Il
28 marzo su un supplemento del “Corriere della Sera”, una delle grandi
firme del quotidiano nazionale, Claudio Magris ha intervistato il segretario
generale del PC, Marco Rizzo. Ne possiamo riprendere il testo da questo link,
sul sito di “Cumpanis”.
L’intervista
è breve, ma non per questo semplice o banale. Rizzo, senza cogliere la
provocazione nel preambolo, in cui lo scrittore ed intervistatore ascrive se
stesso alle fila della “sinistra democratica” (lasciando implicitamente
scegliere il suo interlocutore tra essere non ‘democratico’ o non ‘di sinistra’),
afferma con vigore che sta accadendo qualcosa di essenziale nella società
contemporanea: i suoi valori sono tutti “sottosopra”. L’incipit è dunque
focalizzato su quella dimensione che una scolastica marxista fuori tempo
chiamerebbe ‘sovrastrutturali’. Dimensione tuttavia appropriata per chi di
fatto non ha le condizioni per una “guerra di movimento”, ma deve (non si
sceglie che lotta combattere) stare sulla “guerra di posizione”[1].
Quali valori sono dunque “sottosopra”? Intanto l’immagine delle relazioni sociali e produttive e la percezione di sé come soggetti che ne deriva: “i lavoratori sono privati della consapevolezza della propria importanza e della propria forza e ritorcono contro se stessi la colpa del loro fallimento”. Già nel primo rigo dell’intervista c’è tutta la struttura di pensiero che si vuole evocare per rovesciare la situazione del mondo: i valori della società sono rovesciati, e gerarchicamente sottosopra, perché la consapevolezza di sé dei lavoratori è stata traviata. Senza conoscere più la propria forza e l’importanza centrale nella riproduzione della società stessa, e nella tenuta della sua coesione (affidata piuttosto al lavoro che all’orizzontalità democratica[2]), i lavoratori perdono la consapevolezza della possibilità del cambiamento. E con essa la “dignità”.
Ma
senza per questo ripercorrere l’impostazione di un Honneth, ad esempio[3], Rizzo attira l’attenzione
su qualcosa di ben più profondo dell’assenza di questo o quel diritto, di una o
l’altra libertà, o della stessa identità; attira l’attenzione sulla base
materiale e relazionale che piuttosto li sostengono e dotano di senso. Aver
seguito l’impostazione liberale, che ha sostituito a partire dai tardi anni
settanta la centralità dei ‘diritti sociali’ (ovvero delle riforme volte ad
implementarne l’effettiva praticabilità universale) con i ‘diritti individuali’
(per definizione e metodologicamente individualisti, rivendicazionisti e
manipolabili da qualsiasi minoranza riesca a porsi in posizione di “vittima” [4]), ha finito per rendere vuota
la rivendicazione della libertà stessa. Ovvero la rivendicazione della
possibilità della libertà per i lavoratori. Mentre, come sottolinea con formula
forte Rizzo “ci si dimentica della libertà concreta per crogiolarsi nelle licenze
di ogni genere”. E, continua, con un salto solo apparentemente incongruo, ma
costantemente ricercato, “la globalizzazione ha spazzato via la decenza,
anche le regole della morale borghese”.
Curiose
queste parole in bocca ad un leader di sinistra: dignità, decenza, licenze.
Da quando la sinistra si è spostata nei centri storici, abbandonando sulla
soglia le sue scarpe sporche di fango ed olio, non si sono più sentite. Si è
sentita spesso quella ‘libertà’, ma sempre pensandola come propria. Man mano
che si è dimenticata la ricerca della libertà effettiva per i lavoratori
si è passato a rivendicare quella forma negativa[5] che consiste nel non avere
limiti al proprio desiderio. Pratica che, come evidente, ha ben altro senso per
il ricco e per il povero. È stato smarrito il fatto che ogni diritto, lungi
dall’essere ‘naturale’, è un costrutto intrinsecamente sociale. Una forma di bene
comune da esercitare avendo la comunità giuridica come necessario
riferimento e quella sociale come sfondo.
Come
sottolinea Magris, che coglie benissimo il punto, l’attacco è quindi diretto contro
coloro i quali pensano di essere di sinistra solo perché “civettano con tutte
le trasgressioni possibili”, senza cogliere il nesso tra l’etica, il decoro e
la dignità, la decenza.
Chiaramente,
e appunto Rizzo lo dirà, qui si tratta di non essere più “di sinistra”. Perché
questa ha perso la misura, finisce sistematicamente per mostrare in ogni sua
frase la sua natura classista (ricorda gli insulti alla Meloni come
“pescivendola” o “ortolana”) ed il suo disprezzo popolare. E va dietro ad ogni
rivendicazione, purché non riguardi le cose che contano e sostengono la
società, il lavoro. Come dice Rizzo, persegue ormai e “addirittura
rivendica l’utero in affitto” (formula di per sé abominevole per molti), che
riduce donne a contenitori e i nascituri a merce[6]. In sostanza è diventata
una sorta di partito radicale[7] di massa (si fa per dire).
