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domenica 27 dicembre 2020

Pochi appunti sul ‘femminismo della differenza’

 


Da quando ad ognuno di noi capitò di aprire gli occhi e quando poi arrivammo all’età della ragione scoprimmo che nel mondo ci sono molte e diverse gerarchie, diverse forme di esercizio di autorità (da parte di madri, di padri, di maestri/e, di posizioni e ruoli, di ricchi, di colti e di tecnici, ...) e tutti scoprimmo, con il tempo, che queste forme allo stesso momento tengono insieme la società e gli consentono di funzionare. Il loro segno è dunque ambiguo, necessario e sempre sul punto di eccedere.

Parimenti, quando iniziammo a crescere ognuno di noi si sentì interrogato dal proprio genere, da quello che la società propone come modello appropriato di genere, e quindi fummo spinti ad interrogarci sulla differenza che si percepisce ovunque, e si incontra sempre, tra una certa visione e sensibilità ed un’altra. Nella media, naturalmente, perché esistono sempre individui intermedi, più vocati ad alcune sensibilità, aperti ad un altro “lato” come si dice. Anzi, non esistono personalità ben formate, normali, che non abbiano elementi di entrambe le sensibilità idealtipiche.

Quanto queste differenze sono biologia, quanto cultura, quanto proprio morfologia, quanto esperienza di base? Quanto dipendono dal momento centrale della riproduzione (che è in assoluto il momento di massimo dimorfismo)? Quanto, magari, proprio dalla meccanica dell’atto sessuale (simmetricamente opposto, si dà e si riceve)?

Difficile, e probabilmente impossibile dirlo con certezza. Una cosa è sicura: ci sono delle differenze. Un’altra, però l’accompagna: la specie è unica, la sua base genetica (circa ventimila geni) coincide in grandissima parte in tutti ma la sua espressione (ovvero la codifica delle proteine) differisce sensibilmente. Secondo recenti ricerche per ben seimilacinquecento geni l’espressione proteica è diversa tra uomini e donne. Di queste codifiche diverse una sola sembra operare nel cervello[1]. Questa differenza genera nello sviluppo morfologico le note variazioni nel corpo, nelle ghiandole mammarie, nel sistema muscolo-scheletrico, nel tessuto adiposo, vantaggi cardiaci, … Sembrano anche esserci alcune differenze registrate nella prassi medica, in particolare psicologica, ma qui entriamo in un campo nel quale la cultura prevale (ad esempio si registrano più schizofrenici tra gli uomini e più nevrosi tra le donne, più autismo nell’uomo e più disturbi dell’alimentazione nella donna). Ma sul cervello operano anche gli ormoni. E qui, sin dall’età fetale, una diversa dotazione ormonale influenza la sfera cognitiva, il comportamento, la coordinazione motoria, alcune asimmetrie funzionali. Per cui, mediamente, le donne sono più abili nel linguaggio e gli uomini nelle abilità spaziali (però qui le osservazioni non sono facilmente districabili tra biologia ed educazione o esperienza). Sembrerebbe che nelle donne la lateralizzazione del cervello sia mediamente minore.

Fin qui le differenze, nelle coordinate di un discorso scientista. C’è purtuttavia un duro fatto, che ha una sua inaggirabilità e dal quale derivano prescrizioni politiche: siamo un’unica specie e nessuno può fare da solo. È del tutto evidente che maschi e femmine sono reciprocamente necessari. La prospettiva sessista, esercitata da una parte o dall’altra, dall’alto o dal basso, attiva o reattiva, non conduce a nulla di utile. Gioca in questa direzione una distinzione simile a quella che vale per la valorizzazione, o il semplice riconoscimento, delle differenze culturali, etniche o nazionali. Sono ricchezza se non vengono agite le une contro le altre, che in tal caso diventano razzismo o sciovinismo nazionalista.

La mia ipotesi principale è in una parte almeno del femminismo giochi, sulla base di istanze legittime, un eccesso e una sovrainterpretazione; la ricerca di un conflitto naturale ed essenziale, che spieghi e riconduca tutto e fornisca quindi, con la massima economia possibile, una spiegazione onnicomprensiva del male del mondo. Come noto una delle prestazioni essenziali del religioso.




Ma facciamo un passo indietro.

In alcune discussioni che stiamo tenendo in questi giorni, disseminate in più luoghi, il mio amico Fagan è venuto a sostenere che la griglia analitica marxista, da lui evocata e messa in questione, eccede a sua volta, sovrainterpretando le differenze di classe come “formato di tutte le altre”, ove queste sarebbero piuttosto e naturalmente quelle di cultura, genere, etnia, civiltà. Il suo argomento, certamente di peso, è che questa visione non corrisponde con i fatti storici emersi dalle ricostruzioni archeologiche più accreditate e recenti. In esse emergerebbe piuttosto la rappresentazione di una simultanea comparsa, circa settemila anni fa, in più luoghi, di società ‘complesse’ nelle quali plurime gerarchie si presentarono senza essere derivate le une dalle altre. E, specificamente, senza che quelle derivanti da cultura, etnia e dimorfismo funzionale sessuale possano essere interpretate come secondarie e prodotte da un più fondamentale “modo di produzione”. Ovvero, in gergo marxiano, senza che la “sovrastruttura” derivi dalla “struttura”. A suo modo di vedere quando nacquero le “società complesse” comparve anche, immediatamente e sin dall’inizio, una essenziale partizione pochi/molti e quindi una decisiva creazione di gerarchia. Il punto sarebbe che la gerarchia non ha a che fare con l’economico, o almeno non prioritariamente. Dunque altre linee di frattura, ad esempio di genere, sarebbero cooriginarie e non derivate. Questo potrebbe un modo di porre la questione. Una sorta di orizzontalismo, o contestualismo radicale, secondo il quale solo di volta in volta si potrebbe scegliere il conflitto politicamente (ma anche individualmente) rilevante o preminente.

Uno scivolamento di questa impostazione, spesso inavvertito, vedrebbe essere le lotte di classi come secondarie sulla base di un dimorfismo ontologico a base naturalistica (biologica, per la precisione) per il quale la specie sarebbe essenzialmente divisa in due “soggetti”, entrambi universali e quindi radicalmente altri: il “femminile” ed il “maschile”. Nell’organizzazione di questo discorso si tratterebbe di una semplice questione di fatto.

