Per
la collana “Visioni Eretiche”, diretta da Carlo Formenti, è uscito da qualche
mese il libro “Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro”[1].
Gli autori sono: lo stesso Formenti, che firma l’introduzione ed un saggio dal
titolo “Dal socialismo reale al socialismo possibile. Appunto sul socialismo
del XXI secolo”; Carlo Galli, “Un mondo di sovrani”; Pierluigi Fagan, “La
difficile transizione adattiva al XXI secolo”; Manolo Monereo, “Plutocrazia
contro democrazia”; Piero Pagliani, “La logica della crisi”; Onofrio Romano, “Decrescita
verticale. Sul futuro del valore”; Raffaele Sciortino, “Tracce di futuro”;
Alessandro Somma, “Per un costituzionalismo resistente alla normalità
capitalistica”; Andrea Zhok, “Naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della
natura? Prolegomeni ad una nuova alleanza”. Infine, il testo che qui si
riproduce nella versione quasi finale, “Il
blocco sociale post-liberale per una società materialista decente”, che è firmato da me, Alessandro Visalli.
Si
è trattato di un progetto avviato prima della pandemia, al finire del 19, ma
che, fatalmente, è stato profondamente coinvolto nella lettura di questa.
I
temi che si intrecciano tra gli autori, che si sono scambiati per tempo i
propri contributi nel tentativo di fertilizzarli reciprocamente, sono
ricondotti da Formenti alla crisi della globalizzazione neoliberale, ben visibile
prima della pandemia, e per ora nettamente accelerata dagli effetti di questa e
certamente ampliata nei suoi effetti dagli scontri di potenza in costante e
davvero preoccupante accelerazione. Gli scopi della mondializzazione sono
illuminati dai diversi autori sia da un punto di vista di classe (favorire l’accentramento
di potere e ricchezza nelle mani di quella frazione della classe capitalista
che detiene il controllo dei fattori mobili), sia dal punto di vista della
concentrazione del controllo in aree del mondo e luoghi ‘densi’. Infine, viene
letta da più parti la tendenza ad ulteriore polarizzazione funzionale,
geografica e settoriale determinata dalla pandemia (ma non progettata da
alcuno, anche se sfruttata da molti). La seconda chiave che intreccia la prima è
quella classicamente geopolitica. E questa si innerva nell’analisi della
gerarchia dei poteri sovrani e semi-sovrani (o delle dipendenze), e dello
scontro epocale in corso tra vecchie e nuove potenze egemoniche. La terza,
cambiando obiettivo, o zoomando, è la sempre più palese impasse delle sinistre
ma, al contempo, l’esaurimento dell’alternativa populista. Se, da una parte,
resta confermata dagli autori la diagnosi circa la declinante capacità delle
sinistre tutte di rappresentare gli interessi delle classi subalterne,
appiattite da tempo su una rappresentazione ideologica della mondializzazione e
sulla resa all’ordinatore economico, riservando le residue energie utopiche al
più compatibile con lo spirito del tempo retaggio libertario, antistatalista e
antipolitico dei movimenti di metà secolo scorso. Dall’altra un persistente “momento
Polanyi” si è sinora tradotto in progetti di “rivoluzione passiva” la cui sterilità,
come levatrici di autentico cambiamento, è sempre più evidente.
Come
da programma i vari autori hanno quindi tentato di esercitare la propria
fantasia politica per individuare le dinamiche e le strutture che, anticipando
il volo della nottola di Minerva, potrebbero favorire l’emergenza di un mondo
post-neoliberale. La formula è intenzionalmente vaga, perché le ricette del
futuro sono protette dal velo. Si va dalla possibilità di restituire centralità
al ‘costituzionalismo sociale’, in una nuova edizione aggiornata del
compromesso del secondo dopoguerra, alla costruzione di una coalizione sociale
post-pandemica a partire da un paziente lavoro di costruzione politica. A tal
fine, nell’ultima parte, si individuano alcuni snodi teorici da dirimere se si
vuole provare a parlare, nuovamente, di socialismo: la separazione tra società di
mercato e con mercati; la riconcettualizzazione della stessa ‘rivoluzione’
come processo continuo di rafforzamento combinato e cumulativo, anziché come
evento “catastrofico” puntuale; la necessaria relazione con il depotenziamento
di tutti gli sfruttamenti, tra i quali sta in posizione centrale quello della
natura; la messa in questione della concezione lineare, uniformante e cumulativa
del progresso, e con essa ogni mistica delle forze produttive; una profonda
critica della ‘democrazia reale’ occidentale comprendendo che si può ragionare
su questa solo se si separa dal mercato e si riconnette alle lotte.
Detto
del programma del libro, veniamo al testo firmato da me, “Il blocco sociale post-liberale per una società materialista decente”.
È questo.
Siamo
di fronte ad una catastrofe i cui confini sono davvero difficili da racchiudere
in una breve descrizione. Molta parte di questo sforzo di descrizione dipende
da quali lenti disciplinari decidiamo di inforcare. Guardando dal punto di
vista, generalmente utilizzato, della disciplina economica si inquadrano
difficoltà crescenti a tenere in un accettabile equilibrio lo sviluppo
dell’intreccio delle forze produttive, incarnate in attori economici impegnati
in una concorrenza sempre più feroce[2],
e soprattutto i loro effetti differenziati sui diversi territori e unità
politico-amministrative. Dal punto di vista sociale le sempre crescenti
ineguaglianze, il declino della classe media occidentale, e quindi la dinamica
delle periferie sempre più arrabbiate e disperate, segnalano una
disintegrazione progressiva ed apparentemente inarrestabile. Dal punto di vista
politico l’insorgere, anzi il diffondersi sempre più forte dello stile
populista è immagine di queste disgregazioni e squilibri, e in particolare
della perdita di fiducia generalizzata nella possibilità di dirigere e
governare i sistemi secondo linee razionali e condivise. Con gli occhi
dell’antropologia si osserva invece una metamorfosi avanzata dell’umano, ormai
apparentemente incapace di sfuggire ai veleni di un individualismo e nichilismo
modernista[3]
strettamente intrecciato con la forma d’ordine neoliberale[4].
Sul piano morale è sempre più difficile giustificare un sistema che sembra
imperniato su una ideologia sacrificale[5]
estesa ormai alla gran parte dell’umanità ed in ogni luogo. Infine, sul piano
dell’equilibrio naturale la distruzione è semplicemente davanti ai nostri occhi.
Molti
di questi piani di frattura precipitano in una crescente difficoltà a
conservare gli equilibri di dominio che tengono in ordine il mondo, una volta indebolitasi
per ragioni interne l’egemonia[6]
che aveva retto, sia pure con continui adattamenti, il nuovo assetto seguito
alla Seconda guerra mondiale. Si può dire che in effetti la Seconda guerra
mondiale sta finalmente ed effettivamente finendo davanti ai nostri occhi.
Ma
se il vecchio muore, e non ci sono dubbi in proposito. Da dove nascerà il
nuovo? Quale è la
forza che muove la situazione, sotto il filo increspato delle acque? Ci sono
diversi candidati a questo ruolo: ad un livello di astrazione molto alto, e
prestando attenzione alle dinamiche di lunga durata, un influente schema messo
a punto da Wallerstein e Arrighi vedrebbe in questi fenomeni la fase di
instabilità terminale del ciclo egemonico occidentale[7].
