La raccolta di interviste e saggi di Emiliano Brancaccio, raccolte nel libro “Non sarà un pranzo di gala”[1] spazia dal 2007 al 2020 ma ha un centro tematico abbastanza definito, si tratta di una ambiziosa interpretazione di taglio strutturale del funzionamento del modo di produzione capitalistico, delle caratteristiche della crisi in corso e delle prospettive che questa apre.
Del
saggio chiave del testo avevamo già parlato[2], tra l’altro provocando
una piccata reazione dell’autore via social (ed una violenta reazione dei suoi
molti fan). Proprio questa mi ha indotto a riprendere in mano il testo e
cercare in esso le ragioni di una confutazione della mia interpretazione del
saggio per “Il ponte”, o, almeno, di un giudizio più equilibrato. Sfortunatamente
la natura di scritti d’occasione e molto sintetici non consente di ‘mordere l’osso’
(come una volta mi disse un revisore editoriale in riferimento ad un mio
testo). Quindi ho sostenuto la cosa con alcune altre fonti: la prefazione al
libro di Hilferding[3];
la bibliografia[4]
fornita dallo stesso sul suo sito al problema, centrale, della ‘legge di
tendenza’ alla centralizzazione del capitale.
Premessa
Conviene
capirsi subito, nessuno e tanto meno io, nega che esista una tendenza
alla concentrazione del capitale, né che questa sia inscritta entro alcuni
meccanismi potenti che si giovano della libera circolazione dei capitali e
sfruttano i differenziali di mobilità di questi. Una buona parte della
letteratura che il nostro cita a piede dei suoi saggi, quella che non si
riferisce al dibattito contemporaneo ma rientra nel novero del dibattito
marxista, è da me adoperata centralmente nel mio testo sulla “teoria della
dipendenza”[5]
anche se con diverso taglio di lettura. Il riferimento che fa il nostro, in
posizione cruciale, alla opposizione di Gunnar Myrdal alla teoria dello sviluppo
incentrata sull’equilibrio è ovviamente parte di questa concordanza e
condivisione. Il riferimento, presente nella prefazione al libro di Hilferding[6], al concetto di riproduzione del sistema mi
pare pienamente condivisibile.
Né
nego che l’attuale reazione da parte dei ceti intermedi ‘perdenti’ alla
pressione determinata dal complesso sistema d’azione, densamente sociale e
politico, che si organizza intorno alle dinamiche del capitale internazionale
ed alle sue espressioni di potenza sia socialmente e politicamente pericolosa[7].
Allo
stesso modo concordo circa la diagnosi che vede il fenomeno della mobilità
dei capitali come chiave di volta e principale motore della tendenza del
capitalismo sfrenato contemporaneo a schiacciare non solo i capitali periferici
e meno mobili, ma anche, e soprattutto i lavoratori. Anche se su questo punto
si potrebbe risalire a cause ed il dibattito, anche e soprattutto di tipo
marxiano, è acceso[8].
Infine,
nessuno, tanto meno io, può evitare di vedere con preoccupazione mista ad una
certa paura la tendenza alla ripresa della logica di contrapposizione
frontale tra blocchi contrapposti che mi ha fatto passare i primi trenta
anni della mia vita sotto la minaccia della distruzione totale nucleare. Anche se
questa preoccupazione non si spinge fino a rimpiangere la piena egemonia imperiale
che l’ha preceduta.
È
per questo interessante individuare, per usare le parole del nostro, gli “snodi”
sui quali avviene la divergenza, non tanto per tracciare “linee di demarcazione”,
quanto per capire[9].
Ed anche, ovviamente, per verificare se la critica da me avanzata al saggio de “Il
ponte” sia, come dice il nostro, ‘sbagliata’ e ‘fuorviante’.
Il
meccanismo di riproduzione e tendenza
Il
saggio si apre con uno scritto del 2007 nel quale viene avanzata un’ipotesi
interpretativa che, mi pare, si morde la coda nel 2020: quella che nella
sinistra prevalga da anni il convincimento e la correlata rassegnazione circa i
rapporti di forza del tutto sfavorevoli che impediscono “anche solo di
immaginare una politica economica alternativa”. Si tratta di un’osservazione
molto corretta. Come dice, quando prevale il convincimento che tutto sia
inutile occorre nascondere il disincanto dietro le idee più bizzarre, dal “comunismo
etico-normativo” al “messianesimo negriano”. Ecco, l’impressione di lettura che
il saggio de “Il ponte” mi aveva lasciato era proprio questa: che
chiudendosi tutte le strade (non senza più di una buona ragione) a Brancaccio
non restasse che una variante di famiglia, in salsa althusseriana, del “messianesimo
negriano”. Come ovvio il nostro lo nega recisamente, nessuno è litigioso come i
cugini. Ma la domanda che farei è semplice e deriva direttamente da quanto
scriveva esso stesso nel 2007: la prospettiva disegnata cerca di anticipare
la crisi di sistema e prepara una via effettiva e concreta per le lotte e la
conseguente, sperata, svolta politica?
Se
la risposta è sì, forse sarebbe meglio spiegarsi meglio perché fatico a
vederla.
Il
meccanismo centrale di funzionamento, parole dell’autore, dell’analisi che si
desume dal testo, ovvero niente di meno che le condizioni di riproduzione,
crisi e trasformazione del capitalismo, è scientificamente determinabile per
Brancaccio con gli strumenti dell’economia e dell’analisi marxiana. I due termini
sono internamente connessi e rimandantesi[10]. Da questa scoperta
deriva l’intera diagnosi sia della crisi come della sua soluzione. Ovviamente,
il nostro è pur sempre uno scrittore del XXI secolo, senza alcun determinismo
necessitato. Si può dire, come vedremo, che dall’analisi emerga una
triforcazione possibile: “catastrofe”, regressione, rivoluzione.
Questo
meccanismo è proposto come interpretazione essenziale della logica di
riproduzione del capitale e della tendenza interna al suo laboratorio di
centralizzarsi. Centralizzazione è il “movimento oggettivo che tende ad
annientare i piccoli capitali”[11] e, facendo ciò, “contribuisce
ad accrescere le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione,
a restringere le condizioni di riproducibilità e a moltiplicare gli inneschi
della crisi”. In sostanza una testuale ripresa del testo marxiano (meno i “rami
secchi” che intende espungere).
Con
questo centro tematico Brancaccio, che pure rivendica la necessità di
richiamarsi all’analisi dell’imperialismo di Lenin, in effetti a me pare molto
più vicino a Hilferding (con Hobson uno degli autori che forniscono i materiali
al rivoluzionario russo) che non al testo del 1916[12] di questi. Qui ricorre probabilmente
la singolare accusa, rivolta al mio commento di qualche settimana fa, di essere
frutto di una non meglio precisata “epistemologia geopolitica”. Non mi è chiaro,
esattamente, cosa intenda ma in senso generale probabilmente si riferisce ad un
approccio simile a quello di Domenico Losurdo ed al Lenin del II Congresso della
Terza Internazionale, nel 1920 quindi quattro anni dopo “L’imperialismo”.
Se quattro anni prima Lenin aveva infatti scritto che l’imperialismo, legato
alla prevalenza della finanza e dei monopoli, “tende a costituire tra i lavoratori
categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari”, al
Congresso precisa nelle sue dodici tesi[13] che la finzione borghese
di eguaglianza riguarda sia quella individuale sia quella nazionale[14]. Per cui il Partito
Comunista, per combattere la falsità e ipocrisia della democrazia borghese e rovesciarne
il giogo, “deve basare la sua politica, anche sulla questione nazionale, non si
principi astratti e formali, ma in primo luogo, su una valutazione precisa
della specifica situazione storica e, soprattutto, delle condizioni economiche”,
ovviamente senza dimenticare che una cosa sono gli interessi delle classi
oppresse un'altra il concetto di interessi nazionali, “nel loro insieme”, che
implica sempre gli interessi della classe dominante. E senza, allo stesso modo,
trascurare di distinguere tra gli oppressi.