Questa linea di critica del posizionamento socialista mi pare sia rivendicata come propria della seconda ondata femminista. Più precisamente di quel “femminismo della differenza” che muove, nel contesto della controcultura degli anni sessanta e, partendo dalle università americane, finisce per mettere in generale sotto accusa la pretesa del più generale movimento di liberare tutti. Il discorso di liberazione sarebbe infatti “neutro”, se rivolto all’intera società, senza essere distinto in discorso di genere, delle donne alle donne e degli uomini agli uomini. Ed a sua volta il “neutro” sarebbe, a partire dal linguaggio (la linguistica è la filosofia e scienza umana egemonica negli anni di incubazione di questa tendenza) in sé oppressivo. Precisamente oppressivo dell’universale femminile. Ne conseguirebbe che l’unico modo di rispondere è quello di separarsi. Si tratta di rivendicare, insomma, la priorità di un conflitto tra i sessi e l’esistenza di una differenza essenziale fondata sul terreno dell’omogeneità interna di questi. Le altre differenze restano, ovviamente, ma quella tra uomini e donne sovraintende a tutte[2].

Scrive Maria Luisa Boccia, in un intervento retrospettivo del 2018:


“Noi giovani donne che abbiamo fatto il Sessantotto siamo nate emancipate e cresciute uguali ai nostri compagni: non eravamo discriminate, abbiamo, come ho detto, condiviso con loro esperienze, passioni ed idee. Ma abbiamo anche sperimentato lo scarto tra l’esserci percepite/pensate uguali e l’esserci scoperte differenti.

Negli anni Settanta, apertasi la separazione che non si è più richiusa, il femminismo ha continuato a produrre politica tra donne con la pratica dell’autocoscienza e del partire da sé. Tuttavia nel separatismo ha operato a lungo, come ho già accennato, un rapporto di contaminazione e differenziazione con la galassia di partiti, movimenti, associazioni che nel Sessantotto hanno avuto un comune riferimento. C’è un momento in cui la differenziazione ha prevalso, ed è il Settantasette. Una nuova generazione di donne si separa da quel movimento in modo, se è possibile, ancora più radicale, significando l’incompatibilità fra la loro politica e quella del movimento.

Era possibile un altro esito rispetto a questa frattura? Straordinariamente è proprio Lonzi a parlare di possibile alleanza tra il giovane e la donna. Il fondamento politico teorico di questa alleanza Lonzi lo nomina come ‘rifiuto’ del padre: ‘la donna che rifiuta la famiglia il giovane che rifiuta la guerra costituiscono due colossali smentite dell’autorità patriarcale’. Nell’opposizione alla guerra del Vietnam non c’è solo l’antimperialismo.  Nelle cartoline bruciate dagli studenti nelle Università americane c’è una motivazione pacifista di ripudio della guerra. Il giovane che rifiuta la guerra rifiuta un modello di virilità, ricattatorio per gli uomini stessi, che poggia sull’affermazione della supremazia dell’uomo sull’altro sesso. Ma i giovani sessantottini hanno per lo più ceduto al richiamo dell’alleanza tra maschi nella lotta di massa organizzata anticapitalista. Nell’alleanza con la classe operaia si perdono le motivazioni originarie della rivolta studentesca. Confluiti (e divisi) nei partiti/gruppi, gli studenti si pongono piuttosto come avanguardia delle lotte di classe. Comunque, “studenti e operai uniti nella lotta” cancella la differenza sessuale. Il giovane abbandona il terreno suo proprio di lotta al patriarcato, e alla sua matrice antiautoritaria subentra la logica dei rapporti di forza e del potere.

L’alleanza era sembrata a Lonzi possibile, in ragione del taglio operato all’origine del Sessantotto con le forme di soggettività politica della tradizione rivoluzionaria. Quell’alleanza viene mancata quando gli uomini prendono la via della ripetizione: di un’idea di rivoluzione e di un modo di far politica. Di un modo d’essere nei rapporti tra donne e uomini e quindi tra uomini.
Perché l’alleanza fosse praticabile ed incisiva occorreva che gli uomini riconoscessero l’asimmetria tra loro e le donne ovvero che riconoscessero il vantaggio delle donne, perché la rivoluzione femminile ha in sé le condizioni per sbloccare proprio la logica delle false alternative, delle lotte di potere tra uomini che comunque poggiano sulla persistenza del paternalismo e dell’autorità patriarcale
.[3]

 

In questo breve, ma autorevole, testo viene insomma scritto che il “femminismo della differenza” nasce nel sessantotto, e che nasce come rivolta contro il movimento. Dentro e contro. Nasce, precisamente, come separazione, come incompatibilità. Invece del capitalismo viene scelto come bersaglio qualcosa di apparentemente più profondo (e che, quindi, accumuna entrambi i poli in conflitto dell’epoca, sia i marines sia i vietcong, sia gli Usa sia l’Urss, ma anche i cubani, o i cinesi). Quindi è proprio la lotta di massa organizzata anticapitalista, e l’alleanza con la classe operaia, che viene contestata. Questa lotta viene rinnegata perché “cancella la differenza sessuale”. L’intero testo, e l’intera opera, si muove in una matrice antiautoritaria che vorrebbe sfuggire ai rapporti di forza ed al potere. Quindi vorrebbe chiamarsi fuori dalla tradizione rivoluzionaria prescrivendo di “riconoscere il vantaggio delle donne” e lasciarsi guidare dalle buone madri[4].

Ovviamente, come sempre avviene, sotto l’etichetta di “femminismo” ci sono molte cose, e non tutte coerenti, e lavorano diversi conflitti strutturanti, sopiti dalla scelta di genere ma non completamente. Tra questi i conflitti di classe, ovviamente, quelli connessi con le dinamiche di dipendenza a base geografica (tra i nord ed i sud, o i centri e periferie), quelli etnici. Alcune parti del movimento femminista, in particolare nei paesi periferici, hanno criticato questa scelta ‘separatista’ egemonica. Ad esempio nel IV incontro di Taxco, in Messico, alcune femministe sudamericane accusarono il più ampio movimento di aver ceduto ad alcuni veri e propri miti[5], che di seguito elenco: 1- che alle femministe non interessi il potere; 2- che le femministe facciano politica in un altro modo; 3- che tutte le femministe siano uguali; 4- che esista un’unità naturale per il solo fatto di essere donne; 5- che il femminismo si caratterizzi solo come politica delle donne per le donne; 6- che il collettivo sia il movimento; 7- che gli spazi di donne di per sé garantiscano un processo positivo; 8- che qualunque cosa sia vera in base alla esperienza in quanto donna; 9- che il personale sia automaticamente politico; 10- che il consenso sia democrazia. Questi dieci miti, secondo la dichiarazione, “hanno generato una situazione di frustrazione, di autocompiacimento, di logorio, di inefficienza e di confusione”.