Dunque, a partire dall’apertura della crisi di accumulazione degli anni
settanta e venendo a termine la soluzione data dalla finanziarizzazione e dalla
mondializzazione, ora assisteremmo all’accelerazione di una transizione in
corso da tempo. Ovvero all’emergere di nuove costellazioni di potenza, e di una
nuova egemonia potenziale che nella transizione determina aree di crisi ad
elevato rischio di perdita di controllo.
Più
concretamente l’esaurimento, come perdita di equilibrio e degrado, del ciclo
del debito sembra imminente. Le istituzioni finanziarie pubbliche, sulle quali
da tempo è caduto il peso di salvare il sistema dal quale dipendono per intero
le élite e buona parte dei sistemi sociali e territoriali del mondo, fanno
crescente fatica a garantire la liquidità. Sempre nuove invenzioni sono messe
sul tappeto e sempre meno tempo è in tal modo “comprato”[8].
Dall’altra
parte sono in corso potenti riarticolazioni del modo di produzione stesso[9].
Si tratta di un livello sotterraneo di tensione che spinge per mutamenti
radicali spinti dalla difficoltà alla riproduzione del capitale, dai crescenti
rischi di controllo, dalla dinamica interna della tecnoscienza. Tutte queste
forze convergono nel mutamento accelerato della piattaforma tecnologica[10]
e quindi delle strutture della vita quotidiana di molti.
Sul
piano della dinamica politica, che di queste tensioni è rivelatrice, giunge ad
una fase di esaurimento e di instabilità la forma che il ciclo Polanyi[11]
ha preso nel secondo decennio del nuovo secolo. Abbiamo inoltre assistito negli
anni dieci ad un breve ciclo populista[12],
molto più forte nel quadro destro dell’arco politico-ideologico occidentale che
non in quello sinistro, che a ben vedere riprende e mette al lavoro strutture
antropologiche, sociali e politiche neoliberali, dense di risentimento per le
promesse tradite. È stato un movimento potente, ma sembra giunto ai suoi
limiti. Esso è cresciuto in modo apparentemente irresistibile nella prima parte
del decennio, fino agli eventi del 2016, ma ha perso la spinta molto
rapidamente nell’arco di pochissimi anni, venendo riassorbito e metabolizzato o
deviato. C’è una logica in questo. Si è trattato di quel genere di azione
storico-politica capace di manifestarsi in modo rapido e fulmineo,
apparentemente resa necessaria da un grande pericolo imminente, e che si
manifesta attraverso individui focali, “crea[ndo] fulmineamente l’arroventarsi
delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività
ironica (che, altrimenti, potrebbero, se fatte agire, distruggere il carattere
‘carismatico’ del condottiero)”. Un’azione, bisogna essere attenti, che “per la
sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico:
sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo
proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali,
[…] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una
volontà collettiva, già esistente, sia snervata, dispersa, abbia subito un
collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra
riconcentrarla e irrobustirla.”[13]
Come propone Antonio Gramsci si tratta di un’azione che si nutre dell’energia
reattiva, è fondata sul senso comune che è già in campo, come su passioni e
fanatismo. Radicalmente acritica e mancante sia di respiro sia di visione
organica. In definitiva, anche se può sembrare altro, è un movimento
restaurativo.
Interviene in questa situazione, da
tempo compromessa, lo shock determinato dall’attesa pandemia figlia dei molti
squilibri del mondo e della sua vorticosa e irresponsabile integrazione
orizzontale senza protezione. Quella in corso è solo l’ultima delle recenti
zoonosi che si sono diffuse nel mondo, uccidendo negli ultimi quaranta anni
oltre trenta milioni di persone. C’è una relazione piuttosto riconoscibile tra
l’estensione degli insediamenti umani, a ridosso di tutte le rimanenti aree di
naturalità, e lo sfruttamento intensivo della vita stessa (ad esempio, degli
allevamenti) e la frequenza e rapidità con la quale batteri, virus e funghi,
protisti, prioni e vermi, riescono a fare un salto di specie ed a replicarsi
tra uomo e uomo. Ed inoltre, una volta che il patogeno si è insediato
nell’ospite umano la velocità con la quale questo entra in contatto con altri
ospiti e questi si muovono nel mondo[14].
La pandemia amplifica e accelera le
molte linee di crisi antecedenti e tendenze già in movimento. Lo fa in quanto figlia
dell’interconnessione del mondo e dell’estensione in esso del modo di produzione
capitalista, per sua natura incapace di limitarsi nello sfruttamento di
qualsiasi cosa sia utilizzabile come merce. Tra queste possono essere citate la
fragilità di alcuni paesi particolarmente esposti in termini di stock di debito
pubblico (nel quadro europeo che inibisce i dispositivi tecnici di gestione
dello stesso), lo sbilanciamento dell’equilibrio di cassa degli enti pubblici e
privati, l’impatto altamente differenziato sul mondo del lavoro (sull’asse tra
impieghi stabili e precari e, in particolar modo, tra lavoratori autonomi e
professionali e altri lavoratori), le conseguenze sull’economia urbana e,
potenzialmente, sulle logiche di localizzazione delle attività. Del resto, era
da tempo che la profonda ristrutturazione sistemica accelerata dal punto di
svolta del 2008, soprattutto in Europa, era a corto di soluzioni. Ci trovavamo
con i tassi da tempo sotto zero, ed un intero modello di business bancario
sfidato in radice, i bilanci delle Banche Centrali pieni di titoli dubbi e di
bond pubblici, i principali istituti di credito sistemici zavorrati (la
Deutsche Bank ha almeno un terzo del valore di libro altamente problematico),
l’arresto dei luoghi più dinamici dell’economia mondiale, l’inversione della
crescita dei commerci, il sovraccarico dei sistemi pubblici di protezione, le
ingenti e urgentissime spese fiscali compensative. Resi fragili dall’ossessione
per le esportazioni, che i programmi per il Recovery Plan confermano, e dalle
sue necessarie conseguenze[15],
gli equilibri europei e nazionali ed un intero sistema di accumulazione sentono
da tempo in lontananza le campane a morto. Non si tratta solo del Covid: già
tra il 2018 ed il 2019 il progressivo raffreddamento prudenziale dell’economia
cinese[16],
sempre meno dipendente dalle esportazioni, e poi lo scontro con gli Usa in
cerca con Trump di un modello di crescita meno esteroflesso, avevano posto
sotto stress il commercio mondiale, rallentandone la crescita dal 4% annuo
verso lo zero alla fine del primo anno e poi in area negativa in quello
successivo. Questo evento intervenne immediatamente dopo l’annuncio
dell’accordo sui dazi tra Usa e Cina i quali si apprestavano forse a riprodurre
il duopolio Usa/Urss che organizzò la seconda metà del XX secolo. L’accordo,
infatti, aveva la potenzialità di una partnership privilegiata di medio periodo
la quale minacciava a ben vedere Europa e Giappone, deviando ingenti flussi
commerciali.
