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martedì 2 marzo 2021

Emiliano Brancaccio, “Non sarà un pranzo di gala”

 

La raccolta di interviste e saggi di Emiliano Brancaccio, raccolte nel libro “Non sarà un pranzo di gala[1] spazia dal 2007 al 2020 ma ha un centro tematico abbastanza definito, si tratta di una ambiziosa interpretazione di taglio strutturale del funzionamento del modo di produzione capitalistico, delle caratteristiche della crisi in corso e delle prospettive che questa apre.

Del saggio chiave del testo avevamo già parlato[2], tra l’altro provocando una piccata reazione dell’autore via social (ed una violenta reazione dei suoi molti fan). Proprio questa mi ha indotto a riprendere in mano il testo e cercare in esso le ragioni di una confutazione della mia interpretazione del saggio per “Il ponte”, o, almeno, di un giudizio più equilibrato. Sfortunatamente la natura di scritti d’occasione e molto sintetici non consente di ‘mordere l’osso’ (come una volta mi disse un revisore editoriale in riferimento ad un mio testo). Quindi ho sostenuto la cosa con alcune altre fonti: la prefazione al libro di Hilferding[3]; la bibliografia[4] fornita dallo stesso sul suo sito al problema, centrale, della ‘legge di tendenza’ alla centralizzazione del capitale.



Premessa

Conviene capirsi subito, nessuno e tanto meno io, nega che esista una tendenza alla concentrazione del capitale, né che questa sia inscritta entro alcuni meccanismi potenti che si giovano della libera circolazione dei capitali e sfruttano i differenziali di mobilità di questi. Una buona parte della letteratura che il nostro cita a piede dei suoi saggi, quella che non si riferisce al dibattito contemporaneo ma rientra nel novero del dibattito marxista, è da me adoperata centralmente nel mio testo sulla “teoria della dipendenza”[5] anche se con diverso taglio di lettura. Il riferimento che fa il nostro, in posizione cruciale, alla opposizione di Gunnar Myrdal alla teoria dello sviluppo incentrata sull’equilibrio è ovviamente parte di questa concordanza e condivisione. Il riferimento, presente nella prefazione al libro di Hilferding[6],  al concetto di riproduzione del sistema mi pare pienamente condivisibile.

Né nego che l’attuale reazione da parte dei ceti intermedi ‘perdenti’ alla pressione determinata dal complesso sistema d’azione, densamente sociale e politico, che si organizza intorno alle dinamiche del capitale internazionale ed alle sue espressioni di potenza sia socialmente e politicamente pericolosa[7].

Allo stesso modo concordo circa la diagnosi che vede il fenomeno della mobilità dei capitali come chiave di volta e principale motore della tendenza del capitalismo sfrenato contemporaneo a schiacciare non solo i capitali periferici e meno mobili, ma anche, e soprattutto i lavoratori. Anche se su questo punto si potrebbe risalire a cause ed il dibattito, anche e soprattutto di tipo marxiano, è acceso[8].

Infine, nessuno, tanto meno io, può evitare di vedere con preoccupazione mista ad una certa paura la tendenza alla ripresa della logica di contrapposizione frontale tra blocchi contrapposti che mi ha fatto passare i primi trenta anni della mia vita sotto la minaccia della distruzione totale nucleare. Anche se questa preoccupazione non si spinge fino a rimpiangere la piena egemonia imperiale che l’ha preceduta.

 

È per questo interessante individuare, per usare le parole del nostro, gli “snodi” sui quali avviene la divergenza, non tanto per tracciare “linee di demarcazione”, quanto per capire[9]. Ed anche, ovviamente, per verificare se la critica da me avanzata al saggio de “Il ponte” sia, come dice il nostro, ‘sbagliata’ e ‘fuorviante’.

 

Il meccanismo di riproduzione e tendenza

Il saggio si apre con uno scritto del 2007 nel quale viene avanzata un’ipotesi interpretativa che, mi pare, si morde la coda nel 2020: quella che nella sinistra prevalga da anni il convincimento e la correlata rassegnazione circa i rapporti di forza del tutto sfavorevoli che impediscono “anche solo di immaginare una politica economica alternativa”. Si tratta di un’osservazione molto corretta. Come dice, quando prevale il convincimento che tutto sia inutile occorre nascondere il disincanto dietro le idee più bizzarre, dal “comunismo etico-normativo” al “messianesimo negriano”. Ecco, l’impressione di lettura che il saggio de “Il ponte” mi aveva lasciato era proprio questa: che chiudendosi tutte le strade (non senza più di una buona ragione) a Brancaccio non restasse che una variante di famiglia, in salsa althusseriana, del “messianesimo negriano”. Come ovvio il nostro lo nega recisamente, nessuno è litigioso come i cugini. Ma la domanda che farei è semplice e deriva direttamente da quanto scriveva esso stesso nel 2007: la prospettiva disegnata cerca di anticipare la crisi di sistema e prepara una via effettiva e concreta per le lotte e la conseguente, sperata, svolta politica?

Se la risposta è sì, forse sarebbe meglio spiegarsi meglio perché fatico a vederla.

Il meccanismo centrale di funzionamento, parole dell’autore, dell’analisi che si desume dal testo, ovvero niente di meno che le condizioni di riproduzione, crisi e trasformazione del capitalismo, è scientificamente determinabile per Brancaccio con gli strumenti dell’economia e dell’analisi marxiana. I due termini sono internamente connessi e rimandantesi[10]. Da questa scoperta deriva l’intera diagnosi sia della crisi come della sua soluzione. Ovviamente, il nostro è pur sempre uno scrittore del XXI secolo, senza alcun determinismo necessitato. Si può dire, come vedremo, che dall’analisi emerga una triforcazione possibile: “catastrofe”, regressione, rivoluzione.

Questo meccanismo è proposto come interpretazione essenziale della logica di riproduzione del capitale e della tendenza interna al suo laboratorio di centralizzarsi. Centralizzazione è il “movimento oggettivo che tende ad annientare i piccoli capitali”[11] e, facendo ciò, “contribuisce ad accrescere le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, a restringere le condizioni di riproducibilità e a moltiplicare gli inneschi della crisi”. In sostanza una testuale ripresa del testo marxiano (meno i “rami secchi” che intende espungere).

Con questo centro tematico Brancaccio, che pure rivendica la necessità di richiamarsi all’analisi dell’imperialismo di Lenin, in effetti a me pare molto più vicino a Hilferding (con Hobson uno degli autori che forniscono i materiali al rivoluzionario russo) che non al testo del 1916[12] di questi. Qui ricorre probabilmente la singolare accusa, rivolta al mio commento di qualche settimana fa, di essere frutto di una non meglio precisata “epistemologia geopolitica”. Non mi è chiaro, esattamente, cosa intenda ma in senso generale probabilmente si riferisce ad un approccio simile a quello di Domenico Losurdo ed al Lenin del II Congresso della Terza Internazionale, nel 1920 quindi quattro anni dopo “L’imperialismo”. Se quattro anni prima Lenin aveva infatti scritto che l’imperialismo, legato alla prevalenza della finanza e dei monopoli, “tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari”, al Congresso precisa nelle sue dodici tesi[13] che la finzione borghese di eguaglianza riguarda sia quella individuale sia quella nazionale[14]. Per cui il Partito Comunista, per combattere la falsità e ipocrisia della democrazia borghese e rovesciarne il giogo, “deve basare la sua politica, anche sulla questione nazionale, non si principi astratti e formali, ma in primo luogo, su una valutazione precisa della specifica situazione storica e, soprattutto, delle condizioni economiche”, ovviamente senza dimenticare che una cosa sono gli interessi delle classi oppresse un'altra il concetto di interessi nazionali, “nel loro insieme”, che implica sempre gli interessi della classe dominante. E senza, allo stesso modo, trascurare di distinguere tra gli oppressi.