Demarcazioni
C’è
ampio terreno, in queste proposizioni, per essere d’accordo. Ed infatti in
grandissima misura lo siamo. Ma occorre fare attenzione al dominio dei “principi
astratti e formali”, che prendono la mente nel loro attraente schematismo, ma non
si lasciano efficacemente declinare entro le concrete lotte. Ovvero sulla
valutazione precisa della specifica situazione storica, con formula famosa.
In
un passaggio cruciale, per creare le demarcazioni che poi userà in tutto il
testo, Brancaccio critica il testo di Domenico Losurdo “La lotta di classe” [15], in effetti senza citare
il successivo e ben più specifico “Il marxismo occidentale”[16]. La critica risale all’insistenza
(come il Lenin degli anni venti e seguenti) sul potenziale di emancipazione insito
nelle lotte di liberazione nazionale. Ciò sulla base di un ragionamento che, a
suo parere, “risulta scarsamente connesso all’analisi economica marxiana; in particolare
sembra estraneo alle riflessioni di Marx sulla tendenza alla centralizzazione
del capitale”. A parere di Brancaccio, che si mostra con ciò perfettamente
inserito nella tradizione del “marxismo occidentale”[17], la tendenza alla
centralizzazione è fondamentale per comprendere la direzione di sviluppo delle
forze produttive e il conseguente mutamento dei rapporti di produzione sociale.
Lo schema è molto semplice, meccanicamente definito: “la centralizzazione dei
capitali mette in crisi le piccole borghesie proprietarie e accelera la
polarizzazione tra le classi sociali”. Un aspetto indiscutibilmente presente
nell’analisi marxiana definita intorno agli anni sessanta e settanta dell’ottocento
e rimessa in questione esattamente al tempo dell’estensione della
monopolizzazione, della finanziarizzazione e dell’imperialismo tra gli anni
novanta e i primi decenni del novecento. È chiaro che lo spazio per trattare
questa importante e complessa questione non può essere questo, ma ci torniamo
tra breve; intanto giova completare l’analisi dello snodo per come viene
presentato nel testo.
Dato
che i capitali tendono a concentrarsi e su scala mondiale, tra breve vedremo a
cosa esattamente si allude, allora i piccoli capitali ne vengono spiazzati e ci
si trova davanti ad una lotta grandiosa tra il grande capitale internazionale e
tendenzialmente sempre più integrato e il “piccolo capitalismo frammentato e in
affanno”. Nel linguaggio che è familiare ad una letteratura che pure il nostro
cita in alcuni paper, la lotta tra il capitalismo monopolistico e il
capitalismo competitivo[18], o tra capitale
internazionale e capitali locali. Il punto specifico è che in questa lotta tra
capitali se dovesse prevalere il secondo la lotta di emancipazione dai vincoli internazionali
assumerebbe “pressocché inevitabilmente caratteri reazionari, potenzialmente
neofascisti”[19].
In questo passo di demarcazione e segnavia l’alternativa risalta netta e
drastica:
-
Da un lato
abbiamo la centralizzazione, la quale ovviamente scatena la competizione su
scala mondiale per l’attrazione dei capitali e questo ostacola le lotte e crea
l’ambiente nel quale in tutti questi anni il lavoro è stato costantemente
precarizzato, indebolito, umiliato;
-
Ma dall’altro
lo stesso processo che schiaccia i lavoratori, costringendoli ad accettare le
condizioni del capitale, spiazza anche i piccoli proprietari e ridimensiona i
ceti medi. Risalta in questo punto un testo di gusto letterario che sembra
direttamente una parafrasi di notissimi passaggi marxiani della metà del secolo
XIX: “sgombra il campo dai residui sociali del vecchio regime, accresce le
dimensioni complessive complessive della classe lavoratrice e per questa via
contribuisce a ricreare le condizioni favorevoli per una ripresa dell’antagonismo
con il grande capitale”.
Il
suono è familiare. Ma, se scritto alla vigilia dei moti del ’48, o dopo la
Comune di Parigi, questo modo di argomentare ha un preciso senso, ed il “vecchio
regime” è ben identificabile ed incarnato nella corte di Vienna, o in quella
dello Zar, nei ceti nobiliari della famiglia della moglie dello stesso Marx, o
nei tanti polverosi palazzi sopravvissuti al movimento borghese aperto dalla
rivoluzione francese, modello davanti agli occhi dei rivoluzionari di tutt’Europa,
oggi, nel 2020 che cosa è? Il “vecchio regime” è forse l’ultimo residuo
resistente del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”? Ovvero, il “vecchio
regime” è quello che ancora determina il privilegio insostenibile per il quale
un professore universitario, ad esempio, è un dipendente pubblico assunto a
tempo indeterminato e con un salario fisso e stabile, invece di essere, come il
mercato internazionale vorrebbe, un precario con contratto semestrale, o a
cottimo (certo, moderno), definito dalla concorrenza, tramite Mooc (Massive
Online Open Course)?
Quel
che il professore in effetti ci sta dicendo è che dobbiamo smettere di
resistere all’impoverimento ed alla precarizzazione, perché quando saremo tutti
eguali nella disperazione, avendo perso tutto, allora ci ribelleremo. Era, in
effetti, una idea presente in alcune pagine di Marx, in particolare del giovane
ed ancora inesperto Marx.
Singolare
concordanza tra opposti, per cui l’atermondialismo rivendicato del vecchio
militante di Porto Alegre, nel timore che la fine dell’impero “marino” porti a
richiusure “terrestri” in nuove ‘gabbie geopolitiche’, similmente all’epoca
socialdemocratica si rifugia nella comfort zone del più tradizionale progressismo
come un qualsiasi esponente della sinistra mainstream. È, in effetti, una profonda
concordanza la quale sceglie di selezionare nella vasta e non omogena
tradizione del socialismo occidentale quegli elementi progressisti, scientisti
e anti-hegeliani i quali meglio si prestano alla prosecuzione ed accelerazione
del progetto della modernità. Si tratta, evidentemente, di una intera
prospettiva culturale nella quale tutti gli elementi pur condivisi di analisi
contestuale, o di singoli moduli interpretativi, trovano collocazione. Ad esempio,
il timore che la de-mondializzazione per grandi aree di influenza in corso,
nella contrapposizione totale che si prepara tra “cicli di egemonia” (Arrighi[20]) provochi conflitti
militari è, nella prospettiva di Brancaccio, sostenuta ed attraversata,
potenziandola, dall’adesione alla prospettiva assiale della modernizzazione. Oppure,
la soluzione di superare “in avanti” la macchina stritolante della modernità
capitalistica e le meccaniche pure anatomizzate dallo stesso, che emergerà al
termine del libro, deriva interamente dall’horror vacui della perdita del
riferimento a questa assialità.
L’illuminismo,
entro la grande ombra del quale tutto il marxismo del nostro resta, è da sempre
in conflitto con se stesso. Come scrivono in un’opera famosa e certamente non
condivisa dal nostro Horkheimer e Adorno, è totalitario, riconosce a priori “come
essere e accadere solo ciò che si lascia ridurre a unità; il suo ideale è il
sistema, da cui deduce tutto e ogni cosa” [21].
Il
‘puzzle teorico’, progresso verso regresso nella legge di riproduzione e
tendenza
La
“legge di riproduzione e tendenza”, descritta dall’alto della
rivendicazione, in più punti del testo, del carattere scientifico della
disciplina economica e rivendicata come aderente alle “evidenze empiriche”, è
comunque un “mero schema”, uno “scheletro logico”. Per Brancaccio, tuttavia,
pur essendo “confinata nella struttura economica del sistema”[22], essa coltiva “la pretesa
di dire qualcosa sui movimenti della sovrastruttura politica”. Struttura/sovrastruttura,
dunque, e da quella a questa in linea diretta ed ascendente.
