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lunedì 10 maggio 2021

“Il blocco sociale post-liberale per una società materialista decente”

  

Per la collana “Visioni Eretiche”, diretta da Carlo Formenti, è uscito da qualche mese il libro “Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro[1]. Gli autori sono: lo stesso Formenti, che firma l’introduzione ed un saggio dal titolo “Dal socialismo reale al socialismo possibile. Appunto sul socialismo del XXI secolo”; Carlo Galli, “Un mondo di sovrani”; Pierluigi Fagan, “La difficile transizione adattiva al XXI secolo”; Manolo Monereo, “Plutocrazia contro democrazia”; Piero Pagliani, “La logica della crisi”; Onofrio Romano, “Decrescita verticale. Sul futuro del valore”; Raffaele Sciortino, “Tracce di futuro”; Alessandro Somma, “Per un costituzionalismo resistente alla normalità capitalistica”; Andrea Zhok, “Naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura? Prolegomeni ad una nuova alleanza”. Infine, il testo che qui si riproduce nella versione quasi finale, “Il blocco sociale post-liberale per una società materialista decente”, che è firmato da me, Alessandro Visalli.

 



 

Si è trattato di un progetto avviato prima della pandemia, al finire del 19, ma che, fatalmente, è stato profondamente coinvolto nella lettura di questa.

I temi che si intrecciano tra gli autori, che si sono scambiati per tempo i propri contributi nel tentativo di fertilizzarli reciprocamente, sono ricondotti da Formenti alla crisi della globalizzazione neoliberale, ben visibile prima della pandemia, e per ora nettamente accelerata dagli effetti di questa e certamente ampliata nei suoi effetti dagli scontri di potenza in costante e davvero preoccupante accelerazione. Gli scopi della mondializzazione sono illuminati dai diversi autori sia da un punto di vista di classe (favorire l’accentramento di potere e ricchezza nelle mani di quella frazione della classe capitalista che detiene il controllo dei fattori mobili), sia dal punto di vista della concentrazione del controllo in aree del mondo e luoghi ‘densi’. Infine, viene letta da più parti la tendenza ad ulteriore polarizzazione funzionale, geografica e settoriale determinata dalla pandemia (ma non progettata da alcuno, anche se sfruttata da molti). La seconda chiave che intreccia la prima è quella classicamente geopolitica. E questa si innerva nell’analisi della gerarchia dei poteri sovrani e semi-sovrani (o delle dipendenze), e dello scontro epocale in corso tra vecchie e nuove potenze egemoniche. La terza, cambiando obiettivo, o zoomando, è la sempre più palese impasse delle sinistre ma, al contempo, l’esaurimento dell’alternativa populista. Se, da una parte, resta confermata dagli autori la diagnosi circa la declinante capacità delle sinistre tutte di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, appiattite da tempo su una rappresentazione ideologica della mondializzazione e sulla resa all’ordinatore economico, riservando le residue energie utopiche al più compatibile con lo spirito del tempo retaggio libertario, antistatalista e antipolitico dei movimenti di metà secolo scorso. Dall’altra un persistente “momento Polanyi” si è sinora tradotto in progetti di “rivoluzione passiva” la cui sterilità, come levatrici di autentico cambiamento, è sempre più evidente.

Come da programma i vari autori hanno quindi tentato di esercitare la propria fantasia politica per individuare le dinamiche e le strutture che, anticipando il volo della nottola di Minerva, potrebbero favorire l’emergenza di un mondo post-neoliberale. La formula è intenzionalmente vaga, perché le ricette del futuro sono protette dal velo. Si va dalla possibilità di restituire centralità al ‘costituzionalismo sociale’, in una nuova edizione aggiornata del compromesso del secondo dopoguerra, alla costruzione di una coalizione sociale post-pandemica a partire da un paziente lavoro di costruzione politica. A tal fine, nell’ultima parte, si individuano alcuni snodi teorici da dirimere se si vuole provare a parlare, nuovamente, di socialismo: la separazione tra società di mercato e con mercati; la riconcettualizzazione della stessa ‘rivoluzione’ come processo continuo di rafforzamento combinato e cumulativo, anziché come evento “catastrofico” puntuale; la necessaria relazione con il depotenziamento di tutti gli sfruttamenti, tra i quali sta in posizione centrale quello della natura; la messa in questione della concezione lineare, uniformante e cumulativa del progresso, e con essa ogni mistica delle forze produttive; una profonda critica della ‘democrazia reale’ occidentale comprendendo che si può ragionare su questa solo se si separa dal mercato e si riconnette alle lotte.

 

 

Detto del programma del libro, veniamo al testo firmato da me, “Il blocco sociale post-liberale per una società materialista decente”.

 

È questo.