Certo, una parte di questa critica è comune anche a diverse correnti del “femminismo della differenza” in quanto impiegata contro l’avversario polemico del “femminismo dell’uguaglianza” (ovvero dell’autopromozione o del “soffitto di cristallo”). Tuttavia, se il punto diventa quello di lottare per la differenza e non l’eguaglianza, e di pensare filosoficamente ed antropologicamente un’essenziale differenza femminile, diventa facile scivolare nuovamente nei miti 1, 2, 4, 5 e 7. Insomma, si finisce per sostenere una femminilità idealizzata, propriamente materna e dunque presuntivamente non violenta, armonica con la natura, e di qui si arriva a concluderne (come talvolta avviene) che bisogna costruire un mondo che non sia “contaminato” dal maschile, separato (anche sessualmente), ed in grado di costruire una vera e propria controcultura da zero. Non contaminata da nulla di maschile (cosa che implicherebbe, ad essere coerenti, il rigetto dell’intera cultura e l’assoluta impossibilità ci comunicazione). Secondo quanto viene rimproverato anche dalle “femministe dell’uguaglianza”, ne deriva il radicale rigetto dell’umano generico e l’affermazione di un dualismo ontologico irriducibile. Una specie di maschilismo rovesciato.

Secondo la critica sul punto della D’Atri: “questo nuovo femminismo che nasceva come reazione all’assimilazione al sistema del femminismo dell’eguaglianza respinse il confronto politico ripiegandosi nella creazione di una controcultura basata su nuovi valori sorti dalla differenza sessuale. Insieme al femminismo dell’uguaglianza finì per mettere in discussione anche il progetto di una società di uguali, liberata dallo sfruttamento e dall’oppressione.”[6] In conseguenza, ancora, “le femministe della differenza non presentano alternative voltando le spalle allo Stato e passando il tempo a tessere relazioni tra donne e chiudendosi in una nuova cultura femminile contro l’egemonia del patriarcato, hanno di fatto collaborato alla spoliticizzazione del movimento femminista e al suo divorzio dalle lotte sociali”. È una mossa comprensibile nel clima generale di scoraggiamento e riflusso nel quale il movimento sorge e si afferma, comune a molte linee anche non femministe. Si tratta di non affrontare il sistema capitalista (in effetti dissolvendone la stessa categoria, dato che viene schiacciata in quella di patriarcato, o comunque di maschilismo), “scegliendo per sé una vita autonoma al margine, privilegiando le reti di solidarietà e le vicende personali particolari, invece della politica attiva”[7].

 

Al riguardo, partendo da ben diversa posizione, anche Costanzo Preve scrisse nel 2006:

 

l’irruzione, alcuni decenni fa, del femminismo separatististico deve essere fatta oggetto di ipotesi storica e genealogica. Proprio quando il processo di emancipazione femminile si stava realizzando, anche sulla base della coltivazione del complesso di colpa del maschio, si delinea uno strano movimento che nega la storia ed adotta una ideologia astorica di tipo differenzialistico, che assomiglia sinistramente al dimorfismo ontologico e biologico dei tradizionali sostenitori della legittimità del dominio maschile sulle donne. Da un punto di vista generale, il femminismo di tipo universitario si situa all’interno di una generalizzata reazione contro la storia che percorre il ventennio 1970-90, e che non può essere disgiunto dalla ricaduta delle delusioni rivoluzionarie del secolo precedente. Il femminismo ci aggiunge una reazione furiosa contro l’intero universo sociale e comunitario (necessariamente composto da uomini e donne). Come avviene per tutti i miti differenzialistici dell’origine, il femminismo presenta una natura estremamente individualistica. Una delle prime teoriche del femminismo italiano, Carla Lonzi, debutta con un libro intitolato “Sputiamo su Hegel”. Mai obiettivo fu scelto tanto bene, in quanto colpendo Hegel si colpisce al cuore la migliore forma filosofica di comunitarismo moderno. Laddove la guerra fra le classi disturbava pur sempre l’economia, la guerra tra i sessi non la disturba affatto”.[8]

 

In sostanza, e su questa linea, si può anche interagire con l’argomento di Pierluigi, la modernità è coestesa a quell’insieme di fenomeni incapsulati in forme sociali e al contempo laceranti dall’interno le stesse che usiamo chiamare “capitalismo”. Il capitalismo in quanto anonimo e astratto modo di relazione, tende a distruggere ogni comunità realmente esistente e capace di autodirezione, in favore (poiché l’uomo è essenzialmente un essere sociale) della continua costituzione di quelle che Preve nominava come “comunità fittizie”. “Fittizie” nel senso di essere prodotte da distinzioni altre, qualunque siano, che non lo mettono in questione e consentono di unire in uno gli oppressi e gli oppressori, le vittime e i carnefici, i premiati ed i colpiti. Compiendo questa mossa neutralizzante l’energia critica il capotalismo può espandersi inosservato.

Pierluigi di converso sostiene che, lungi dall’essere questione di lotte di classi, è proprio di ogni ‘società complessa’ costruire plurime gerarchie essenzialmente fondate su una necessità funzionale e quindi in linea di principio equivalenti. Il punto di vista femminista di cui abbiamo tracciato la forma, invece, che è proprio dell’umano come specie, e quindi su un piano necessario ed astorico, il fatto che sia la differenza tra i sessi a sovradeterminare ogni altra. Per entrambe le vie le differenze di classe retrocedono ad una tra le molte, e/o a differenza secondaria se mai da riprendere tra le donne (e, se vogliono, anche tra gli uomini), ma isolatamente.

 

Alla prima sfida si può tentare di rispondere su due piani. Da una parte l’argomento di lunghissimo periodo evocato salda in uno organizzazioni sociali e antropologie radicalmente eterogenee, perdendo per strada completamente proprio la discontinuità determinata dalla modernità e dall’insorgere del capitalismo. È chiaro che si tratta di questioni molto dibattute e di notevole complessità, in qualche modo non decidibili e sostanzialmente connesse con le scelte che noi operiamo nel presente. Ma la presa di centralità della divisione di classe fondata sulla distribuzione del prodotto sociale attraverso il proprio ruolo nel lavoro è in ogni caso esclusivamente una caratteristica della modernità occidentale e da questa estesa in punta di lancia all’insieme del mondo. Produrre quindi un argomento fondato su una sorta di costante antropologica, antistorica, disattiva la mossa socialista (non solo marxiana) sottraendone il terreno sotto i piedi. Tuttavia, resta almeno in debito di spiegazione sulla stessa tardiva insorgenza della tecnica e dell’organizzazione sociale moderna (atteso che i greci alessandrini, ad esempio, erano dotati in pratica di tutto il necessario).