Questo
è per lui il “puzzle teorico” da risolvere, più o meno eguale da centosettanta
anni. La “legge di tendenza alla centralizzazione del capitale”, ed il suo
correlato necessario della “proletarizzazione” generale con divisione in sole
due classi, ha aspetti regressivi e progressivi internamente irrelati.
Vediamo
meglio questo punto decisivo, cosa è “regressivo” e cosa è “progressivo”?
E’
regressivo il fatto che i processi di centralizzazione soffochino le istanze
rivendicative, in pratica scomparse da decenni, ma dentro questo processo è anche
nascosto il lato progressivo (con una mossa “dialettica” che in Marx aveva una
ben specifica ragione filosofica, affondando nell’hegelismo). Infatti,
immaginando come esito di un ragionamento scientifico (perché schematizzabile)
quella che in origine è una deduzione filosofica di pura scuola idealista[23], saltando eroicamente a
piedi pari decenni di controprove, per Brancaccio la centralizzazione, inesorabilmente,
nel concentrare il potere di sfruttamento in poche mani tende a “livellare le
differenze tra gli sfruttati”. La deduzione sembra incontrovertibile: se il
capitale è tutto e questo si concentra allora chi ne resta privo è schiacciato
in un’eguaglianza fatta di assenza. Lo schema, in puro stile illuminista,
travalica il mondo reale, costringendolo nella interna norma, che viene a sua
volta riportata nell’alveo della logica oggettivante scientifica, per il
tramite, evidentemente del marxismo antiumanistico, senza soggetto e senza
Hegel di Althusser[24]. O, con le sue parole, “che
si tratti di donne o uomini, di nativi o immigrati, man mano che si sviluppa il
capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura
forza lavoro universale”. E, “questo processo di universalizzazione del lavoro
mette in crisi le vecchie istituzioni, disintegra gli antichi legami di
famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta sempre più i
confini nazionali che dividevano la forza lavoro interna da quella esterna. È un
movimento che per forza di cose abbatte gli antichi equilibri sociali basati
sulle discriminazioni di genere e di razza ma che al tempo stesso risulta
guidato da una pura logica di acquisizione di forza lavoro indifferenziata ai fini
della intensificazione dello sfruttamento. Donne e uomini, nativi e immigrati,
col tempo il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto
progressivo e universalistico, ma ci rende uguali nello sfruttamento, e questo è
il suo aspetto retrivo e divisivo. Si tratta dunque di un movimento contraddittorio,
come ogni altra cosa nel capitale”[25].
Brano
straordinario per il suo sapore che Hegel avrebbe chiamato di “furia del
dileguare”[26].
Ancora una volta, di chiaro sapore marxiano, ma se pure comprensibile nel suo
progressismo illuminista nel quadro temporale e biografico del grande
rivoluzionario tedesco, in particolare alla metà del secolo, ricopiato al
presente assume uno strano sapore. Quel che si chiama qui “vecchia istituzione”
è infatti l’università pubblica in presenza, contrapposta al Mooc nel quale
pura forza-lavoro universale compete per pochi euri a vendere ore di lezione ad
un pubblico pagante e tendenzialmente uniforme, oppure quel che si chiama “antico
legame di famiglia”, è la famiglia stabile del novecento nella quale una coppia
paritaria e progressista dispone dei mezzi economici e della stabilità
necessaria per allevare ed educare figli, o, ancora, quel che si chiama confine
nazionale divideva la forza lavoro, ma forniva anche sostegno, welfare,
certezza e stabilità, e, con esse, forme democratiche non perfette ma
certamente mai viste prima. Tutto questo è visto semplicemente come “ripugnante”.
Si tratterebbe di “vecchie certezze” che “si reggevano sulle discriminazioni interne
della classe lavoratrice”. Questa è, in effetti, una mossa althusseriana per il
quale lo sviluppo determinato nel trentennio welfarista, lungi dall’essere un
progresso normativo fondato sul riconoscimento della dignità dei lavoratori e
cittadini, è strumento di uniformazione ad aspettative comportamentali funzionali
alla riproduzione di sistema[27]. È dunque lo Stato che “interviene
come ancella del capitale” (Althusser, citato dal nostro[28]).
Nella
sua “furia del dileguare” tutto questo deve essere spazzato via, esattamente
come vorrebbero i più conseguenti dei suoi discussori neoliberali nella parte
centrale del libro, perché alla fine, dalla disperazione emerga la rivoluzione,
dai molti uno. Come accade nei molti casi stigmatizzati da Losurdo nel suo
ultimo libro, il marxismo occidentale, riconnettendosi alla sua radice utopica,
finisce per considerare ogni distruzione reale come passo necessario verso il
progresso[29].
Ne deriverebbe, per deduzione logica, che il massimo dello sfruttamento e della
uniformazione costrittiva contenga (per virtù dialettica) anche il massimo del
progresso potenziale. Ovvero universalismo e progressismo si toccano agli
estremi con la schiavitù.
In
questa “inesorabilità”, e “gigantesca distruzione creatrice”[30], deriva che bloccare il
processo è, appunto, ripugnante. Bisogna correre avanti.
La
centralizzazione dei capitali
Dunque,
abbiamo una “legge”, che inerisce alla “struttura” della società e determina la
“sovrastruttura” (spiegando la crisi politica in corso, d’un sol colpo e con grandissima
economia di concetti), logicamente concatenata, e rispondente ai “dati”.
Quali
dati?
In
“Crisi e centralizzazione del capitale finanziario”[31], un articolo del 2015 con
Orsola Costantini e Stefano Lucarelli, il termine viene definito con
riferimento a Marx e Hilferding, e precisamente non come creazione di nuovi
capitali, bensì come “concentrazione di capitali già formati”, che induce il
superamento della loro autonomia individuale e dunque l’espropriazione dei
capitalisti da parte di altri più potenti (ovvero liquidi). Si tratta
(Hilferding) della espressione finale della “direzione della grande finanza” e
quindi dell’eutanasia del capitale stesso e levatrice del trapasso verso un
nuovo modo di produzione. Come noto Hilferding (1910) è coinvolto nella grande
disputa della “crisi del marxismo” scoppiata tra il 1895 ed il primo decennio
del 1900 della quale abbiamo parlato attraverso la figura di Antonio Labriola[32] e che è larga e complessa.
Disputa del resto richiamata per cenni nella sua “Introduzione” del 2011 a
Hilferding.