Siamo di fronte ad una catastrofe i cui confini sono davvero difficili da racchiudere in una breve descrizione. Molta parte di questo sforzo di descrizione dipende da quali lenti disciplinari decidiamo di inforcare. Guardando dal punto di vista, generalmente utilizzato, della disciplina economica si inquadrano difficoltà crescenti a tenere in un accettabile equilibrio lo sviluppo dell’intreccio delle forze produttive, incarnate in attori economici impegnati in una concorrenza sempre più feroce[2], e soprattutto i loro effetti differenziati sui diversi territori e unità politico-amministrative. Dal punto di vista sociale le sempre crescenti ineguaglianze, il declino della classe media occidentale, e quindi la dinamica delle periferie sempre più arrabbiate e disperate, segnalano una disintegrazione progressiva ed apparentemente inarrestabile. Dal punto di vista politico l’insorgere, anzi il diffondersi sempre più forte dello stile populista è immagine di queste disgregazioni e squilibri, e in particolare della perdita di fiducia generalizzata nella possibilità di dirigere e governare i sistemi secondo linee razionali e condivise. Con gli occhi dell’antropologia si osserva invece una metamorfosi avanzata dell’umano, ormai apparentemente incapace di sfuggire ai veleni di un individualismo e nichilismo modernista[3] strettamente intrecciato con la forma d’ordine neoliberale[4]. Sul piano morale è sempre più difficile giustificare un sistema che sembra imperniato su una ideologia sacrificale[5] estesa ormai alla gran parte dell’umanità ed in ogni luogo. Infine, sul piano dell’equilibrio naturale la distruzione è semplicemente davanti ai nostri occhi.

 

Molti di questi piani di frattura precipitano in una crescente difficoltà a conservare gli equilibri di dominio che tengono in ordine il mondo, una volta indebolitasi per ragioni interne l’egemonia[6] che aveva retto, sia pure con continui adattamenti, il nuovo assetto seguito alla Seconda guerra mondiale. Si può dire che in effetti la Seconda guerra mondiale sta finalmente ed effettivamente finendo davanti ai nostri occhi.

 

Ma se il vecchio muore, e non ci sono dubbi in proposito. Da dove nascerà il nuovo? Quale è la forza che muove la situazione, sotto il filo increspato delle acque? Ci sono diversi candidati a questo ruolo: ad un livello di astrazione molto alto, e prestando attenzione alle dinamiche di lunga durata, un influente schema messo a punto da Wallerstein e Arrighi vedrebbe in questi fenomeni la fase di instabilità terminale del ciclo egemonico occidentale[7]. Dunque, a partire dall’apertura della crisi di accumulazione degli anni settanta e venendo a termine la soluzione data dalla finanziarizzazione e dalla mondializzazione, ora assisteremmo all’accelerazione di una transizione in corso da tempo. Ovvero all’emergere di nuove costellazioni di potenza, e di una nuova egemonia potenziale che nella transizione determina aree di crisi ad elevato rischio di perdita di controllo.

Più concretamente l’esaurimento, come perdita di equilibrio e degrado, del ciclo del debito sembra imminente. Le istituzioni finanziarie pubbliche, sulle quali da tempo è caduto il peso di salvare il sistema dal quale dipendono per intero le élite e buona parte dei sistemi sociali e territoriali del mondo, fanno crescente fatica a garantire la liquidità. Sempre nuove invenzioni sono messe sul tappeto e sempre meno tempo è in tal modo “comprato”[8].

Dall’altra parte sono in corso potenti riarticolazioni del modo di produzione stesso[9]. Si tratta di un livello sotterraneo di tensione che spinge per mutamenti radicali spinti dalla difficoltà alla riproduzione del capitale, dai crescenti rischi di controllo, dalla dinamica interna della tecnoscienza. Tutte queste forze convergono nel mutamento accelerato della piattaforma tecnologica[10] e quindi delle strutture della vita quotidiana di molti.

Sul piano della dinamica politica, che di queste tensioni è rivelatrice, giunge ad una fase di esaurimento e di instabilità la forma che il ciclo Polanyi[11] ha preso nel secondo decennio del nuovo secolo. Abbiamo inoltre assistito negli anni dieci ad un breve ciclo populista[12], molto più forte nel quadro destro dell’arco politico-ideologico occidentale che non in quello sinistro, che a ben vedere riprende e mette al lavoro strutture antropologiche, sociali e politiche neoliberali, dense di risentimento per le promesse tradite. È stato un movimento potente, ma sembra giunto ai suoi limiti. Esso è cresciuto in modo apparentemente irresistibile nella prima parte del decennio, fino agli eventi del 2016, ma ha perso la spinta molto rapidamente nell’arco di pochissimi anni, venendo riassorbito e metabolizzato o deviato. C’è una logica in questo. Si è trattato di quel genere di azione storico-politica capace di manifestarsi in modo rapido e fulmineo, apparentemente resa necessaria da un grande pericolo imminente, e che si manifesta attraverso individui focali, “crea[ndo] fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che, altrimenti, potrebbero, se fatte agire, distruggere il carattere ‘carismatico’ del condottiero)”. Un’azione, bisogna essere attenti, che “per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla.”[13] Come propone Antonio Gramsci si tratta di un’azione che si nutre dell’energia reattiva, è fondata sul senso comune che è già in campo, come su passioni e fanatismo. Radicalmente acritica e mancante sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può sembrare altro, è un movimento restaurativo.