Tuttavia, se prima della crisi si
poteva immaginare che il cane trumpiano abbaiasse senza mordere, in sostanza per
rinegoziare un accordo di quieto vivere più favorevole, ora lo schema sembra
rotto. Infatti, in un nuovo contesto di contrazione non si può più ignorare che
la Cina è il nodo chiave della catena del valore aggiunto globale, decisivo
centro di produzione delle componenti di tutta l’industria meccanica ed
elettrica e degli ingredienti di base dell’industria farmaceutica (ma anche
delle terre rare che servono per moltissima elettronica). L’incrudimento dello
scontro, nell’accelerazione di tutte le linee di frattura sistemiche del mondo,
conduce irresistibilmente verso un gioco a somma zero.
Anche se tutto è ancora in
movimento si possono già intravedere massicci effetti di divaricazione tra
territori ed entro la loro stessa organizzazione interna, imponenti effetti
diretti ed indiretti sulla logica di localizzazione delle attività,
riarticolazione del peso relativo di settori economici, potenti effetti di
delegittimazione.
In particolare, si possono
focalizzare due impatti emergenti. Il primo è la crisi profonda del settore del
tempo libero spazialmente radicato[17].
Spettacolo e turismo, ristorazione e accoglienza, avevano subito un’enorme
espansione in tutta l’era neoliberale. Si era trattato di una dinamica
direttamente connessa e funzionale ai due effetti primari della
mondializzazione neoliberale: la ridislocazione del lavoro di massa verso
settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli ed a più elevato tasso di
sfruttamento; la concentrazione crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni
sempre minori della popolazione occidentale, avvantaggiati dalla propria
posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’[18]
che li organizzano. Si è trattato di una nuova polarizzazione centro-periferia
“a macchia di leopardo”, a causa della quale sono cresciuti quei ‘settori
spugna’ a ben vedere strettamente necessari ad una distribuzione del reddito, e
del potere sociale, che dalla forma ‘uomo obeso’ degli anni sessanta è
transitata ormai a quella ‘clessidra’[19].
I ‘settori spugna’ (tra i quali quello del ‘tempo libero’ è centrale) hanno, in
altre parole, riassorbito le aree di espulsione determinate dalla sempre
maggiore polarizzazione sociale. Abbiamo assistito alla crescita contemporanea
dei consumi dissipativi e identitari, da una parte, e alla deprivazione di
fasce crescenti di marginali e semimarginali, dall’altra. Fasce, spesso
istruite per effetto del portato delle strutture del ciclo precedente
(accuratamente disattivate nel frattempo), che hanno visto l’offerta
compensativa di consumi ‘virtuali’[20].
Complessivamente un’intera industria è cresciuta e si è adattata a questo
ambiente sociale ed economico distorto, ed ora è in gravissima crisi
strutturale.
Il secondo impatto emergente deriva
dalla possibile inversione catastrofica della prevalenza degli effetti di
agglomerazione su quelli di diffusione[21]
che le strutture territoriali stavano subendo in modo accelerato da decenni.
Ovvero del rafforzamento apparentemente irresistibile delle ‘città centrali’[22]
ad alta densità sociale e altamente specializzate che sembravano attrarre
capitali illimitati. Un’economia urbana ormai del tutto insostenibile, con
milioni di persone costrette a vivere a centinaia di chilometri dal luogo di
lavoro per l’incapacità di sostenere i valori immobiliari trascinati dalla
logica della finanza, sta collassando per effetto dell’introduzione forzata di
nuove modalità di lavoro. La riorganizzazione di segmenti sempre maggiori di
lavoro (in particolare nei settori più dinamici) in modalità remote, se pure
costretta dalle misure di protezione dalla pandemia, sta producendo ‘effetti
valanga’ sempre maggiori. Città come Londra, New York, ma anche Milano e
Parigi, sembrano in questi mesi svuotate. Uffici deserti in percentuali che
vanno dalla metà all’ottanta per cento, ristoranti e alberghi chiusi, molte
grandi multinazionali nei più diversi settori che programmano di rendere almeno
in parte stabile quel che era partito come occasionale. Cisco System stima nel
53% le grandi imprese che, a prescindere dall’andamento dell’epidemia, stimano
di ridurre lo spazio dei propri uffici, mentre il 75% dichiara che comunque
aumenterà la flessibilità del lavoro, ed il 90% dei lavoratori intervistati
sono della stessa opinione. Il Telegraph ha fatto una vignetta nella quale si
vede Boris Johnson che cerca inutilmente di trascinare un riottoso bulldog
fuori della cuccia. Se non uscirà in fretta non saranno solo catene come Pret à
Manger (sandwich), o shopping center di lusso come Neiman Marcus ad Hudson
Yards (Manhattan), ad entrare in crisi terminale, e non solo i loro dipendenti
a perdere il posto, e dunque restare a casa in periferia, ma anche le enormi
operazioni immobiliari avviate in questi anni, per decine di miliardi di
sterline ogni anno. Queste si fondavano sulla certezza che la città sarebbe
stata usata sempre più, e che, quindi, i valori sarebbero sempre cresciuti.
Questa certezza rendeva liquidi i titoli costruiti sulle operazioni che le
finanziavano. Creava il fondamento dell’intera piramide di titoli secondari su
questi edificati. E via dicendo. Se le grandi città centrali perderanno i
negletti lavoratori pendolari, e con essi i servizi (privati e pubblici) da
questi pagati, dovranno affrontare la spirale senza fondo del declino e della
ruggine. Faranno la fine di Detroit[23].
La perdita del turismo potrebbe essere il minore dei problemi. Tra qualche anno
potremmo contemplare una nuova “cintura della ruggine”, ma sarà al centro.
La crisi del 2008 potrà sembrare una passeggiata[24].
Che opzioni sono in campo, per
superare l’equilibrio sistemico neoliberale ormai incapace di gestire le
conseguenze del suo stesso successo?
Come abbiamo visto gli strumenti
organizzativi che hanno raccolto e dato forma alla rivolta che costituisce il
“momento Polanyi”, dandogli veste politica, sono stati declinati secondo
diverse sensibilità. Da una parte, con molte variazioni nazionali, si sono
presentati come chiusura nazionalistica, ricerca di purezza identitaria se non
etnica, plebeismo ostentato, vitalismo e protezionismo individuale. Dall’altra,
anche qui con variazioni importanti, hanno preso forma come modernismo,
risentimento e competitività, ambigua protezione selettiva, disintermediazione
e rifiuto dei “contenitori di potere” e delle loro forme istituzionali. Una
descrizione idealtipica, questa, che passa normalmente come “populismo di
destra” e “di sinistra”, e trova espressione in forze politiche di largo
seguito in Francia e Italia, il primo, e più esili ma non irrilevanti in
Spagna, Francia e Italia, il secondo. Da entrambe le parti erano comuni alcune
caratteristiche proprie della lunga fase neoliberale e della disgregazione
sociale dalla quale nasce la rivolta. Se scegliamo di chiamare tutto questo
“neopopulismo”[25],
la cosa dirimente è che si trattava di un adattamento, per certi versi in
continuità. Una dinamica sociale e politica in grado di nutrirsi ambiguamente
dello stesso veleno[26]
che ha generato il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e
iperindividualismo. Ma una dinamica potente, in quanto capace di nutrirsene in
larga misura inconsapevolmente, quindi incapace di dosarlo in modo da farlo
divenire farmaco.