 

Demarcazioni

C’è ampio terreno, in queste proposizioni, per essere d’accordo. Ed infatti in grandissima misura lo siamo. Ma occorre fare attenzione al dominio dei “principi astratti e formali”, che prendono la mente nel loro attraente schematismo, ma non si lasciano efficacemente declinare entro le concrete lotte. Ovvero sulla valutazione precisa della specifica situazione storica, con formula famosa.

In un passaggio cruciale, per creare le demarcazioni che poi userà in tutto il testo, Brancaccio critica il testo di Domenico Losurdo “La lotta di classe [15], in effetti senza citare il successivo e ben più specifico “Il marxismo occidentale[16]. La critica risale all’insistenza (come il Lenin degli anni venti e seguenti) sul potenziale di emancipazione insito nelle lotte di liberazione nazionale. Ciò sulla base di un ragionamento che, a suo parere, “risulta scarsamente connesso all’analisi economica marxiana; in particolare sembra estraneo alle riflessioni di Marx sulla tendenza alla centralizzazione del capitale”. A parere di Brancaccio, che si mostra con ciò perfettamente inserito nella tradizione del “marxismo occidentale”[17], la tendenza alla centralizzazione è fondamentale per comprendere la direzione di sviluppo delle forze produttive e il conseguente mutamento dei rapporti di produzione sociale. Lo schema è molto semplice, meccanicamente definito: “la centralizzazione dei capitali mette in crisi le piccole borghesie proprietarie e accelera la polarizzazione tra le classi sociali”. Un aspetto indiscutibilmente presente nell’analisi marxiana definita intorno agli anni sessanta e settanta dell’ottocento e rimessa in questione esattamente al tempo dell’estensione della monopolizzazione, della finanziarizzazione e dell’imperialismo tra gli anni novanta e i primi decenni del novecento. È chiaro che lo spazio per trattare questa importante e complessa questione non può essere questo, ma ci torniamo tra breve; intanto giova completare l’analisi dello snodo per come viene presentato nel testo.

Dato che i capitali tendono a concentrarsi e su scala mondiale, tra breve vedremo a cosa esattamente si allude, allora i piccoli capitali ne vengono spiazzati e ci si trova davanti ad una lotta grandiosa tra il grande capitale internazionale e tendenzialmente sempre più integrato e il “piccolo capitalismo frammentato e in affanno”. Nel linguaggio che è familiare ad una letteratura che pure il nostro cita in alcuni paper, la lotta tra il capitalismo monopolistico e il capitalismo competitivo[18], o tra capitale internazionale e capitali locali. Il punto specifico è che in questa lotta tra capitali se dovesse prevalere il secondo la lotta di emancipazione dai vincoli internazionali assumerebbe “pressocché inevitabilmente caratteri reazionari, potenzialmente neofascisti”[19]. In questo passo di demarcazione e segnavia l’alternativa risalta netta e drastica:

-          Da un lato abbiamo la centralizzazione, la quale ovviamente scatena la competizione su scala mondiale per l’attrazione dei capitali e questo ostacola le lotte e crea l’ambiente nel quale in tutti questi anni il lavoro è stato costantemente precarizzato, indebolito, umiliato;

-          Ma dall’altro lo stesso processo che schiaccia i lavoratori, costringendoli ad accettare le condizioni del capitale, spiazza anche i piccoli proprietari e ridimensiona i ceti medi. Risalta in questo punto un testo di gusto letterario che sembra direttamente una parafrasi di notissimi passaggi marxiani della metà del secolo XIX: “sgombra il campo dai residui sociali del vecchio regime, accresce le dimensioni complessive complessive della classe lavoratrice e per questa via contribuisce a ricreare le condizioni favorevoli per una ripresa dell’antagonismo con il grande capitale”.

 

Il suono è familiare. Ma, se scritto alla vigilia dei moti del ’48, o dopo la Comune di Parigi, questo modo di argomentare ha un preciso senso, ed il “vecchio regime” è ben identificabile ed incarnato nella corte di Vienna, o in quella dello Zar, nei ceti nobiliari della famiglia della moglie dello stesso Marx, o nei tanti polverosi palazzi sopravvissuti al movimento borghese aperto dalla rivoluzione francese, modello davanti agli occhi dei rivoluzionari di tutt’Europa, oggi, nel 2020 che cosa è? Il “vecchio regime” è forse l’ultimo residuo resistente del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”? Ovvero, il “vecchio regime” è quello che ancora determina il privilegio insostenibile per il quale un professore universitario, ad esempio, è un dipendente pubblico assunto a tempo indeterminato e con un salario fisso e stabile, invece di essere, come il mercato internazionale vorrebbe, un precario con contratto semestrale, o a cottimo (certo, moderno), definito dalla concorrenza, tramite Mooc (Massive Online Open Course)?

Quel che il professore in effetti ci sta dicendo è che dobbiamo smettere di resistere all’impoverimento ed alla precarizzazione, perché quando saremo tutti eguali nella disperazione, avendo perso tutto, allora ci ribelleremo. Era, in effetti, una idea presente in alcune pagine di Marx, in particolare del giovane ed ancora inesperto Marx.

Singolare concordanza tra opposti, per cui l’atermondialismo rivendicato del vecchio militante di Porto Alegre, nel timore che la fine dell’impero “marino” porti a richiusure “terrestri” in nuove ‘gabbie geopolitiche’, similmente all’epoca socialdemocratica si rifugia nella comfort zone del più tradizionale progressismo come un qualsiasi esponente della sinistra mainstream. È, in effetti, una profonda concordanza la quale sceglie di selezionare nella vasta e non omogena tradizione del socialismo occidentale quegli elementi progressisti, scientisti e anti-hegeliani i quali meglio si prestano alla prosecuzione ed accelerazione del progetto della modernità. Si tratta, evidentemente, di una intera prospettiva culturale nella quale tutti gli elementi pur condivisi di analisi contestuale, o di singoli moduli interpretativi, trovano collocazione. Ad esempio, il timore che la de-mondializzazione per grandi aree di influenza in corso, nella contrapposizione totale che si prepara tra “cicli di egemonia” (Arrighi[20]) provochi conflitti militari è, nella prospettiva di Brancaccio, sostenuta ed attraversata, potenziandola, dall’adesione alla prospettiva assiale della modernizzazione. Oppure, la soluzione di superare “in avanti” la macchina stritolante della modernità capitalistica e le meccaniche pure anatomizzate dallo stesso, che emergerà al termine del libro, deriva interamente dall’horror vacui della perdita del riferimento a questa assialità.

L’illuminismo, entro la grande ombra del quale tutto il marxismo del nostro resta, è da sempre in conflitto con se stesso. Come scrivono in un’opera famosa e certamente non condivisa dal nostro Horkheimer e Adorno, è totalitario, riconosce a priori “come essere e accadere solo ciò che si lascia ridurre a unità; il suo ideale è il sistema, da cui deduce tutto e ogni cosa” [21].

