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lunedì 4 gennaio 2021

Spartiacque, il 2020.

  

 

Ci sono anni simbolici, nei quali passa la storia e che restano nella memoria come spartiacque. Possiamo annoverare tra questi il 1914, il 1917, il 1929, il 1934, il 1939, la grande tragedia del novecento, e, insieme, la grande promessa di liberazione. Dopo abbiamo il 1945, il 1968, il 1978, l’ampliarsi della promessa, la crescita, la liberazione del terzo mondo, la riduzione delle ineguaglianze in occidente, il grande ciclo di lotte operaie nella secolare continuità con quello ottocentesco. E poi le date del riflusso, il 1980, 1989-1991, 1992 (Maastricht), 1999 (Euro), 2001 (la Cina nel Wto). Le date della crisi, 2007, 2012, 2018.

Qui cade lo spartiacque, il 2020.

Come per ognuno degli anni simbolici elencati ci sarà da riflettere a lungo sugli eventi ed i loro effetti.



Non è accaduto tutto in questo anno, anzi, tutto quel che è accaduto è solo l’esito per certi versi ovvio, necessario ed atteso, di lunghe linee di crisi. Ambientali, economiche, sociali e politiche. Nel secondo decennio del nuovo secolo il mondo si trovava sempre più in una fase di caos sistemico[1] che era tenuto a fatica a freno da potenze politico-militari ormai declinanti e da sistemi d’ordine monetari costretti ad inventare sempre nuovi meccanismi per conservare la gerarchia data[2]. Dalla fine del primo decennio era ormai chiarissima la sempre maggiore fragilità del capitalismo finanziarizzato occidentale, costantemente sull’orlo del crollo, e lo stato di estrema sofferenza di quella dittatura del pensiero di economisti morti da tempo e della legittimazione degli interessi che questi servivano nella quale siamo da decenni. Dal manifesto fallimento delle guerre americane nel teatro mediorientale era invece sempre più visibile l’appannamento della capacità di proiezione imperiale statunitense, alla quale facevano da contrappunto la riprese delle potenze regionali e dei rivali potenzialmente egemoni. Il progetto europeo attraversava una crisi dalle molteplici direzioni; messo alla prova dalla vicenda greca, specchio chiarissimo della natura semi-imperiale del progetto di potenza continentale e dalla sua subalternità agli spiriti animali e predatori del grande capitale. Al contempo le crisi politiche aperte dal triplice colpo della Brexit, dell’elezione di Trump e delle tornate elettorali “antisistemiche” (la più impressionante delle quali avvenne nel 2018 in Italia), laceravano da tempo il tessuto sociale ed il dibattito pubblico con il “fantasma” del “populismo”.

 

La fonte principale della fragilità della situazione, sulle linee di faglia attivate dal 2020, era l’ossessione della crescita fondata sulle esportazioni ed un modello di produzione di valore fondato sulla finanza. Modello ottenuto a spese della selvaggia compressione del mercato interno e della capacità d’azione della funzione pubblica. Ovvero attraverso la devastazione, anche oltre gli intenti espressi, della capacità di resilienza del sistema pubblico di sicurezza sociale in gran parte costruito durante l’ascesa del contropotere del movimento socialista (tra l’ultimo quarto dell’ottocento e il terzo del novecento), anche, bisogna ricordarlo, al fine di spegnere la spinta rivoluzionaria dei subalterni. La fragilità deriva direttamente dalla vittoria senza freni di un sistema economico mondiale che ha scelto di sacrificare la stabilità sociale, e quindi anche quella politica, sull’altare del profitto spingendo sull’interconnessione guidata dalle grandi aziende monopoliste e oligopoliste e la neutralizzazione della capacità dello Stato di rispondere alle pressioni popolari[3].