Per rendere meglio il punto, valevole anche contro l’anti-storicismo e il naturalismo del ‘femminismo della differenza’, si può ricordare che la famosa frase con la quale si apre la prima sezione del “Manifesto del partito comunista” (1848, la data qui conta molto) “la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi” è naturalmente fattualmente falsa, e ciò non era ignoto agli stessi estensori. Tuttavia va compresa, e con essa va compreso il senso nel quale Marx e, in misura di volta in volta diverso il marxismo, ha inteso la questione di classi. Ci vorrebbe un libro e tanti ne sono stati scritti, ma il testo si apre con l'evocazione del fantasma del comunismo; non è per caso. In questa traccia, strettamente politica, viene denunciato un fatto che è contemporaneamente indiscutibile ed insufficiente: si legge, “oppressori ed oppressi sono sempre stati in contrasto tra di loro”, ovvero, infra poco dopo, “nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione della società in varie caste, una multiforme gradazione di posizioni sociali”. Marx ed Engels sottoscriverebbero dunque, per queste epoche, la frase di Pierluigi. Si distingue tra “oppressori” ed “oppressi” e in funzione di una “multiforme” gradazione di “posizioni sociali”.

E’, tuttavia, importante che il testo dica “nelle prime epoche” perché poi è intervenuta la borghesia che “ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti…”, trasformando ogni rapporto in rapporto di dipendenza economica, salariata. È solo dopo che assume una qualche centralità politica la differenza rinvenibile in termini di lotte di classi. Una centralità, è bene essere chiari, che non esclude affatto che ci siano altri piani ed altre oppressioni, da combattere per esse stesse. Ovvero non esclude affatto che lottare per l’emancipazione “politica” possa includere e/o affiancarsi ad una giusta lotta per l’emancipazione “umana” e “universale”[9].

 

All’autoritarismo delle forme tradizionali, in altre parole, con la modernità capitalista si sovrappone e sostituisce, certo gradualmente, una forma sottile, ma più ferrea, di autoritarismo del mercato. In altre parole, la questione non è tanto del “plusvalore non pagato” o di appropriarsi del potere giuridico di disporre della proprietà privata, ma di ridefinire la “forma sociale del valore stesso”, ed il suo feticismo che mette in concorrenza tra di loro tutte le classi e gli individui entro esse, siano essi maschi o femmine. La “forma sociale del valore” si costituisce, infatti, senza che nessuno la progetti, come struttura senza soggetto (anonima e desessuata) con l’immenso potere di agire “dietro le spalle” di tutti gli uomini e le donne, sottomettendoli ad un processo di trasformazione dell’energia umana in denaro. Ovvero in un’oggettivazione dei rapporti di dominazione che si nutrono delle vite che incapsulano mentre, di fatto, le identificano. Il capitale, così letto, non è appropriabile e non è neppure solo questione di possedere i mezzi di produzione, perché la vera produzione è di rapporti sociali e quindi forme dell’umano, oggettivati nel rapporto con il denaro come dominus totale. O meglio del denaro come traduttore e condensazione in uno della dominazione, che coinvolge insieme “possessore” e “posseduto”, creditore e debitore, accumuli e decumuli. Rispetto a tutto questo il “patriarcato” non è che un residuo fossile, ancora qui e l’ì presente, ma superato sistematicamente e di ostacolo al ‘movimento automatico’[10].

Il femminismo, se pure qua e là ancora giustificato, è nel suo complesso una lotta di retroguardia. Talvolta è direttamente e propriamente una lotta contro-rivoluzionaria. In quei casi, come ricorda Bauman in “Vite che non possiamo permetterci”, rischia di prodursi come utopia regressiva. Delle utopie che arrivano in ‘confezione unica’ insieme alla modernità liquida, a una Dip (deregolamentazione, individualizzazione e privatizzazione) ossessivo-compulsiva e al consumismo. Più queste utopie decantano, più chiara appare la meta finale/prevista/imminente cui tendono. Ogni tipo di utopia è gravido delle proprie distopie, che come qualsiasi discendenza sono determinate a livello genetico”[11].

 

Fermiamo un attimo la ruota del tempo al contesto del “Manifesto del Partito Comunista”. Siamo nel 1848, centroEuropa, una trentina di anni prima erano finite le guerre napoleoniche, una cinquantina la rivoluzione francese. L’Europa si sentiva centro del mondo, e in questo secolo lo diventa, ed era uscita dalla immane turbolenza con il “concerto delle nazioni” a guida austro-russa che, però, cominciava a mostrare le sue crepe. Negli anni dai cinquanta ai settanta avremo la guerra di Crimea seguita immediatamente dai processi di State-Building (assolutamente destabilizzanti) italiano e tedesco. Restavano irrisolte le questioni di alcune aspiranti nazioni minori, nei balcani, in Irlanda, in Polonia. Conflitti di nazioni, dunque, istanze di emancipazione.

Poi era in corso un drammatico processo di estensione dell’industrializzazione che dall’Inghilterra si estendeva, per effetto multiplo di esportazione di capitali (sotto guida delle grandi “case” inglesi, ma non solo) e di trasmissione di know how, oltre che di direzione politica (il fabbricare i fabbricanti che è la politica delle nuove nazioni in cerca di posto al sole). Nei paesi centro-europei (e nel nord Italia) si estende il modo di produzione di fabbrica e con esso le trasformazioni e tensioni sociali che si erano già viste nella stessa Inghilterra. Non si capisce molto del testo se non si ricorda che in quel processo di disgregazione dall’interno, grandioso, che prende piede ed accelera tra gli anni trenta e cinquanta durante il quale la precedente organizzazione sociale del lavoro, imperniata sulle corporazioni artigiane, si dissolve progressivamente. Ad esempio, a Berlino nel 1840 i tre quarti dei maestri artigiani non erano più in grado di pagare le quote. Ciò accadeva perché sottoposti alla concorrenza crescente dei modi di produzione di massa. Il proletariato di cui parlano ora Marx ed Engels è formato effettivamente dalle forze fuoriuscite da queste modalità organizzative, sono i maestri impoveriti e la frotta dei loro apprendisti[12]. Il mondo contadino arriva dopo, in quanto a quell’epoca ancora attardato nel processo di liberazione, a sua volta, dalle molteplici forme di servitù e legami con la terra. La cosa da comprendere è che nella fase cruciale in cui si forma il pensiero di Marx e di Engels questa lotta è in pieno svolgimento ed ha impegnato i trenta anni immediatamente precedenti.