Sono stati veicoli dell’espressione
politica del “momento neo-populista” in Italia il Movimento 5 Stelle e,
più di recente, la Lega sotto la direzione di Matteo Salvini, ma ne sono
stati espressione anche le brevi parabole segnate da Matteo Renzi, in
coda al ciclo berlusconiano e parallelo, ma con diversi referenti sociali, alla
prima insorgenza della proposta Grillo-Casaleggio. Ci sono molti modi di
giudicare questa fase da poco trascorsa: ha interpretato la tensione di
fondo del “momento Polanyi”, rompendo lo schema destra/sinistra polarizzato al
centro; ha politicizzato, almeno in una prima fase, un attivismo
tipicamente liberale del self-help e della “sorveglianza” che sembrava essere
l’ultimo rifugio del dissenso e del disagio; ha fornito espressione allo
spiazzamento di ceti e sezioni di classi sociali che erano state illuse di
essere vincenti nel modello “flessibile”, ma che l’avanzare della tecnica ha
lasciato sul bagnasciuga; ha utilizzato una tecnica mimetica che
interpreta la domanda sociale come domanda individualista di affermazione,
intrinsecamente neoliberale, pur senza averne consapevolezza. In altre parole,
ha raccolto una domanda, costruendo veicoli di politicizzazione nella forma di “contenitori
dell’ira”.
Ma in tutta Europa, in Italia come
in Spagna, in Francia, Germania o Inghilterra, con le differenze di situazione
e cultura, quando i “contenitori dell’ira” sono stati sfidati per avvicinarsi e
diventare “contenitori di potere” le contraddizioni che li costituivano
sono esplose. Queste contraddizioni sono presenti su vari piani: quello più
importante è dato dalla egemonia di classe e posizione nel processo di
riproduzione sociale, troppo fondati, come erano, sulle frazioni “riflessive”
della piccola borghesia urbana. Frazioni vicine e respinte, ma ancora egemonizzate,
dalle classi alte e mobili vincenti. In secondo luogo, l’incoerenza
programmatica, nascosta molto male da una superficiale retorica “ne di
destra, né di sinistra”, che sottende una costruzione di non-discorso per
aggregazione incoerente di scelte. Quindi la debolezza culturale dei
vertici e soprattutto dei quadri, nella quasi totale assenza di una dinamica
interna solida.
Ciò ha portato ad alcune
caratteristiche, e caratterizzanti, mosse politiche: nell’indicazione di un
“nemico” (essenziale per produrre dal generico “momento Polanyi” uno
specifico “momento populista”). Sotto questo profilo si è preso ciò che si
aveva “sottomano” nella cultura neoliberale dominante. Invece di fornire una rappresentazione
degli scontri sociali ed economici realmente attivi nel paese, si è prodotta la
loro sostituzione con nemici esterni al “popolo” (identificandoli genericamente
nelle “caste”). Inoltre, per produrre l’offerta ideologica questi movimenti hanno
pescato nel bidone della storia la traccia di un moralismo di antico conio
tipicamente latino (identificando l’”onestà” come elemento distintivo e
caratterizzante, elevandolo a discriminante politica). Infine, hanno fatto
sistema di una vaga idea di disintermediazione individualista (tramite
la retorica della “rete” e della “direttezza”[27],
poi rovesciata nella sua espressione tecnica direttamente nel suo contrario, un
verticismo opaco). In Italia abbiamo assistito in questa forma ad una vicenda
che si è dipanata tra il 2016 ed il 2018 (fase ascendente del “Momento
populista”, avviato nel 2012-3) ed il 2018-19 (fase di fallimento nel compito
di tradursi in “contenitore di potere” [28]).
La fase che è in corso è di normalizzazione.
Una normalizzazione, in Italia come in Spagna e in misura diversa[29]
e specifica in Gran Bretagna e Francia, che passa per un’intelligenza dei
“contenitori di potere” consolidati, i partiti sistemici, i quali hanno
compreso come sfruttare la debolezza strategica e programmatica dei “contenitori
dell’ira” per ridurli al ruolo ancillare di distrazione sistemica. Tutti i
fattori di debolezza sono stati messi al lavoro in questa direzione: la
composizione di classe, già per natura facilmente riegemonizzabile
dall’alto (almeno nel breve termine), è stata permeabile al richiamo alle
famiglie politiche conformate sulla vecchia “società dei due terzi” ed ai toni
del neoliberismo di destra e sinistra; l’incoerenza programmatica ha
consentito di scegliere dal menu quel che appare meno rischioso, silenziando
gli elementi più incompatibili con l’accumulazione flessibile; la debolezza
culturale, ma soprattutto l’isolamento dei vertici, ha prodotto un facile
riassorbimento trasformista; i “nemici” designati, essendo costruzione
ideologica, si sono prestati da una parte ad un disastroso rovesciamento (nella
transizione da “contenitore dell’ira” a “contenitore di potere”, non avendo
fatto i conti con quest’ultimo), dall’altra moralismo e disintermediazione
hanno creato una miscela tossica di inibizione all’azione e creato
oggettivamente le condizioni per essere ostacolo al cambiamento reale di
sistema.
Dunque, mentre il “momento Polanyi”
è sempre più forte, e il caos sistemico si accresce, il “momento populista” è
in una fase di ripiegamento e di interludio. Il primo è sempre più forte in quanto le sue
condizioni strutturali (che non sono le cause, dato che queste appoggiano sul
modo di produzione “flessibile” e la fase finanziaria di questo), sono la
distruzione delle classi medie e la polarizzazione sociale e spaziale, presa in
irresistibili processi di causazione circolare e cumulativa estesa alla scala
del sistema-mondo. Il secondo è invece in ripiegamento, avendone fallito la
rappresentazione politica.
La rappresentazione fallita può
essere descritta come il tentativo di produrre un blocco sociale imperniato su
un nuovo compromesso corporativo tra frazioni di ceti medi perdenti
nell’attuale assetto di potere e piattaforma tecnologica (i piccoli
imprenditori, gli intermediari e le loro rendite) e il grande capitale
semi-centrale, intorno ad una sorta di keynesismo ‘bastardo’ con forte
segmentazione nazionale. Questo tentativo non modifica effettivamente in
profondità l’assetto dei poteri e, se pure dovesse affermarsi, incontrerebbe
molto rapidamente le medesime difficoltà che esaurirono il breve ciclo degli
anni sessanta[30].
L’unica via di uscita è di produrre
lo spazio per un diverso blocco sociale, imperniato su un’alleanza tra il
lavoro effettivamente essenziale e produttivo e le periferie, mobilitandone le
risorse. Ma per questo dovrà essere messa in questione la dinamica evolutiva
della piattaforma tecnologica, andranno contrastati i processi di
densificazione e diradamento, propri e consustanziali al capitalismo in particolare
nella fase finanziaria, affrontato l’enorme problema della ridislocazione di
attività e di settori economici, andranno ripresi gli elementi comunitari e
robusti elementi di socialismo. Si tratta di un lavoro necessariamente di lunga
lena. Politicamente bisognerà muoversi in una fase più correttamente definibile
come “lotta di posizione”[31]
che non come “lotta di movimento”. In altre parole, proprio in quanto la
normalizzazione sta prevalendo, si tratterà di sforzarsi di identificare i
luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed
alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e
valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose
presenti. Bisognerà trovare il modo di essere politici, materialisti e
populisti al contempo (il modo di essere populisti del primo socialismo,
del resto). Sul piano profondo bisognerà oltrepassare l’impolitico neoliberale
e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di
umanità, dandogli forma.
