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sabato 20 febbraio 2021

Alcune note sul discorso di fiducia di Mario Draghi al Senato.

 

Siamo davanti a tempi davvero complessi. Tempi nei quali ci si divide, e giustamente.

A volte solo perché si era già divisi e si era giunti ad un crocicchio nel quale sembrava di stare insieme, ma provenendo da sentieri diversi. Un attimo si era stati nello stesso posto, ma, in effetti, la traiettoria era diversa. Ognuno aveva una sua dinamica.

Altre volte si era nello stesso posto e tempo perché, ad un certo grado, si condivideva un’urgenza primaria, ma questa, al cambiare del contesto necessariamente si dissolve repentinamente. I fatti impongono infatti sempre nuovi ordinamenti, e ci si scopre diversi. Improvvisamente l’amico diviene avversario.

 

Uno dei termini di maggiore divisione è il giudizio sul governo che si presenta, dichiarandosi necessario.

 

Capita allora che un discorso[1] per certi versi mediocre, piuttosto banale (ma non privo di chiarezza, a suo modo, di una sua scolastica), nell’articolo[2] di Carlo Galli diventa “concreto e di alto respiro”. Oppure è il senso dell’urgenza e della priorità che fa dire[3] a Mario Tronti che c’è “nientedimeno” che da ridisegnare i confini della divisione dei poteri e si è in presenza di un mutamento di clima politico che rende possibile l’elezione di un capo dello Stato “di sicura garanzia”.

Ovunque, insomma, nelle diverse parti ed anime della borghesia italiana, si respira un clima di sollievo: l’ubriacatura del 2018 si può archiviare, le plebi possono essere ricacciate nei piani bassi dai quali avevano rumorosamente cercato di risalire. Finalmente!

L’emergenza offre l’occasione di rimettere il mondo sui suoi piedi, tornare a respirare, avere le sicure garanzie.




Ma veniamo a leggere.

Mario Draghi, con un impeto direi veltroniano, ha detto che “il governo farà le riforme, ma anche affronterà l’emergenza”. Del suo discorso in questo breve testo faremo l’anatomia, cercando di enuclearvi, se pur scheletricamente, la struttura retorica, le scelte fondamentali, i punti teorici, le priorità sbandierate e quelle implicite.

Dal punto di vista retorico il testo muove da una drammatizzazione binaria semplice e potente: siamo davanti ad una sfida esistenziale, come nei momenti più grandi e drammatici della nostra storia, e dobbiamo avviare quindi una “Nuova Ricostruzione”. A questo scopo spende in avvio, in modo da dare la cornice al testo, parole ad alta intensità emotiva come “responsabilità”, “dovere”, “combattere”, “trincea”, “nemico”. L’allusione è all’emergenza delle due guerre, mito fondativo repubblicano, e alla guerra patriottica di popolo contro l’occupazione nazi-fascista. Se pure non viene enfatizzato (in un solo punto si nomina l’approccio “repubblicano”), a causa probabilmente di una parte della eterogenea coalizione cui si rivolge, questa è la sorgente dell’energia morale cui tenta di riferirsi (ma, come vedremo, pervertendola).

 

 

La struttura essenziale è, però, di tipo paternalista. La frattura è, per il nostro, generazionale, non territoriale o di classe. A questa si collegherà il principale, probabilmente, snodo teorico del testo, quello che proverò a chiamare il “teorema dello spreco”.

La “Missione” è dichiarata all’avvio del discorso in questo modo: “consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e nipoti”. Può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. Si potrebbe avere come missione di ridurre drasticamente le ineguaglianze e le distanze tra i territori, che impediscono a tanta parte del paese di oggi, non di quello futuro, di accedere a condizioni di vita e lavoro degne. Si potrebbe avere la missione di risolvere le distorsioni che impediscono a troppi di accedere a lavori stabili, dignitosi, adeguati alle proprie aspirazioni e competenze. Si potrebbe voler ridurre il peso schiacciante della alta finanza sulla vita del paese e sulla possibilità stessa di azione della funzione pubblica. Si potrebbe volere un paese più giusto oggi. Per questa via anche domani.

Il “teorema dello spreco”, vero cavallo di battaglia sempreverde dell’approccio neoliberale, funziona nel discorso di Draghi così:

1-      Noi non abbiamo fatto come i nostri nonni, che si sono sacrificati “oltre misura”. Siamo stati egoisti e abbiamo vissuto quindi al di sopra dei nostri mezzi (un avvio che conferma la lettura generazionale),

2-      Dobbiamo promuovere il “capitale umano”, ovvero formazione, scuola, università e cultura in quanto ‘capitale’, fonte della capacità di auto-valorizzazione e quindi della accumulazione, accentuazione che ricorda ovviamente l’approccio della “terza via” tipica degli anni novanta e rafforza l’ispirazione tipicamente neoliberale del testo,

3-      La nostra società, infatti, non valorizza “il merito” e non rispetta la “parità di genere” (sulla quale avrà poi una importante precisazione),

4-      Tutto ciò conta perché dobbiamo investire al meglio “risorse che sono sempre scarse” (su questo punto anti-keynesiano si è espresso recentemente Brancaccio[4]),

5-      “ogni spreco”, compare la parola omnibus del neoliberismo, “è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti”,

6-      Dunque, dobbiamo evitare il nostro “egoismo” attraverso il giusto “lavoro”.

