Siamo
davanti a tempi davvero complessi. Tempi nei quali ci si divide, e giustamente.
A
volte solo perché si era già divisi e si era giunti ad un crocicchio nel quale sembrava
di stare insieme, ma provenendo da sentieri diversi. Un attimo si era stati
nello stesso posto, ma, in effetti, la traiettoria era diversa. Ognuno aveva
una sua dinamica.
Altre
volte si era nello stesso posto e tempo perché, ad un certo grado, si
condivideva un’urgenza primaria, ma questa, al cambiare del contesto necessariamente
si dissolve repentinamente. I fatti impongono infatti sempre nuovi ordinamenti,
e ci si scopre diversi. Improvvisamente l’amico diviene avversario.
Uno
dei termini di maggiore divisione è il giudizio sul governo che si presenta,
dichiarandosi necessario.
Capita
allora che un discorso[1] per certi versi mediocre,
piuttosto banale (ma non privo di chiarezza, a suo modo, di una sua scolastica),
nell’articolo[2]
di Carlo Galli diventa “concreto e di alto respiro”. Oppure è il senso dell’urgenza
e della priorità che fa dire[3] a Mario Tronti che c’è “nientedimeno”
che da ridisegnare i confini della divisione dei poteri e si è in presenza di
un mutamento di clima politico che rende possibile l’elezione di un capo dello Stato
“di sicura garanzia”.
Ovunque,
insomma, nelle diverse parti ed anime della borghesia italiana, si respira un
clima di sollievo: l’ubriacatura del 2018 si può archiviare, le plebi possono
essere ricacciate nei piani bassi dai quali avevano rumorosamente cercato di
risalire. Finalmente!
L’emergenza
offre l’occasione di rimettere il mondo sui suoi piedi, tornare a respirare,
avere le sicure garanzie.
Ma
veniamo a leggere.
Mario
Draghi, con un impeto direi veltroniano, ha detto che “il governo farà le
riforme, ma anche affronterà l’emergenza”. Del suo discorso in questo
breve testo faremo l’anatomia, cercando di enuclearvi, se pur scheletricamente,
la struttura retorica, le scelte fondamentali, i punti teorici, le priorità
sbandierate e quelle implicite.
Dal
punto di vista retorico il testo muove da una drammatizzazione binaria semplice
e potente: siamo davanti ad una sfida esistenziale, come nei momenti più
grandi e drammatici della nostra storia, e dobbiamo avviare quindi una “Nuova Ricostruzione”.
A questo scopo spende in avvio, in modo da dare la cornice al testo, parole ad
alta intensità emotiva come “responsabilità”, “dovere”, “combattere”, “trincea”,
“nemico”. L’allusione è all’emergenza delle due guerre, mito fondativo repubblicano,
e alla guerra patriottica di popolo contro l’occupazione nazi-fascista. Se pure
non viene enfatizzato (in un solo punto si nomina l’approccio “repubblicano”),
a causa probabilmente di una parte della eterogenea coalizione cui si rivolge,
questa è la sorgente dell’energia morale cui tenta di riferirsi (ma, come
vedremo, pervertendola).
La
struttura essenziale è, però, di tipo paternalista. La frattura è, per il
nostro, generazionale, non territoriale o di classe. A questa si collegherà il
principale, probabilmente, snodo teorico del testo, quello che proverò a
chiamare il “teorema dello spreco”.
La
“Missione” è dichiarata all’avvio del discorso in questo modo: “consegnare
un Paese migliore e più giusto ai figli e nipoti”. Può sembrare una cosa ovvia,
ma non lo è. Si potrebbe avere come missione di ridurre drasticamente le
ineguaglianze e le distanze tra i territori, che impediscono a tanta parte del
paese di oggi, non di quello futuro, di accedere a condizioni di vita e lavoro
degne. Si potrebbe avere la missione di risolvere le distorsioni che
impediscono a troppi di accedere a lavori stabili, dignitosi, adeguati alle
proprie aspirazioni e competenze. Si potrebbe voler ridurre il peso schiacciante
della alta finanza sulla vita del paese e sulla possibilità stessa di azione
della funzione pubblica. Si potrebbe volere un paese più giusto oggi. Per questa
via anche domani.
