più improvvisate e brutali modalità di “smart”
working. Poi, gradualmente, l’onda ha colpito il lavoro precario e l’enorme,
ipertrofico, settore dei servizi. In particolare quello del tempo libero, bar,
ristoranti, alberghi, case vacanze. E tutte le filiere connesse, cultura,
spettacoli, artigianato. Agenti di viaggio, animatori turistici, camerieri,
chef, addetti d’albergo, guide, … secondo Confesercenti un milione e mezzo di
lavoratori nel 2016 al settore turistico e un milione e trecentomila alla
ristorazione. Gli unici settori in crescita di occupati e con una grande
presenza di giovani. Un enorme settore che occupa il 15% della forza lavoro
italiana e cresce.
Si
era detto allora, quando la prima ondata terminò per effetto delle misure (che,
però, hanno al più dimezzato gli spostamenti) e del clima più favorevole, che
bisognava prepararsi alla seconda. Ma subito tutti sono tornati alle vecchie
abitudini e si sono alzate alte grida in favore della stagione turistica, della
necessità di far ripartire il paese, del virus “clinicamente morto”. D’altra
parte è subito partito il dibattito sull’indipensabilità di accedere al Mes
sanitario, con il Pd in pressing per settimane. Tutto il circo dei media ha
cominciato in coro a stracciarsi le vesti sulla mancanza delle risorse, sul ‘debito
brutto’, sull’occasione storica che la buona Europa metteva a disposizione con
il Recovery Plan. E giorno dopo giorno, parlando di Mes, di Recovery, di debito
pubblico, della scuola e dei banchi, delle discoteche, è passato di mente che
bisognava completare il programma dei posti letto in terapia intensiva,
assumere lavoratori nella sanità, rimettere in piedi i servizi territoriali,
adeguare i trasporti in modo da non avere vagoni e autobus sovraffollati,
aggiungere aule e docenti, creare le condizioni per poter fare diagnosi rapide,
per tracciare davvero i contagi (e non con la buffonata di Immuni), e via
dicendo…
…
poi è giunta la seconda ondata, molto più alta della prima, che ha raddoppiato
i morti di aprile.
Di
fronte a questa sfida si è manifestata una profonda divaricazione.
Una lacerazione ha attraversato diagonalmente la società e tutte quelle che
sembravano, ante la crisi, delle comunità politiche in formazione. La sfida
della sicurezza ha lacerato il corpo dei “contenitori dell’ira”, portando allo
scoperto la loro matrice e cultura neoliberale. In particolare, quella che si
potrebbe chiamare ‘l’area della sovranità costituzionale’, di ispirazione marcatamente
euroscettica e di pratica -in varie forme- populista, si è lacerata ed è
entrata in una fase di pronunciata “asfissia politica”. In grandissime linee l’ipotesi
politica che l’aveva ispirata era di tentare un compromesso tra forze di
diversa ispirazione e cultura politica intorno all’ipotesi che l’oggettivo
interesse per l’espansione della “domanda interna” potesse essere punto di convergenza
di una nuova maggioranza politica dalla periferia e dal basso. Ovvero che un accorto
esercizio della logica oppositiva del populismo (inteso al senso di Laclau)
potesse ripoliticizzare le forze sparpagliate dalla rivoluzione neoliberale
intorno al “programma minimo” di una ripresa di capacità sovrana a base
popolare. Il tentativo di mettere tra parentesi tante vecchie fratture, quella
tra “riformisti” e “rivoluzionari”, ad esempio, per iniziare almeno di uscire
dall’angolo e riprendere il cammino verso una società più decente. Secondo l’idea
che un passo produce forza per fare il successivo.
Tuttavia,
nella seconda fase della crisi, già dalla metà dell’anno, sotto la spinta delle
conseguenze diseguali delle misure di protezione sanitaria su un sistema
economico e sociale reso fortemente frammentato dal trentennio neoliberale,
abbiamo assistito alle mobilitazioni delle frazioni più precarizzate e di quelle
più deboli del lavoro autonomo o professionale/imprenditoriale. E questa
mobilitazione si è spontaneamente rivolta contro lo Stato, accusato di
esercitare un potere “biopolitico” eccedente, e contro i ceti “protetti” dei
lavoratori dipendenti. Ha inseguito le più stravaganti ipotesi, ha assunto toni
di aspra difesa della libertà offesa. L’ipotesi di “alleanza della domanda
interna” è andata in frantumi.