La crisi, del resto, anche se di
natura sistemica come quella presente, di per sé non garantisce affatto
che si possa ‘sfondare’ il fronte (come presume lo stile populista, se pure con
l’idonea tecnica). Perché questo avvenga bisogna avere infatti almeno tre
requisiti: in primo luogo che si possa effettivamente aprire un varco (come è
avvenuto nel 2018) e che questo faccia perdere fiducia in sé e nelle sue forze
ed avvenire alle forze sistemiche; in secondo che si riesca ad organizzare
l’azione, trovare gli uomini, inquadrare le forze disperse; infine che, come
scrive ancora Gramsci, si crei “fulmineamente la concentrazione ideologica
dell’identità di fine da raggiungere”[32].
Tutto questo non è accaduto, l’apertura del varco ha fallito a tutta evidenza
sia nel demoralizzare il nemico (che, anzi, ha recuperato rapidamente la
sicurezza di sé), sia nel trovare gli uomini ed inquadrarli, e soprattutto ha
fallito, e clamorosamente, nel creare la concentrazione ideologica
dell’identità di fine. E lo ha fatto, precisamente, proprio perché si è
limitato a trovare quel che c’era, sia in termini di quadri, sia di
concentrazione ideologica. Ha creato alla fine solo “contenitori dell’ira”,
che si limitavano a raccogliere l’attivismo individualista neoliberale degli
anni novanta[33]
e la sua attitudine alla “sorveglianza”[34].
Inoltre, facevano leva sul risentimento indirizzandolo verso figure individuali
(le “caste”, le “generazioni” dei baby boomers, la burocrazia, …) anziché verso
strutture di nessi e produzione di potere. Antistatalismo, disintermediazione,
moralismo e profondo individualismo ne sono stati la cifra. Il riassorbimento ha
sfruttato queste debolezze, l’incapacità di farsi potere, e ha ampliato la
tendenza a valere come distrazione sistemica, connaturata alla cosa.
Tutti i movimenti apparentemente
rivoluzionari, ma in realtà di riaffermazione della logica neoliberale, del
secondo decennio del secolo in corso sono stati, con il senno di poi, movimenti
“di tipo boulangista”[35].
Organizzati e nutriti dell’energia reattiva, fondati sul senso comune e su
passioni rapide quanto irriflesse. Radicalmente acritici e privi sia di respiro
sia di visione organica. In definitiva, anche se potevano sembrare altro, movimenti
restaurativi. Come abbiamo già visto, un movimento “di tipo boulangista” viene
facilmente neutralizzato, quando fallisce lo sfondamento e si incastra nelle
casamatte della seconda linea. Allora queste imparano in fretta ad incorporarlo.
L’esito è scritto nella sua stessa origine; esso non ha mai rappresentato
un’autentica sfida sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e all’ideologia che
tiene insieme lo Stato.
Non ci sono dunque due strade
possibili, ce ne è una. Bisogna comprendere cosa è accaduto ed evitare,
accuratamente, di ripeterlo. Non bisogna muoversi sempre nello stesso
circolo in forma di volta in volta minore. Non bisogna limitarsi a produrre
sempre più piccoli “contenitori dell’ira” senza prospettiva strategica. C’è
bisogno di altro. Occorre ancora più azione politica e “filosofia della praxis”[36],
che deve essere interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si
noti, “trasformare”, non assorbire. Lo ripetiamo, se c’è stato un punto
specifico nel quale il “primopopulismo” è divenuto solo “contenitore
dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore di (nuovo) potere”, è
l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Il cascame della rabbia,
del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella
loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto individuale su tutti. Ha
fallito quando non ha davvero esercitato quella “fantasia concreta” che è
capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne
la volontà collettiva”.
Il senso comune deve
essere invece sfidato puntando alla creazione di un blocco sociale
effettivamente post-liberale capace di mettere sui suoi piedi la società,
rifuggendo dalle forme di cattivo universalismo[37]
che contraddistinguono la perversa teologia presente. La ricostruzione di una
società materialista ‘decente’ passa necessariamente per l’autodeterminazione
democratica, ovvero per l’effettiva neutralizzazione delle capacità del potere
economico di tradursi in potere politico, che deve essere originario e privo di
vincoli. Questa riconosce che la forza costituente è data dal conflitto
politico tra le forze organizzate dei cittadini, del lavoro, delle diverse
soggettività. Oltrepassa la logica dello sfruttamento che connette dominanti e
subalterni. Supera la logica dello sviluppo ineguale, che spinge in basso
mentre si alza. Afferma con forza, anche di fronte alle istanze che vengono
dalla logica di potenza europea che l’unica forma di relazione internazionale
coerente con la costituzione repubblicana è quella fondata sulla libera
cooperazione e la ricerca di utili connessioni tra eguali. Quindi ammette che
ciò che conta è la capacità di mutuo riconoscimento delle identità storiche e
della differenza, legittima e intangibile, dei diversi ordinamenti
istituzionali. Ridefinisce il concetto di ‘progresso’ come armonia e crescita
democratica, capacità storica di trovarne una sintesi tra partecipazione ed
emancipazione, diritto all’autodeterminazione individuale e collettiva. Passa
per il rifiuto intransigente del progresso come crescita di potenza verso le
altre nazioni, l’uomo o la natura. Questa ultima considerazione è tanto più
necessaria quanto oggi di fronte alla natura di questa crisi si affaccia la
tentazione di trattarla con i mezzi con i quali fu trattata al principio del
secolo diciottesimo la crisi sanitaria, sociale e politica delle città
cresciute enormemente per effetto della prima industrializzazione: come un
problema di ordine sanitario e di controllo e, surrettiziamente, come un
problema di ordine pubblico e di identificazione delle classi, definizione dei
loro rispettivi spazi, rappresentazione della loro unità e posizione[38].
Proprio perché è in qualche misura necessario è, in altre parole, presente il
rischio che l’uso intensivo di nuove tecnologie di efficientamento via
controllo e raccolta informazioni venga anche impiegato ai fini di
intensificazione dello sfruttamento del lavoro e di aumento di un controllo
sociale pervasivo e diffuso; che si affermi un eccesso di legittimazione dei
saperi ‘esperti’ di tipo ingegneristico-sanitario e manageriale chiamati a
decidere su temi cruciali della vita e del lavoro in assenza di controlli
democratici e pubblica discussione. Tutto questo sarà proposto come necessità e
modernizzazione, dunque come progresso. Non è accettabile, va posta invece la
questione di cosa, come e per chi produrre e vivere.