L’altro grande contesto del quale occorre tenere conto è la fase di ristrutturazione e parziale ripiegamento del commercio mondiale che era in corso da anni. Il commercio navale di lunga percorrenza (che corrisponde ai quattro quinti del totale) era cresciuto complessivamente quasi triplicando dal 1980 al 2018. Ma dalla crisi del 2008 si registrò un rallentamento della crescita dei volumi totali di scambio e l’interruzione dell’espansione delle cosiddette “catene globali del valore”[4]. Tra i fattori rilevanti le tensioni tra Usa e Cina, in particolare a partire dal 2018[5], tensioni che nel 2019 avevano già portato ad una contrazione in termini assoluti del 3% (18 mila miliardi di scambi di beni e 6 mila miliardi di servizi). In particolare, si registrarono diminuzioni di scambi ante Covid in America Latina, negli Stati Uniti e nel Giappone e in Cina che ridusse le sue importazioni. In un sistema di scambi mondiale che vede come nodo chiave (se pur non necessariamente a maggior valore aggiunto) la Cina, in quanto centro di produzione insostituibile delle componenti dell’industria meccanica ed elettrica, oltre che, degli ingredienti di base dell’industria farmaceutica (ma anche delle terre rare che servono per moltissima elettronica), il ‘cigno nero’ della pandemia è intervenuto quindi come un maglio.

 

Il 2020 è l’anno nel quale queste tensioni dalle gambe lunghe giungono ad esito.

 

In un momento particolare. Già nel 2019 sembrava terminata una fase di rivendicazione dei diritti individuali a partecipare alla promessa di benessere, che era esercitata da quello che potremmo chiamare il “basso e periferico”. Si divaricava la persistenza delle condizioni date dal “momento Polanyi”[6] nel riflusso del “momento populista”[7]. In altre parole, se il primo permane ed anzi si accentua per effetto del progredire del “caos sistemico”, il secondo appariva terminato in tutto l’occidente nella forma presa nel secondo lustro del decennio (con l’importante eccezione, ora rimossa, della guida statunitense). Infatti, questa, in alcuni luoghi e tempi in modo più accentuato, in altri meno, si era presentata come chiusura nazionalistica, ricerca di purezza identitaria (se non etnica), con una sorta di ostentato plebeismo, vitalismo, protezionismo. In tutte le sue forme erano comuni alcune caratteristiche proprie della lunga fase neoliberale e della disgregazione sociale nella quale affondano le radici le ragioni della rivolta. Si trattava in altre parole di un adattamento, con fortissimi elementi di continuità, allo spirito del tempo neoliberale dal quale molti si sentivano traditi pur senza essere in grado di pensare altro. Una reazione che si nutriva ambiguamente dello stesso veleno[8] che genera il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e iperindividualismo. Ma se ne nutriva in larga misura inconsapevolmente, quindi senza essere in grado di dosarlo in modo da farlo divenire farmaco.

Il giudizio su questa fase già definita nelle sue linee essenziali ante la crisi Covid è complesso ed ambivalente. I veicoli dell’espressione del “momento populista”, in Italia come altrove[9], hanno:

-          interpretato la tensione di fondo del “momento Polanyi” (che è dalla periferia al centro e dal basso all’alto), rompendo lo schema destra/sinistra e polarizzandosi in una sorta di “centro radicale”,

-          politicizzato, almeno in una fase di avvio, un attivismo tipicamente liberale che era cresciuto negli anni novanta, ultimo rifugio individuale del dissenso e del disagio, sulla base di istanze di “self-help” e di “sorveglianza” antipolitica,

-          fornito espressione allo spiazzamento, riconosciuto come comune e quindi politico, di ceti e sezioni di classi sociali che nel modello “flessibile” anni novanta erano state illuse di essere tra i vincenti, ma che si ritrovavano ora sul bagnasciuga dall’evoluzione della tecnica e delle dinamiche competitive.

Nel compiere queste operazioni hanno utilizzato una tecnica mimetica del tempo, che di fatto interpreta la domanda sociale come somma di domande individuali di affermazione, pur senza averne piena consapevolezza. Il riflusso di questa fase del “momento populista” si è avuta quando questi, che sono essenzialmente “contenitori dell’ira”[10] sono stati sfidati dal proprio successo a diventare anche “contenitori di potere”. Allora tutte le contraddizioni sono esplose.

 

Eravamo a questo punto quando la pandemia da Covid-19 ha investito il mondo. Si tratta dell’ennesima zoonosi non particolarmente pericolosa ma di subdola capacità di propagazione. Negli ultimi quaranta anni circa trenta milioni di persone sono morte per effetto di malattie trasmesse da animali e che hanno “fatto il salto” all’uomo. Si è trattato di batteri, virus, funghi, protisti, prioni o vermi che si sono insediati in ospiti umani e da questi propagati nel mondo[11]. Ma questa volta ha abbattuto le nostre difese. Perché?