 

Interviene in questa situazione, da tempo compromessa, lo shock determinato dall’attesa pandemia figlia dei molti squilibri del mondo e della sua vorticosa e irresponsabile integrazione orizzontale senza protezione. Quella in corso è solo l’ultima delle recenti zoonosi che si sono diffuse nel mondo, uccidendo negli ultimi quaranta anni oltre trenta milioni di persone. C’è una relazione piuttosto riconoscibile tra l’estensione degli insediamenti umani, a ridosso di tutte le rimanenti aree di naturalità, e lo sfruttamento intensivo della vita stessa (ad esempio, degli allevamenti) e la frequenza e rapidità con la quale batteri, virus e funghi, protisti, prioni e vermi, riescono a fare un salto di specie ed a replicarsi tra uomo e uomo. Ed inoltre, una volta che il patogeno si è insediato nell’ospite umano la velocità con la quale questo entra in contatto con altri ospiti e questi si muovono nel mondo[14].

La pandemia amplifica e accelera le molte linee di crisi antecedenti e tendenze già in movimento. Lo fa in quanto figlia dell’interconnessione del mondo e dell’estensione in esso del modo di produzione capitalista, per sua natura incapace di limitarsi nello sfruttamento di qualsiasi cosa sia utilizzabile come merce. Tra queste possono essere citate la fragilità di alcuni paesi particolarmente esposti in termini di stock di debito pubblico (nel quadro europeo che inibisce i dispositivi tecnici di gestione dello stesso), lo sbilanciamento dell’equilibrio di cassa degli enti pubblici e privati, l’impatto altamente differenziato sul mondo del lavoro (sull’asse tra impieghi stabili e precari e, in particolar modo, tra lavoratori autonomi e professionali e altri lavoratori), le conseguenze sull’economia urbana e, potenzialmente, sulle logiche di localizzazione delle attività. Del resto, era da tempo che la profonda ristrutturazione sistemica accelerata dal punto di svolta del 2008, soprattutto in Europa, era a corto di soluzioni. Ci trovavamo con i tassi da tempo sotto zero, ed un intero modello di business bancario sfidato in radice, i bilanci delle Banche Centrali pieni di titoli dubbi e di bond pubblici, i principali istituti di credito sistemici zavorrati (la Deutsche Bank ha almeno un terzo del valore di libro altamente problematico), l’arresto dei luoghi più dinamici dell’economia mondiale, l’inversione della crescita dei commerci, il sovraccarico dei sistemi pubblici di protezione, le ingenti e urgentissime spese fiscali compensative. Resi fragili dall’ossessione per le esportazioni, che i programmi per il Recovery Plan confermano, e dalle sue necessarie conseguenze[15], gli equilibri europei e nazionali ed un intero sistema di accumulazione sentono da tempo in lontananza le campane a morto. Non si tratta solo del Covid: già tra il 2018 ed il 2019 il progressivo raffreddamento prudenziale dell’economia cinese[16], sempre meno dipendente dalle esportazioni, e poi lo scontro con gli Usa in cerca con Trump di un modello di crescita meno esteroflesso, avevano posto sotto stress il commercio mondiale, rallentandone la crescita dal 4% annuo verso lo zero alla fine del primo anno e poi in area negativa in quello successivo. Questo evento intervenne immediatamente dopo l’annuncio dell’accordo sui dazi tra Usa e Cina i quali si apprestavano forse a riprodurre il duopolio Usa/Urss che organizzò la seconda metà del XX secolo. L’accordo, infatti, aveva la potenzialità di una partnership privilegiata di medio periodo la quale minacciava a ben vedere Europa e Giappone, deviando ingenti flussi commerciali.

Tuttavia, se prima della crisi si poteva immaginare che il cane trumpiano abbaiasse senza mordere, in sostanza per rinegoziare un accordo di quieto vivere più favorevole, ora lo schema sembra rotto. Infatti, in un nuovo contesto di contrazione non si può più ignorare che la Cina è il nodo chiave della catena del valore aggiunto globale, decisivo centro di produzione delle componenti di tutta l’industria meccanica ed elettrica e degli ingredienti di base dell’industria farmaceutica (ma anche delle terre rare che servono per moltissima elettronica). L’incrudimento dello scontro, nell’accelerazione di tutte le linee di frattura sistemiche del mondo, conduce irresistibilmente verso un gioco a somma zero.