 

Il ‘puzzle teorico’, progresso verso regresso nella legge di riproduzione e tendenza

La “legge di riproduzione e tendenza”, descritta dall’alto della rivendicazione, in più punti del testo, del carattere scientifico della disciplina economica e rivendicata come aderente alle “evidenze empiriche”, è comunque un “mero schema”, uno “scheletro logico”. Per Brancaccio, tuttavia, pur essendo “confinata nella struttura economica del sistema”[22], essa coltiva “la pretesa di dire qualcosa sui movimenti della sovrastruttura politica”. Struttura/sovrastruttura, dunque, e da quella a questa in linea diretta ed ascendente.

Questo è per lui il “puzzle teorico” da risolvere, più o meno eguale da centosettanta anni. La “legge di tendenza alla centralizzazione del capitale”, ed il suo correlato necessario della “proletarizzazione” generale con divisione in sole due classi, ha aspetti regressivi e progressivi internamente irrelati.

 

Vediamo meglio questo punto decisivo, cosa è “regressivo” e cosa è “progressivo”?

E’ regressivo il fatto che i processi di centralizzazione soffochino le istanze rivendicative, in pratica scomparse da decenni, ma dentro questo processo è anche nascosto il lato progressivo (con una mossa “dialettica” che in Marx aveva una ben specifica ragione filosofica, affondando nell’hegelismo). Infatti, immaginando come esito di un ragionamento scientifico (perché schematizzabile) quella che in origine è una deduzione filosofica di pura scuola idealista[23], saltando eroicamente a piedi pari decenni di controprove, per Brancaccio la centralizzazione, inesorabilmente, nel concentrare il potere di sfruttamento in poche mani tende a “livellare le differenze tra gli sfruttati”. La deduzione sembra incontrovertibile: se il capitale è tutto e questo si concentra allora chi ne resta privo è schiacciato in un’eguaglianza fatta di assenza. Lo schema, in puro stile illuminista, travalica il mondo reale, costringendolo nella interna norma, che viene a sua volta riportata nell’alveo della logica oggettivante scientifica, per il tramite, evidentemente del marxismo antiumanistico, senza soggetto e senza Hegel di Althusser[24]. O, con le sue parole, “che si tratti di donne o uomini, di nativi o immigrati, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale”. E, “questo processo di universalizzazione del lavoro mette in crisi le vecchie istituzioni, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre più i confini nazionali che dividevano la forza lavoro interna da quella esterna. È un movimento che per forza di cose abbatte gli antichi equilibri sociali basati sulle discriminazioni di genere e di razza ma che al tempo stesso risulta guidato da una pura logica di acquisizione di forza lavoro indifferenziata ai fini della intensificazione dello sfruttamento. Donne e uomini, nativi e immigrati, col tempo il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico, ma ci rende uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo. Si tratta dunque di un movimento contraddittorio, come ogni altra cosa nel capitale”[25].

 

Brano straordinario per il suo sapore che Hegel avrebbe chiamato di “furia del dileguare[26]. Ancora una volta, di chiaro sapore marxiano, ma se pure comprensibile nel suo progressismo illuminista nel quadro temporale e biografico del grande rivoluzionario tedesco, in particolare alla metà del secolo, ricopiato al presente assume uno strano sapore. Quel che si chiama qui “vecchia istituzione” è infatti l’università pubblica in presenza, contrapposta al Mooc nel quale pura forza-lavoro universale compete per pochi euri a vendere ore di lezione ad un pubblico pagante e tendenzialmente uniforme, oppure quel che si chiama “antico legame di famiglia”, è la famiglia stabile del novecento nella quale una coppia paritaria e progressista dispone dei mezzi economici e della stabilità necessaria per allevare ed educare figli, o, ancora, quel che si chiama confine nazionale divideva la forza lavoro, ma forniva anche sostegno, welfare, certezza e stabilità, e, con esse, forme democratiche non perfette ma certamente mai viste prima. Tutto questo è visto semplicemente come “ripugnante”. Si tratterebbe di “vecchie certezze” che “si reggevano sulle discriminazioni interne della classe lavoratrice”. Questa è, in effetti, una mossa althusseriana per il quale lo sviluppo determinato nel trentennio welfarista, lungi dall’essere un progresso normativo fondato sul riconoscimento della dignità dei lavoratori e cittadini, è strumento di uniformazione ad aspettative comportamentali funzionali alla riproduzione di sistema[27]. È dunque lo Stato che “interviene come ancella del capitale” (Althusser, citato dal nostro[28]).

Nella sua “furia del dileguare” tutto questo deve essere spazzato via, esattamente come vorrebbero i più conseguenti dei suoi discussori neoliberali nella parte centrale del libro, perché alla fine, dalla disperazione emerga la rivoluzione, dai molti uno. Come accade nei molti casi stigmatizzati da Losurdo nel suo ultimo libro, il marxismo occidentale, riconnettendosi alla sua radice utopica, finisce per considerare ogni distruzione reale come passo necessario verso il progresso[29]. Ne deriverebbe, per deduzione logica, che il massimo dello sfruttamento e della uniformazione costrittiva contenga (per virtù dialettica) anche il massimo del progresso potenziale. Ovvero universalismo e progressismo si toccano agli estremi con la schiavitù.

In questa “inesorabilità”, e “gigantesca distruzione creatrice”[30], deriva che bloccare il processo è, appunto, ripugnante. Bisogna correre avanti.

 

La centralizzazione dei capitali

Dunque, abbiamo una “legge”, che inerisce alla “struttura” della società e determina la “sovrastruttura” (spiegando la crisi politica in corso, d’un sol colpo e con grandissima economia di concetti), logicamente concatenata, e rispondente ai “dati”.

Quali dati?

In “Crisi e centralizzazione del capitale finanziario”[31], un articolo del 2015 con Orsola Costantini e Stefano Lucarelli, il termine viene definito con riferimento a Marx e Hilferding, e precisamente non come creazione di nuovi capitali, bensì come “concentrazione di capitali già formati”, che induce il superamento della loro autonomia individuale e dunque l’espropriazione dei capitalisti da parte di altri più potenti (ovvero liquidi). Si tratta (Hilferding) della espressione finale della “direzione della grande finanza” e quindi dell’eutanasia del capitale stesso e levatrice del trapasso verso un nuovo modo di produzione. Come noto Hilferding (1910) è coinvolto nella grande disputa della “crisi del marxismo” scoppiata tra il 1895 ed il primo decennio del 1900 della quale abbiamo parlato attraverso la figura di Antonio Labriola[32] e che è larga e complessa. Disputa del resto richiamata per cenni nella sua “Introduzione” del 2011 a Hilferding.