Il fatto è che, più delle precedenti, questa pandemia interviene in una fase di transizione delicata. Avevamo un sistema produttivo ed economico altamente finanziarizzato e interconnesso, lasciato in dote dalla mondializzazione degli ultimi trenta anni, che era ed è come un calice di cristallo. Esile, elegante, sottile, durissimo e fragile. È stato lasciato crescere per decenni sulla base della ricerca costante, sotto la spinta di una concorrenza più o meno manipolata e secondo il principio della massima accumulazione a brevissimo termine. Il sistema di premi e punizioni che il sistema ha elargito ai suoi attori (a partire dai manager fino all’ultimo lavoratore) puntava parossisticamente sul rendimento a brevissimo termine, come se mai potesse arrivare una crisi.

Quando il cigno nero di un’epidemia di media pericolosità, capace di mettere contemporaneamente milioni di persone in condizioni di aver bisogno di soccorso (se non contenuta in qualche modo), è giunta, subitaneamente ha messo i sistemi sanitari e di assistenza dell’intero mondo “civile” di fronte alla consapevolezza di non aver accumulato abbastanza scorte per l’inverno. Nell’antico Egitto le ricorrenti carestie avevano insegnato ad una casta sacerdotale e politica avveduta la necessità di mettere da parte, anno su anno, ingenti scorte per affrontarle. Limitavano la crescita, certo, ma rappresentavano l’assicurazione che la carestia, con il correlato di epidemie, invasioni, sommosse, rivoluzioni, non sarebbe arrivata un brutto giorno a distruggere tutto. Invece la nostra furbissima economia neoliberale, e i governi di quegli Stati che per decenni abbiamo descritto come residui di epoche passate e sostanzialmente inutili e dannosi, ha pensato che pagare il costo assicurativo di avere una robusta sanità ed efficienti servizi territoriali di prevenzione fosse uno spreco. Li abbiamo quindi lentamente smantellati. Tenere ospedali di riserva per quando sarebbe giunta una emergenza, formare più medici, potenziare la rete dei medici di prossimità, creare ambulatori, avere industrie strategiche, anche se leggermente meno competitive, che potessero garantire le forniture di ciò che sarebbe stato necessario, è sembrato un lusso superfluo. Come in ogni altro settore.

 

Siamo quindi andati avanti per mesi cercando di non far esplodere la nostra fragilissima sanità (che porterebbe con sé il resto dell’organizzazione civile) e di non far collassare l’economia. Ottenendo ingenti danni sanitari (oltre settantamila morti) ed economici. Il motivo è che noi non abbiamo il controllo delle nostre vite e della nostra società ed economia.

Come avevo scritto a marzo[12] un governo realmente sovrano, avrebbe dovuto far altro:


Intanto una cosa semplicissima, garantire che qualunque esigenza economica sarebbe stata coperta dallo Stato per l’intera durata della crisi. Che qualunque fattura non pagata sarebbe stata scontata a vista dallo Stato (non con crediti di imposta, in denaro sonante). Che per qualunque esigenza di cassa e liquidità avrebbe potuto andare in Cassa depositi e prestiti (come ha fatto la Germania). Garantire credibilmente che non c’erano limiti alla spesa perché garantiti dalla Banca Centrale e dallo Stato. Assicurare che lo Stato stesso, per un congruo tempo, avrebbe garantito di farsi acquirente di ultima istanza.

Ed in cambio lo Stato avrebbe dovuto chiedere l’ingresso nel capitale delle aziende strategiche (nella sanità, nelle infrastrutture, nella farmaceutica, nell’energia, nell’ambiente, nell’agroindustria, l’informatica, la robotica, le telecomunicazioni) proteggendole dalle scalate e garantendone la funzione di interesse pubblico.

Garantire quindi la circolazione e la distribuzione, se del caso precettando le aziende che non volessero restare attive, se strategiche, garantendo la loro operatività.

Estendere, infine, le produzioni urgenti e strategiche, come tardivamente stiamo facendo con i respiratori, fornendo ordini certi, capitali ed assistenza tecnica”.