 

Anche se tutto è ancora in movimento si possono già intravedere massicci effetti di divaricazione tra territori ed entro la loro stessa organizzazione interna, imponenti effetti diretti ed indiretti sulla logica di localizzazione delle attività, riarticolazione del peso relativo di settori economici, potenti effetti di delegittimazione.

In particolare, si possono focalizzare due impatti emergenti. Il primo è la crisi profonda del settore del tempo libero spazialmente radicato[17]. Spettacolo e turismo, ristorazione e accoglienza, avevano subito un’enorme espansione in tutta l’era neoliberale. Si era trattato di una dinamica direttamente connessa e funzionale ai due effetti primari della mondializzazione neoliberale: la ridislocazione del lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli ed a più elevato tasso di sfruttamento; la concentrazione crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione occidentale, avvantaggiati dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’[18] che li organizzano. Si è trattato di una nuova polarizzazione centro-periferia “a macchia di leopardo”, a causa della quale sono cresciuti quei ‘settori spugna’ a ben vedere strettamente necessari ad una distribuzione del reddito, e del potere sociale, che dalla forma ‘uomo obeso’ degli anni sessanta è transitata ormai a quella ‘clessidra’[19]. I ‘settori spugna’ (tra i quali quello del ‘tempo libero’ è centrale) hanno, in altre parole, riassorbito le aree di espulsione determinate dalla sempre maggiore polarizzazione sociale. Abbiamo assistito alla crescita contemporanea dei consumi dissipativi e identitari, da una parte, e alla deprivazione di fasce crescenti di marginali e semimarginali, dall’altra. Fasce, spesso istruite per effetto del portato delle strutture del ciclo precedente (accuratamente disattivate nel frattempo), che hanno visto l’offerta compensativa di consumi ‘virtuali’[20]. Complessivamente un’intera industria è cresciuta e si è adattata a questo ambiente sociale ed economico distorto, ed ora è in gravissima crisi strutturale.

Il secondo impatto emergente deriva dalla possibile inversione catastrofica della prevalenza degli effetti di agglomerazione su quelli di diffusione[21] che le strutture territoriali stavano subendo in modo accelerato da decenni. Ovvero del rafforzamento apparentemente irresistibile delle ‘città centrali’[22] ad alta densità sociale e altamente specializzate che sembravano attrarre capitali illimitati. Un’economia urbana ormai del tutto insostenibile, con milioni di persone costrette a vivere a centinaia di chilometri dal luogo di lavoro per l’incapacità di sostenere i valori immobiliari trascinati dalla logica della finanza, sta collassando per effetto dell’introduzione forzata di nuove modalità di lavoro. La riorganizzazione di segmenti sempre maggiori di lavoro (in particolare nei settori più dinamici) in modalità remote, se pure costretta dalle misure di protezione dalla pandemia, sta producendo ‘effetti valanga’ sempre maggiori. Città come Londra, New York, ma anche Milano e Parigi, sembrano in questi mesi svuotate. Uffici deserti in percentuali che vanno dalla metà all’ottanta per cento, ristoranti e alberghi chiusi, molte grandi multinazionali nei più diversi settori che programmano di rendere almeno in parte stabile quel che era partito come occasionale. Cisco System stima nel 53% le grandi imprese che, a prescindere dall’andamento dell’epidemia, stimano di ridurre lo spazio dei propri uffici, mentre il 75% dichiara che comunque aumenterà la flessibilità del lavoro, ed il 90% dei lavoratori intervistati sono della stessa opinione. Il Telegraph ha fatto una vignetta nella quale si vede Boris Johnson che cerca inutilmente di trascinare un riottoso bulldog fuori della cuccia. Se non uscirà in fretta non saranno solo catene come Pret à Manger (sandwich), o shopping center di lusso come Neiman Marcus ad Hudson Yards (Manhattan), ad entrare in crisi terminale, e non solo i loro dipendenti a perdere il posto, e dunque restare a casa in periferia, ma anche le enormi operazioni immobiliari avviate in questi anni, per decine di miliardi di sterline ogni anno. Queste si fondavano sulla certezza che la città sarebbe stata usata sempre più, e che, quindi, i valori sarebbero sempre cresciuti. Questa certezza rendeva liquidi i titoli costruiti sulle operazioni che le finanziavano. Creava il fondamento dell’intera piramide di titoli secondari su questi edificati. E via dicendo. Se le grandi città centrali perderanno i negletti lavoratori pendolari, e con essi i servizi (privati e pubblici) da questi pagati, dovranno affrontare la spirale senza fondo del declino e della ruggine. Faranno la fine di Detroit[23]. La perdita del turismo potrebbe essere il minore dei problemi. Tra qualche anno potremmo contemplare una nuova “cintura della ruggine”, ma sarà al centro. La crisi del 2008 potrà sembrare una passeggiata[24].