Nell’articolo lo scopo del lavoro è descritto come spunto per “possibili connessioni logiche” tra il fenomeno della crisi economica del 2007 e seguenti e la centralizzazione del capitale finanziario. Si tratta, dunque, di un oggetto ben delimitato. E l’analisi è condotta con espresso riferimento al lavoro di Paul Sweezy e dei Monthly Review che è anche al centro del mio libro sulla dipendenza. Siamo, insomma, su terreno amico. L’analisi parte da “La teoria dello sviluppo economico[33], di Sweezy su cui avevamo scritto a suo tempo un lungo post, anche se dalla seconda edizione, e all’analisi de “Il capitale monopolistico[34]. Poi seguono le ultime riflessioni dello stesso (e di Magdoff) che attribuiscono un maggiore ruolo al capitale finanziario totale, e quindi spostano l’accento dalle grandi multinazionali ai mercati finanziari. Tuttavia, conservando la tesi generale del ristagno (ovvero della finale prevalenza delle controtendenze). Su questa base l’articolo, che è sicuramente utile ed interessante, ricostruisce per cenni e bibliografia la controversia seguita alla pubblicazione de “Il capitale monopolistico”, prendendo da una parte la “legge del surplus crescente”, enunciata da Sweezy e Baran in relazione alle dinamiche di centralizzazione del capitale, dall’altra le varie versioni della “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”, ribadite da Mattick, Glyn e Sutcliffe, Jaffe, fino a Weisskopf. O la controversia sulla competizione. Anche sulla base di queste controversie gli autori riconoscono che “il concetto di centralizzazione dei capitali appare tuttavia fin dalle sue origini complesso, proteiforme, difficilmente riconducibile a una singola misura scalare”[35], ad esempio in relazione alla distinzione tra proprietà e controllo. Nell’era neoliberale (dalla metà degli anni settanta) lo scatenamento della finanza, da una parte, e la deregolazione, dall’altra, insieme ad altri fattori hanno esaltato le pratiche di fusione e acquisizione, oltre agli Investimenti Diretti Esteri, entrambi potenti strumenti di centralizzazione del capitale. Quindi accordi più complessi a partire dagli anni novanta. Fuori del marxismo sono citati in questa direzione i lavori di Kaleki, Eichner, Paolo Sylos Labini, che pur essendone influenzati alla fine superano il concetto di centralizzazione, e soprattutto i lavori (come Lapavitsas, 2013) che enfatizzano il ruolo della centralizzazione della finanza nell’intensificare l’instabilità del sistema (mentre, a grandi linee, per Hilferding lo stabilizzava e per Sweezy e coautori lo faceva tendere al ristagno).

Passando su questo piano il saggio dice onestamente che sorgono numerosi problemi di coerenza e congruenza dei dati, in quanto rilevati nell’ambito di diverse cornici teoriche generali (quella dell’equilibrio generale neoclassico). Dunque, il termine preferito dal nostro “evidenza empirica” è di difficile utilizzo. Malgrado ciò, eroicamente, viene comunque tenuto fermo che “l’evidenza empirica esistente mostra che, laddove la concentrazione del mercato del credito è maggiore, la nascita di nuove imprese procede più lentamente”.

Difficile, ed in certo modo inutile, seguire interamente l’argomentazione, che si presenta articolata, complessa e non univoca. Ma il punto è che assume il ruolo di arbitro di sistema il potere di regolazione della politica monetaria delle Banche Centrali (che non è certo un attore neutrale, né incorporato nel mercato ma parte del sistema politico complessivo) tra capitali solvibili e non solvibili. Viene applicata una “regola di solvibilità” che di fatto favorisce la centralizzazione capitalistica, come scrivono, “sotto il vincolo di un grado di solvibilità del sistema che possa ritenersi ‘sostenibile’ sul piano politico”[36]. Dunque, come ammettono nel saggio, è possibile che la coalizione dei capitali in passivo prenda il sopravvento arrestando “ed al limite [imponendo] un arretramento” dei processi di centralizzazione.

Come scrivono, insomma, “i destini del processo di centralizzazione risultano dunque aperti”. Le “leggi” citate sembrerebbero, risalendo ai paper tecnici degli stessi autori, tutt’altro che “inesorabili” come scritto nel libro in esame. Ovviamente i destini sono “aperti” nel senso che rinviano ad uno scontro effettivo tra forze economiche che hanno una rappresentazione sociale e quindi potere politico, almeno potenziale. Sono “aperti”, insomma, nel sistema totale che il nostro tenta, dall’alto dei suoi strumenti disciplinari strettamente rivendicati, di portare sul tavolo dell’anatomo-patologo.

 

In un saggio di quattro anni dopo, “Monetary policy, crisis and capital centralization in corporate ownership and control networks: A B-Var analysis”[37] deriverebbe che una politica monetaria restrittiva induca una maggiore centralizzazione del capitale (favorendo la liquidazione dei capitali deboli ed il loro assorbimento da parte di quelli forti), e che ogni 1% di aumento del tasso di interesse gli azionisti al vertice del controllo netto delle grandi imprese cali del 5% nella Ue e ben del 13% in Usa. Questi effetti portano, infine, ad una riduzione del Pil circa del 2%. Tutti questi notevoli risultati analitici sono fondati su un’analisi di rete (delle connessioni a rete di controllo delle imprese) e modelli B-Var e quindi la “prima evidenza empirica” che forniscono è relativa alle relazioni specifiche tra centralizzazione in termini di controllo di rete e cicli economici.

Peraltro, l’anno precedente in “Centralization of capital and financial crisis: A global network analysis of corporate control”[38], un’ulteriore ricerca sul periodo tra il 2001 ed il 2016 mostrerebbe una “tendenza marxiana” alla centralizzazione globale dei capitali in termini di controllo, e che circa l’80% delle quote sarebbe detenuto da una quota tra l’1% ed il 2% degli azionisti. Questo elevato grado di centralizzazione proprietario è cresciuto del 20% durante la crisi.

 

Insomma, la famosa “evidenza empirica” è certamente “frastagliata” e non moltissimo “evidente”, se non altro (come è normale) piuttosto controversa e molto dipendente dal quadro teorico assunto alla base della selezione dei dati e delle tecniche adoperate per la loro selezione, raccolta e soprattutto manipolazione. C’è un motivo per il quale nel complesso dibattito epistemico degli anni settanta, imperniato, tra le altre, sulla controversia tra Popper e Kuhn, Feyerabend, e poi i pragmatisti si riferisca sistematicamente al solo Imre Lakatos, oggi quasi dimenticato. Si tratta di una teoria profondamente normativa che si sforza di distinguere tra programmi di ricerca “regressivi” e “progressivi” e, soprattutto, cerca di proteggere il nucleo logico dei paradigmi scientifici attraverso la decisione di assumerli come “infalsificabili per decreto metodologico” (1970). Si tratta, in altri termini, di costruire una “cintura protettiva” che sia capace di incorporare contenuto empirico e corroborarne la coerenza con il nucleo logico-formale. La cintura, d’altra parte, deve poter sopportare qualche confutazione episodica (o “a tratti”) salvando la possibilità purtuttavia di aderire razionalmente al programma di ricerca nel suo complesso[39].

Chiaramente questo metodo è disegnato e pensato per le scienze della natura e non per le scienze umane, o per le ‘scienze sociali’[40]. Brancaccio è ovviamente un economista, seleziona le sue fonti, anche teoriche, legittimamente secondo questo filtro ex ante. Inoltre, è quel genere di economista molto in voga da parecchi anni nelle università di tutto il mondo che vede nella propria disciplina una “scienza dura” e lo rivendica. Sulla base di un’argomentazione scheletrica (sostanzialmente riferita ad un saggio degli anni settanta di Imre Lakatos[41]) ed un riferimento all’autorità di Milton Friedman[42], il nostro liquida quindi tutti i dubbi sullo statuto epistemico della disciplina sulla base dell’argomento che la conoscenza cresce sempre in riferimento alla criticabilità in base (se pure in ultima istanza) all’esperienza empirica. O, in altri termini, che “le proposizioni dell’economa e della politica economica devono sempre essere collocate sul banco di prova dell’analisi empirica”[43]. Ovviamente, come abbiamo visto, sulla base di un nucleo logico assunto.