 

Quindi dovremmo lavorare per sostituire il calice di cristallo con una coppa di ferro. Riguadagnare una parziale indipendenza, vedere l’organizzazione a rete leggera come un lusso che non sempre ci si può permettere, riempire i magazzini, ridondare. Capire che la mondializzazione senza limiti e le “catene del valore globali” sono un progetto sbagliato, che avvantaggia troppi pochi e fa pagare il prezzo delle crisi a tutti gli altri. Ritornare ad avere al centro le attività produttive, accorciare le catene logistiche, ripensare città e territori.

 

Poi c’è un altro piano che si è manifestato in questo anno.

 

L’intera società umana si fonda sul bisogno di protezione, e l’età moderna nasce dalla paura. Dalla grande crisi sistemica che attraversò il continente tra la Pace di Cateau-Cambrésis del 1559 alla fine della “guerra dei trent’anni” nel 1648. Le “guerre di religione” devastarono il continente, accompagnandosi con malattie ad andamento epidemico, fino a che emerse l’assetto moderno. Il liberalesimo, lo Stato nazionale e l’affidamento al sistema della tecnoscienza.

Come accade costantemente si tratta di conseguimenti ambigui. Ma la promessa che fonda l’ordine sociale moderno, in continuità con quello antico ma senza il collante manifesto[13] religioso, è nella sua essenza di protezione e prosperità. Tuttavia, nella soluzione liberale, di protezione pubblica e libertà individuale su cui far poggiare la promessa di prosperità. La soluzione del “male minore”[14] è attraversata da questa linea di contraddizione: le tecnostrutture che vengono create e costantemente accresciute si devono fermare sulla soglia dell’individuo possessore.

Per questo motivo l’abbandono nelle mani di una pandemia che fa crollare i sistemi tecno-scientifici di protezione, ovvero l’infrastruttura sanitaria, è una minaccia esistenziale per l’ordine sociale e la vita organizzata. Si tratta, si faccia attenzione, di una minaccia esistenziale per qualunque ordine sociale. Moderno o antico, capitalista o non, occidentale o orientale, del Nord e del Sud. Anche nel Sud del mondo, durante i processi di State-building nel processo di decolonizzazione (1945-75) le proposte di legittimazione delle nuove formazioni politiche nei confronti delle preesistenti strutture, a volte tribali, sono passate per l’estensione dei servizi sanitari. La minaccia non è solo per la vita di alcune, o molte, persone (da sempre la protezione può includere il sacrificio), ma per la funzione degli Stati di proteggerle. Per questo tutti i paesi del mondo hanno attraversato, prima o dopo, lo stesso ciclo: scoperta, minimizzazione, attesa, allarme, misure parziali, lock down. Invariabilmente non appena la minaccia è stata percepita socialmente come reale ed imminente lo Stato ha reagito enfatizzando, con misure drammatiche e campagne di comunicazione insistite, la sua offerta di protezione. Ovvero ribadendo la propria legittimazione ad esistere[15].

La minaccia dal punto di vista strutturale dello Stato è quindi minaccia alla propria legittimazione, non direttamente alla vita dei cittadini e neppure all’economia. Entrambe sono importanti (la seconda in particolare), ma quando la sfida è alla propria stessa esistenza allora devono retrocedere. Questo è il motivo per il quale questa volta anche le esigenze di potentissimi gruppi di pressione (si pensi allo sport, o al sistema del trasporto) sono state messe da parte in un attimo.

Molte cose che appaiono incomprensibili si spiegano in questo modo. E si spiegano sotto questo profilo le differenze di efficacia delle misure prese, non tanto per la maggiore o minore volontà di protezione (che pure esiste sulla scala tra regimi d’ordine più smaccatamente neoliberali e regimi più pubblicocentrici), quanto per la diversa fragilità fisica, strutturale, politica nella quale abbiamo incontrato la sfida. I paesi occidentali, cultori della “fine dello Stato”, hanno chi più chi meno in questi anni promosso una “cultura del rischio” che rende più difficile (sul piano operativo, psicologico e politico) esercitare la necessaria funzione di protezione. Quelli orientali, molto più comunitari, hanno reagito con più prontezza ed energia.