 

Che opzioni sono in campo, per superare l’equilibrio sistemico neoliberale ormai incapace di gestire le conseguenze del suo stesso successo?

Come abbiamo visto gli strumenti organizzativi che hanno raccolto e dato forma alla rivolta che costituisce il “momento Polanyi”, dandogli veste politica, sono stati declinati secondo diverse sensibilità. Da una parte, con molte variazioni nazionali, si sono presentati come chiusura nazionalistica, ricerca di purezza identitaria se non etnica, plebeismo ostentato, vitalismo e protezionismo individuale. Dall’altra, anche qui con variazioni importanti, hanno preso forma come modernismo, risentimento e competitività, ambigua protezione selettiva, disintermediazione e rifiuto dei “contenitori di potere” e delle loro forme istituzionali. Una descrizione idealtipica, questa, che passa normalmente come “populismo di destra” e “di sinistra”, e trova espressione in forze politiche di largo seguito in Francia e Italia, il primo, e più esili ma non irrilevanti in Spagna, Francia e Italia, il secondo. Da entrambe le parti erano comuni alcune caratteristiche proprie della lunga fase neoliberale e della disgregazione sociale dalla quale nasce la rivolta. Se scegliamo di chiamare tutto questo “neopopulismo”[25], la cosa dirimente è che si trattava di un adattamento, per certi versi in continuità. Una dinamica sociale e politica in grado di nutrirsi ambiguamente dello stesso veleno[26] che ha generato il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e iperindividualismo. Ma una dinamica potente, in quanto capace di nutrirsene in larga misura inconsapevolmente, quindi incapace di dosarlo in modo da farlo divenire farmaco.

Sono stati veicoli dell’espressione politica del “momento neo-populista” in Italia il Movimento 5 Stelle e, più di recente, la Lega sotto la direzione di Matteo Salvini, ma ne sono stati espressione anche le brevi parabole segnate da Matteo Renzi, in coda al ciclo berlusconiano e parallelo, ma con diversi referenti sociali, alla prima insorgenza della proposta Grillo-Casaleggio. Ci sono molti modi di giudicare questa fase da poco trascorsa: ha interpretato la tensione di fondo del “momento Polanyi”, rompendo lo schema destra/sinistra polarizzato al centro; ha politicizzato, almeno in una prima fase, un attivismo tipicamente liberale del self-help e della “sorveglianza” che sembrava essere l’ultimo rifugio del dissenso e del disagio; ha fornito espressione allo spiazzamento di ceti e sezioni di classi sociali che erano state illuse di essere vincenti nel modello “flessibile”, ma che l’avanzare della tecnica ha lasciato sul bagnasciuga; ha utilizzato una tecnica mimetica che interpreta la domanda sociale come domanda individualista di affermazione, intrinsecamente neoliberale, pur senza averne consapevolezza. In altre parole, ha raccolto una domanda, costruendo veicoli di politicizzazione nella forma di “contenitori dell’ira”.

Ma in tutta Europa, in Italia come in Spagna, in Francia, Germania o Inghilterra, con le differenze di situazione e cultura, quando i “contenitori dell’ira” sono stati sfidati per avvicinarsi e diventare “contenitori di potere” le contraddizioni che li costituivano sono esplose. Queste contraddizioni sono presenti su vari piani: quello più importante è dato dalla egemonia di classe e posizione nel processo di riproduzione sociale, troppo fondati, come erano, sulle frazioni “riflessive” della piccola borghesia urbana. Frazioni vicine e respinte, ma ancora egemonizzate, dalle classi alte e mobili vincenti. In secondo luogo, l’incoerenza programmatica, nascosta molto male da una superficiale retorica “ne di destra, né di sinistra”, che sottende una costruzione di non-discorso per aggregazione incoerente di scelte. Quindi la debolezza culturale dei vertici e soprattutto dei quadri, nella quasi totale assenza di una dinamica interna solida.