 

“Catastrofe o rivoluzione”

Non seguiremo interamente l’argomentazione dell’ultimo, e più denso, saggio in quanto già letto nel Post di cui abbiamo dato traccia in precedenza[44], anche perché quanto sin qui detto ricomprende interamente l’argomento del saggio. La “Legge di riproduzione e tendenza” della centralizzazione (che, ricordo, non significa concentrazione ma controllo azionario e indiretto) è incorporata nella struttura di funzionamento essenziale del capitalismo e quindi indefettibilmente si estenderà a tutto il mondo. Come “controtendenza” agisce non già la competizione[45], o la contraddizione data dalla progressiva carenza di domanda aggregata (come volevano Baran e Sweezy[46]), bensì l’attiva azione politica dei capitali perdenti per il tramite del regolatore centrale. Si tratta, dunque, di una “lotta tra capitali” che ha carattere, per così dire, da un lato ‘naturale’ (risponde alla struttura del mondo capitalistico ed alle sue leggi oggettive ed interne di tendenza) e dall’altro ‘politico’. Come capita spesso agli economisti la seconda è però vista come reazione, retrograda, freno allo sviluppo delle forze produttive. Ma lasciato a se stesso il sistema dunque non tende alla stagnazione, bensì alla “catastrofe” per via di instabilità crescente e per le conseguenze politiche sull’assetto democratico.   Un misto probabilmente della instabilità minskyana e della critica della contro-democrazia, che condivido in larga misura.

Dunque, il sistema è davanti alla doppia lama di una tendenza alla “catastrofe”, se segue la propria natura, o della “reazione”, se prevalgono le forze difensive politicamente attive. “Catastrofe” se prevalgono le tendenze di struttura e “reazione”, se quelle sovrastrutturali politiche.

 

Due piani di giustificazione di questa diagnosi sono proposti dal nostro: il primo sono le famose “evidenze empiriche” che abbiamo cercato di rintracciare nei suoi paper tecnici, in effetti trovandole come è normale “frastagliate” ed “incerte” (e molto dipendenti dalla teoria). Il secondo piano è storico, per il quale si appoggia all’autorità di Thomas Piketty[47] e scheletricamente descrive un movimento storico che va dalla concentrazione nel periodo di espansione e maturazione della rivoluzione industriale, più o meno fino alla prima guerra mondiale ed alla crisi del ’29, alla prevalenza della controtendenza per via politica, nel ventennio tra gli anni cinquanta ed i settanta, alla ripresa graduale della centralizzazione in particolare negli anni del nuovo millennio. Resta la pietra di inciampo del periodo “keynesiano”, durante il quale, seguendo una tendenza già visibile alla fine dell’XIX (e, infatti alla base della “controversia Bernstein”) le classi medie hanno avuto una espansione durata almeno un cinquantennio.

L’inciampo è agilmente saltato rifugiandosi nella nota tesi che vede l’espansione di queste come interamente dipendenti dalla sfida sovietica (anche se la cronologia non è perfetta) e quindi essenzialmente esogena. Tesi nota, ma approssimativa[48]. Accettandola, a parere di Brancaccio ne deriva la necessaria conseguenza che nessuna evoluzione “keynesiana” è oggi possibile, in quanto il capitalismo non è davanti ad alcuna sfida storico-epocale come quella. La Cina non perviene e, nella misura in cui lo fa, sembra ricondotta ad un caso particolare di espansione del controllo del capitale.

Aggirate, più che altro con un salto, le controtendenze espansive e capaci di dare forza ai lavoratori restano ovviamente solo quelle proposte dai piccoli capitali. Ma queste hanno segno reazionario.

 

E questo segno si manifesta sia a livello di una singola società, dove vengono a prevalere forze reattive e difensive, sia a livello di sistema-mondo, nel quale si rischia la frammentazione difensiva di network di controllo di capitali in grado di determinarsi politicamente e quindi la riduzione del pianeta, peraltro come avvenne nel citato periodo espansivo, in macrosistemi regionali parzialmente sconnessi. Quelle che chiama “gabbie geopolitiche”, per fuggire alle quali resta per differenza solo l’altromondismo (ma il nostro, a dire il vero, è pudico sul punto).

 

Sembra una strada senza uscita.

Se ne esce con la “mossa di judo” che fa scaturire la salvezza dallo stesso lato della minaccia. Ovvero dalla centralizzazione, se pure non seguendo in questo il determinismo hilferdinghiano. Nello “schema logico”, infatti, alla crescente centralizzazione segue la massificazione dei lavoratori, che vengono livellati verso il basso e resi omogenei. Inoltre, questa assorbe ed estende la massa stessa dei lavoratori, incorporandoli nel capitale. Dunque, come voleva Marx, il capitale costruisce i suoi affossatori. Per cui occorre “Adeguarsi alla forza avversa, quindi sfruttarla per piegarla in avanti, fino ad ottenere il suo rovesciamento e il suo controllo.”[49]

 

Prospettive di metà secolo.

In altre parole, la crescita della disperazione provocherà la fine della pace welfarista, letta con Althusser come controllo e assoggettamento sui generis, e questa indurrà alla fine una reazione dei lavoratori. È l’unica speranza di non doversi affidare, con una forma di “codismo”, alla lotta borghese dei piccoli capitali. A Brancaccio il “momento populista” appare infatti prevalentemente reattivo, e su questo concordo. È stato abbastanza visibilmente egemonizzato da quei ceti al contempo sovraistruiti e sottoutilizzati (i cosiddetti “lavoratori della conoscenza” e i ceti intermedi variamente intrappolati nelle pieghe semiperiferiche del sistema di riproduzione sociale) e che esprimono, nel vuoto dei quadri di senso novecenteschi (persi da tempo, insieme ai corpi intermedi) una particolare miscela di individualismo edonista frustrato, rancore cieco, e spinta alla socializzazione destrutturata. Non ci si può fare illusioni sul “neopopulismo di sinistra” e sull’impossibilità strutturale di tradurre in scelte che facciano davvero la differenza (ovvero divisive e nette) un consenso raccolto non facendole.

Pare quindi a molti, ed a me, che un poco ovunque, per prendere in prestito una frase a Carlo Formenti: “l’esperimento populista, cioè il progetto originario di costruire una maggioranza socio-economicamente e ideologicamente trasversale è fallito”[50]. Sia in Spagna, dove con Podemos è andato più avanti, sia altrove. E’ fallita, cioè, l’idea di aggregare larghe coalizioni sociali da Nord a Sud, rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche. Capaci di parlare con i neo-proletari della new economy, i professionisti in via di ‘uberizzazione’, i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i pensionati a basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva del proletariato e sottoproletariato urbano. Al contempo capace di attrarre a sé i segmenti di piccola borghesia operanti sul mercato interno, il ceto impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle esportazioni. Di aggregare in altre parole una rete contingente di soggetti sociali sensibili, anche per ragioni diverse, alle diseguaglianze orizzontali e verticali, alle fratture tra periferie e centri. Una aggregazione che prendesse le mosse dai danni creati dallo sviluppo unilaterale della valorizzazione capitalistica (e non solo finanziaria), e dai luoghi stessi dove le condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi non gode di posizioni privilegiate.