 

L’Italia in questo 2020, pur avendo avuto l’avviso dell’epidemia partita a Wuhan da due mesi, si è fatta cogliere impreparata dal “paziente zero”. La prima reazione è stata blanda seguendo i pressanti inviti confindustriali, seguiti dai principali politici nazionali, a continuare ad andare ai baretti. Esemplare la visita di Zingaretti ai navigli che gli costò il primo contagio. Colpita successivamente dal treno in accelerazione dell’epidemia, e compreso forse allora il concetto semplice di malattia “infettiva”, l’Italia tutta si è chiusa in un Lock Down severo con i cittadini e lassista con le imprese. Nessuno poteva uscire di casa, pena le più tremende sanzioni, ma le imprese erano state quasi tutte inserite, sulla base di un’autocertificazione, nel novero delle “indispensabili”. Il risultato è che i lavoratori hanno dovuto pagare il prezzo di esporsi al rischio, e alle più improvvisate e brutali modalità di “smart” working. Poi, gradualmente, l’onda ha colpito il lavoro precario e l’enorme, ipertrofico, settore dei servizi. In particolare quello del tempo libero, bar, ristoranti, alberghi, case vacanze. E tutte le filiere connesse, cultura, spettacoli, artigianato. Agenti di viaggio, animatori turistici, camerieri, chef, addetti d’albergo, guide, … secondo Confesercenti un milione e mezzo di lavoratori nel 2016 al settore turistico e un milione e trecentomila alla ristorazione. Gli unici settori in crescita di occupati e con una grande presenza di giovani. Un enorme settore che occupa il 15% della forza lavoro italiana e cresce.

Si era detto allora, quando la prima ondata terminò per effetto delle misure (che, però, hanno al più dimezzato gli spostamenti) e del clima più favorevole, che bisognava prepararsi alla seconda. Ma subito tutti sono tornati alle vecchie abitudini e si sono alzate alte grida in favore della stagione turistica, della necessità di far ripartire il paese, del virus “clinicamente morto”. D’altra parte è subito partito il dibattito sull’indipensabilità di accedere al Mes sanitario, con il Pd in pressing per settimane. Tutto il circo dei media ha cominciato in coro a stracciarsi le vesti sulla mancanza delle risorse, sul ‘debito brutto’, sull’occasione storica che la buona Europa metteva a disposizione con il Recovery Plan. E giorno dopo giorno, parlando di Mes, di Recovery, di debito pubblico, della scuola e dei banchi, delle discoteche, è passato di mente che bisognava completare il programma dei posti letto in terapia intensiva, assumere lavoratori nella sanità, rimettere in piedi i servizi territoriali, adeguare i trasporti in modo da non avere vagoni e autobus sovraffollati, aggiungere aule e docenti, creare le condizioni per poter fare diagnosi rapide, per tracciare davvero i contagi (e non con la buffonata di Immuni), e via dicendo…

… poi è giunta la seconda ondata, molto più alta della prima, che ha raddoppiato i morti di aprile.

 

Di fronte a questa sfida si è manifestata una profonda divaricazione. Una lacerazione ha attraversato diagonalmente la società e tutte quelle che sembravano, ante la crisi, delle comunità politiche in formazione. La sfida della sicurezza ha lacerato il corpo dei “contenitori dell’ira”, portando allo scoperto la loro matrice e cultura neoliberale. In particolare, quella che si potrebbe chiamare ‘l’area della sovranità costituzionale’, di ispirazione marcatamente euroscettica e di pratica -in varie forme- populista, si è lacerata ed è entrata in una fase di pronunciata “asfissia politica”. In grandissime linee l’ipotesi politica che l’aveva ispirata era di tentare un compromesso tra forze di diversa ispirazione e cultura politica intorno all’ipotesi che l’oggettivo interesse per l’espansione della “domanda interna” potesse essere punto di convergenza di una nuova maggioranza politica dalla periferia e dal basso. Ovvero che un accorto esercizio della logica oppositiva del populismo (inteso al senso di Laclau) potesse ripoliticizzare le forze sparpagliate dalla rivoluzione neoliberale intorno al “programma minimo” di una ripresa di capacità sovrana a base popolare. Il tentativo di mettere tra parentesi tante vecchie fratture, quella tra “riformisti” e “rivoluzionari”, ad esempio, per iniziare almeno di uscire dall’angolo e riprendere il cammino verso una società più decente. Secondo l’idea che un passo produce forza per fare il successivo.