Nell’articolo
lo scopo del lavoro è descritto come spunto per “possibili connessioni logiche”
tra il fenomeno della crisi economica del 2007 e seguenti e la centralizzazione
del capitale finanziario. Si tratta, dunque, di un oggetto ben delimitato. E l’analisi
è condotta con espresso riferimento al lavoro di Paul Sweezy e dei Monthly Review
che è anche al centro del mio libro sulla dipendenza. Siamo, insomma, su terreno
amico. L’analisi parte da “La teoria dello sviluppo economico”[33], di Sweezy su cui avevamo
scritto a suo tempo un lungo post, anche se dalla seconda edizione, e all’analisi
de “Il capitale monopolistico”[34]. Poi seguono le ultime
riflessioni dello stesso (e di Magdoff) che attribuiscono un maggiore ruolo al
capitale finanziario totale, e quindi spostano l’accento dalle grandi
multinazionali ai mercati finanziari. Tuttavia, conservando la tesi generale
del ristagno (ovvero della finale prevalenza delle controtendenze). Su questa
base l’articolo, che è sicuramente utile ed interessante, ricostruisce per
cenni e bibliografia la controversia seguita alla pubblicazione de “Il
capitale monopolistico”, prendendo da una parte la “legge del surplus
crescente”, enunciata da Sweezy e Baran in relazione alle dinamiche di centralizzazione
del capitale, dall’altra le varie versioni della “legge della caduta
tendenziale del saggio di profitto”, ribadite da Mattick, Glyn e Sutcliffe,
Jaffe, fino a Weisskopf. O la controversia sulla competizione. Anche sulla base
di queste controversie gli autori riconoscono che “il concetto di
centralizzazione dei capitali appare tuttavia fin dalle sue origini complesso,
proteiforme, difficilmente riconducibile a una singola misura scalare”[35], ad esempio in relazione
alla distinzione tra proprietà e controllo. Nell’era neoliberale (dalla metà
degli anni settanta) lo scatenamento della finanza, da una parte, e la
deregolazione, dall’altra, insieme ad altri fattori hanno esaltato le pratiche
di fusione e acquisizione, oltre agli Investimenti Diretti Esteri, entrambi
potenti strumenti di centralizzazione del capitale. Quindi accordi più
complessi a partire dagli anni novanta. Fuori del marxismo sono citati in
questa direzione i lavori di Kaleki, Eichner, Paolo Sylos Labini, che pur essendone
influenzati alla fine superano il concetto di centralizzazione, e soprattutto i
lavori (come Lapavitsas, 2013) che enfatizzano il ruolo della centralizzazione
della finanza nell’intensificare l’instabilità del sistema (mentre, a grandi
linee, per Hilferding lo stabilizzava e per Sweezy e coautori lo faceva tendere
al ristagno).
Passando
su questo piano il saggio dice onestamente che sorgono numerosi problemi di coerenza
e congruenza dei dati, in quanto rilevati nell’ambito di diverse cornici teoriche
generali (quella dell’equilibrio generale neoclassico). Dunque, il termine
preferito dal nostro “evidenza empirica” è di difficile utilizzo. Malgrado ciò,
eroicamente, viene comunque tenuto fermo che “l’evidenza empirica esistente
mostra che, laddove la concentrazione del mercato del credito è maggiore, la
nascita di nuove imprese procede più lentamente”.
Difficile,
ed in certo modo inutile, seguire interamente l’argomentazione, che si presenta
articolata, complessa e non univoca. Ma il punto è che assume il ruolo di arbitro
di sistema il potere di regolazione della politica monetaria delle Banche
Centrali (che non è certo un attore neutrale, né incorporato nel mercato ma
parte del sistema politico complessivo) tra capitali solvibili e non solvibili.
Viene applicata una “regola di solvibilità” che di fatto favorisce la centralizzazione
capitalistica, come scrivono, “sotto il vincolo di un grado di solvibilità del
sistema che possa ritenersi ‘sostenibile’ sul piano politico”[36]. Dunque, come ammettono
nel saggio, è possibile che la coalizione dei capitali in passivo prenda il
sopravvento arrestando “ed al limite [imponendo] un arretramento” dei processi
di centralizzazione.
Come
scrivono, insomma, “i destini del processo di centralizzazione risultano
dunque aperti”. Le “leggi” citate sembrerebbero, risalendo ai paper tecnici
degli stessi autori, tutt’altro che “inesorabili” come scritto nel libro in
esame. Ovviamente i destini sono “aperti” nel senso che rinviano
ad uno scontro effettivo tra forze economiche che hanno una rappresentazione
sociale e quindi potere politico, almeno potenziale. Sono “aperti”, insomma,
nel sistema totale che il nostro tenta, dall’alto dei suoi strumenti
disciplinari strettamente rivendicati, di portare sul tavolo dell’anatomo-patologo.
In
un saggio di quattro anni dopo, “Monetary policy, crisis and capital
centralization in corporate ownership and control networks: A B-Var analysis”[37] deriverebbe che una
politica monetaria restrittiva induca una maggiore centralizzazione del
capitale (favorendo la liquidazione dei capitali deboli ed il loro assorbimento
da parte di quelli forti), e che ogni 1% di aumento del tasso di interesse gli
azionisti al vertice del controllo netto delle grandi imprese cali del 5% nella
Ue e ben del 13% in Usa. Questi effetti portano, infine, ad una riduzione del
Pil circa del 2%. Tutti questi notevoli risultati analitici sono fondati su un’analisi
di rete (delle connessioni a rete di controllo delle imprese) e modelli B-Var e
quindi la “prima evidenza empirica” che forniscono è relativa alle relazioni
specifiche tra centralizzazione in termini di controllo di rete e cicli economici.
Peraltro,
l’anno precedente in “Centralization of capital and financial crisis: A global
network analysis of corporate control”[38], un’ulteriore ricerca sul
periodo tra il 2001 ed il 2016 mostrerebbe una “tendenza marxiana” alla
centralizzazione globale dei capitali in termini di controllo, e che
circa l’80% delle quote sarebbe detenuto da una quota tra l’1% ed il 2% degli azionisti.
Questo elevato grado di centralizzazione proprietario è cresciuto del 20%
durante la crisi.
Insomma,
la famosa “evidenza empirica” è certamente “frastagliata” e non moltissimo “evidente”,
se non altro (come è normale) piuttosto controversa e molto dipendente dal quadro
teorico assunto alla base della selezione dei dati e delle tecniche adoperate
per la loro selezione, raccolta e soprattutto manipolazione. C’è un motivo per
il quale nel complesso dibattito epistemico degli anni settanta, imperniato,
tra le altre, sulla controversia tra Popper e Kuhn, Feyerabend, e poi i
pragmatisti si riferisca sistematicamente al solo Imre Lakatos, oggi quasi
dimenticato. Si tratta di una teoria profondamente normativa che si sforza di
distinguere tra programmi di ricerca “regressivi” e “progressivi” e,
soprattutto, cerca di proteggere il nucleo logico dei paradigmi scientifici attraverso
la decisione di assumerli come “infalsificabili per decreto metodologico” (1970).
Si tratta, in altri termini, di costruire una “cintura protettiva” che sia
capace di incorporare contenuto empirico e corroborarne la coerenza con il nucleo
logico-formale. La cintura, d’altra parte, deve poter sopportare qualche confutazione
episodica (o “a tratti”) salvando la possibilità purtuttavia di aderire
razionalmente al programma di ricerca nel suo complesso[39].
Chiaramente
questo metodo è disegnato e pensato per le scienze della natura e non per le
scienze umane, o per le ‘scienze sociali’[40]. Brancaccio è ovviamente
un economista, seleziona le sue fonti, anche teoriche, legittimamente secondo
questo filtro ex ante. Inoltre, è quel genere di economista molto in voga da
parecchi anni nelle università di tutto il mondo che vede nella propria
disciplina una “scienza dura” e lo rivendica. Sulla base di un’argomentazione
scheletrica (sostanzialmente riferita ad un saggio degli anni settanta di Imre
Lakatos[41]) ed un riferimento all’autorità
di Milton Friedman[42], il nostro liquida quindi
tutti i dubbi sullo statuto epistemico della disciplina sulla base dell’argomento
che la conoscenza cresce sempre in riferimento alla criticabilità in base (se
pure in ultima istanza) all’esperienza empirica. O, in altri termini, che “le
proposizioni dell’economa e della politica economica devono sempre essere
collocate sul banco di prova dell’analisi empirica”[43]. Ovviamente, come abbiamo
visto, sulla base di un nucleo logico assunto.