È fallita l’ipotesi di costruire linee oppositive al capitalismo che passassero simultaneamente per i differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. Ciò che la crisi pandemica ha provocato è stato un massivo sfaldamento che ha investito in pieno quella che alcuni immaginavano essere in qualche modo un’area politica in formazione e socialista in senso classico, per così dire. Questo sfaldamento si è manifestato potentemente sia nella sfera pubblica quanto, e soprattutto, nella ripartizione delle risorse sociali e nell’autocomprensione delle diverse frazioni di classe. Dunque la damnatio di Brancaccio non è infondata.

 

Certo, la situazione, non ultimo per la crisi pandemica e la destrutturazione che ne deriva (corrette le riflessioni sul punto nel libro), finirà per ridurre ancora lo spazio ormai largamente estenuato della disattivazione sociale. Esaurito ma resistente per via della lunga permanenza di strutture di senso ormai disancorate dalle loro ragioni e dalle forme di vita che le avevano create. Quella di Brancaccio della fine della ‘pace welfarista’ ormai orfana mi pare quindi una generosa ipotesi, in parte da me condivisa[51], che potrebbe alla fine neutralizzare il “teorema di impossibilità[52]” che Paul Baran e Paul Sweezy formularono intorno agli anni sessanta del secolo scorso. Quello per il quale la rivoluzione sistemica nelle società del centro capitalistico è neutralizzata dall’elevata frammentazione sociale, dalla capacità di coinvolgimenti ed egemonica attivata dalla “legge della crescita tendenziale del surplus” (citata anche in uno dei paper del nostro) e quindi dalla moltiplicazione costante degli sprechi e dei ceti medi ed improduttivi. Ma, se in questa capacità di creare e distribuire tra pochi la ricchezza riposava la stabilità sociale del sistema welfarista, al contempo esso per garantirsi l’equilibrio e la sopravvivenza necessitava di estendere lo sfruttamento e l’estrazione di surplus potenziale ‘alle periferie’ (si noti, interne ed esterne) dell’impero. Qui gioca il rifiuto del paradigma dell’equilibrio in favore di ipotesi interpretative meno consolanti della progressività polarizzante, e, quindi della centralizzazione.

La tesi, presa molto più dalla linea di lettura di Lenin (e Losurdo) che non di Hilferding (e Marx), è, però, che questa forma di capitalismo certamente tende alla centralizzazione ma è, allo stesso momento, strutturalmente imperiale e organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento internazionali. Catene che determinano l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la massima opulenza e la massima disperazione, entro e fuori le cittadelle assediate delle metropoli occidentali.

 

Ecco cosa, probabilmente, Brancaccio chiama una “epistemologia geopolitica”. Ed ecco dove divergono le nostre letture che per lunghi tratti potrebbero anche camminare affiancate. Il nostro resta legato ad un sapere disciplinare che lo spinge su una strada riduzionista, ma, soprattutto, sullo schema della rivoluzione al culmine dello sviluppo delle forze produttive (con il suo correlato “progressista”).

Viceversa, condividendo l’ipotesi della tendenza alla catastrofe, ed anche il sospetto per le forme di resistenza mimetica dello stato di cose presenti (ovvero delle ‘rivoluzioni passive’ che sembrano cambiare tutto per non cambiare nulla), a me pare più fecondo ragionare sull’ipotesi (anche essa dotata delle proprie evidenze e letteratura) che le maggiori condizioni dell’instabilità sistemica del capitalismo si danno proprio nelle sue periferie interconnesse (e vitali per la sua sopravvivenza). Nel senso specifico che senza l’estrazione di “surplus potenziale” da queste esso resta condannato alla tendenza alla stagnazione e quindi non è in grado di riprodurre il consenso al suo interno.

 

Tuttavia, quale che sia la direzione di uscita, l’esperimento populista è fallito (se pure la tecnica populista impera, ma nella sua funzione di stabilizzatrice di sistema). Quindi anche per me il nucleo del potenziale “blocco storico” in grado di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e nell’arena dello stato poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il variegato e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate dalla forma attuale del modo di produzione capitalista. Giova qui sottolineare che il concetto di “classe” che adopero in questo contesto è di natura espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi (ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione rispetto al capitale. In altre parole, non necessariamente, anche se principalmente, la posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura nell’esistenza o meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura dell’operaio (ovvero del lavoratore addetto alla produzione di beni industriali). Il punto è che la forma, storicamente determinata, del nesso tra lavoro vivo e lavoro morto, ovvero tra attività lavorative subordinate a mezzi e oggetti del lavoro stesso, attraversa tutte le molteplici modalità della sua definizione. Riceve un salario come contropartita della sua relazione funzionale con “lavoro morto” (ovvero mezzi produttivi e forme totali della produzione dalle quali viene oggettivato) anche chi apparentemente lavora con partita Iva, è connesso ad una piattaforma, impegnato nelle varie forme di cottimo, anche iperspecializzate (anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E la relazione funzionale implica sempre che il capitale (che si incarna nell’insieme dei mezzi produttivi e del nesso generale che li rende tali) si valorizzi. Questa relazione implica sempre dipendenza.

Fanno parte della “classe” lavoratrice, dunque, tutti coloro che si trovano connessi nella forma della remunerazione dietro prestazione a sistemi produttivi ad essi esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in oggetti). Ne fanno parte anche se le modalità cooperative che contraddistinguono il loro lavoro sono mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente tecnologici (è il caso delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante modalità più o meno glamour di lavoro a cottimo o frammentato). Se la segmentazione dell’opera, anche nella iperspecializzazione apparentemente liberante o autonoma, rende impossibile controllare il proprio “valore” (o, secondo la formula scelta nelle Tesi, di “fare il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si perde.

Non ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come detto, non è questione di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria autoriproduzione dal controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso essenziale capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di produzione capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti economici dalla permanenza di tale nesso. Ciò anche se la frazione di capitale è piccola, periferica, subalterna (ad altre). Si vede che qui, in questo schematismo, non siamo lontani con Brancaccio.

 

Ciò non significa che non possano darsi alleanze tattiche, esse sono necessarie. Ma implica, oggi molto più di prima, che il compito più urgente è di ri-costruire la prospettiva dalla quale diventa possibile inquadrare correttamente le dinamiche di produzione e riproduzione della società ed in particolare delle sue ineguaglianze e forme di dipendenza interna (ed esterna).

Questa è la prospettiva nella quale anche un franco dibattito, che non si nasconda le differenze e divergenze, è utile e necessario. Bisogna ritrovare la strada, e per farlo ci vogliono analisi coraggiose, in grado di trovare e costruire senso con il sostegno dei punti migliori della nostra ricca storia.

 

Brancaccio lo tenta, è la strada giusta.

 

 

 

 

 



[1] - Emiliano Brancaccio, “Non sarà un pranzo di gala”, Meltemi 2020.

[3] - Brancaccio, E., Cavallaro, L. (2011). “Leggere il capitale finanziario”. Introduzione a Hilferding, R., Il capitale finanziario. Milano, MIMESIS Edizioni. ISBN: 9788857507804.

[4] - Precisamente:

- Brancaccio, E., Giammetti, R., Lopreite, M., Puliga, M. (2019). Monetary Policy, Crisis and Capital Centralization in Corporate Ownership and Control Networks: a B-Var Analysis. Structural Change and Economic Dynamics, Volume 51, December, pages 55-66. ISSN: 0954-349X (online 1873-6017). DOI: 10.1016/j.strueco.2019.08.005.