Ma
mentre Magris propone di considerare positivamente il mercato, se pur entro una
sua competenza e senza affidargli interamente l’organizzazione della società,
Rizzo lo dichiara “formula vecchia e stantia”. È una profonda divergenza che
viene lasciata cadere lì e resta sul fondo[8].
Il
punto dell’intervista era ed è un altro. Per il segretario l’unico
dissenso che ha effettivo potere antagonista, capace di creare il nuovo, è
quello che ha a che vedere con l’organizzazione di base della società, che è generata
nella dialettica e conflitto tra il lavoro ed il capitale. Tra la capacità
dell’uomo organizzato e costituito nella cooperazione sociale di trasformare il
mondo e l’appropriazione dei relativi frutti. Il resto, le “dispute fanatiche”
su ogni cosa, dai gusti sessuali a quelli alimentari, sono distrazione.
Disinnescano e deviano l’attenzione (una delle migliori rappresentazioni è
nell’occupazione su tutti i media della ricorrenza della festa dei lavoratori
per parlare del decreto contro l’omofobia) e quindi sono benvenuti e usati dal
potere. È chiaro che questa posizione è radicalmente opposta a tutta la cultura
post-moderna, che rivendica l’esatta posizione opposta.
Nella
conclusione, a Magris che cita Edouard Glissant per celebrare, in nesso
necessario con la “smentita della storia” del marxismo, la creolità come
incontro universale tra culture che si arricchiscono ed integrano, Rizzo replica
riprendendo (allo scopo aggiungendo Franz Fanon) la “sopravvivenza dei popoli
nei confronti della globalizzazione”. Anche qui uno guarda da una parte, uno
dall’altra.
Se
il profilo della ‘sinistra democratica’ di Magris (se pure turbata) è chiaro e
ci è familiare, quello di Rizzo appare nuovo. Ma solo perché sono passati
decenni da quando questo spirito frequentava le nostre piazze, si aggirava tra
i panini con la porchetta alle feste.
Camminava
con le scarpe vecchie ma sapeva essere dignitoso, decente, decoroso,
combattivo.
[1]
- E’, ovviamente, uno schematismo
provvisorio, sia la “guerra” cui si riferisce Gramsci con la sua nota metafora
è sempre un poco le due, sia il passaggio dall’una all’altra può avvenire improvvisamente
(ma, proprio per questo, non è una scelta ma una circostanza), sia, infine, la
distinzione tra ‘struttura’ e ‘sopra-struttura’ è analitica.
[2] - Si veda su questo concetto la
lettura di Luckacs condotta da Carlo Formenti (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_03_14_archive.html),
in particolare la prima puntata. In esso il lavoro è il modello di ogni prassi
sociale (Lukacs, “Ontologia, dell’essere sociale”, Vol III), rinviando
all’analisi di Aristotele e di Hegel. Parimenti riferendosi ad Hegel
l’esponente principale della “terza generazione” della Scuola di Francoforte,
Axel Honneth, ribadisce che è alla distribuzione del lavoro che deve risalire
in effetti, e quindi alla centralità dei lavoratori in quanto lavoratori
(e non dei meri ‘cittadini’), la qualità della stessa partecipazione
democratica e della vita politica. Sarebbe dunque da rovesciare l’assunto
liberale (e che un Habermas, ad esempio, per allontanarsi appunto da Hegel e
soprattutto da Marx, rintraccia in Arendt), per il quale deriverebbe dalla
corretta ed orizzontale discussione pubblica. Essere un membro attivo della
società deriva dalla qualità e dalla modalità di espressione (e di
autocomprensione) della divisione del lavoro. Da essa la coesione sociale. La
coesione, che è collaborazione, deriva dalla condivisione della capacità di
agire insieme per la trasformazione del mondo nel lavoro.
[3] - La “dignità”, in quanto effetto del
riconoscimento, come precondizione attivante della stessa redistribuzione.
[4] - Si veda la critica alla logica
dei diritti condotta con profonda lettura genealogica da Andrea Zhok, “Critica
della ragione liberale”, Meltemi, 2020. In particolare da p. 255.
[5] - Mi riferisco ovviamente alla
notissima distinzione tra “libertà negativa”, dei liberali, e “libertà positiva”.
[6] - Si veda questo vecchio post “Nichi Vendola e Ed Testa: circa
Tobia. Dei confini del mercato”.
[7] - Partito, vale forse ricordarlo, originato
negli anni cinquanta da una scissione a destra del Partito Liberale.
[8]
- Punto che meriterebbe, tuttavia
approfondimento, alcune delle più interessanti e vitali esperienze di
non-capitalismo (o capitalismo domesticato) nel mondo partono dalla
comprensione che i “mercati” sono sempre costruzioni sociali e politiche
collettive e quindi dalla loro accettazione e regolazione (molto forte) al
tempo.
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