 

Il secondo “teorema”, esattamente complementare a questo, è un superclassico della cultura neoliberale contemporanea, l’istituzionalismo anti-keynesiano.

Dirà, infatti, in un passaggio rapido quanto decisivo: “la crescita di un’economia di un Paese non scaturisce solo da fattori economici”. Si tratta dell’esito cui giunge negli anni novanta il lungo dibattito avviano negli anni cinquanta intorno alla teoria dello sviluppo. In “Dipendenza[5] l’ho ricostruito sommariamente e quindi non mi dilungherò, ma è ben riassunto dallo stesso Draghi.

1-      La crescita non dipende solo dagli investimenti (“fattori economici”) diretti del pubblico e del privato,

2-      Ma dalle istituzioni nelle quali questi si attivano,

3-      Ovvero dalla fiducia, dalla condivisione dei valori, dalla coesione politica e sociale.

E il suo collegato, che ne approfondisce la portata, estendendolo alla dimensione assiale e filosofica (anzi, teologica):

4-      Gli stessi fattori (istituzioni democratiche e solide, fiducia, valori) determinano “il progresso”. E quindi separano la civiltà dalla barbarie, che non mancherà di essere richiamata nella parte in cui si passa alla nominazione di amici e nemici[6].

 

Il terzo pilastro si trova parecchio dopo, e cade quasi per caso. Si tratta di una formulazione generale e sintetica dei “compiti dello Stato”. Dirà il presidente del Consiglio: “il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello Stato è utilizzare le leve della spesa pubblica per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione”.




I tre pilastri si tengono strettamente, e non per caso. Si tratta di un preciso progetto di società nel quale viviamo da alcuni decenni. Se vige il “teorema dello spreco”, e lo sviluppo deve essere affidato al consolidamento delle “istituzioni” (liberali)[7], allora logicamente il ruolo dello Stato non è di investire risorse per risolvere le ineguaglianze e combattere la marginalità e dipendenza, ma di mettere attraverso ricerca, istruzione e regolamentazione (oltre che idonea tassazione, come vedremo), i singoli in grado di competere liberamente. Da questa emergerà, per moto proprio, la prosperità.

 

Posta in questo modo la cosa avremo, nella parte che riguarda priorità e scelte, una posizione essenziale chiaramente rivendicata ed enunciata. L’Italia si schiera con le grandi democrazie occidentali, nel contesto “atlantico”, ed entro il progetto europeo come necessario ed irreversibile progetto di potenza. Si manifesta qui, e con netta ed esplicita rivendicazione, il carattere di “Proconsole imperiale” di cui parlavamo in un precedente post[8].

 

È uno dei passaggi più commentati:

 

Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro paese, come socio fondatore, all’Unione Europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione Europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dell’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere. Siamo una grande potenza economica e culturale”.

 

Si tratta, in effetti di una pietra angolare e di un coronamento al tempo. Tutto il discorso si chiude qui, e da ora parte la dimensione elencativa e strettamente programmatica. Le scelte non negoziabili sono tutte enunciate. Si potrebbe commentare a lungo, mi limiterò ad alcuni cenni:

-          Draghi mostra di sapere che l’Alleanza Atlantica è il contenitore nel quale si colloca l’Unione Europea e tra queste c’è gerarchia. L’Italia è rivendicata (con un poco di imprecisione sostanziale[9]) come “socio fondatore” dell’Unione Europea, ma solo come “protagonista” dell’Alleanza Atlantica, che, ovviamente, è diretta dall’egemone oltre Atlantico. Questa è vincolo non scelta.

-          Si colloca in un conflitto essenziale che è enunciato come lotta tra occidente e oriente, come scontro ed inimicizia di civiltà, di valori e principi. Coerentemente nel seguito elencherà amici, quasi-amici, quasi-nemici e nemici.

-          La prospettiva assiologica nella quale si colloca l’”irreversibilità” dell’euro, in quanto parte di una filosofia della storia di tipo progressista, è chiaramente enunciata come integrazione, messa in comune di bilancio. Anche se sa, ovviamente, che questo non è, e probabilmente mai sarà, in agenda. Come ovvio ogni filosofia della storia è essenzialmente antistorica.