In Francia per un certo periodo di tempo le vecchie corporazioni si trasformarono in associazioni semi-segrete di mutuo appoggio dette “compagnonnage[13], che coinvolsero qualcosa come centomila lavoratori. Queste associazioni di proto-sindacati erano però attraversate da enormi conflittualità inter-professionali ed interne e proprio nel 1848 ci fu un tentativo di unirle in un vero e proprio sindacato. Ma allo stato questi erano presenti solo in Gran Bretagna, anche se nella crisi della metà del secolo erano in ritirata[14].

La questione politica che si poneva in quel contesto era che nelle vere e proprie fabbriche, che avevano quasi un terzo del personale costituito da donne e un quinto da bambini, poco più della metà da uomini adulti, le agitazioni erano rare per effetto di una scarsa propensione e dell’elevato rischio di sostituzione (dato che il lavoro alle macchine era facile da insegnare). Al contrario gli artigiani specializzati, cui, ad esempio, si rivolgeva Proudhon, erano molto più attivi. Dunque era da costruire lo spirito di mobilitazione in modo da sfruttare la necessità dell’industria di tenere insieme grandi masse di lavoratori. Sull’esperienza dell’improvvisa rivolta della Slesia del 1844[15] Marx ed Engels, insieme ai circoli socialisti della diaspora francese e tedesca, misero a punto la costruzione concettuale della “classe operaia”. Negli anni in cui ne parlano essa in sostanza non esiste.

Si tratta di una formula che designa sia il maestro artigiano impoverito, sia il lavoratore di fabbrica (a volte a sua volta ex artigiano), sia il minatore o il lavoratore salariato urbano. E che negli anni tra il 1840 ed il 1860 si giova anche della crisi, in Inghilterra, dell’impostazione corporativa tradizionale e anche delle mobilitazioni “cartiste”.

 

Questo passaggio è molto importante da tenere presente: il forte focus che nella teoria viene attribuito al tema della “classe operaia” è storicamente determinato.

 

Questa centralità dell’economico è contemporaneamente indiscutibile (il fenomeno è sotto i nostri occhi da quando, bambini, abbiamo appreso il senso del denaro e ci siamo confrontati con il compagno/a che poteva comprare più figurine) e insufficiente (è altrettanto sotto i nostri occhi che ci sono tante altre differenze, che a volte, sotto condizioni determinate, giocano per realizzare gerarchie). Ma nel 1848 tutto era sotto il “fantasma”. Se sul piano della genealogia dei concetti questa mossa muove dal concetto generale di “contraddizione” (Hegel) come “radice di ogni movimento, di ogni vitalità”, tuttavia è proprio lì ed allora (1848) che la categoria generale slitta nell’indicazione di una lotta fondamentale. Ovvero nella dichiarazione della centralità della “lotta di classi”. Ciò avviene perché veniva diagnosticata una contraddizione fondamentale che però, bisogna fare attenzione, non era ‘immediatamente’ quella tra le classi. Bensì, da una parte, tra la tendenza delle forze produttive e, dall’altra, la struttura in termini di rapporti sociali e giuridici della società data. E' questa tensione (che si dà in alcuni momenti, determinando una crisi) tra forze e rapporti che rendeva lì ed allora nella ipotesi di Marx ed Engels più intensa la lotta tra le classi, facendone l'immagine della contraddizione principale.

Dato che il tema della “classe” è storicamente determinato, e che questa è un costrutto sin dall’inizio, può comprendersi che in un altro contesto abbia preso forza un altro piano di “conflitto delle libertà[16].

 

In altri termini, si può comprendere cosa succede quando nella ‘società dei due terzi’ emergente (gli anni '60, in particolare in Usa) la contraddizione fondamentale viene sopita (es. cfr Baran e Sweezy ed il loro “teorema di impossibilità[17]) e quindi altre linee di faglia, che in linea generale mai nessuno nega, emergono in primo piano. Quando sembra a molti che le vie siano chiuse, e che resti solo la lotta per creare almeno una “rottura epistemologica” con la modernità. Identificando questa con l’oppressione. È questo il contesto nel quale prende forma il “femminismo della differenza”, insieme ad altri movimenti sottilmente fondati sui “regimi di ragione” liberali[18] che ristrutturano in modo molto radicale il tipo di opposizioni che è appropriato prendere in considerazione.

Certo nessuno può condannare un vasto movimento solo perché partecipa dello spirito del tempo, ma dal tempo che ha visto nascere, secondo quel che scriveva Bauman, il ‘secondo’ femminismo liberaleggiante stiamo uscendo, dunque oggi possiamo finalmente rivedere i nostri passi (di tutti) riconoscendo con il senno del poi il sentiero percorso.

Oggi dobbiamo riconoscere, anche se può far male, che uno degli spiriti incorporati nei movimenti di autoespressione, di liberazione, di self-help, di rivendicazione dei diritti, che sono usciti dalla crisi terminale del socialismo (dunque negli anni 60 e 70), e ciò non in riferimento solo al femminismo tutto, ma a tutti i movimenti, era liberale. Ma il liberalesimo sta mostrando con evidenza che la liberazione promessa è veicolo di oppressione a causa del potere astratto, asessuato, e dissolvente del capitale che libera esattamente da ogni particolarismo e da ogni socializzazione.