Bisogna affermare
l’interconnessione tra interesse di classe e interesse nazionale, attraverso il costante
potenziamento del mercato interno, ottenuto tramite il progressivo e costante
incremento della quota salari e del costo del lavoro, la riduzione della
dipendenza dalle esportazioni (ed importazioni), l’accorciamento delle catene
del valore industriali. Occorre definire quale è l’interesse di classe
per il quale si lavora che in questa fase dello sviluppo capitalista, nel modo
di produzione mondialista e finanziarizzato, non può che essere identificato in
coloro che sono periferici e incapaci di disporre delle leve di potere e capitale
per definire il proprio valore. Ogni alleanza di questo nucleo maggioritario,
nelle sue articolazioni territoriali dal nord al centro ed al sud, come nelle
aree urbane periferiche e periurbane, nelle regioni dell’osso e in quelle
costiere, nei lavori manuali come in quelli subalterni nel ciclo del valore
della conoscenza, nei servizi e nel commercio, nella distribuzione,
nell’immensa area dei “lavoretti”, deve essere messo in rapporto non
subalterno con i ceti medi, fruitori del surplus estratto dal lavoro e in
posizione d’ordine, ma ormai sfidati da presso dalla minaccia di riduzione di
rango del paese (da semimperiale a semiperiferico) e di tutte le sue catene del
valore, oltre che dalla macchina disgregante della modernità capitalista e
della mondializzazione. Bisogna però che sia chiaro a chi spetta l’egemonia, a
chi si guarda in prima istanza. Al contempo bisogna, individuare l’interesse
nazionale coerente con l’interesse di classe individuato. Quindi ribadire
sempre lo sforzo costante di assicurarsi un’effettiva indipendenza nel campo
crescente delle lotte tra grandi poli mondiali (anche tramite adesioni tattiche
momentanee).
Questo crocevia della
storia apre opportunità e contiene rischi. Bisogna scegliere una posizione di
non allineamento capace di una linea di politica estera flessibile che abbia
come asse centrale la liberazione dalla subordinazione carolingia che sta
distruggendo il paese e le sue classi subalterne in particolare e come tattica
essenziale l’aumento di coesione euromediterranea. Siamo, infatti, ad un punto
di discontinuità storico-epocale nel quale, da una parte, l’impatto della
pandemia interviene su un tessuto di relazioni economico-politiche e financo
militari già in corso di accelerata mutazione[39]
nei mandati di Obama e poi nel primo mandato Trump; relazioni che hanno
enormemente disequilibrato le strutture di dominio e le capacità di influenza,
e minacciano di accelerare su questa strada. D’altra parte, abbiamo visto come
la stessa pandemia produce effetti asimmetrici e crisi da doppio arresto
(domanda ed offerta) con imponenti conseguenze sul tenore e la sostenibilità
degli assetti della mondializzazione, e, per quel che più ci riguarda da
vicino, sulla tenuta del quadro d’ordine europeo. Su questo secondo piano si
sono, peraltro, prodotti eventi letteralmente impensabili ante la crisi: la
sospensione del Fiscal Compact, con conseguente lievitazione senza limiti
apparenti del rapporto di debito pubblico; la surroga della Bce all’inerzia
iniziale degli stati membri e quindi degli organi europei, tramite il Peep[40];
l’improvviso lancio, dopo una lunga fase di erosione egemonica, da parte del
centro carolingio di uno schema di finanziamento asimmetrico che si pone in
creativa continuità con i fondi strutturali, ma, come e molto più di questi, si
propone come veicolo di gerarchizzazione ulteriore e fuga in avanti sulla
strada della competizione ineguale e quindi della costruzione europea come
progetto compiutamente imperiale.
Come abbiamo detto le
tre cose agiscono nella contingenza, per ora solo potenzialmente, in direzione
di una oggettiva stabilizzazione a medio termine, rafforzata dall’esito
elettorale. Stabilizzazione in primo luogo politico-ideologica, con riferimento
alle élite, e in secondo economica. Ma questa stabilizzazione, con riferimento
al caso italiano, in primo luogo allontana la prospettiva elettorale,
soprattutto inverte quel processo, che pure si intravedeva, di scollamento
delle élite medio-alte dal progetto europeo di fronte alla promessa di
erogazione e, soprattutto, di stabilità. Le piazzeforti hanno tenuto. Apre
inoltre una fase delicatissima che, pur senza avere un immediato sbocco
politico-elettorale, presiede all’effettiva trasformazione del paese nel
combinato dell’erogazione selettiva di fondi del Recovery (territoriale,
funzionale e di classe) e quindi della restrizione compensativa con le connesse
condizionalità[41].
Ciò avviene sotto il perdurante ricatto implicito della stabilizzazione
monetaria revocabile in qualsiasi momento (ovvero della fine del Peep[42]).
Questa fase ha in
definitiva una conseguenza capitale nel quale si giocherà almeno il prossimo
decennio: diventa decisivo non già un velleitario scontro interno/esterno, che
si autorappresenta in omogenea purezza il primo e in nefasta malizia il
secondo, secondo una visione del tutto manichea dell’effettivo fenomeno della
dipendenza. Bensì è decisiva la lotta egemonica per l’affermazione delle
ragioni delle frazioni di ceto e aree che sono designate come vittime perché
arretrate, inutili. Ne consegue che se un’alleanza tra forze collocate su un
piano diverso di interesse e posizione strutturale, oltre che culturale, ma
egualmente se pur differentemente penalizzate è sempre astrattamente
necessaria, per fare maggioranza, il cambio di fase, rende necessario uno
spostamento di accentuazione. In una fase di ristrutturazione così pronunciata,
nella quale torna possibile ‘acquistare’ la fedeltà di alcuni per meglio
comprimere altri, occorre preliminarmente che a farne le spese non siano i
soliti e tutto non si riduca ad un’accelerazione della trasformazione
neoliberale. Anzi di quella “ordo” liberale.
Non c’è quindi altra via se non il
lavoro determinato e paziente di creazione di soggettività e comunità politiche
che esprimano una nuova visione del mondo. Né tale visione, al pari della
leadership, può calare dall’alto, come hanno dimostrato i fallimenti cui sono
andati incontro esperimenti politici che hanno scelto questa strada. Servono,
al contrario, un lavoro sistematico di interpretazione e di rottura, l’azione
concreta sui territori, l’immersione nelle controversie del proprio tempo, la
fatica del dialogo con i diversi e con i vicini.
Ad una fase di
discontinuità si risponde riadattando strumenti e visione. La semplice durezza dello
scontro, sui molteplici piani accennati, non consente di navigare nella nebbia,
contando di evitare gli scogli. Bisogna portare a prua una lampada. Ma
soprattutto è necessario che i piloti ed i vogatori abbiano chiaro per quale
trasformazione sociale si sta lavorando. La cosa è stata fino ad ora tutto
sommata vaga; una sorta di esercizio astratto, che, tanto c’era il pilota
automatico. Si raccoglievano le forze un poco a caso, nel crescente bacino dei
cosiddetti “perdenti della mondializzazione”, avendo come principale alleato il
crescente scatenamento degli spiriti animali del capitalismo naturalmente
polarizzanti e divaricanti tra ceti e territori. Ma ora si prepara una fase
nella quale il principio di ordine, munito sia di carota come di bastone, torna
capace di cooptare i meno deboli contro i debolissimi. La modifica di fase nel
progetto europeo, che muta di spalla al fucile ma conserva lo stesso bersaglio,
rende, in altre parole, oggi necessario sapere a chi si vuole vadano le
risorse e a chi non vadano tolte. Nella semplice aritmetica che vede
qualcuno necessariamente perdere. Nella quale non ci sono solo competitori, ma
proprio nemici. Nella quale non è questione di agonismo, ma di antagonismo.
È l’unica via perché
sia possibile, un giorno, a creazione di un blocco sociale post-liberale che
lavori per una società materialista decente.
[1] - Carlo Formenti (a cura di), “Dopo
il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro”, Meltemi 2020.