“Catastrofe
o rivoluzione”
Non
seguiremo interamente l’argomentazione dell’ultimo, e più denso, saggio in
quanto già letto nel Post di cui abbiamo dato traccia in precedenza[44], anche perché quanto sin
qui detto ricomprende interamente l’argomento del saggio. La “Legge di riproduzione
e tendenza” della centralizzazione (che, ricordo, non significa concentrazione
ma controllo azionario e indiretto) è incorporata nella struttura di
funzionamento essenziale del capitalismo e quindi indefettibilmente si
estenderà a tutto il mondo. Come “controtendenza” agisce non già la
competizione[45],
o la contraddizione data dalla progressiva carenza di domanda aggregata (come
volevano Baran e Sweezy[46]), bensì l’attiva azione
politica dei capitali perdenti per il tramite del regolatore centrale. Si tratta,
dunque, di una “lotta tra capitali” che ha carattere, per così dire, da
un lato ‘naturale’ (risponde alla struttura del mondo capitalistico ed alle sue
leggi oggettive ed interne di tendenza) e dall’altro ‘politico’. Come capita
spesso agli economisti la seconda è però vista come reazione, retrograda, freno
allo sviluppo delle forze produttive. Ma lasciato a se stesso il sistema dunque
non tende alla stagnazione, bensì alla “catastrofe” per via di instabilità
crescente e per le conseguenze politiche sull’assetto democratico. Un misto
probabilmente della instabilità minskyana e della critica della
contro-democrazia, che condivido in larga misura.
Dunque,
il sistema è davanti alla doppia lama di una tendenza alla “catastrofe”, se segue
la propria natura, o della “reazione”, se prevalgono le forze difensive
politicamente attive. “Catastrofe” se prevalgono le tendenze di struttura e “reazione”,
se quelle sovrastrutturali politiche.
Due
piani di giustificazione di questa diagnosi sono proposti dal nostro: il primo
sono le famose “evidenze empiriche” che abbiamo cercato di rintracciare nei
suoi paper tecnici, in effetti trovandole come è normale “frastagliate” ed “incerte”
(e molto dipendenti dalla teoria). Il secondo piano è storico, per il quale si
appoggia all’autorità di Thomas Piketty[47] e scheletricamente descrive
un movimento storico che va dalla concentrazione nel periodo di espansione e
maturazione della rivoluzione industriale, più o meno fino alla prima guerra
mondiale ed alla crisi del ’29, alla prevalenza della controtendenza per via
politica, nel ventennio tra gli anni cinquanta ed i settanta, alla ripresa
graduale della centralizzazione in particolare negli anni del nuovo millennio. Resta
la pietra di inciampo del periodo “keynesiano”, durante il quale, seguendo una
tendenza già visibile alla fine dell’XIX (e, infatti alla base della “controversia
Bernstein”) le classi medie hanno avuto una espansione durata almeno un cinquantennio.
L’inciampo
è agilmente saltato rifugiandosi nella nota tesi che vede l’espansione di
queste come interamente dipendenti dalla sfida sovietica (anche se la
cronologia non è perfetta) e quindi essenzialmente esogena. Tesi nota, ma
approssimativa[48].
Accettandola, a parere di Brancaccio ne deriva la necessaria conseguenza che
nessuna evoluzione “keynesiana” è oggi possibile, in quanto il capitalismo non
è davanti ad alcuna sfida storico-epocale come quella. La Cina non perviene e,
nella misura in cui lo fa, sembra ricondotta ad un caso particolare di
espansione del controllo del capitale.
Aggirate,
più che altro con un salto, le controtendenze espansive e capaci di dare forza
ai lavoratori restano ovviamente solo quelle proposte dai piccoli capitali. Ma queste
hanno segno reazionario.
E
questo segno si manifesta sia a livello di una singola società, dove vengono a
prevalere forze reattive e difensive, sia a livello di sistema-mondo, nel quale
si rischia la frammentazione difensiva di network di controllo di capitali in
grado di determinarsi politicamente e quindi la riduzione del pianeta, peraltro
come avvenne nel citato periodo espansivo, in macrosistemi regionali parzialmente
sconnessi. Quelle che chiama “gabbie geopolitiche”, per fuggire alle
quali resta per differenza solo l’altromondismo (ma il nostro, a dire il vero,
è pudico sul punto).
Sembra
una strada senza uscita.
Se
ne esce con la “mossa di judo” che fa scaturire la salvezza dallo stesso lato
della minaccia. Ovvero dalla centralizzazione, se pure non seguendo in questo
il determinismo hilferdinghiano. Nello “schema logico”, infatti, alla crescente
centralizzazione segue la massificazione dei lavoratori, che vengono livellati
verso il basso e resi omogenei. Inoltre, questa assorbe ed estende la massa
stessa dei lavoratori, incorporandoli nel capitale. Dunque, come voleva Marx,
il capitale costruisce i suoi affossatori. Per cui occorre “Adeguarsi alla forza avversa,
quindi sfruttarla per piegarla in avanti, fino ad ottenere il suo rovesciamento
e il suo controllo.”[49]
Prospettive
di metà secolo.
In
altre parole, la crescita della disperazione provocherà la fine della pace
welfarista, letta con Althusser come controllo e assoggettamento sui generis, e
questa indurrà alla fine una reazione dei lavoratori. È l’unica speranza di non
doversi affidare, con una forma di “codismo”, alla lotta borghese dei piccoli
capitali. A Brancaccio il “momento populista” appare infatti prevalentemente reattivo,
e su questo concordo. È stato abbastanza visibilmente egemonizzato da quei ceti
al contempo sovraistruiti e sottoutilizzati (i cosiddetti “lavoratori della
conoscenza” e i ceti intermedi variamente intrappolati nelle pieghe
semiperiferiche del sistema di riproduzione sociale) e che esprimono, nel vuoto
dei quadri di senso novecenteschi (persi da tempo, insieme ai corpi intermedi) una particolare
miscela di individualismo edonista frustrato, rancore cieco, e spinta alla
socializzazione destrutturata. Non ci si può fare illusioni sul “neopopulismo di
sinistra” e sull’impossibilità strutturale di tradurre in scelte che facciano
davvero la differenza (ovvero divisive e nette) un consenso raccolto non
facendole.
Pare quindi a molti, ed
a me, che un poco ovunque, per prendere in prestito una frase a Carlo Formenti:
“l’esperimento populista, cioè il progetto originario di costruire una
maggioranza socio-economicamente e ideologicamente trasversale è fallito”[50]. Sia
in Spagna, dove con Podemos è andato più avanti, sia altrove. E’ fallita, cioè,
l’idea di aggregare larghe coalizioni sociali da Nord a Sud, rispondendo alle
diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche. Capaci di parlare con
i neo-proletari della new economy, i professionisti in via di ‘uberizzazione’,
i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i pensionati a basso reddito e
negletti, la parte ancora reattiva del proletariato e sottoproletariato urbano.
Al contempo capace di attrarre a sé i segmenti di piccola borghesia operanti
sul mercato interno, il ceto impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi
riflessivi, staccandoli dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e
dal settore dedito alle esportazioni. Di aggregare in altre parole una rete
contingente di soggetti sociali sensibili, anche per ragioni diverse, alle
diseguaglianze orizzontali e verticali, alle fratture tra periferie e centri.
Una aggregazione che prendesse le mosse dai danni creati dallo sviluppo
unilaterale della valorizzazione capitalistica (e non solo finanziaria), e dai luoghi
stessi dove le condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi
non gode di posizioni privilegiate.
È fallita l’ipotesi di
costruire linee oppositive al capitalismo che passassero simultaneamente per i
differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. Ciò
che la crisi pandemica ha provocato è stato un massivo sfaldamento che ha
investito in pieno quella che alcuni immaginavano essere in qualche modo
un’area politica in formazione e socialista in senso classico, per così dire. Questo
sfaldamento si è manifestato potentemente sia nella sfera pubblica quanto, e
soprattutto, nella ripartizione delle risorse sociali e nell’autocomprensione
delle diverse frazioni di classe. Dunque la damnatio di Brancaccio non è
infondata.