Quel
che è emerso alla luce è che buona parte dell’area si muoveva sotto la ferma
egemonia di quei ceti intermedi indeboliti, attori della svolta neoliberale
degli anni seguenti al riflusso ma oggi traditi nel loro affidamento ad essa. La
reazione emersa ha opposto, non senza una sua quale coerenza, la risposta di
protezione difensiva delle macchine statuali alla violazione della libertà
individuale, identificandola quale profonda violazione dell’ordine liberale[16]. Dimentica di ogni
sbandierato orientamento al socialismo sono riemersi tutti i temi libertari
profondamente radicati nella società italiana e nelle sue medie borghesie,
siano esse orientate a sinistra, destra o centro.
Sono
esplose quelle precarie “catene di equivalenza” che, sotto l’astratto slogan
della “domanda interna” facevano sembrare simili le domande di chi in effetti
odia lo Stato (e specificamente lo Stato fiscale e disciplinatore) e chi al
contrario lo vuole potenziare dopo un quarantennio di indebolimento; chi vuole solo
ascendere alla posizione dalla quale può nuovamente, e finalmente, sfruttare il
lavoro debole (di commessi, impiegati, operai) per vincere la lotta della vita
e raggiungere il proprio posto in essa, e chi, magari, vorrebbe ridurre all’opposto
il proprio grado di sfruttamento e guadagnare condizioni di lavoro più
dignitose; chi ha bisogno di indebolire il lavoro per sfruttarlo e chi questo
lavoro lo presta; chi abita le periferie e chi ne fugge disperatamente, o non
vuole scivolarvi; chi si sente in basso e chi in alto.
In
questi mesi il sistema dei media, ed in parte il frastuono dei social, hanno restituito
un’immagine per la quale a mobilitarsi contro sono micro e piccoli
imprenditori, autonomi, commercianti, più che insegnanti, impiegati, operai e
funzionari pubblici. In parte è una percezione deformata dai media (i
quali sistematicamente sovrarappresentano alcune manifestazioni ed ignorano
altre), in parte dipende dal fatto che alcuni strati dei primi soffrono maggiormente
le misure di protezione prese. Le subiscono senza le protezioni residuali il
trentennio di espansione del welfare di cui i secondi ancora godono. Ma si muovono
anche perché su di essi la cultura neoliberale ha maggiore presa. Si muovono
perché per loro è più aspro lo scollamento tra la promessa di autopromozione o
di elevamento nella quale sono stati formati e la realtà di scivolamento e
stagnazione in cui vivono. Promessa sulla quale contano per ancorare
l’autoriconoscimento in una logica di competizione verticale propria della
soggettivazione come classe.
Insomma,
in questi mesi, è riemersa una frattura strutturale che ha anche un suo
versante culturale e cognitivo. La “alleanza per la domanda interna” è una
astratta necessità politica, ma una concreta impossibilità. Questi ceti e
gruppi, quelli che Wright Mills chiamava in mezzo al trentennio “un’insalata di
occupazioni”, fatta di dirigenti, professionisti, addetti alle vendite,
impiegati, artigiani, piccoli e medi imprenditori, accomunati da molto poco
oltre a certi parametri di reddito rilevati ex post e il desiderio di un certo status sociale, vogliono ascendere. Vogliono staccarsi dai
ceti popolari e dai lavoratori, e vogliono, anzi che questi gli servano per
farlo.
Se
si prova a guardare il problema dal lato dei rapporti di produzione e della
relativa soggettivazione la cosa ha una semplice spiegazione, della quale
parlavo in un post di giugno:
“Autonomi,
professionisti, micro e piccoli imprenditori, “bottegai”, sono tutti datori di
lavoro potenziali dei lavoratori dipendenti. Guardano il rapporto di produzione
dall’altro lato. È vero che faticano ad essere realmente ‘ceto medio’, ovvero
ad avere quella adeguata protezione dai rischi della vita determinata dal possesso dei
capitali (relazionali, spaziali, culturali e soprattutto meramente economici),
perché la crisi li ha erosi. Ma è proprio per questo, e non altro, che si
muovono.
In altre parole, si
muovono per riguadagnare la distanza che li qualifica ai loro
occhi come ‘ceti medi’ e non per cambiare il sistema sociale di produzione che
crea queste gerarchie. Si muovono per riaffermare le gerarchie ed
il sistema neoliberale. Non è affatto un caso si muovano in direzioni
neocorporative e non è un caso siano ostili a qualsiasi azione pubblica che non
sia diretta ad un sostegno assistenziale esclusivamente a loro”[17].