[2] - La concorrenza primaria è tra la
potenza economica, geopoliticamente compatta, cinese e la potenza americana,
incapace di altrettanta coesione e quindi nel medio termine in svantaggio. Ma
ci sono anche conflitti secondari per l’analisi dei quali rinvio agli
interventi in questo libro, in particolare quelli di Carlo Galli, Pierluigi
Fagan e Raffaele Sciortino.
[3] - Cfr. Andrea Zhok, “Critica
della ragione liberale”, Meltemi 2020.
[4] - Sul neoliberismo come forma
d’ordine la letteratura è ormai sterminata, per una trattazione classica si
veda Pierre Dardot, Christian Laval, “La nuova ragione del mondo”,
Derive e Approdi 2013.
[5] - In un
interessante testo riedito di recente il teologo sudamericano Hugo Assmann
denuncia che la particolare forma della razionalità economica ha “sequestrato e
reso funzionale certi aspetti essenziali del cristianesimo”, creando una sorta
di “religione economica” la quale in effetti ha una stretta relazione con
processi di “idolatria”. Dal punto di vista cristiano è, cioè, una forma di
adorazione di falsi dei. Si tratta di un’adorazione di dei sotto forma
mascherata, soprattutto per il carattere di “buona novella” che vi riveste la
promessa di un’autoregolazione senza intervento umano, attribuita agli
interventi di mercato. Questa idolatria è connessa strettamente ed internamente
ad una sorta di “ideologia sacrificale”, ovvero al fabbisogno continuo di sacrifici
umani. In altre parole, nella forma di vita sociale creata dalla ‘religione
economica’ neoclassica, quando vince e prevale, la vita concreta è sacrificata
sistematicamente. Hugo Assmann, “Idolatria del mercato”, Castelvecchi
2020.
[6] - Qui la coppia interpretativa è
quella dominio/egemonia per la quale si è soliti rinviare ad Antonio Gramsci.
Il concetto di ‘egemonia’, per essere compreso, va connesso con la sua assenza,
ossia con il puro e semplice “dominio”. Dove il potere è
nudo, privo della necessaria componente del consenso. Ma il vero potere non si
limita alla costrizione; si estende alle menti e ai cuori, si fa seguire in
qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la rappresentazione di sé
che si costruisce, l’immagine del mondo e la meccanica dei valori e obiettivi,
con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base” degli interessi e dei
bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle rappresentazioni)
l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il vero potere è dunque
egemonia.
[7] - Per una ricostruzione del
modello interpretativo dei cicli storici in Arrighi rimando ad Alessandro
Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[8] - Vedi Wolfgang Streeck, Tempo
guadagnato, la crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli,
2013
[9]
- Una recente ricostruzione,
se pur di parte liberale, si può leggere in Richard Baldwin, “Rivoluzione
globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, Il Mulino 2019.
[10] - Intendo per “piattaforma
tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e
vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di
tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di
skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali
e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da
pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi,
coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma
tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la
rende vincente (e in ultima analisi possibile).
[11] - ‘Ciclo Polanyi’ è la più ampia
fase storica di rovesciamento della legittimazione e dei poteri ormai non più
in grado di contrastare o minimizzare la propria tendenza alla disgregazione
del sociale. Il riferimento è alla fase almeno trentennale di reazione al
crollo del primo ciclo di mondializzazione ad egemonia inglese nell’ultimo
quarto del XIX secolo e all’avvio del XX. Una risposta che prese il secondo e
terzo decennio del secolo, e che poi troverà una stabilizzazione provvisoria
nel dopoguerra ad egemonia statunitense. Si può leggere in proposito Karl
Polanyi, “La grande trasformazione”,
[12] - Un ciclo
populista è la forma politica, che vive della caduta di legittimazione, ma
necessita di un’espressione specifica per addensarsi, dunque ne dipende.
[13] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal
Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, 10.
[14] - David Quammen, “Spillover”,
Adelphi Edizioni 2012.
[15] - Ovvero la selvaggia, se pur
progressiva, compressione del sistema pubblico di sicurezza (sanità,
istruzione, sistemi territoriali ed a rete) in modo da esporre i lavoratori
“alla durezza del vivere”, e ridurne le pretese.
[16] - Alle prese con la formazione di
bolle creditizie non dissimili da quelle verificatesi, e continuamente,
nell’occidente capitalista.
[17]
- Probabilmente a vantaggio
di forme di intrattenimento remote, semigratuite o ad abbonamento, ma la cui
dinamica distributiva e produttiva si presenta e presenterà del tutto diversa.
[18]
- Per il concetto di luogo
“denso” bisogna focalizzare una rete organizzata intorno a “nodi” discontinui
nei quali in sostanza si svolge l’azione globale. Questi nodi sono la
dimensione globale di alcune grandi città (e le istituzioni pubbliche e private
che le mettono in azione come globali) o alcune istituzioni specializzate, o
reti di militanti e di ONG. Si tratta di nuove classi globali “incapsulate” in
ambienti densi e localizzati, e “mono-logiche”. Questi attori per Sassen si
muovono in un nuovo ambiente tecnologico, sintetizzato dal termine “era
digitale”, che è insieme globale e uniformante e profondamente “embricato” con
il non-digitale. Le reti digitali destabilizzano vecchie gerarchie senza
produrne di nuove ancora pienamente formalizzate. Introducono una nuova logica
operativa, ma sono strettamente legate a pratiche, competenze ed ambienti
sociali densi che le rendono possibili. Sono la sede di proliferazione di
una subcultura internazionalizzata, fatta di dipartimenti di economia e finanza
e di centri studi di imprese finanziarie e think thank ben finanziati, che è al
centro “dell’eruzione” di nuovi concetti e pratiche a partire dagli anni
ottanta. Una insorgenza che ridefinì sostanzialmente la narrazione di ciò che è
sicuro e di cosa è adeguato. Questo allargamento si appoggia su un’aggregazione
di “comunità di pratiche” diffusa e condivisa a livello globale. Cfr.
Saskia Sassen, “Territorio, autorità, diritto. Assemblaggi dal medioevo
all’età globale”, Bruno Mondadori, 2008 (in particolare, p.436).
[19] - Mentre alla metà degli anni
sessanta e nei primi settanta la stratificazione sociale corrispondeva ad una
distribuzione con una ristretta base (nell’ordine del 15% o meno) di ceti
disagiati, un ristretto vertice di abbienti o molto abbienti ed una vasta
classe media, da tempo la stessa immagine si è rovesciata, sono cresciuti i
ceti disagiati, superando il 30% e si è asciugata la classe media, riproducendo
l’immagine di una clessidra.
[20] - Basati su consumi gratuiti,
erogati per lo più attraverso l’onnipresente rete internet, i social, ed in
questo senso virtuali, ma dagli effetti molto concreti. Si veda Shoshana Zuboff,
“Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss, 2019.
[21] - Si tratta della doppia tendenza,
e contrastante, ad attrarre e quindi concentrare le attività nei centri densi
per fruire delle ‘economie di agglomerazione’ (facilità di trovare i fattori di
produzione, i clienti, le idee) e di diffondere sul territorio la parte più
debole delle imprese e dei lavoratori alla ricerca di costi di localizzazione
più contenuti. I due fenomeni trovano un sempre precario equilibrio, tra
gentrificazione urbana e sprawl, che è influenzato in modo decisivo dalle
specializzazioni urbane, dalle infrastrutture, dalla dinamica della concorrenza
tra centri. Fino ad ora abbiamo assistito al prevalere della agglomerazione
sulla diffusione ed alla crescita delle città di rango internazionale, o,
almeno, dei loro valori immobiliari e non. Abbiamo assistito anche, e i due
fenomeni sono connessi, alla tendenza alla diffusione delle frazioni più
necessarie, ma anche più deboli in quanto più esposte alla concorrenza, del
lavoro e, quindi, alla crescita del pendolarismo e dell’incidenza degli users
urbani.