Certo,
la situazione, non ultimo per la crisi pandemica e la destrutturazione che ne
deriva (corrette le riflessioni sul punto nel libro), finirà per ridurre ancora
lo spazio ormai largamente estenuato della disattivazione sociale. Esaurito ma
resistente per via della lunga permanenza di strutture di senso ormai
disancorate dalle loro ragioni e dalle forme di vita che le avevano create. Quella
di Brancaccio della fine della ‘pace welfarista’ ormai orfana mi pare quindi una
generosa ipotesi, in parte da me condivisa[51], che potrebbe alla fine neutralizzare
il “teorema di impossibilità[52]” che Paul Baran e Paul Sweezy
formularono intorno agli anni sessanta del secolo scorso. Quello per il quale la
rivoluzione sistemica nelle società del centro capitalistico è neutralizzata
dall’elevata frammentazione sociale, dalla capacità di coinvolgimenti ed
egemonica attivata dalla “legge della crescita tendenziale del surplus”
(citata anche in uno dei paper del nostro) e quindi dalla moltiplicazione
costante degli sprechi e dei ceti medi ed improduttivi. Ma, se in questa capacità di creare e
distribuire tra pochi la ricchezza riposava la stabilità sociale del sistema
welfarista, al contempo esso per garantirsi l’equilibrio e la sopravvivenza
necessitava di estendere lo sfruttamento e l’estrazione di surplus potenziale ‘alle
periferie’ (si noti, interne ed esterne) dell’impero. Qui gioca il rifiuto del
paradigma dell’equilibrio in favore di ipotesi interpretative meno consolanti
della progressività polarizzante, e, quindi della centralizzazione.
La tesi, presa molto più dalla linea di
lettura di Lenin (e Losurdo) che non di Hilferding (e Marx), è, però, che
questa forma di capitalismo certamente tende alla centralizzazione ma è, allo
stesso momento, strutturalmente imperiale e organizzato di necessità per
grandi catene di sfruttamento internazionali. Catene che determinano
l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la massima opulenza e la
massima disperazione, entro e fuori le cittadelle assediate delle metropoli
occidentali.
Ecco
cosa, probabilmente, Brancaccio chiama una “epistemologia geopolitica”. Ed
ecco dove divergono le nostre letture che per lunghi tratti potrebbero anche
camminare affiancate. Il nostro resta legato ad un sapere disciplinare che lo
spinge su una strada riduzionista, ma, soprattutto, sullo schema della rivoluzione
al culmine dello sviluppo delle forze produttive (con il suo correlato “progressista”).
Viceversa,
condividendo l’ipotesi della tendenza alla catastrofe, ed anche il sospetto per
le forme di resistenza mimetica dello stato di cose presenti (ovvero delle ‘rivoluzioni
passive’ che sembrano cambiare tutto per non cambiare nulla), a me pare più
fecondo ragionare sull’ipotesi (anche essa dotata delle proprie evidenze e
letteratura) che le maggiori condizioni
dell’instabilità sistemica del capitalismo si danno proprio nelle sue periferie
interconnesse (e vitali per la sua sopravvivenza). Nel senso specifico che
senza l’estrazione di “surplus potenziale” da queste esso resta condannato alla
tendenza alla stagnazione e quindi non è in grado di riprodurre il consenso al
suo interno.
Tuttavia,
quale che sia la direzione di uscita, l’esperimento populista è fallito (se
pure la tecnica populista impera, ma nella sua funzione di stabilizzatrice di
sistema). Quindi anche per me il nucleo del potenziale “blocco storico” in
grado di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e
nell’arena dello stato poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il
variegato e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate
dalla forma attuale del modo di produzione capitalista. Giova qui sottolineare
che il concetto di “classe” che adopero in questo contesto è di natura
espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse
individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi
(ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione
rispetto al capitale. In altre parole, non necessariamente, anche se
principalmente, la posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura
nell’esistenza o meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura
dell’operaio (ovvero del lavoratore addetto alla produzione di beni
industriali). Il punto è che la forma, storicamente determinata, del nesso tra lavoro
vivo e lavoro morto, ovvero tra attività lavorative subordinate a
mezzi e oggetti del lavoro stesso, attraversa tutte le molteplici modalità della
sua definizione. Riceve un salario come contropartita della sua relazione
funzionale con “lavoro morto” (ovvero mezzi produttivi e forme totali della
produzione dalle quali viene oggettivato) anche chi apparentemente lavora con
partita Iva, è connesso ad una piattaforma, impegnato nelle varie forme di
cottimo, anche iperspecializzate (anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E
la relazione funzionale implica sempre che il capitale (che si incarna
nell’insieme dei mezzi produttivi e del nesso generale che li rende
tali) si valorizzi. Questa relazione implica sempre dipendenza.
Fanno
parte della “classe” lavoratrice, dunque, tutti coloro che si trovano connessi
nella forma della remunerazione dietro prestazione a sistemi produttivi ad essi
esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in oggetti). Ne fanno parte
anche se le modalità cooperative che contraddistinguono il loro lavoro sono
mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente tecnologici (è il caso
delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante modalità più o meno glamour
di lavoro a cottimo o frammentato). Se la segmentazione dell’opera, anche nella
iperspecializzazione apparentemente liberante o autonoma, rende impossibile
controllare il proprio “valore” (o, secondo la formula scelta nelle Tesi, di “fare
il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si perde.
Non
ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come
detto, non è questione di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria
autoriproduzione dal controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso
essenziale capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di produzione
capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti economici dalla
permanenza di tale nesso. Ciò anche se la frazione di capitale è
piccola, periferica, subalterna (ad altre). Si vede che qui, in questo
schematismo, non siamo lontani con Brancaccio.
Ciò
non significa che non possano darsi alleanze tattiche, esse sono necessarie. Ma
implica, oggi molto più di prima, che il compito più urgente è di ri-costruire
la prospettiva dalla quale diventa possibile inquadrare correttamente le
dinamiche di produzione e riproduzione della società ed in particolare delle
sue ineguaglianze e forme di dipendenza interna (ed esterna).
Questa
è la prospettiva nella quale anche un franco dibattito, che non si nasconda le
differenze e divergenze, è utile e necessario. Bisogna ritrovare la strada, e
per farlo ci vogliono analisi coraggiose, in grado di trovare e costruire senso
con il sostegno dei punti migliori della nostra ricca storia.
Brancaccio
lo tenta, è la strada giusta.
[1] - Emiliano Brancaccio, “Non sarà un pranzo di gala”, Meltemi 2020.
[3] - Brancaccio, E., Cavallaro, L.
(2011). “Leggere il capitale finanziario”. Introduzione a Hilferding,
R., Il
capitale finanziario. Milano, MIMESIS Edizioni. ISBN:
9788857507804.
[4] - Precisamente:
- Brancaccio, E., Giammetti, R., Lopreite, M., Puliga,
M. (2019). Monetary
Policy, Crisis and Capital Centralization in Corporate Ownership and
Control Networks: a B-Var Analysis. Structural Change and
Economic Dynamics, Volume 51, December, pages 55-66. ISSN: 0954-349X
(online 1873-6017). DOI: 10.1016/j.strueco.2019.08.005.
- Brancaccio, E., Giammetti, R., Lopreite, M., Puliga,
M. (2018). Centralization
of capital and financial crisis: a global network analysis of corporate control. Structural
Change and Economic Dynamics, Volume 45, June, Pages 94-104.
ISSN: 0954-349X (online 1873-6017).
DOI: 10.1016/j.strueco.2018.03.001.