Ciò ha portato ad alcune caratteristiche, e caratterizzanti, mosse politiche: nell’indicazione di un “nemico” (essenziale per produrre dal generico “momento Polanyi” uno specifico “momento populista”). Sotto questo profilo si è preso ciò che si aveva “sottomano” nella cultura neoliberale dominante. Invece di fornire una rappresentazione degli scontri sociali ed economici realmente attivi nel paese, si è prodotta la loro sostituzione con nemici esterni al “popolo” (identificandoli genericamente nelle “caste”). Inoltre, per produrre l’offerta ideologica questi movimenti hanno pescato nel bidone della storia la traccia di un moralismo di antico conio tipicamente latino (identificando l’”onestà” come elemento distintivo e caratterizzante, elevandolo a discriminante politica). Infine, hanno fatto sistema di una vaga idea di disintermediazione individualista (tramite la retorica della “rete” e della “direttezza”[27], poi rovesciata nella sua espressione tecnica direttamente nel suo contrario, un verticismo opaco). In Italia abbiamo assistito in questa forma ad una vicenda che si è dipanata tra il 2016 ed il 2018 (fase ascendente del “Momento populista”, avviato nel 2012-3) ed il 2018-19 (fase di fallimento nel compito di tradursi in “contenitore di potere” [28]).

La fase che è in corso è di normalizzazione. Una normalizzazione, in Italia come in Spagna e in misura diversa[29] e specifica in Gran Bretagna e Francia, che passa per un’intelligenza dei “contenitori di potere” consolidati, i partiti sistemici, i quali hanno compreso come sfruttare la debolezza strategica e programmatica dei “contenitori dell’ira” per ridurli al ruolo ancillare di distrazione sistemica. Tutti i fattori di debolezza sono stati messi al lavoro in questa direzione: la composizione di classe, già per natura facilmente riegemonizzabile dall’alto (almeno nel breve termine), è stata permeabile al richiamo alle famiglie politiche conformate sulla vecchia “società dei due terzi” ed ai toni del neoliberismo di destra e sinistra; l’incoerenza programmatica ha consentito di scegliere dal menu quel che appare meno rischioso, silenziando gli elementi più incompatibili con l’accumulazione flessibile; la debolezza culturale, ma soprattutto l’isolamento dei vertici, ha prodotto un facile riassorbimento trasformista; i “nemici” designati, essendo costruzione ideologica, si sono prestati da una parte ad un disastroso rovesciamento (nella transizione da “contenitore dell’ira” a “contenitore di potere”, non avendo fatto i conti con quest’ultimo), dall’altra moralismo e disintermediazione hanno creato una miscela tossica di inibizione all’azione e creato oggettivamente le condizioni per essere ostacolo al cambiamento reale di sistema.

Dunque, mentre il “momento Polanyi” è sempre più forte, e il caos sistemico si accresce, il “momento populista” è in una fase di ripiegamento e di interludio. Il primo è sempre più forte in quanto le sue condizioni strutturali (che non sono le cause, dato che queste appoggiano sul modo di produzione “flessibile” e la fase finanziaria di questo), sono la distruzione delle classi medie e la polarizzazione sociale e spaziale, presa in irresistibili processi di causazione circolare e cumulativa estesa alla scala del sistema-mondo. Il secondo è invece in ripiegamento, avendone fallito la rappresentazione politica.

La rappresentazione fallita può essere descritta come il tentativo di produrre un blocco sociale imperniato su un nuovo compromesso corporativo tra frazioni di ceti medi perdenti nell’attuale assetto di potere e piattaforma tecnologica (i piccoli imprenditori, gli intermediari e le loro rendite) e il grande capitale semi-centrale, intorno ad una sorta di keynesismo ‘bastardo’ con forte segmentazione nazionale. Questo tentativo non modifica effettivamente in profondità l’assetto dei poteri e, se pure dovesse affermarsi, incontrerebbe molto rapidamente le medesime difficoltà che esaurirono il breve ciclo degli anni sessanta[30].

L’unica via di uscita è di produrre lo spazio per un diverso blocco sociale, imperniato su un’alleanza tra il lavoro effettivamente essenziale e produttivo e le periferie, mobilitandone le risorse. Ma per questo dovrà essere messa in questione la dinamica evolutiva della piattaforma tecnologica, andranno contrastati i processi di densificazione e diradamento, propri e consustanziali al capitalismo in particolare nella fase finanziaria, affrontato l’enorme problema della ridislocazione di attività e di settori economici, andranno ripresi gli elementi comunitari e robusti elementi di socialismo. Si tratta di un lavoro necessariamente di lunga lena. Politicamente bisognerà muoversi in una fase più correttamente definibile come “lotta di posizione[31] che non come “lotta di movimento”. In altre parole, proprio in quanto la normalizzazione sta prevalendo, si tratterà di sforzarsi di identificare i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose presenti. Bisognerà trovare il modo di essere politici, materialisti e populisti al contempo (il modo di essere populisti del primo socialismo, del resto). Sul piano profondo bisognerà oltrepassare l’impolitico neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma.