-          Il vincolo operativo che rende necessaria, e quindi desiderabile, la maggiore unione e la cessione di sovranità è, con tipico modulo retorico[10], che non si è sovrani se non si ha potenza. E la potenza è l’opposto della debolezza. Quindi la debolezza dello Stato (coltivata con zelo dall’approccio neoliberale prima enunciato, in una vera e propria forma di autolegame) rende necessario appoggiarsi alla forza comune europea. La cessione della sovranità nazionale inefficace (e dunque non tale) serve ad acquisire sovranità condivisa. Saltando a piedi pari il problema stesso della divisione degli interessi e quindi del fatto del potere (visibile ogni qual volta gli interessi di uno incontrano quelli dell’altro in un gioco a somma zero).

-          Qualcosa comunque balugina nell’ultima, difficile, formula. Senza l’Italia non c’è possibile Europa, ma senza l’Europa l’Italia c’è, ma viene ridotta. In questa dissimmetria altri vedrebbero un potenziale di potere, ma in Draghi tutto è dominato dallo scontro di civiltà, che è la pietra angolare del discorso. Bisogna essere una grande potenza, altrimenti si resta soli (nella lotta), e dunque, per questo, “non c’è sovranità nella solitudine” e c’è “l’inganno di ciò che siamo” (una potenza semi-imperiale), “l’oblio di ciò che siamo stati” (dall’unità ad oggi, un attore intermedio del grande gioco del potere), “la negazione di ciò che potremmo essere” (parte di un potere imperiale).

 

Se si fissa ciò il resto segue.

 

Dobbiamo completare la rivoluzione neoliberale. Sciogliere gli ultimi lacci della forma politica costituzionale semi-socialista (come da anni la grande finanza ci ripete). E quindi, vado velocemente:

1-      Trasformare la sanità generalista e universalista secondo il modello anglosassone, abilitando e specializzando le strutture ospedaliere solo alle emergenze acute e affidandosi alle famiglie per il resto (certo, modernizzando il tutto con la “telemedicina”). Mio padre ne ha avuto esperienza, dato che nei suoi ultimi venti giorni di vita è stato dimesso quattro volte, e per tre volte abbiamo fatto fronte, con infermieri privati, appunto a casa.

2-      Rivedere l’assetto scolastico, cessando il modello che fornisce istruzione generale a tutti, per potenziare (di venti volte dice) le scuole professionali al loro posto. In altre parole, se l’economia contemporanea non ha ruoli e condizioni adeguate al livello di istruzione medio fornito, ed in conseguenza molti “sovraistruiti” sono scontenti (alimentando la rivolta populista), la soluzione pensata dalle élite di cui il “Proconsole” è fine stratega e membro eminente è semplice ed efficace: abbassiamo l’istruzione. Viene citato il superclassista modello tedesco[11].

3-      Garantire una ‘grande trasformazione’ imperniata su ambiente, progresso e benessere (o, secondo una formula famosa ‘reset’): digitalizzazione, cloud computing, educazione, biodiversità, salute, energia.

4-      Cambiare alcuni modelli di crescita, passando, ad esempio, da un modello di turismo intensivo (che occupava il 14% delle attività economiche, e nel quale si erano rifugiati molti degli espulsi dal sistema produttivo maggiore) ad uno di qualità e, ovviamente, a maggiore intensità di capitale. È uno dei passaggi più prudenti, perché sta condannando a morte milioni di persone ed imprese, ma leggendo bene tra le righe questo dice. Più in generale, prosegue, “il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente”.

5-      Promuovere la parità di genere, ma senza garantire quote rosa. Anche qui la soluzione è liberale, come la diagnosi. Il divario di genere dipende dal fatto che le donne si impegnano di meno sul lavoro (ovviamente per ragioni culturali, ma anche per ragioni materiali, avendo il carico dissimmetrico della famiglia) e hanno una formazione meno adatta (le lauree stem le vedono in numero troppo basso). Quindi bisogna “garantire parità di condizioni competitive tra i generi”, facendo in modo che si allarghi l’offerta di lavoro e non sia più necessario scegliere tra famiglia e lavoro. In termini macroeconomici questo ha due significati, almeno in una prima fase: più lavoratori equivale a salari più bassi, per la riduzione della relativa forza contrattuale, e ciò retroagisce sulla necessità di lavorare in due. Cosa che, a ben vedere, non libera le donne, ma vincola entrambi (dal momento che un solo salario diventerà crescentemente incapace di sostenere una vita dignitosa). Anche su questo punto, che non si può sviluppare per ragioni di tempo, si colloca una delle posizioni teoriche e discussioni neoclassiche più caratteristiche. È ovvio che il modello macroeconomico soggiacente vede nella tendenza alla riduzione dei salari e inclusione di sempre più lavoratori un fattore di ricchezza che, attraverso la propensione al risparmio e reinvestimento del capitale, retroagisce in incremento generalizzato dei salari e quindi della ricchezza sociale. Non funziona così da decenni.