Il
“teorema dello spreco”, vero cavallo di battaglia sempreverde dell’approccio
neoliberale, funziona nel discorso di Draghi così:
1- Noi
non abbiamo fatto come i nostri nonni, che si sono sacrificati “oltre misura”. Siamo
stati egoisti e abbiamo vissuto quindi al di sopra dei nostri mezzi (un avvio
che conferma la lettura generazionale),
2- Dobbiamo
promuovere il “capitale umano”, ovvero formazione, scuola, università e cultura
in quanto ‘capitale’, fonte della capacità di auto-valorizzazione e quindi
della accumulazione, accentuazione che ricorda ovviamente l’approccio della “terza
via” tipica degli anni novanta e rafforza l’ispirazione tipicamente neoliberale
del testo,
3- La
nostra società, infatti, non valorizza “il merito” e non rispetta la “parità di
genere” (sulla quale avrà poi una importante precisazione),
4- Tutto
ciò conta perché dobbiamo investire al meglio “risorse che sono sempre scarse”
(su questo punto anti-keynesiano si è espresso recentemente Brancaccio[4]),
5- “ogni
spreco”, compare la parola omnibus del neoliberismo, “è un torto che facciamo
alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti”,
6- Dunque,
dobbiamo evitare il nostro “egoismo” attraverso il giusto “lavoro”.
Il
secondo “teorema”, esattamente complementare a questo, è un superclassico della
cultura neoliberale contemporanea, l’istituzionalismo anti-keynesiano.
Dirà,
infatti, in un passaggio rapido quanto decisivo: “la crescita di un’economia
di un Paese non scaturisce solo da fattori economici”. Si tratta dell’esito
cui giunge negli anni novanta il lungo dibattito avviano negli anni cinquanta
intorno alla teoria dello sviluppo. In “Dipendenza”[5] l’ho ricostruito
sommariamente e quindi non mi dilungherò, ma è ben riassunto dallo stesso
Draghi.
1- La
crescita non dipende solo dagli investimenti (“fattori economici”) diretti del
pubblico e del privato,
2- Ma
dalle istituzioni nelle quali questi si attivano,
3- Ovvero
dalla fiducia, dalla condivisione dei valori, dalla coesione politica e
sociale.
E
il suo collegato, che ne approfondisce la portata, estendendolo alla dimensione
assiale e filosofica (anzi, teologica):
4- Gli
stessi fattori (istituzioni democratiche e solide, fiducia, valori) determinano
“il progresso”. E quindi separano la civiltà dalla barbarie, che non mancherà
di essere richiamata nella parte in cui si passa alla nominazione di amici e
nemici[6].
Il
terzo pilastro si trova parecchio dopo, e cade quasi per caso. Si tratta di una
formulazione generale e sintetica dei “compiti dello Stato”. Dirà il presidente
del Consiglio: “il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi
dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello Stato è utilizzare le
leve della spesa pubblica per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della
formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione”.
I
tre pilastri si tengono strettamente, e non per caso. Si tratta di un preciso
progetto di società nel quale viviamo da alcuni decenni. Se vige il “teorema
dello spreco”, e lo sviluppo deve essere affidato al consolidamento delle “istituzioni”
(liberali)[7], allora logicamente il
ruolo dello Stato non è di investire risorse per risolvere le ineguaglianze e
combattere la marginalità e dipendenza, ma di mettere attraverso ricerca,
istruzione e regolamentazione (oltre che idonea tassazione, come vedremo), i
singoli in grado di competere liberamente. Da questa emergerà, per moto
proprio, la prosperità.