La crisi, del resto, anche se di natura sistemica come quella presente, di per sé non garantisce affatto che si possa ‘sfondare’ il fronte (come presume lo stile populista, se pure con l’idonea tecnica). Perché questo avvenga bisogna avere infatti almeno tre requisiti: in primo luogo che si possa effettivamente aprire un varco (come è avvenuto nel 2018) e che questo faccia perdere fiducia in sé e nelle sue forze ed avvenire alle forze sistemiche; in secondo che si riesca ad organizzare l’azione, trovare gli uomini, inquadrare le forze disperse; infine che, come scrive ancora Gramsci, si crei “fulmineamente la concentrazione ideologica dell’identità di fine da raggiungere”[32]. Tutto questo non è accaduto, l’apertura del varco ha fallito a tutta evidenza sia nel demoralizzare il nemico (che, anzi, ha recuperato rapidamente la sicurezza di sé), sia nel trovare gli uomini ed inquadrarli, e soprattutto ha fallito, e clamorosamente, nel creare la concentrazione ideologica dell’identità di fine. E lo ha fatto, precisamente, proprio perché si è limitato a trovare quel che c’era, sia in termini di quadri, sia di concentrazione ideologica. Ha creato alla fine solo “contenitori dell’ira”, che si limitavano a raccogliere l’attivismo individualista neoliberale degli anni novanta[33] e la sua attitudine alla “sorveglianza”[34]. Inoltre, facevano leva sul risentimento indirizzandolo verso figure individuali (le “caste”, le “generazioni” dei baby boomers, la burocrazia, …) anziché verso strutture di nessi e produzione di potere. Antistatalismo, disintermediazione, moralismo e profondo individualismo ne sono stati la cifra. Il riassorbimento ha sfruttato queste debolezze, l’incapacità di farsi potere, e ha ampliato la tendenza a valere come distrazione sistemica, connaturata alla cosa.

Tutti i movimenti apparentemente rivoluzionari, ma in realtà di riaffermazione della logica neoliberale, del secondo decennio del secolo in corso sono stati, con il senno di poi, movimenti “di tipo boulangista”[35]. Organizzati e nutriti dell’energia reattiva, fondati sul senso comune e su passioni rapide quanto irriflesse. Radicalmente acritici e privi sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se potevano sembrare altro, movimenti restaurativi. Come abbiamo già visto, un movimento “di tipo boulangista” viene facilmente neutralizzato, quando fallisce lo sfondamento e si incastra nelle casamatte della seconda linea. Allora queste imparano in fretta ad incorporarlo. L’esito è scritto nella sua stessa origine; esso non ha mai rappresentato un’autentica sfida sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e all’ideologia che tiene insieme lo Stato.

 

Non ci sono dunque due strade possibili, ce ne è una. Bisogna comprendere cosa è accaduto ed evitare, accuratamente, di ripeterlo. Non bisogna muoversi sempre nello stesso circolo in forma di volta in volta minore. Non bisogna limitarsi a produrre sempre più piccoli “contenitori dell’ira” senza prospettiva strategica. C’è bisogno di altro. Occorre ancora più azione politica e “filosofia della praxis”[36], che deve essere interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si noti, “trasformare”, non assorbire. Lo ripetiamo, se c’è stato un punto specifico nel quale il “primopopulismo” è divenuto solo “contenitore dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore di (nuovo) potere”, è l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Il cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto individuale su tutti. Ha fallito quando non ha davvero esercitato quella “fantasia concreta” che è capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne la volontà collettiva”.