6-      Sostenere il mezzogiorno, ma, coerentemente, non con investimenti pubblici diretti, bensì operando sulle “istituzioni”. Ovvero irrobustendo le amministrazioni, garantendo la legalità e attirando investimenti privati. Una ricetta plurifallimentare perché priva dell’altra gamba necessaria.

7-      Anche nello scarno paragrafino degli investimenti pubblici, solo undici righi, sono enunciati solo investimenti di tipo immateriale (formazione) e manutenzioni. Per il resto attrarre investimenti privati. La torta deve essere mangiata dalle bocche giuste, sappiamo dove andranno i soldi del Recovery. Se ne assicurerà Giorgietti.

8-      Infine, il Next generation Eu. Dato il ruolo dello Stato, e la logica generale, sosterrà le direzioni enunciate assicurando la canalizzazione degli investimenti su energia da fonti rinnovabili, disinquinamento, rete ferroviaria veloce (e non ad “alta capacità” diretta ai ceti meno abbienti), reti di distribuzione dell’energia (ovvero quelle di Enel, Acea, A2A e Terna), veicoli a propulsione elettrica (ovvero la grande industria europea del settore), produzione e distribuzione di idrogeno (nel quale sono attive ed in primo piano Snam ed Eni), la digitalizzazione, la banda larga e le reti 5G (immagino non cinesi). Ma il Next generation ha due lame, la prima è la spesa (che come ogni buona lama divaricherà il paese tra vincenti e perdenti in termine di territori e di ceti sociali), la seconda sono le “riforme” e la loro stretta condizionalità (se non si fanno non arrivano i soldi). Qui Draghi conferma il carattere di stretta osservanza neoliberale delle sue: certezza delle norme, concorrenza, riforma del fisco affidata ad una commissione tecnica e secondo il modello regressivo danese[12], pubblica amministrazione, giustizia, immigrazione (volgendosi a rendere possibili i rimpatri).

 

Questo è tutto. Direi che per ora basta, vedremo come si traduce in azioni.



[1] - Discorso che si può rintracciare qui.

[2] - Carlo Galli, “Molto più che un banchiere”, La repubblica, 19 febbraio 2021.

[3] - Mario Tronti, “No all’alleanza coi 5S, il PD pensi a se stesso”, Il Riformista, 18 febbraio 2021.

[4] - Sulla sua pagina scrive: “Dal discorso di Draghi al Parlamento non è chiaro se la riforma fiscale annunciata sarà una novità in senso progressivo o seguirà la solita via regressiva del taglio delle tasse ai ricchi. L'unica certezza è che non avrà un grande impatto, dal momento che ben pochi saranno i soldi disponibili per l'azione di politica economica. Su questo punto Draghi già prova a giustificarsi con una tipica tesi neoclassica: ‘le risorse sono sempre scarse’. Ma questa proposizione è sbagliata. Federico Caffè, suo antico maestro keynesiano, ricorderebbe all'allievo Draghi che in una situazione di crisi, in cui c'è un drammatico sottoutilizzo di lavoratori e macchinari, le risorse produttive non sono affatto scarse, sono abbondanti. E restano inutilizzate perché la moneta che servirebbe a rimettere in movimento il ciclo capitalistico viene tenuta deliberatamente ‘scarsa’ da una decisione politica delle classi dominanti. Questa lezione Draghi la ricordava bene quando era a Francoforte. A Roma sembra volerla già dimenticare.”

[5] - Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi, 2020.

[6] - Ovvero, in ordine, Usa, Germania, Francia, poi gli amici mediterranei, Spagna, Grecia, Malta, Cipro (con i quali abbiamo in comune la questione migratoria), i semi-amici (o semi-nemici) come la Turchia, il semi-nemico russo e il nemico, nel quale “i diritti dei cittadini sono violati”, come la Cina.

[7] - Si veda, per una delle migliori descrizioni, Daron Acemoglu, James Robinson, “Perché le nazioni falliscono”, Il Saggiatore, 2012.

[9] - E’ ovviamente corretto, dato che il nostro paese era uno dei pochi firmatari del “Trattato di Roma” (si veda qui), ma ovviamente allora come ora i veri “soci” erano Francia e Germania. E la cosa non cambia sostanzialmente con il Trattato di Maastricht che istituisce l’Unione Europea (si veda qui).

[10] - Ad esempio, in un discorso del 2019, a Bologna, il tema è esattamente enucleato. Si veda “Mario Draghi, ‘la sovranità in un mondo globalizzato’”.

[11] - Rinvio su questo a diversi post su Facebook del mio amico Andrea Zhok. Ad esempio, a questo.

[12] - Su questo si vedano gli interventi in rete di un esperto scandinavista come Paolo Borioni. Ad esempio, questo.

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