Posta
in questo modo la cosa avremo, nella parte che riguarda priorità e scelte, una
posizione essenziale chiaramente rivendicata ed enunciata. L’Italia si schiera
con le grandi democrazie occidentali, nel contesto “atlantico”, ed entro il
progetto europeo come necessario ed irreversibile progetto di potenza. Si manifesta
qui, e con netta ed esplicita rivendicazione, il carattere di “Proconsole
imperiale” di cui parlavamo in un precedente post[8].
È
uno dei passaggi più commentati:
“Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza
del nostro paese, come socio fondatore, all’Unione Europea, e come protagonista
dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a
difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo
significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa
condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che
approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi
di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri
cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità
nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta
al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri
territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo
italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione Europea. Senza l’Italia non
c’è l’Europa. Ma, fuori dell’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella
solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo
stati e nella negazione di quello che potremmo essere. Siamo una grande potenza
economica e culturale”.
Si
tratta, in effetti di una pietra angolare e di un coronamento al tempo. Tutto il
discorso si chiude qui, e da ora parte la dimensione elencativa e strettamente
programmatica. Le scelte non negoziabili sono tutte enunciate. Si potrebbe
commentare a lungo, mi limiterò ad alcuni cenni:
-
Draghi mostra di sapere che l’Alleanza Atlantica
è il contenitore nel quale si colloca l’Unione Europea e tra queste c’è
gerarchia. L’Italia è rivendicata (con un poco di imprecisione sostanziale[9]) come “socio fondatore”
dell’Unione Europea, ma solo come “protagonista” dell’Alleanza Atlantica, che,
ovviamente, è diretta dall’egemone oltre Atlantico. Questa è vincolo non scelta.
-
Si colloca in un conflitto essenziale che
è enunciato come lotta tra occidente e oriente, come scontro ed inimicizia
di civiltà, di valori e principi. Coerentemente nel seguito elencherà amici,
quasi-amici, quasi-nemici e nemici.
-
La prospettiva assiologica nella quale si
colloca l’”irreversibilità” dell’euro, in quanto parte di una filosofia della
storia di tipo progressista, è chiaramente enunciata come integrazione, messa
in comune di bilancio. Anche se sa, ovviamente, che questo non è, e
probabilmente mai sarà, in agenda. Come ovvio ogni filosofia della storia è
essenzialmente antistorica.
-
Il vincolo operativo che rende necessaria,
e quindi desiderabile, la maggiore unione e la cessione di sovranità è, con
tipico modulo retorico[10], che non si è sovrani se
non si ha potenza. E la potenza è l’opposto della debolezza. Quindi la
debolezza dello Stato (coltivata con zelo dall’approccio neoliberale prima
enunciato, in una vera e propria forma di autolegame) rende necessario
appoggiarsi alla forza comune europea. La cessione della sovranità nazionale
inefficace (e dunque non tale) serve ad acquisire sovranità condivisa. Saltando
a piedi pari il problema stesso della divisione degli interessi e quindi del
fatto del potere (visibile ogni qual volta gli interessi di uno incontrano
quelli dell’altro in un gioco a somma zero).
-
Qualcosa comunque balugina nell’ultima,
difficile, formula. Senza l’Italia non c’è possibile Europa, ma senza l’Europa
l’Italia c’è, ma viene ridotta. In questa dissimmetria altri vedrebbero un
potenziale di potere, ma in Draghi tutto è dominato dallo scontro di civiltà,
che è la pietra angolare del discorso. Bisogna essere una grande potenza,
altrimenti si resta soli (nella lotta), e dunque, per questo, “non c’è
sovranità nella solitudine” e c’è “l’inganno di ciò che siamo” (una potenza semi-imperiale),
“l’oblio di ciò che siamo stati” (dall’unità ad oggi, un attore intermedio del
grande gioco del potere), “la negazione di ciò che potremmo essere” (parte di
un potere imperiale).
Se
si fissa ciò il resto segue.