Tuttavia, nella seconda fase della crisi, già dalla metà dell’anno, sotto la spinta delle conseguenze diseguali delle misure di protezione sanitaria su un sistema economico e sociale reso fortemente frammentato dal trentennio neoliberale, abbiamo assistito alle mobilitazioni delle frazioni più precarizzate e di quelle più deboli del lavoro autonomo o professionale/imprenditoriale. E questa mobilitazione si è spontaneamente rivolta contro lo Stato, accusato di esercitare un potere “biopolitico” eccedente, e contro i ceti “protetti” dei lavoratori dipendenti. Ha inseguito le più stravaganti ipotesi, ha assunto toni di aspra difesa della libertà offesa. L’ipotesi di “alleanza della domanda interna” è andata in frantumi.

 

Quel che è emerso alla luce è che buona parte dell’area si muoveva sotto la ferma egemonia di quei ceti intermedi indeboliti, attori della svolta neoliberale degli anni seguenti al riflusso ma oggi traditi nel loro affidamento ad essa. La reazione emersa ha opposto, non senza una sua quale coerenza, la risposta di protezione difensiva delle macchine statuali alla violazione della libertà individuale, identificandola quale profonda violazione dell’ordine liberale[16]. Dimentica di ogni sbandierato orientamento al socialismo sono riemersi tutti i temi libertari profondamente radicati nella società italiana e nelle sue medie borghesie, siano esse orientate a sinistra, destra o centro.

Sono esplose quelle precarie “catene di equivalenza” che, sotto l’astratto slogan della “domanda interna” facevano sembrare simili le domande di chi in effetti odia lo Stato (e specificamente lo Stato fiscale e disciplinatore) e chi al contrario lo vuole potenziare dopo un quarantennio di indebolimento; chi vuole solo ascendere alla posizione dalla quale può nuovamente, e finalmente, sfruttare il lavoro debole (di commessi, impiegati, operai) per vincere la lotta della vita e raggiungere il proprio posto in essa, e chi, magari, vorrebbe ridurre all’opposto il proprio grado di sfruttamento e guadagnare condizioni di lavoro più dignitose; chi ha bisogno di indebolire il lavoro per sfruttarlo e chi questo lavoro lo presta; chi abita le periferie e chi ne fugge disperatamente, o non vuole scivolarvi; chi si sente in basso e chi in alto.

 

In questi mesi il sistema dei media, ed in parte il frastuono dei social, hanno restituito un’immagine per la quale a mobilitarsi contro sono micro e piccoli imprenditori, autonomi, commercianti, più che insegnanti, impiegati, operai e funzionari pubblici. In parte è una percezione deformata dai media (i quali sistematicamente sovrarappresentano alcune manifestazioni ed ignorano altre), in parte dipende dal fatto che alcuni strati dei primi soffrono maggiormente le misure di protezione prese. Le subiscono senza le protezioni residuali il trentennio di espansione del welfare di cui i secondi ancora godono. Ma si muovono anche perché su di essi la cultura neoliberale ha maggiore presa. Si muovono perché per loro è più aspro lo scollamento tra la promessa di autopromozione o di elevamento nella quale sono stati formati e la realtà di scivolamento e stagnazione in cui vivono. Promessa sulla quale contano per ancorare l’autoriconoscimento in una logica di competizione verticale propria della soggettivazione come classe.

Insomma, in questi mesi, è riemersa una frattura strutturale che ha anche un suo versante culturale e cognitivo. La “alleanza per la domanda interna” è una astratta necessità politica, ma una concreta impossibilità. Questi ceti e gruppi, quelli che Wright Mills chiamava in mezzo al trentennio “un’insalata di occupazioni”, fatta di dirigenti, professionisti, addetti alle vendite, impiegati, artigiani, piccoli e medi imprenditori, accomunati da molto poco oltre a certi parametri di reddito rilevati ex post e il desiderio di un certo status sociale, vogliono ascendere. Vogliono staccarsi dai ceti popolari e dai lavoratori, e vogliono, anzi che questi gli servano per farlo.

 

Se si prova a guardare il problema dal lato dei rapporti di produzione e della relativa soggettivazione la cosa ha una semplice spiegazione, della quale parlavo in un post di giugno:

 

“Autonomi, professionisti, micro e piccoli imprenditori, “bottegai”, sono tutti datori di lavoro potenziali dei lavoratori dipendenti. Guardano il rapporto di produzione dall’altro lato. È vero che faticano ad essere realmente ‘ceto medio’, ovvero ad avere quella adeguata protezione dai rischi della vita determinata dal possesso dei capitali (relazionali, spaziali, culturali e soprattutto meramente economici), perché la crisi li ha erosi. Ma è proprio per questo, e non altro, che si muovono.