Oggi possiamo vedere meglio come essi partecipassero dello spirito del tempo, ovvero dell'individualismo, dell'emergere di una società edonista e dedita al consumo, che valorizza il desiderio più che il dovere e il legame sociale. Possiamo prestare occhio alla sincronia con la quale, in particolare per chi lo ha vissuto, mentre il più largo movimento dei lavoratori subiva sconfitte decisive, e scontava riallineamenti e veri e propri tradimenti, le energie di tante e tanti generose/i compagne e compagni si sono rivolte a battaglie di modernizzazione rivolte contro strutture oppressive che lo stesso capitalismo post-fordista, fondato sull'informazione, rendeva obsolete

 

L’ambiente nel quale nasce, e dal quale non si può affrancare senza scomparire, è, in altre parole, quello che egemonizza i campus della classe media superiore anglosassone e le sue propaggini europee. Uno spirito libertario e individualista, anti-autoritario e anti-statalista, posto sotto accusa anche da alcune esponenti dello stesso femminismo[19]. Ad esempio, come abbiamo visto, il “femminismo della differenza” emerso in Italia negli anni settanta (un decennio prima in Usa) si presenta in polemica con il Pci e contemporaneamente contro la sinistra extraparlamentare (in pratica contro l’intera sinistra dell’epoca), attaccando direttamente il marxismo, in quanto ideologia che vede il soggetto rivoluzionario nella classe. In sostanza propone di sostituire il soggetto con il genere femminile. Secondo posizioni come quella di Luisa Muraro (la “libreria delle donne[20]) è necessario far affermare un ordine simbolico che metta al centro la potenza materna (evidentemente a danno di quella paterna, accusata semplicemente di “paternalismo”[21]) e quindi sia capace di agire esplicitamente ed unicamente sull’ordine simbolico anziché sui rapporti sociali. L’idea è chiara e semplice, i rapporti sociali attraversano i generi trasversalmente e quindi impediscono di designare come nemico l’ordine simbolico maschile. A questa posizione, che potremmo designare come liberale, si contrappongono altre correnti, come quelle delle marxiste Mariarosa Dalla Costa, Selma James[22], Leopoldina Fortunati o Alisa del Re che cercano di tenere insieme un discorso di riproduzione sociale allargata sensibile al piano strutturale delle società ed alle fratture nel modo di produzione. Parallelamente ed in contrapposizione si afferma, negli anni ottanta e seguenti, un’ulteriore linea fortemente spoliticizzata che potremmo designare francamente come “neoliberale”: il “femminismo dell’uguaglianza”. Emergono come centrali temi come la violenza di genere, i diritti riproduttivi, i diritti LGBT, etc… Si tratta, peraltro, di quel che si intende normalmente quando si nomina nei media il termine “femminismo”.

 

Ma per tutte le tendenze, certo in misura maggiore per il “femminismo della differenza”, che programmaticamente lo esclude e per quello della “terza ondata”, al quale è del tutto alieno, si registra una certa difficoltà di incorporare la dimensione di classe che seziona il confine politico su una linea del tutto diversa.

Ne deriva una certa sensazione di assoluta incomunicabilità, il parlare di altro sistematicamente, che proviene proprio dallo slittamento su un diverso ‘regime di ragione’[23] compiuto a partire dalla svolta maturata negli anni settanta. Almeno con riferimento all’ambiente caratteristico degli anni del riflusso, ma con radici più profonde, accade in effetti una cosa molto semplice: quando si percepisce se stessi al sicuro dal conflitto distributivo si ritiene prioritario ottenere riconoscimento su altri piani essenziali. Due mosse essenziali e assolutamente necessarie per la tenuta stessa del ‘femminismo della differenza’ (ma, ovviamente, anche degli altri movimenti coevi come l’ambientalismo) sono, infatti, il naturalismo e il ribellismo soggettivista, ovvero il richiamo del potenziale di ribellione individuale come fonte di emancipazione. Alcune forme sono connesse con la logica rivendicazionista che investe il soggetto e la sacralizzazione della vittima, che esita nella cosiddetta “politica delle identità”. Precisamente sembra formarsi attraverso l’estremizzazione ben oltre il ragionevole di un’istanza di orgoglio e l’identificazione di un “nemico”. Sostanzialmente l’angelificazione di se stessi e l’inserimento in una demonologia dell’altro da sé. O meglio, ovviamente, di ciò che si pretende essere l’altro da sé.

 

Questo è il senso nel quale questa specifica forma del “conflitto delle libertà”, in sé non certo condannabile, sottoposto oggi ad analisi concreta della situazione concreta, e quindi ad un giudizio storicamente dato, appare problematico sotto il profilo della complessiva lotta per l’emancipazione di tutti e tutte. Osservando il funzionamento complessivo dei giochi attivati tra i diversi attori, nonché gli effetti su di essi. Talvolta, infatti, una lotta per la liberazione è, allo stesso momento o per i suoi effetti, lotta per lo schiacciamento e l’oppressione di altri e va ricondotta, quindi, ai suoi effetti complessivi e sistemici per essere giudicata. O, con le parole della D’Atri: è come se “il femminismo fosse in grado di proporci solamente un’emancipazione limitata ad alcuni settori minoritari che godono di diritti democratici in certi paesi a spese della maggioranza delle donne del mondo”. Come se avvenisse un singolare rovesciamento, supponendo che la vita delle imprenditrici e delle operaie, delle borghesi dei paesi centrali e delle proletarie di quelli periferici, solo perché tutte donne, siano sovrapponibili si opera con il medesimo riduzionismo biologico di cui si accusa l’ideologia patriarcale. In qualche modo si cerca di sostituirlo, nella pratica se non nella teoria più sofisticata ma per questo meno effettuale, con una figura eguale e contraria. Come accade in molte rivoluzioni, si sostituisce un dominio ad un altro. Ovviamente, secondo i promotori e come sempre, ‘questa volta perfettamente giusto’.

 

Scrive Andrea Zhok:


il vero problema sociale rappresentato da queste dinamiche riguarda l’effetto di frammentazione sociale complessivo. Ogni possibilità di impostare una lotta sociale comune per obiettivi strutturali, ogni tentativo di unire le forze per definire politiche per una società, comunità o nazione migliore sono sistematicamente ostacolate da una ‘politica dell’identità’ che si mostra essere in effetti una politica della progressiva disintegrazione di ogni identità.

La rimozione di un’analisi delle società umane che prenda sul serio i meccanismi economici, gli abiti collettivi e le pratiche sociali, concentrandosi sull’identificazione del nemico, ha come esito prevedibile una focalizzazione del discorso sugli aspetti simbolici. Mentre i detentori di capitale e le lobby economiche esercitano con incontrastata serenità il proprio potere [magari con un direttore donna], mentre le strutture statali s disgregano si infragiliscono, mentre tutto ciò accade, le risorse intellettuali più ‘progressive’ si dedicano alla sorveglianza ossessiva degli aspetti simbolici del discorso, chiedendo una riforma permanente di gesti e parole, riforma che, incidentalmente, i detentori di capitale e le lobby economiche tendono a favorire con trasporto[24].

 

 

Perché, in conclusione, se, come propongo di considerare, la centralità delle “lotte di classe” è sempre stata storicamente fondata (anziché essere una forma a priori della relazionalità umana) qui ed ora è opportuno riproporla?