- Brancaccio, E., Giammetti, R., Lopreite, M., Puliga, M. (2018). Centralization of capital and financial crisis: a global network analysis of corporate control. Structural Change and Economic Dynamics, Volume 45, June, Pages 94-104. ISSN: 0954-349X (online 1873-6017). DOI: 10.1016/j.strueco.2018.03.001.

- Brancaccio, E., Giammetti, R. (2019). “Un Marx per soli ricchi”. In Mocarelli L., Nerozzi S. (a cura di), Karl Marx fra storia, interpretazione e attualità (1818-2018), Nerbini, Firenze. ISBN: 9788864343020.

- Brancaccio, E., Vita, C. (2018). La “legge” marxiana di centralizzazione del capitale: il dibattito in Italia, Il Pensiero economico italiano, n. 2, anno XXVI, pp. 101-113. ISSN: 1122-8784 (online 1724-0581). DOI: 10.19272/201806302008.

- Brancaccio, E., Fontana, G. (2016). ‘Solvency rule’ and capital centralisation in a monetary union, Cambridge Journal of Economics, 40 (4). ISSN: 0309-166X. DOI: 10.1093/cje/bev068.

- Brancaccio, E., Costantini O., Lucarelli, S. (2015). Crisi e centralizzazione del capitale finanziario. Moneta e Credito, vol. 68, n. 269, pp. 53-79. ISSN: 2037-3651.

[5] - Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[6] - Emiliano Brancaccio, Luigi Cavallaro, “Leggere il capitale finanziario”, in Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, Mimesis 2011, p.XIV.

[7] - Si veda una sequenza di post in parte riassunti in “Spartiacque, il 2020”.

[8] - Lo stesso Brancaccio, in “Crisi e centralizzazione del capitale finanziario”, un saggio su cui torneremo, nel paragrafo Centralizzazione e crisi nella letteratura marxista, lamenta che il problema della centralizzazione dei capitali, che non è la stessa cosa della mobilità di questi ma è connesso, e i suoi effetti per l’instabilità finanziaria risale alle differenze seminali tra Marx e Hilferding, trascurando perché meno attento all’economia in senso stretto Lenin, e poi la rilettura di Paul Sweezy del 1942. In questo modo, diciamo, si procede a salti di trenta anni. Infatti di seguito è descritta la ripresa nei saggi degli anni sessanta (in particolare in “Il capitale monopolistico”) e poi negli anni ottanta finali e novanta.

[9] - Alla lettura del post, Emiliano Brancaccio ha reagito, sulla sua pagina Facebook con un post nel quale era presente il seguente commento: “Una critica sbagliata a ‘Non sarà un pranzo di gala’. L'autore sembra scambiarmi per un ‘tardo negriano’, come se non vi fosse già abbastanza pensiero effimero in circolazione. Il fraintendimento è dovuto al fatto che qui Marx viene seppellito sotto una coltre di confusa epistemologia geopolitica, come è tipico di certo ‘comunitarismo’. Tuttavia, proprio per i suoi errori, l'autore evoca involontariamente alcuni degli snodi che serviranno a tracciare le ‘linee di demarcazione’ del futuro. Ecco perché questa fuorviante critica al mio libro può meritare una lettura”. Non so, sinceramente, cosa sia la “epistemologia geopolitica” (e, naturalmente non dubito che se esistesse sarebbe confusa), e non credo di poter essere qualificato semplicemente come ‘comunitarista’ (a meno non si riferisca alla letteratura filosofica degli anni novanta che confesso di aver frequentato, ovvero ad autori come Charles Taylor, Sandel, MacIntyre, Walzer), ma, soprattutto, mi sarebbe piaciuto sapere in cosa la critica sia sbagliata e fuorviante.

[10] - In un illuminante passaggio della Prefazione a Hilferding, cit., p.XX, Brancaccio ed il suo coautore affermano che del marxismo interessa quel che può essere speso per attivare una competizione tra paradigmi entro la scienza economica (rif. il concetto lakatosiano), e che quindi il resto deve essere abbandonato come “ramo secco”. Utilizzando la proposta di Althusser (cfr, “Leggere il capitale”, Mimesis 2006, ed. or. 1965) si tratta di imperniare la lettura sul concetto di “modo di produzione”, senza alcuno scivolamento teleologico o destinale, ma con la risoluta determinazione di chi intende costruire un paradigma di ricerca competitivo sull’arena economica. E’ chiaro che in questo senso si lascia di far cadere come ramo secco il Marx sociologo, antropologo, soprattutto filosofo, e quello politico. Probabilmente, ovvero, far cadere il Marx realmente esistito per costruirsene uno a propria funzione.

[11] - Molti luoghi del testo, p.32,

[12] - Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, 1916, ed it. Editori Riuniti, 1974. Testo ed autore che è oggetto del capitolo secondo, con appunto Hilferding e Hobson, del mio testo sulla dipendenza.

[13] - Si veda, Alessandro Visalli, “Dipendenza”, op.cit., p. 116 e seg.

[14] - “Una posa astratta o formale del problema dell’uguaglianza in generale e dell’uguaglianza nazionale in particolare è nella natura stessa della democrazia borghese”.

[15] - Domenico Losurdo, “La lotta di classe”, Laterza, 2013.

[16] - Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”, Laterza 2017.

[17] - Losurdo nel suo ultimo libro afferma che di fatto dove il marxismo ha trionfato, sempre in paesi deboli e periferici rispetto al centro imperiale del capitalismo occidentale, il tema che si è guadagnato la centralità è sempre stato la sopravvivenza. Quindi l’indipendenza e la difesa dal colonialismo, ferocemente perseguito con assoluta determinazione dalle potenze occidentali.

Invece, dove il marxismo si è sviluppato come pensiero e prassi critica di opposizione, sbarrato nell’accesso reale al potere, ovvero in occidente, il tema divenuto centrale è stato l’antiautoritarismo in chiave di antinazionalismo e di attesa messianica e millenarista di una finale dissoluzione dello Stato. Il marxismo all’opposizione si è confrontato infatti con Stati forti e di successo, e nel centro del potere imperialista, ma ha finito a volte a far sovrapporre un’inconsapevole ripresa della tradizione religiosa occidentale (e prima della tradizione cinica) alla concreta percezione delle forze in campo e delle priorità che una lettura materialista di queste avrebbe consigliato. Il termine “marxismo occidentale”, certamente una etichetta sommaria, è ripreso da Losurdo da un libro del 1976 di Perry Anderson e da un intervento di Merleau-Ponty che individua con esattezza una divaricazione tra una tendenza a immaginare un progressivo decadimento dell’apparato statale ed una concreta azione per rafforzarlo, al contrario, per utilizzarlo al fine di opporsi all’assoggettamento coloniale. Una utopia verso una pratica concreta, mossa dalla necessità.

[18] - Il riferimento è a Paul Sweezy, Paul Baran, e poi, per una sintesi di grande successo negli anni di formazione del nostro a James O’Connor. Cfr, Baran P., Sweezy P., Il capitale monopolistico (1966), Einaudi, 1968; Baran P., Il surplus economico (1957), Feltrinelli, 1962; O’Connor J., La crisi fiscale dello Stato (1973), Einaudi, 1977.

[19] - Brancaccio, cit., p. 35

[20] - Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”, Il Saggiatore 1996; “Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2007; vedi anche Alessandro Visalli, “Dipendenza”, op.cit., capitolo ottavo.

[21] - Max Horkheimer, Theodor Adorno, “Dialettica dell’illuminismo”, Einaudi 1966, p.15.