In altre parole, si muovono per riguadagnare la distanza che li qualifica ai loro occhi come ‘ceti medi’ e non per cambiare il sistema sociale di produzione che crea queste gerarchie. Si muovono per riaffermare le gerarchie ed il sistema neoliberale. Non è affatto un caso si muovano in direzioni neocorporative e non è un caso siano ostili a qualsiasi azione pubblica che non sia diretta ad un sostegno assistenziale esclusivamente a loro”[17].

 

La frattura si è manifestata anche sul piano della tattica politica. La vicenda di apparente successo più vicina, nel campo della politica antistemica, è quella del “neopopulismo” di cui abbiamo visto esaurire il ciclo ad immediato ridosso della crisi pandemica. In effetti si tratta di potenti tecniche per aggregare in poco tempo “contenitori dell’ira” capaci di effetti elettorali significativi e anche, in alcuni casi irripetibili[18], vincenti. Ma al fine di una reale politica antistemica sono esempi inservibili. Se hanno fallito la trasformazione in “contenitori di potere” è per ragioni interne e inaggirabili. Il potere non è contenuto nella figura organizzativa formalmente apicale, in nessun caso e tanto meno nella macchina pubblica statuale. Il potere, quello effettivo, ovvero quello di cambiare, è contenuto nelle relazioni circolanti in un molto più vasto sistema ed ha carattere continuo, non discontinuo. Nessuna “catena equivalenziale” può quindi fare il miracolo di evitare il duro lavoro della “guerra di posizione” e della costruzione di effettiva egemonia[19].

 

La questione è di capire, in una situazione dinamica, non tanto chi si muove oggi, ma chi è nella posizione di fare leva per agire nel conflitto in essere contrastandone la forza motrice. Contrastandola per indurre l’avvio di un riequilibrio dei rapporti di forze che possa indurre degli elementi di socialismo, dei quali c’è assoluto bisogno. Senza i quali nessuna soluzione potrà essere trovata neppure ai dilemmi sistemici sommariamente descritti. Per fare questo non si deve partire dalla mera fotografia dell’esistente, immaginando che chi oggi è attivo o inattivo lo resti sempre, e non bisogna immaginare la questione del potere come un episodio singolo. Una “presa”. Bisogna comprendere, e bene, cosa è per noi il popolo e cosa sono i suoi nemici. Sapendo che verso i nemici si combatte, verso il popolo si lavora a creare unità di interesse e sentire.

E bisogna aver fermo e compreso che in sé la contraddizione tra chi intende elevarsi abbassando gli altri, ovvero aumentando il saggio di sfruttamento a proprio vantaggio, e chi ne subisce l’azione sistemica è una contraddizione antagonista. Che può sia scivolare in una relazione con nemici, sia essere ricondotta ad una dimensione organicamente equilibrata, ma solo se viene trattata espressamente. Inserendo i desideri, le pulsioni, e le ambizioni delle diverse soggettività sociali in un quadro non competitivo, socialista, appunto. Si tratta allora di distinguere tra inimicizia e divergenza (di rappresentazione, teoria delle funzioni sociali, prospettiva temporale). Tra la lotta e la discussione.

 

Per emergere dunque dalle contraddizioni e dai conflitti che questo anno ha fatto venire allo scoperto, bisogna liberarsi dell’idea che l’assetto sociale postmoderno, creato dalle specifiche forze introdotte dall’equilibrio del dopoguerra su generazioni che questa avevano subito e consolidato in cultura appresa dalle nuove generazioni, sia di fatto irreversibile. Ma non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, è più vero il contrario, l’essere sociale determina la loro coscienza. C’è infatti una contraddizione inscritta profondamente, nelle ossa stesse, che lavora a scalzare la coscienza postmoderna la quale paralizza l’azione sociale: l’individualismo edonista ha perso le condizioni di sicurezza ed affidamento che lo rendevano possibile. Nelle condizioni del lavoro contemporaneo ed in quelle della vita della grandissima parte della popolazione, in particolare di coloro che non possono scaricare su altri, o sperare di farlo, i propri pesi, si affaccia la semplice logica che solo l’azione collettiva, nuovamente, può o potrà rimettere in questione i rapporti di forza.