Essa fu proposta in questa posizione strategica sulla base di una diagnosi, ragionevolmente appropriata, dello scollamento tra lo sviluppo tumultuoso delle forze produttive e la resistenza di rapporti sociali ai quali questo faceva immane violenza. L’attualità deriva dalla somiglianza di questo tempo con quello. Oggi il necessario superamento delle lotte parziali e dei separatismi torna attuale per effetto della nuova lacerazione essenziale tra la tendenza delle forze produttive e i rapporti sociali e politici (e territoriali, cfr. ‘questione delle periferie’[25]). È questo stato che rende nuovamente possibile tentare la spinta. Spinta che Marx non vide come necessaria, determinata inevitabilmente dai fatti, ma sempre e solo come eventuale[26]. Spinta che Lenin sfruttò, cogliendo l’attimo.

 

Ma allora, per darsi una chance, bisogna evitare le divisioni. Essendo cambiate le condizioni ed avendo i processi in corso una nuova potenzialità immanente riconoscibile (se pure accompagnata, come sempre, da gravi rischi), può essere tentata la ricostituzione di un soggetto. Ma il pensiero della sconfitta va lasciato dietro le spalle, come uno zaino sdrucito[27].

 

La questione è politica, dunque. Solo ed esclusivamente politica.

 



[2] - Riporto alcune frasi esemplificative di questa posizione, tratte da alcune discussioni in rete: “quelle donne potenti [Clinton, Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris] mostrano a tutte noi una cosa semplicissima: che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri […] Il potere che le donne vogliono ottenere, sostenendosi tra loro, imparando a conoscersi in relazione tra loro e confrontandosi tra loro, è la padronanza sulle proprie vite. Quelle ‘donne potenti’ lo hanno fatto, quindi manifestano che è possibile. Poi verranno valutate -soprattutto dalle altre donne!- per quello che hanno fatto, e come […] Kamala ha espresso un ringraziamento a sua madre per averla sostenuta e incoraggiata. Questa mi pare cosa importante. Della politica che lei farà, soprattutto se diventerà presidente, non so nulla. Ma la vedremo! Vedremo se lascia un segno come donna in una politica capitalista. Prendiamo anche Merkel, la amano, la chiamano mutti, mammina. La sua politica io la respingo, perché nazionalista a casa sua, ma in Grecia non ha impedito... Insomma, una leader è grande -e lo è in quanto donna- anche se la sua politica non mi piace. Lo è in quanto donna anche perché Ursula la ha piazzata lei: rapporto tra donne; lo è anche perché fa sì che l'Italia resti in piedi, hai presente Scheuble cosa avrebbe fatto? Che cosa dice questo a me di sinistra? E a me donna? Si può scindere? Voglio e devo farlo […] Con Merkel e Harris c'è più respiro anche per noi. Dicono qualcosa anche a me, che le donne valgono e sono capaci, e fanno”. 

Ancora: “La libertà è mentale, e donne al potere la allargano. Il resto tocca a noi, di non lasciare solo che maschi se la vedano con altri maschi. Avanti, c'è posto, sosteniamo le migliori di noi, criticamente. Qualcosa cambierà. La lotta che gli uomini si facevano tra loro per arrivare al top è un agone finito. Una Fabiola Gianotti arriva al Cern di Ginevra. Harris alla presidenza Usa probabilmente. È tutto cambiato. Approfittiamone...”

[3] - Maria Luisa Boccia, “Uguaglianza/differenza, la rottura politica del femminismo”, Relazione a “Il lungo sessantotto”, Rifondazione Comunista, 17 novembre 2018. Si veda anche Maria Luisa Boccia, “Le parole e i corpi”, Ediesse 2018.

[4] - Ci sono alcune pagine notevoli in Michéa, dove critica la strana dimenticanza, in luogo della critica del potere, delle forme di assoggettamento e manipolazione che trovano il loro modello nell’influenza materna. Lungi dall’essere sempre angelica questa è una forma del dominio assolutamente contemporanea, tipica del passaggio dalla antica società a quella moderna capitalista. Come ricorda Marx nel “Manifesto per il Partito Comunista”, la borghesia, raggiungendo il dominio, “ha calpestato i rapporti patriarcali”. La forma di potere “matriarcale”, quando eccedente, non impone, come l’eccedente maschile, l’ubbidienza esteriore, ma sottilmente stabilisce standard di amore incondizionato colpevolizzanti, attivando un ricatto affettivo declinato come lamentela, rimprovero, accusa. Si tratta di un ordine strettamente disciplinare che esige la sottomissione totale, e non solo esteriore, del soggetto e pretende di ri-formarlo a propria immagine. La pretesa è che “il soggetto ceda al suo desiderio e aderisca con tutto se stesso alla sottomissione richiesta, dietro la minaccia di vedersi distrutto nella propria autostima, poiché il rifiuto di accettare quell’influenza totale sulla sua vita significherebbe solo un’inettitudine colpevole a ricambiare adeguatamente i ‘sacrifici’ compiuti per lui. Questa differenza basta da sola a spiegare l’immensa difficoltà insita nel riconoscere in quanto tale un dominio subito, quando esso si eserciti nella forma della modalità ‘materna’”. Il soggetto è spinto a prendersela con se stesso per l’ingratitudine e l’indegnità morale. (Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore”, Schewiller, 2008, p.165).

[5] - Riportato in Andrea Iris D’Atri “Il pane e le rose”, RedStar, 2016, p.176.

[6] - D’Atri, cit., p.181

[7] - D’Atri, cit., p.183

[8] - Costanzo Preve, “Elogio del comunitarismo”, Controcorrente, 2006.

[9] - Cfr. Domenico Losurdo, “La lotta di classe”, Laterza, 2013

[10] - Questo è il punto su cui insiste sempre Fabrizio Marchi in “Contromano”, Zambon 2018.

[11] - Zygmund Bauman, “Vite che non possiamo permetterci”, Laterza, 2010, p.76

[12] - La stessa associazione che dà mandato di scrivere il “Manifesto”, nel 1848, la “Lega dei giusti”, poi rinominata in “Lega dei comunisti”, è alle sue origini sostanzialmente un’associazione di artigiani tedeschi trapiantati a Londra.

[13] - Cfr, Richard Evans, “Alla conquista del potere. Europa 1815-1914”, Laterza, 2020, p.220.