- Brancaccio, E., Giammetti, R. (2019). “Un Marx
per soli ricchi”. In Mocarelli L., Nerozzi S. (a cura di), Karl
Marx fra storia, interpretazione e attualità (1818-2018), Nerbini,
Firenze. ISBN: 9788864343020.
- Brancaccio, E., Vita, C. (2018). La
“legge” marxiana di centralizzazione del capitale: il dibattito in Italia,
Il Pensiero economico italiano, n. 2, anno XXVI, pp. 101-113.
ISSN: 1122-8784 (online 1724-0581). DOI: 10.19272/201806302008.
- Brancaccio, E., Fontana, G. (2016). ‘Solvency
rule’ and capital centralisation in a monetary union, Cambridge
Journal of Economics, 40 (4). ISSN: 0309-166X. DOI: 10.1093/cje/bev068.
- Brancaccio, E., Costantini O., Lucarelli, S. (2015). Crisi
e centralizzazione del capitale finanziario. Moneta e Credito,
vol. 68, n. 269, pp. 53-79. ISSN: 2037-3651.
[5] - Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
Meltemi 2020.
[6] - Emiliano Brancaccio, Luigi Cavallaro,
“Leggere il capitale finanziario”, in Rudolf Hilferding, “Il capitale
finanziario”, Mimesis 2011, p.XIV.
[7] - Si veda una sequenza di post in
parte riassunti in “Spartiacque,
il 2020”.
[8] - Lo stesso Brancaccio, in “Crisi
e centralizzazione del capitale finanziario”, un saggio su cui torneremo, nel paragrafo
Centralizzazione e crisi nella letteratura marxista, lamenta che il problema
della centralizzazione dei capitali, che non è la stessa cosa della mobilità di
questi ma è connesso, e i suoi effetti per l’instabilità finanziaria risale alle
differenze seminali tra Marx e Hilferding, trascurando perché meno attento all’economia
in senso stretto Lenin, e poi la rilettura di Paul Sweezy del 1942. In questo
modo, diciamo, si procede a salti di trenta anni. Infatti di seguito è descritta
la ripresa nei saggi degli anni sessanta (in particolare in “Il capitale
monopolistico”) e poi negli anni ottanta finali e novanta.
[9] - Alla lettura del post, Emiliano
Brancaccio ha reagito, sulla sua pagina Facebook con un
post nel quale era presente il seguente commento: “Una critica sbagliata
a ‘Non sarà un pranzo di gala’. L'autore sembra scambiarmi per un ‘tardo
negriano’, come se non vi fosse già abbastanza pensiero effimero in
circolazione. Il fraintendimento è dovuto al fatto che qui Marx viene
seppellito sotto una coltre di confusa epistemologia geopolitica, come è tipico
di certo ‘comunitarismo’. Tuttavia, proprio per i suoi errori, l'autore evoca involontariamente
alcuni degli snodi che serviranno a tracciare le ‘linee di demarcazione’ del futuro.
Ecco perché questa fuorviante critica al mio libro può meritare una lettura”.
Non so, sinceramente, cosa sia la “epistemologia geopolitica” (e, naturalmente
non dubito che se esistesse sarebbe confusa), e non credo di poter essere
qualificato semplicemente come ‘comunitarista’ (a meno non si riferisca alla
letteratura filosofica degli anni novanta che confesso di aver frequentato,
ovvero ad autori come Charles Taylor, Sandel, MacIntyre, Walzer), ma,
soprattutto, mi sarebbe piaciuto sapere in cosa la critica sia sbagliata e
fuorviante.
[10] - In un illuminante passaggio
della Prefazione a Hilferding, cit., p.XX, Brancaccio ed il suo coautore
affermano che del marxismo interessa quel che può essere speso per attivare una
competizione tra paradigmi entro la scienza economica (rif. il concetto lakatosiano),
e che quindi il resto deve essere abbandonato come “ramo secco”. Utilizzando la
proposta di Althusser (cfr, “Leggere il capitale”, Mimesis 2006, ed. or.
1965) si tratta di imperniare la lettura sul concetto di “modo di produzione”,
senza alcuno scivolamento teleologico o destinale, ma con la risoluta
determinazione di chi intende costruire un paradigma di ricerca competitivo
sull’arena economica. E’ chiaro che in questo senso si lascia di far cadere
come ramo secco il Marx sociologo, antropologo, soprattutto filosofo, e quello
politico. Probabilmente, ovvero, far cadere il Marx realmente esistito per
costruirsene uno a propria funzione.
[11] - Molti luoghi del testo, p.32,
[12] - Lenin, “L’imperialismo, fase
suprema del capitalismo”, 1916, ed it. Editori Riuniti, 1974. Testo ed autore
che è oggetto del capitolo secondo, con appunto Hilferding e Hobson, del mio
testo sulla dipendenza.
[13] - Si veda, Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
op.cit., p. 116 e seg.
[14] - “Una posa astratta o formale del
problema dell’uguaglianza in generale e dell’uguaglianza nazionale in
particolare è nella natura stessa della democrazia borghese”.
[15] - Domenico Losurdo, “La
lotta di classe”, Laterza, 2013.
[16] - Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”, Laterza 2017.
[17] - Losurdo nel suo ultimo libro afferma
che di fatto dove il marxismo ha trionfato, sempre in paesi deboli e periferici
rispetto al centro imperiale del capitalismo occidentale, il tema che si è
guadagnato la centralità è sempre stato la sopravvivenza. Quindi l’indipendenza
e la difesa dal colonialismo, ferocemente perseguito con assoluta
determinazione dalle potenze occidentali.
Invece, dove il marxismo si è sviluppato come pensiero
e prassi critica di opposizione, sbarrato nell’accesso reale al potere, ovvero
in occidente, il tema divenuto centrale è stato l’antiautoritarismo in chiave
di antinazionalismo e di attesa messianica e millenarista di una finale
dissoluzione dello Stato. Il marxismo all’opposizione si è confrontato infatti
con Stati forti e di successo, e nel centro del potere imperialista, ma ha
finito a volte a far sovrapporre un’inconsapevole ripresa della tradizione
religiosa occidentale (e prima della tradizione cinica) alla concreta
percezione delle forze in campo e delle priorità che una lettura materialista
di queste avrebbe consigliato. Il termine “marxismo occidentale”,
certamente una etichetta sommaria, è ripreso da Losurdo da un libro del 1976 di
Perry Anderson e da un intervento di Merleau-Ponty che individua con esattezza
una divaricazione tra una tendenza a immaginare un progressivo decadimento
dell’apparato statale ed una concreta azione per rafforzarlo, al contrario, per
utilizzarlo al fine di opporsi all’assoggettamento coloniale. Una utopia verso
una pratica concreta, mossa dalla necessità.
[18] - Il riferimento è a Paul Sweezy,
Paul Baran, e poi, per una sintesi di grande successo negli anni di formazione del
nostro a James O’Connor. Cfr, Baran P., Sweezy P., Il capitale monopolistico
(1966), Einaudi, 1968; Baran P., Il surplus economico (1957),
Feltrinelli, 1962; O’Connor J., La crisi fiscale dello Stato (1973),
Einaudi, 1977.
[19] - Brancaccio, cit., p. 35
[20] - Giovanni Arrighi, “Il
lungo XX secolo”, Il Saggiatore 1996; “Adam
Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2007; vedi anche Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
op.cit., capitolo ottavo.
[21] - Max Horkheimer, Theodor Adorno, “Dialettica
dell’illuminismo”, Einaudi 1966, p.15.
[22] - Brancaccio, op.cit, p.201.
[23] - Ma dicendo questo mi metto entro
una disputa molto più che pluridecennale e quindi ben oltre i limiti di questo
testo, ovviamente Brancaccio, nel citare Althusser e nel recisamente dire che “posso
solo dire che Marx è scientifico”, è su un crinale ben preciso della trincea.