Dobbiamo
completare la rivoluzione neoliberale. Sciogliere gli ultimi lacci della forma
politica costituzionale semi-socialista (come da anni la grande finanza ci
ripete). E quindi, vado velocemente:
1- Trasformare
la sanità generalista e universalista secondo il modello
anglosassone, abilitando e specializzando le strutture ospedaliere solo alle
emergenze acute e affidandosi alle famiglie per il resto (certo, modernizzando
il tutto con la “telemedicina”). Mio padre ne ha avuto esperienza, dato che nei
suoi ultimi venti giorni di vita è stato dimesso quattro volte, e per tre volte
abbiamo fatto fronte, con infermieri privati, appunto a casa.
2- Rivedere
l’assetto scolastico, cessando il modello che fornisce
istruzione generale a tutti, per potenziare (di venti volte dice) le scuole
professionali al loro posto. In altre parole, se l’economia contemporanea non
ha ruoli e condizioni adeguate al livello di istruzione medio fornito, ed in
conseguenza molti “sovraistruiti” sono scontenti (alimentando la rivolta
populista), la soluzione pensata dalle élite di cui il “Proconsole” è fine
stratega e membro eminente è semplice ed efficace: abbassiamo l’istruzione. Viene
citato il superclassista modello tedesco[11].
3- Garantire
una ‘grande trasformazione’ imperniata su ambiente, progresso e
benessere (o, secondo una formula famosa ‘reset’): digitalizzazione, cloud
computing, educazione, biodiversità, salute, energia.
4- Cambiare
alcuni modelli di crescita, passando, ad esempio, da
un modello di turismo intensivo (che occupava il 14% delle attività economiche,
e nel quale si erano rifugiati molti degli espulsi dal sistema produttivo
maggiore) ad uno di qualità e, ovviamente, a maggiore intensità di capitale. È uno
dei passaggi più prudenti, perché sta condannando a morte milioni di persone ed
imprese, ma leggendo bene tra le righe questo dice. Più in generale, prosegue, “il
governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore
proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno
cambiare, anche radicalmente”.
5- Promuovere
la parità di genere, ma senza garantire quote rosa. Anche qui
la soluzione è liberale, come la diagnosi. Il divario di genere dipende dal
fatto che le donne si impegnano di meno sul lavoro (ovviamente per ragioni
culturali, ma anche per ragioni materiali, avendo il carico dissimmetrico della
famiglia) e hanno una formazione meno adatta (le lauree stem le vedono in numero
troppo basso). Quindi bisogna “garantire parità di condizioni competitive tra i
generi”, facendo in modo che si allarghi l’offerta di lavoro e non sia più
necessario scegliere tra famiglia e lavoro. In termini macroeconomici questo ha
due significati, almeno in una prima fase: più lavoratori equivale a salari più
bassi, per la riduzione della relativa forza contrattuale, e ciò retroagisce
sulla necessità di lavorare in due. Cosa che, a ben vedere, non libera le donne,
ma vincola entrambi (dal momento che un solo salario diventerà crescentemente
incapace di sostenere una vita dignitosa). Anche su questo punto, che non si
può sviluppare per ragioni di tempo, si colloca una delle posizioni teoriche e
discussioni neoclassiche più caratteristiche. È ovvio che il modello macroeconomico
soggiacente vede nella tendenza alla riduzione dei salari e inclusione di
sempre più lavoratori un fattore di ricchezza che, attraverso la propensione al
risparmio e reinvestimento del capitale, retroagisce in incremento
generalizzato dei salari e quindi della ricchezza sociale. Non funziona così da
decenni.
6- Sostenere
il mezzogiorno, ma, coerentemente, non con investimenti
pubblici diretti, bensì operando sulle “istituzioni”. Ovvero irrobustendo le
amministrazioni, garantendo la legalità e attirando investimenti privati. Una
ricetta plurifallimentare perché priva dell’altra gamba necessaria.
7- Anche
nello scarno paragrafino degli investimenti pubblici, solo
undici righi, sono enunciati solo investimenti di tipo immateriale (formazione)
e manutenzioni. Per il resto attrarre investimenti privati. La torta deve
essere mangiata dalle bocche giuste, sappiamo dove andranno i soldi del Recovery.
Se ne assicurerà Giorgietti.