[14] - Tuttavia, questa ritirata, ad esempio il fallimento dell’Associazione dei minatori della Gran Bretagna e dell’Irlanda costituita nel 1842 e forte di settantamila iscritti mostrò a molti che la soluzione era una più ampia rappresentanza politica. L’Associazione, come le altre di quel periodo sostanzialmente aveva un assetto mutualistico di tipo corporativo, cercava di ridurre la produzione per impedire il calo di prezzi e salari, e la sua crisi si era compiuta già nel 1848.

[15] - I tessitori a mano, che erano in precedenza artigiani autonomi, vedendo peggiorare status e reddito per la concorrenza dell’industria meccanica, presero d’assalto la dimora degli Zwanzinger (ricchi mercanti locali) e ci furono undici morti.

[16] - Formula di Losurdo, op.cit.

[17] - Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020, p.223.

[18] - Si veda per questa interpretazione Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2019, p.219 e seg. Ovvero “un sistema di motivazioni e giustificazioni che dà forma a pratiche sociali reali (e in questo senso non è mera ‘sovrastruttura’), ma che non esclude la possibilità di formulare giudizi veri non compromessi con un contingente ‘regime di verità’ (con un sistema prevalente di giudizi)”.

[19] - Come la Nancy Fraser (ad esempio “Il vecchio muore ed il nuovo non può nascere”, Ombre Corte, 2019, “Capitalismo”, Meltemi, 2020),

[21] - Mentre il materno sarebbe in sé buono e quindi da estendere ad ogni dimensione del mondo il paterno avrebbe segno semplicemente invertito. Questo dualismo con toni ultimativi dimentica il ruolo del padre, essenziale nella crescita umana e nell’affermazione di un corretto rapporto con il principio di autorità. Un cattivo rapporto con il padre mina l’autostima, rende difficile l’equilibrio emotivo e il controllo dell’ansia. Impedisce l’evoluzione e la maturazione affettiva, in particolare nella cruciale fase dell’adolescenza.

[22] - Mariarosa Dalla Costa, Selma Jones, “Potere femminile e sovversione sociale”, Marsilio 1974,

[23] - Termine utilizzato in Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2019.

[24] - Zhok, cit., p.311

[25] - Christophe Guilluy, “La società non esiste. La fine della classe media occidentale”, Luiss, 2018

[26] - Maria Luisa Boccia, in “Le parole e i corpi”, cit., individua in Marx (sulla scorta della lettura di Jacques Derrida, “Spettri di Marx”, Raffaello Cortina Editore, 1993) un passaggio simile a quello indicato nel testo e proprio nella stessa ingiunzione a far esistere il comunismo (dichiarandone “lo spettro”), e con essa la lotta di classe. Ma c’è una piccola differenza. Nel suo testo, e precisamente nel capitolo primo “L’eredità simbolica di Marx”, la Boccia parte dal fatto del “venir meno del soggetto rivoluzionario” che accetta in quanto “smentita della storia” (ivi, p.25). E di Marx accetta precisamente solo l’eredità simbolica, precisamente la capacità presunta di “dare forma, mettere in scambio e rendere operante una differente rappresentazione della realtà”, generando attraverso la creazione di nuovi significanti la rivoluzione. La potenza trasformatrice è interpretata nella sua qualità di modifica della pratica del pensare. Come abbiamo sostenuto anche qui, “Marx non scopre qualcosa che già c’è, piuttosto lo fa esistere”, tuttavia, secondo la posizione che difendo serba una maggiore traccia di materialismo, in quanto lo fa esistere solo perché potenzialmente presente nelle cose e nelle dinamiche in corso. Ovviamente da questo scarto nasce tutto. Dove si ricerca la radicalità di un pensiero differente, piuttosto si resta nello sforzo di pensare radicalmente la potenzialità immanente ai processi in corso (dynamen on). Dove si punta “a produrre coscienza a partire da sé” (p.29) si cerca una relazione, per quanto difficile, con lo spirito oggettivo del mondo (ovvero di realizzare la libertà non a partire dal singolo, o dalla parte, bensì dalla relazione). Dove il femminismo è “partire da sé” e produrre l’immane gesto di creare una nuova realtà (gesto di enorme hybris, a ben vedere), dichiarando che “il destino del mondo non è nell’andare sempre avanti, come la sua [di Marx] brama di superamento gli prefigura. Il destino imprevisto del mondo sta nel ricominciare il cammino per percorrerlo con la donna come soggetto” (Carla Lonzi, “Sputiamo su Hegel”, Milano 1974, cit. in. Boccia, cit., p.30). In sostanza, expressis verbis, si tratta di sostituire il soggetto storico posto nella parola di Marx, ovvero la “classe operaia” con un altro soggetto storico posto, la Donna (o, secondo la distinzione alquanto fumosa proposta, “una nuova soggettività”, precisamente sessuata e quindi non più unitaria). Che avrebbe niente di meno che il potere di far “venire meno il potere” come “soluzione finale di qualsiasi conflitto”. O, per dirlo con termini più appropriati, di portare l’umanità (ovviamente incolonnata dietro le donne) in paradiso, finalmente.

[27] - Il “femminismo della differenza”, come abbiamo cercato di mostrare, è, alla fine, un pensiero della sconfitta. Nasce interamente nella traccia della sconfitta del movimento di classe, nella sua disgregazione sotto la spinta dei mutamenti morfologici del lavoro, della nuova divisione del lavoro internazionale, della mercificazione integrale. Su questa sconfitta, assunta come finale, cerca la mossa del cavallo di volgerla in vittoria almeno per sé (partendo dal sé, appunto). Scrive ancora la Boccia: “Si parla molto, l’ho già ricordato all’inizio, di uomini e donne espropriati di sé, alienati totalmente. Il proletariato di cui parla Marx non si riconosce più, non si unisce, non è protagonista attivo di lotte, avendo perduta, con il partito, la forma politica del proprio porsi come soggetto. Perduta la forma, la materialità stessa sembra consegnata alla mera registrazione dei mutamenti morfologici del lavoro. È un modo per eludere la questione di fondo, sollevata da Rossanda: il significante ‘lotta di classe’ ha ancora forza simbolica di verità? E’ ancora un significante rivoluzionario? Osserva Rossanda che l’inattualità del Manifesto, la distanza tra noi e Marx, è data dall’avvenuta interiorizzazione, cosicché risulta del tutto metabolizzata, della mercificazione del lavoro e per suo tramite dell’essere umano (Rossana Rossanda, “A centocinquanta anni dal Manifesto”, “Il Manifesto del Partito Comunista 150 anni dopo”, Manifestolibri, 2000, p.21). Questo rende  inattuale la coscienza di sé dell’operaio/a, che sullo scandalo di quella mercificazione faceva leva”.

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