[24] - Louis Althusser (1918-1990) è
stato un eminente filosofo strutturalista francese caratterizzato da una decisa
rivendicazione della scientificità del marxismo che rischia sempre (anche per
autoconfessione) di scivolare nello scientismo positivista. Il tratto
biografico e ambientale dominante è la rottura con il Pcf e con il comunismo
sovietico (incluso appoggio tattico a quello cinese) e con la tradizione
socialdemocratica e riformista. A questo fine valorizza “il senso e la pratica
dell’astrazione, indispensabile alla costruzione di ogni teoria scientifica” (‘Sul
giovane Marx’, in “Per Marx”, Editori Riuniti 1967), e prende le distanze
dalle letture hegeliane, utilizzate per avvicinare la pianificazione keynesiana
e il riformismo socialista. Recuperando elementi del fondo esistenzialista
della cultura francese contemporanea, e gli stimoli che vengono dal pensiero
grande-conservatore di Nietsche e Heidegger, A. tenta attraverso il concetto di
“surdeterminazione” di aprire ad una “rivoluzione assoluta”, in grado di levare
una società che non abbia nulla a che fare con la società borghese. Dopo la
svolta della “autocritica” (1973) il marxismo è letto come teoria ormai finita
grazie a insuperabili deficit nella teoria dello Stato e della politica (1978).
Segue, quindi, una fase “movimentista” che sembra riprendere la ‘separazione’
soreliana e comunque riprende il tema del “deperimento dello Stato”.
[25] - Brancaccio, op.cit., p.65.
[26] - Termine adoperato da Hegel nella
“Fenomenologia dello Spirito”, nel capitolo sull’illuminismo e
denominato “La libertà assoluta ed il terrore”. Se la rivoluzione francese ha
affermato nel mondo l’esigenza della libertà e la sua sostanza possibile dopo
secoli di oppressione e dogmatismo, la libertà “assoluta”, richiesta dai
rivoluzionari passa il segno. Nega in principio ogni fede, istituzione e
tradizioni che la possano limitare, travolge tutto, cancella tutto e sfocia nel
terrore. “La libertà universale non può produrre nessuna opera o operazione
positiva; a essa resta solo l’operare negativo, essa è solo furia del dileguare”,
p. 791 Rusconi Ed. 1995.
[27] - Cfr. Althusser, L., “Ideologie e
apparati ideologici di Stato”, In “Critica Marxista”, 5 (1970), p.25-65.
[28] - Brancaccio, p.cit., p.81.
[29] - Oltre alle ricostruzioni storiche
di Losurdo, cui rimando senz’altro, si può leggere circa la pervasività di
questa visione etnocentrica, se pure largamente inconsapevole ed
interiorizzata, del marxismo occidentale, questo post di Carlo Formenti “L’eurocentrismo
‘funzionale’ di Marx e Engels”, 20 febbraio 2021.
[30] - Formula illuminante, ed in
effetti paradigmatica di ogni approccio progressista, presente a pagina 65.
[31] - Emiliano Brancaccio, Orsola
Costantini e Stefano Lucarelli, “Crisi e centralizzazione del capitale finanziario”,
in “Moneta e credito”, vol. 68, n. 269, marzo 2015.
[32] - Cfr. Antonio Labriola, “In
memoria del Manifesto dei comunisti”, 1895; “Del
materialismo storico. Delucidazione preliminare”, 1896; “Discorrendo
di socialismo e di filosofia”, 1898.
[33] - Paul Sweezy, “La
teoria dello sviluppo economico”, 1942.
[34] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il
capitale monopolistico”, cit.
[35] - Brancaccio ed altri, op.cit.,
p.13
[36] - Brancaccio ed altri, op.cit., p.
22.
[37] - Emiliano Brancaccio, Raffaele
Giammetti, Milena Lopreite, Michelangelo Puliga, “Monetary
policy, crisis and capital centralization in corporate ownership and control
networks: A B-Var analysis”, 2019.
[38] - - Emiliano Brancaccio, Raffaele
Giammetti, Milena Lopreite, Michelangelo Puliga, “Centralization
of capital and financial crisis: A global network analysis of corporate control”,
2018.
[39] - Per una ricostruzione del
dibattito sufficientemente vicina ai fatti si veda, ad esempio, D.Gillies,
G.Giorello, “La filosofia della scienza nel XX secolo”, Laterza, 1993.
[40] - Per una discussione, coeva ai
termini fissati dai riferimenti del nostro, di questa posizione si può leggere
il seminale libro di Gunnar Myrdal, “Il valore nella teoria sociale”,
Einaudi, 1966 (ed.or. 1958).
[41] - Imre Lakatos, Musgrave, “Critica
e crescita della conoscenza”, Feltrinelli 1976 (ed. or. 1970).
[42] - Milton Friedman, “La
metodologia dell’economia positiva”, 1953
[43] - Brancaccio, “Non sarà un
pranzo di gala”, op.cit., p.179.
[44] - “Circa
Emiliano Brancaccio, ‘Catastrofe o rivoluzione’”, 20 dicembre 2020.
[45] - Come vorrebbero i neoclassici.
[46] - Op.cit.
[47] - Thomas Piketty, “Il
capitale del XXI secolo”, Bompiani 2014. Un testo che ha molti meriti,
in particolare come stimolo al dibattito, ma anche il difetto di porre come “di
ferro” (il termine è di Rodrik) una relazione r>g che potrebbe essere
benissimo rovesciata nel tempo. Ad esempio (esempi di Rodrik) per eccesso di
capitale sua svalutazione, anche traumatica, o per incremento del tasso di
crescita economica. La stessa critica al determinismo ed all’estensione su
periodi lunghissimi di “leggi” stilizzate viene avanzata da Ann Pettifor e
Geoff Tily. In sostanza l’economista francese sembra presumere che nel
lunghissimo periodo una semplice curva di crescita della produzione sia
ipotizzabile, senza prestare attenzione alle infinite crisi, salti, cambi di
paradigma, radicali mutamenti di regime, immani distruzioni, assetti sociali,
modi di produzione, relazioni di potere che si sono susseguite. Francamente,
con tutto il rispetto possibile, un grafico del genere è sconcertante. Implica
tacitamente che l’essenza sia catturabile da un numero sintetico (peraltro
tirato ad indovinare ad essere gentili). Credo che lo scetticismo su questo
risultato degli autori sia ben motivato, il tentativo di definire una regolarità
registrata su brevi periodi e in alcune economie relativamente simili e molto
interconnesse (come l’Europa allargata agli USA negli ultimi due secoli) come
“legge del capitalismo”, e poi di estenderla addirittura oltra il capitalismo
ai sistemi economici e sociali premoderni passa il segno e forse dice qualcosa
dell’impresa tentata. Come per il caso del Marx del 1859 il sonetto di Dante è
un esergo appropriato.
[48] - Per un autore che costantemente
obietta a questa prospettiva interpretativa rinvio al lavoro di Paolo Borioni
sulla democrazia scandinava e non solo.
[49] - Brancaccio, op.cit., p. 207
[50] - Carlo Formenti, “Luci
ed ombre di un sogno neogiacobino”, 1 marzo 2021.
[51] - Soprattutto nell’ultimo anno ho,
in effetti, scritto diversi post che possono in certo senso essere letti in
questa direzione, ma senza il surplus di considerare ogni lotta per la riduzione
della centralizzazione dei capitali per sua natura stessa reazionaria.
[52] - Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
op.cit., p.223.
“teorema di impossibilità[52]”. Hai individuato un principio empirico generale di impossibilità (Hinkelammert) dal quale partire con la Kritik? Mmm...la nota rimanda al tuo libro. Per favore, mandami sulla email come posso fare per acquistarlo. Grazie, Alfonso
RispondiEliminaRisolto con Kobo. A presto
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