La
frattura si è manifestata anche sul piano della tattica politica.
La vicenda di apparente successo più vicina, nel campo della politica
antistemica, è quella del “neopopulismo” di cui abbiamo visto esaurire il ciclo
ad immediato ridosso della crisi pandemica. In effetti si tratta di potenti
tecniche per aggregare in poco tempo “contenitori dell’ira” capaci di effetti
elettorali significativi e anche, in alcuni casi irripetibili[18], vincenti. Ma al fine di
una reale politica antistemica sono esempi inservibili. Se hanno fallito
la trasformazione in “contenitori di potere” è per ragioni interne e
inaggirabili. Il potere non è contenuto nella figura organizzativa
formalmente apicale, in nessun caso e tanto meno nella macchina pubblica
statuale. Il potere, quello effettivo, ovvero quello di cambiare, è contenuto
nelle relazioni circolanti in un molto più vasto sistema ed ha carattere
continuo, non discontinuo. Nessuna “catena equivalenziale” può quindi fare
il miracolo di evitare il duro lavoro della “guerra di posizione” e della
costruzione di effettiva egemonia[19].
La questione è di
capire, in una situazione dinamica, non tanto chi si muove oggi, ma chi è nella posizione di fare leva per agire nel conflitto in essere
contrastandone la forza motrice. Contrastandola per indurre l’avvio di un
riequilibrio dei rapporti di forze che possa indurre degli elementi di
socialismo, dei quali c’è assoluto bisogno. Senza i quali nessuna soluzione
potrà essere trovata neppure ai dilemmi sistemici sommariamente descritti. Per
fare questo non si deve partire dalla mera fotografia dell’esistente,
immaginando che chi oggi è attivo o inattivo lo resti sempre, e non bisogna
immaginare la questione del potere come un episodio singolo. Una “presa”.
Bisogna comprendere, e bene, cosa è per noi il popolo e cosa sono i suoi nemici. Sapendo che verso i nemici si combatte, verso
il popolo si lavora a creare unità di interesse e sentire.
E bisogna aver fermo e
compreso che in sé la contraddizione tra chi intende elevarsi abbassando gli
altri, ovvero aumentando il saggio di sfruttamento a proprio vantaggio, e chi
ne subisce l’azione sistemica è una contraddizione antagonista. Che può sia
scivolare in una relazione con nemici, sia essere ricondotta ad una dimensione
organicamente equilibrata, ma solo se viene trattata espressamente. Inserendo
i desideri, le pulsioni, e le ambizioni delle diverse soggettività sociali in
un quadro non competitivo, socialista, appunto. Si tratta allora di distinguere
tra inimicizia e divergenza (di rappresentazione, teoria delle funzioni
sociali, prospettiva temporale). Tra la lotta e la discussione.
Per emergere dunque dalle
contraddizioni e dai conflitti che questo anno ha fatto venire allo scoperto,
bisogna liberarsi dell’idea che l’assetto sociale postmoderno, creato dalle
specifiche forze introdotte dall’equilibrio del dopoguerra su generazioni che
questa avevano subito e consolidato in cultura appresa dalle nuove generazioni,
sia di fatto irreversibile. Ma non è la coscienza degli uomini che determina
il loro essere, è più vero il contrario, l’essere sociale determina la
loro coscienza. C’è infatti una contraddizione inscritta profondamente, nelle
ossa stesse, che lavora a scalzare la coscienza postmoderna la quale
paralizza l’azione sociale: l’individualismo edonista ha perso le condizioni
di sicurezza ed affidamento che lo rendevano possibile. Nelle condizioni
del lavoro contemporaneo ed in quelle della vita della grandissima parte della
popolazione, in particolare di coloro che non possono scaricare su altri, o
sperare di farlo, i propri pesi, si affaccia la semplice logica che solo
l’azione collettiva, nuovamente, può o potrà rimettere in questione i rapporti di
forza.
È tutta, sempre
questione di rapporti di forza. E ciò nel paese, non al suo esterno.
Altrimenti si resta prigionieri del gattopardo neoliberale, nei suoi numerosi
travestimenti. Mentre si giocherella con la pietra filosofale, sperando di
essere finalmente l’avanguardia rivoluzionaria tanto attesa, il senso comune
neoliberale, la coscienza data, lavorerà a riprodursi travestito. La cosa non
potrebbe essere più seria.