8- Infine,
il Next generation Eu. Dato il ruolo dello Stato, e la logica
generale, sosterrà le direzioni enunciate assicurando la canalizzazione degli
investimenti su energia da fonti rinnovabili, disinquinamento, rete ferroviaria
veloce (e non ad “alta capacità” diretta ai ceti meno abbienti), reti di
distribuzione dell’energia (ovvero quelle di Enel, Acea, A2A e Terna), veicoli
a propulsione elettrica (ovvero la grande industria europea del settore),
produzione e distribuzione di idrogeno (nel quale sono attive ed in primo piano
Snam ed Eni), la digitalizzazione, la banda larga e le reti 5G (immagino non
cinesi). Ma il Next generation ha due lame, la prima è la spesa (che come ogni
buona lama divaricherà il paese tra vincenti e perdenti in termine di territori
e di ceti sociali), la seconda sono le “riforme” e la loro stretta condizionalità
(se non si fanno non arrivano i soldi). Qui Draghi conferma il carattere di
stretta osservanza neoliberale delle sue: certezza delle norme, concorrenza,
riforma del fisco affidata ad una commissione tecnica e secondo il modello
regressivo danese[12], pubblica amministrazione,
giustizia, immigrazione (volgendosi a rendere possibili i rimpatri).
Questo
è tutto. Direi che per ora basta, vedremo come si traduce in azioni.
[2] - Carlo Galli, “Molto
più che un banchiere”, La repubblica, 19 febbraio 2021.
[3] - Mario Tronti, “No
all’alleanza coi 5S, il PD pensi a se stesso”, Il Riformista, 18 febbraio
2021.
[4] - Sulla sua pagina scrive: “Dal
discorso di Draghi al Parlamento non è chiaro se la riforma fiscale annunciata
sarà una novità in senso progressivo o seguirà la solita via regressiva del
taglio delle tasse ai ricchi. L'unica certezza è che non avrà un grande
impatto, dal momento che ben pochi saranno i soldi disponibili per l'azione di
politica economica. Su questo punto Draghi già prova a giustificarsi con una
tipica tesi neoclassica: ‘le risorse sono sempre scarse’. Ma questa
proposizione è sbagliata. Federico Caffè, suo antico maestro keynesiano,
ricorderebbe all'allievo Draghi che in una situazione di crisi, in cui c'è un
drammatico sottoutilizzo di lavoratori e macchinari, le risorse produttive non
sono affatto scarse, sono abbondanti. E restano inutilizzate perché la moneta
che servirebbe a rimettere in movimento il ciclo capitalistico viene tenuta
deliberatamente ‘scarsa’ da una decisione politica delle classi dominanti.
Questa lezione Draghi la ricordava bene quando era a Francoforte. A Roma sembra
volerla già dimenticare.”
[5] - Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione
multipolare”, Meltemi, 2020.
[6] - Ovvero, in ordine, Usa,
Germania, Francia, poi gli amici mediterranei, Spagna, Grecia, Malta, Cipro
(con i quali abbiamo in comune la questione migratoria), i semi-amici (o
semi-nemici) come la Turchia, il semi-nemico russo e il nemico, nel quale “i
diritti dei cittadini sono violati”, come la Cina.
[7] - Si veda, per una delle migliori
descrizioni, Daron Acemoglu, James Robinson, “Perché
le nazioni falliscono”, Il Saggiatore, 2012.
[8] - Si veda “Il
Proconsole imperiale: draghi, serpenti, vermi”.
[9] - E’ ovviamente corretto, dato che
il nostro paese era uno dei pochi firmatari del “Trattato di Roma” (si veda qui),
ma ovviamente allora come ora i veri “soci” erano Francia e Germania. E la cosa
non cambia sostanzialmente con il Trattato di Maastricht che istituisce l’Unione
Europea (si veda qui).
[10] - Ad esempio, in un discorso del
2019, a Bologna, il tema è esattamente enucleato. Si veda “Mario
Draghi, ‘la sovranità in un mondo globalizzato’”.
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