[22] - Si veda, in una sterminata
bibliografia, il classico Saskia Sassen, “Città globali. New York, Londra,
Tokio”, Utet, 1997.
[23]
- La catena degli effetti più
facilmente inquadrabile, se non interrotta da massivi investimenti pubblici, è
che la riduzione di attività porterebbe immediata crisi della finanza pubblica
locale (come sta accadendo a New York) e questa per bilanciare dovrebbe ridurre
i servizi almeno in alcuni quartieri periferici. Ma questo effetto, già
visibile in alcune città americane, produce effetti alone disastrosi,
esattamente di segno contrario al fenomeno della gentrification, tende a creare
slums e questi a riverberarsi sui valori, e quindi le attività, delle zone
limitrofe. Le città si spopolerebbero con maggiore velocità e comincerebbe a
porsi (come è avvenuto in Germania dell’est) il problema del loro
ridimensionamento fisico.
[24]
- Infatti, l’economia urbana
è ormai grande parte dell’economia mondiale, ed è interamente finanziarizzata.
La inversione di segno della crescita, e soprattutto la percezione che questa
permarrà nel medio o lungo periodo (in caso i dispositivi di lavoro remoto
dovessero, come molti sostengono, diventare la nuova normalità anche a crisi
sanitaria superata), per solidissime ragioni di equilibrio economico (se devo
lavorare in remoto mi conviene vivere dove la vita costa meno), provocherà,
quando sfonderà il muro dell’inerzia cognitiva, un immediato crollo delle
piramidi di valore (titoli Cdo, Mbs, Abs, Cds) che sono sin dall’inizio, ovvero
dalla costruzione, connesse con la costruzione della città contemporanea. E
questo rappresenterà, esattamente per la stessa via, l’innesco di una crisi.
[25]
- Per distinguerlo dalle
forme populiste completamente inserite nella fase precedente, nella quale era
ancora presente una qualche stabilità, in Italia la prima Lega, Forza Italia e
via dicendo.
[26] - Il veleno è la disgregazione
sociale, individualismo ‘post-materialista’, dominio dei nuovi media
disintermedianti, discredito delle élite, snellezza, leaderismo.
[27] - Si veda in proposito l’analisi
di Nadia Urbinati, “Democrazia in diretta”, Feltrinelli, 2013.
[28] - Molto
sinteticamente, il voto del 4 marzo del 2018 ha rappresentato la prima
espressione elettorale maggioritaria della reazione alle politiche di
austerità. Rappresentava non solo l’alleanza tra i due partiti antisistema
presenti, ma anche tra i ceti e i frammenti di classe marginali delle due parti
del paese. Ma giunti al governo i due partiti hanno avuto entrambi, seppur in
tempi diversi, una torsione trasformista. Dopo la caduta del primo governo, il M5S ha
formato un nuovo governo con il nemico storico mentre la Lega, sotto la spinta
della sua base sociale e del corpo del partito, sta rinnegando tutte le
politiche antieuro. Il campo politico che aveva trovato rappresentazione il 4
marzo si è quindi destrutturato, lasciando spazio ad una ripolarizzazione a
destra e sinistra che, entrambi, integrano elementi di populismo.
[29] - Il
riassorbimento in corso prende forma in Spagna nella partecipazione di Podemos
al nuovo governo con il Ps e in Italia sia nella partecipazione subalterna del
M5S al governo, sia nell’evoluzione della Lega. Ma è radicato profondamente,
quindi non è congiunturale, nel fallimento strategico sfruttato dai
“contenitori di potere” nazionali ed internazionali che hanno compreso come
incorporare frammenti “populisti” innocui.
[30] - Rimando ai capitoli centrali di
Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[31] - La metafora è notoriamente
dovuta ad Antonio Gramsci (“Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7,
“Appunti di filosofia”, 60 bis.) per il quale “lo Stato era solo una trincea avanzata,
dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”. In
conseguenza “la società civile è diventata una struttura molto complessa e
resistente alle ‘irruzioni’ catastrofiche dell’elemento economico immediato
(crisi, depressioni, ecc.)”. Durante le grandi crisi economiche, il ‘fuoco di
artiglieria’ della crisi stessa non riesce a travolgere la linea difensiva
profonda, che resta efficiente. Nell’immagine gramsciana accade che “né le
truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel
tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per
reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra
le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.”
(Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13,
“Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18).
[32] - Antonio Gramsci, “Quaderni
dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18
[33] - Si legga Colin Crouch, “Postdemocrazia”,
Laterza, 2003
[34] - Si legga Pierre Rosanvallon, “La
politica nell’era della sfiducia”, Città aperta edizioni, 2009.
[35] - Georges Boulanger è
stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il
desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871,
rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice
della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di
arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. Per Gramsci quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1.
il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che
funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi;
3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che
significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze
effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è
proposto; 5. e solo alla fine giovarsi dell’ipotesi che il movimento
necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti
alle moltitudini che lo seguono.
[36] - Concetto che Antonio Gramsci
rilancia, prendendolo dalla tradizione marxista e in Italia dalla lezione di
Antonio Labriola.
[37] - Si veda Assmann, cit.
[38] - Si
veda, Giovanni Cerami, Alessandro Visalli, “Parigi 1840-1869. Haussmann e la
reinvenzione della città”, Cru. Critica della razionalità urbanistica, nº 2 –
1994. Anche in, “Nella fertilità cresce il tempo”, agosto 2014, http://tempofertile.blogspot.com/
[39] - Con la ripresa di ruolo della
Russia, il ciclo bolivariano, l’ascesa cinese ed i riposizionamenti nell’area
estremo orientale, la penetrazione africana delle opposte linee di influenza.
[40]
- Si tratta del programma
Pandemic Emergency Purchase Programme, varato dal Consiglio Direttivo della
Banca Centrale Europea, e dotato di 750 miliardi, poi incrementati di ulteriori
600, per acquisti di titoli di stato anche oltre la soglia statutaria del 33%
per singolo Stato membro. La misura può essere estesa anche ai titoli
eventualmente emessi dalla Bei o dal Mes. L’attuale scadenza è giugno 2021.
[41]
- Anche essa territoriale,
ma nelle aree di diradamento, funzionale sull’asse esport/mercato
interno, ma anche innovazione/arretratezza, e, infine, di classe -dove la cosa
in attesa di migliori descrizioni si deve interpretare sul duplice asse
centro/periferia, per aree dotate di coerenza interna, e alto/basso in
relazione all’autoidentificazione e disponibilità di classe.
[42] - A ben vedere è molto probabile
che il carattere eccezionale e irrituale dello stesso strumento messo in campo
dalla Bce, che qualunque Board può revocare, determina una struttura
ricattatoria implicita, probabilmente ben nota nei suoi termini dagli addetti
ai lavori.
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