Lo spartiacque del 2020
si manifesta qui. Tra coloro i quali intendono riprodurre la mossa del “neopopulismo”,
raccogliendo effimero consenso in catene di equivalenze più o meno vuote, e chi
comprende che stiamo entrando in un nuovo tempo. La coscienza postmoderna è
scalzata dalle sue contraddizioni interne, e permane solo come zombie. Ci vorrà
tempo perché produca i suoi effetti, e bisognerà restare forse a lungo nelle
trincee, ma l’unica strada feconda è quella che si sforza di oltrepassare
l’impolitico neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo
bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Che ha pazienza di lavorare
sulle fratture che si aprono, giorno dopo giorno. Tessendo e cucendo, senza
perdere il filo dell’interesse da difendere. Ovvero del miglior interesse del
paese, che è sempre quello dei suoi lavoratori.
Si sforza di
identificare i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori
centro/periferia ed alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche,
linguaggi, priorità e valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con
lo stato delle cose presenti.
È capace di non farsi
ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma di lavorare alla cultura
politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa e ad una rete di
impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo.
Conquistando una
piazzaforte dopo l’altra e fidando che l’essere sociale ha ricominciato a lavorare a nostro favore.
[1] - Uso il
termine al modo di Giovanni Arrighi, si veda Alessandro Visalli “Dipendenza”,
Meltemi 2020.
[2] - Ovvero
per conservare liquida la massa immane di valore fittizio sul quale si regge la
gerarchia dei poteri nel mondo.
[3] - Non la
neutralizzazione della capacità d’azione dello Stato in quanto tale, che la
mondializzazione e la finanziarizzazione sono azioni promosse dal potere
pubblico. Ma quella di utilizzarlo da parte delle forze popolari e per i fini
di una maggiore democratizzazione effettiva.
[4] - Si
veda in proposito https://www.iai.it/sites/default/files/pi_a_161.pdf
. Le CGV sono complesse reti di imprese che possono far parte del medesimo
gruppo (controllate o collegate), o essere società miste o indipendenti, ma
comunque coordinate da un’impresa leader di filiera. Queste imprese si
scambiano prodotti e servizi intermedi, parti di attività o mansioni aziendali
specifiche per la realizzazione di un bene finale. All’interno delle CGV si
realizzano a oggi circa due terzi degli scambi mondiali di beni e servizi; la
produzione interna e le esportazioni incorporano perciò una quota notevole di
beni intermedi importati. In generale, gli scambi di beni intermedi lavorati
(al netto del valore delle materie prime) rappresentano la metà del commercio
mondiale.
[6] - Una rivolta
della società alla costrizione dell’economico per effetto del rovesciamento
della disgregazione del sociale e la crisi di legittimazione di poteri non più
in grado di contastarlo.
[7] - La
forma politica del “momento Polanyi”, che vive della caduta di legittimazione,
ma necessita di un’espressione specifica per addensarsi, dunque ne dipende. L’espressione
politica entra in crisi per effetto delle sue contraddizioni interne e l’incapacità
manifesta a produrre una risposta e soluzione plausibile e operabile.
[8] - Il veleno è la disgregazione sociale,
individualismo ‘post-materialista’, dominio dei nuovi media disintermedianti,
discredito delle élite, snellezza, leaderismo.
[9] - Il
Movimento 5 Stelle, la Lega nazionale di Salvini, il primo Podemos, la prima
Insoumise, il movimento di Le Pen, …
[10] - Si
veda il post “Dai
contenitori dell’ira ai contenitori di potere”.
[11] - David Quammen, “Spillover”,
Adelphi Edizioni 2012.
[12] - Si
veda “Disorganizzazione
e riorganizzazione”.
[13] - In
realtà il liberalesimo ed il capitalismo sono forme del religioso, ma in modo
meno palese.
[14] -
Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”, Scheiwiller, 2008
[15] - Si
veda “Il
controllo al tempo della paura”, aprile.
[16] - Si veda
Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020.
[17] - Si
veda “Delle
contraddizioni in seno al popolo”.
[18] - Non è
qui il caso di ripercorrere la lunga storia del Movimento 5 Stelle e le ingenti
risorse simboliche, carismatiche e tecniche di cui ha potuto disporre, o la
lunghissima storia della Lega di Salvini, a metà tra un movimento populista e
un radicatissimo sistema di potere e partitico.
[19] - Si
veda “Guerre
di movimento, guerre di posizione”.
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