È tutta, sempre questione di rapporti di forza. E ciò nel paese, non al suo esterno. Altrimenti si resta prigionieri del gattopardo neoliberale, nei suoi numerosi travestimenti. Mentre si giocherella con la pietra filosofale, sperando di essere finalmente l’avanguardia rivoluzionaria tanto attesa, il senso comune neoliberale, la coscienza data, lavorerà a riprodursi travestito. La cosa non potrebbe essere più seria.

 

Lo spartiacque del 2020 si manifesta qui. Tra coloro i quali intendono riprodurre la mossa del “neopopulismo”, raccogliendo effimero consenso in catene di equivalenze più o meno vuote, e chi comprende che stiamo entrando in un nuovo tempo. La coscienza postmoderna è scalzata dalle sue contraddizioni interne, e permane solo come zombie. Ci vorrà tempo perché produca i suoi effetti, e bisognerà restare forse a lungo nelle trincee, ma l’unica strada feconda è quella che si sforza di oltrepassare l’impolitico neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Che ha pazienza di lavorare sulle fratture che si aprono, giorno dopo giorno. Tessendo e cucendo, senza perdere il filo dell’interesse da difendere. Ovvero del miglior interesse del paese, che è sempre quello dei suoi lavoratori.

Si sforza di identificare i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose presenti.

È capace di non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma di lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa e ad una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. 

 

Conquistando una piazzaforte dopo l’altra e fidando che l’essere sociale ha ricominciato a lavorare a nostro favore.

 



[1] - Uso il termine al modo di Giovanni Arrighi, si veda Alessandro Visalli “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[2] - Ovvero per conservare liquida la massa immane di valore fittizio sul quale si regge la gerarchia dei poteri nel mondo.

[3] - Non la neutralizzazione della capacità d’azione dello Stato in quanto tale, che la mondializzazione e la finanziarizzazione sono azioni promosse dal potere pubblico. Ma quella di utilizzarlo da parte delle forze popolari e per i fini di una maggiore democratizzazione effettiva.

[4] - Si veda in proposito https://www.iai.it/sites/default/files/pi_a_161.pdf . Le CGV sono complesse reti di imprese che possono far parte del medesimo gruppo (controllate o collegate), o essere società miste o indipendenti, ma comunque coordinate da un’impresa leader di filiera. Queste imprese si scambiano prodotti e servizi intermedi, parti di attività o mansioni aziendali specifiche per la realizzazione di un bene finale. All’interno delle CGV si realizzano a oggi circa due terzi degli scambi mondiali di beni e servizi; la produzione interna e le esportazioni incorporano perciò una quota notevole di beni intermedi importati. In generale, gli scambi di beni intermedi lavorati (al netto del valore delle materie prime) rappresentano la metà del commercio mondiale.

[6] - Una rivolta della società alla costrizione dell’economico per effetto del rovesciamento della disgregazione del sociale e la crisi di legittimazione di poteri non più in grado di contastarlo.

[7] - La forma politica del “momento Polanyi”, che vive della caduta di legittimazione, ma necessita di un’espressione specifica per addensarsi, dunque ne dipende. L’espressione politica entra in crisi per effetto delle sue contraddizioni interne e l’incapacità manifesta a produrre una risposta e soluzione plausibile e operabile.

[8] - Il veleno è la disgregazione sociale, individualismo ‘post-materialista’, dominio dei nuovi media disintermedianti, discredito delle élite, snellezza, leaderismo.

[9] - Il Movimento 5 Stelle, la Lega nazionale di Salvini, il primo Podemos, la prima Insoumise, il movimento di Le Pen, …

[11] - David Quammen, “Spillover”, Adelphi Edizioni 2012.

[13] - In realtà il liberalesimo ed il capitalismo sono forme del religioso, ma in modo meno palese.

[14] - Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”, Scheiwiller, 2008

[15] - Si veda “Il controllo al tempo della paura”, aprile.

[16] - Si veda Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020.

[18] - Non è qui il caso di ripercorrere la lunga storia del Movimento 5 Stelle e le ingenti risorse simboliche, carismatiche e tecniche di cui ha potuto disporre, o la lunghissima storia della Lega di Salvini, a metà tra un movimento populista e un radicatissimo sistema di potere e partitico.

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