[22] - Brancaccio, op.cit, p.201.

[23] - Ma dicendo questo mi metto entro una disputa molto più che pluridecennale e quindi ben oltre i limiti di questo testo, ovviamente Brancaccio, nel citare Althusser e nel recisamente dire che “posso solo dire che Marx è scientifico”, è su un crinale ben preciso della trincea.

[24] - Louis Althusser (1918-1990) è stato un eminente filosofo strutturalista francese caratterizzato da una decisa rivendicazione della scientificità del marxismo che rischia sempre (anche per autoconfessione) di scivolare nello scientismo positivista. Il tratto biografico e ambientale dominante è la rottura con il Pcf e con il comunismo sovietico (incluso appoggio tattico a quello cinese) e con la tradizione socialdemocratica e riformista. A questo fine valorizza “il senso e la pratica dell’astrazione, indispensabile alla costruzione di ogni teoria scientifica” (‘Sul giovane Marx’, in “Per Marx”, Editori Riuniti 1967), e prende le distanze dalle letture hegeliane, utilizzate per avvicinare la pianificazione keynesiana e il riformismo socialista. Recuperando elementi del fondo esistenzialista della cultura francese contemporanea, e gli stimoli che vengono dal pensiero grande-conservatore di Nietsche e Heidegger, A. tenta attraverso il concetto di “surdeterminazione” di aprire ad una “rivoluzione assoluta”, in grado di levare una società che non abbia nulla a che fare con la società borghese. Dopo la svolta della “autocritica” (1973) il marxismo è letto come teoria ormai finita grazie a insuperabili deficit nella teoria dello Stato e della politica (1978). Segue, quindi, una fase “movimentista” che sembra riprendere la ‘separazione’ soreliana e comunque riprende il tema del “deperimento dello Stato”.

[25] - Brancaccio, op.cit., p.65.

[26] - Termine adoperato da Hegel nella “Fenomenologia dello Spirito”, nel capitolo sull’illuminismo e denominato “La libertà assoluta ed il terrore”. Se la rivoluzione francese ha affermato nel mondo l’esigenza della libertà e la sua sostanza possibile dopo secoli di oppressione e dogmatismo, la libertà “assoluta”, richiesta dai rivoluzionari passa il segno. Nega in principio ogni fede, istituzione e tradizioni che la possano limitare, travolge tutto, cancella tutto e sfocia nel terrore. “La libertà universale non può produrre nessuna opera o operazione positiva; a essa resta solo l’operare negativo, essa è solo furia del dileguare”, p. 791 Rusconi Ed. 1995.

[27] - Cfr. Althusser, L., “Ideologie e apparati ideologici di Stato”, In “Critica Marxista”, 5 (1970), p.25-65.

[28] - Brancaccio, p.cit., p.81.

[29] - Oltre alle ricostruzioni storiche di Losurdo, cui rimando senz’altro, si può leggere circa la pervasività di questa visione etnocentrica, se pure largamente inconsapevole ed interiorizzata, del marxismo occidentale, questo post di Carlo Formenti “L’eurocentrismo ‘funzionale’ di Marx e Engels”, 20 febbraio 2021.

[30] - Formula illuminante, ed in effetti paradigmatica di ogni approccio progressista, presente a pagina 65.

[31] - Emiliano Brancaccio, Orsola Costantini e Stefano Lucarelli, “Crisi e centralizzazione del capitale finanziario”, in “Moneta e credito”, vol. 68, n. 269, marzo 2015.

[33] - Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo economico”, 1942.

[34] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, cit.

[35] - Brancaccio ed altri, op.cit., p.13

[36] - Brancaccio ed altri, op.cit., p. 22.

[37] - Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Milena Lopreite, Michelangelo Puliga, “Monetary policy, crisis and capital centralization in corporate ownership and control networks: A B-Var analysis”, 2019.

[38] - - Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Milena Lopreite, Michelangelo Puliga, “Centralization of capital and financial crisis: A global network analysis of corporate control”, 2018.

[39] - Per una ricostruzione del dibattito sufficientemente vicina ai fatti si veda, ad esempio, D.Gillies, G.Giorello, “La filosofia della scienza nel XX secolo”, Laterza, 1993.

[40] - Per una discussione, coeva ai termini fissati dai riferimenti del nostro, di questa posizione si può leggere il seminale libro di Gunnar Myrdal, “Il valore nella teoria sociale”, Einaudi, 1966 (ed.or. 1958).

[41] - Imre Lakatos, Musgrave, “Critica e crescita della conoscenza”, Feltrinelli 1976 (ed. or. 1970).

[42] - Milton Friedman, “La metodologia dell’economia positiva”, 1953

[43] - Brancaccio, “Non sarà un pranzo di gala”, op.cit., p.179.

[45] - Come vorrebbero i neoclassici.

[46] - Op.cit.

[47] - Thomas Piketty, “Il capitale del XXI secolo”, Bompiani 2014. Un testo che ha molti meriti, in particolare come stimolo al dibattito, ma anche il difetto di porre come “di ferro” (il termine è di Rodrik) una relazione r>g che potrebbe essere benissimo rovesciata nel tempo. Ad esempio (esempi di Rodrik) per eccesso di capitale sua svalutazione, anche traumatica, o per incremento del tasso di crescita economica. La stessa critica al determinismo ed all’estensione su periodi lunghissimi di “leggi” stilizzate viene avanzata da Ann Pettifor e Geoff Tily. In sostanza l’economista francese sembra presumere che nel lunghissimo periodo una semplice curva di crescita della produzione sia ipotizzabile, senza prestare attenzione alle infinite crisi, salti, cambi di paradigma, radicali mutamenti di regime, immani distruzioni, assetti sociali, modi di produzione, relazioni di potere che si sono susseguite. Francamente, con tutto il rispetto possibile, un grafico del genere è sconcertante. Implica tacitamente che l’essenza sia catturabile da un numero sintetico (peraltro tirato ad indovinare ad essere gentili). Credo che lo scetticismo su questo risultato degli autori sia ben motivato, il tentativo di definire una regolarità registrata su brevi periodi e in alcune economie relativamente simili e molto interconnesse (come l’Europa allargata agli USA negli ultimi due secoli) come “legge del capitalismo”, e poi di estenderla addirittura oltra il capitalismo ai sistemi economici e sociali premoderni passa il segno e forse dice qualcosa dell’impresa tentata. Come per il caso del Marx del 1859 il sonetto di Dante è un esergo appropriato.

[48] - Per un autore che costantemente obietta a questa prospettiva interpretativa rinvio al lavoro di Paolo Borioni sulla democrazia scandinava e non solo.

[49] - Brancaccio, op.cit., p. 207

[50] - Carlo Formenti, “Luci ed ombre di un sogno neogiacobino”, 1 marzo 2021.

[51] - Soprattutto nell’ultimo anno ho, in effetti, scritto diversi post che possono in certo senso essere letti in questa direzione, ma senza il surplus di considerare ogni lotta per la riduzione della centralizzazione dei capitali per sua natura stessa reazionaria.

[52] - Alessandro Visalli, “Dipendenza”, op.cit., p.223.

2 commenti:

  1. “teorema di impossibilità[52]”. Hai individuato un principio empirico generale di impossibilità (Hinkelammert) dal quale partire con la Kritik? Mmm...la nota rimanda al tuo libro. Per favore, mandami sulla email come posso fare per acquistarlo. Grazie, Alfonso

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