Il senso comune deve essere invece sfidato puntando alla creazione di un blocco sociale effettivamente post-liberale capace di mettere sui suoi piedi la società, rifuggendo dalle forme di cattivo universalismo[37] che contraddistinguono la perversa teologia presente. La ricostruzione di una società materialista ‘decente’ passa necessariamente per l’autodeterminazione democratica, ovvero per l’effettiva neutralizzazione delle capacità del potere economico di tradursi in potere politico, che deve essere originario e privo di vincoli. Questa riconosce che la forza costituente è data dal conflitto politico tra le forze organizzate dei cittadini, del lavoro, delle diverse soggettività. Oltrepassa la logica dello sfruttamento che connette dominanti e subalterni. Supera la logica dello sviluppo ineguale, che spinge in basso mentre si alza. Afferma con forza, anche di fronte alle istanze che vengono dalla logica di potenza europea che l’unica forma di relazione internazionale coerente con la costituzione repubblicana è quella fondata sulla libera cooperazione e la ricerca di utili connessioni tra eguali. Quindi ammette che ciò che conta è la capacità di mutuo riconoscimento delle identità storiche e della differenza, legittima e intangibile, dei diversi ordinamenti istituzionali. Ridefinisce il concetto di ‘progresso’ come armonia e crescita democratica, capacità storica di trovarne una sintesi tra partecipazione ed emancipazione, diritto all’autodeterminazione individuale e collettiva. Passa per il rifiuto intransigente del progresso come crescita di potenza verso le altre nazioni, l’uomo o la natura. Questa ultima considerazione è tanto più necessaria quanto oggi di fronte alla natura di questa crisi si affaccia la tentazione di trattarla con i mezzi con i quali fu trattata al principio del secolo diciottesimo la crisi sanitaria, sociale e politica delle città cresciute enormemente per effetto della prima industrializzazione: come un problema di ordine sanitario e di controllo e, surrettiziamente, come un problema di ordine pubblico e di identificazione delle classi, definizione dei loro rispettivi spazi, rappresentazione della loro unità e posizione[38]. Proprio perché è in qualche misura necessario è, in altre parole, presente il rischio che l’uso intensivo di nuove tecnologie di efficientamento via controllo e raccolta informazioni venga anche impiegato ai fini di intensificazione dello sfruttamento del lavoro e di aumento di un controllo sociale pervasivo e diffuso; che si affermi un eccesso di legittimazione dei saperi ‘esperti’ di tipo ingegneristico-sanitario e manageriale chiamati a decidere su temi cruciali della vita e del lavoro in assenza di controlli democratici e pubblica discussione. Tutto questo sarà proposto come necessità e modernizzazione, dunque come progresso. Non è accettabile, va posta invece la questione di cosa, come e per chi produrre e vivere.

Bisogna affermare l’interconnessione tra interesse di classe e interesse nazionale, attraverso il costante potenziamento del mercato interno, ottenuto tramite il progressivo e costante incremento della quota salari e del costo del lavoro, la riduzione della dipendenza dalle esportazioni (ed importazioni), l’accorciamento delle catene del valore industriali. Occorre definire quale è l’interesse di classe per il quale si lavora che in questa fase dello sviluppo capitalista, nel modo di produzione mondialista e finanziarizzato, non può che essere identificato in coloro che sono periferici e incapaci di disporre delle leve di potere e capitale per definire il proprio valore. Ogni alleanza di questo nucleo maggioritario, nelle sue articolazioni territoriali dal nord al centro ed al sud, come nelle aree urbane periferiche e periurbane, nelle regioni dell’osso e in quelle costiere, nei lavori manuali come in quelli subalterni nel ciclo del valore della conoscenza, nei servizi e nel commercio, nella distribuzione, nell’immensa area dei “lavoretti”, deve essere messo in rapporto non subalterno con i ceti medi, fruitori del surplus estratto dal lavoro e in posizione d’ordine, ma ormai sfidati da presso dalla minaccia di riduzione di rango del paese (da semimperiale a semiperiferico) e di tutte le sue catene del valore, oltre che dalla macchina disgregante della modernità capitalista e della mondializzazione. Bisogna però che sia chiaro a chi spetta l’egemonia, a chi si guarda in prima istanza. Al contempo bisogna, individuare l’interesse nazionale coerente con l’interesse di classe individuato. Quindi ribadire sempre lo sforzo costante di assicurarsi un’effettiva indipendenza nel campo crescente delle lotte tra grandi poli mondiali (anche tramite adesioni tattiche momentanee).

Questo crocevia della storia apre opportunità e contiene rischi. Bisogna scegliere una posizione di non allineamento capace di una linea di politica estera flessibile che abbia come asse centrale la liberazione dalla subordinazione carolingia che sta distruggendo il paese e le sue classi subalterne in particolare e come tattica essenziale l’aumento di coesione euromediterranea. Siamo, infatti, ad un punto di discontinuità storico-epocale nel quale, da una parte, l’impatto della pandemia interviene su un tessuto di relazioni economico-politiche e financo militari già in corso di accelerata mutazione[39] nei mandati di Obama e poi nel primo mandato Trump; relazioni che hanno enormemente disequilibrato le strutture di dominio e le capacità di influenza, e minacciano di accelerare su questa strada. D’altra parte, abbiamo visto come la stessa pandemia produce effetti asimmetrici e crisi da doppio arresto (domanda ed offerta) con imponenti conseguenze sul tenore e la sostenibilità degli assetti della mondializzazione, e, per quel che più ci riguarda da vicino, sulla tenuta del quadro d’ordine europeo. Su questo secondo piano si sono, peraltro, prodotti eventi letteralmente impensabili ante la crisi: la sospensione del Fiscal Compact, con conseguente lievitazione senza limiti apparenti del rapporto di debito pubblico; la surroga della Bce all’inerzia iniziale degli stati membri e quindi degli organi europei, tramite il Peep[40]; l’improvviso lancio, dopo una lunga fase di erosione egemonica, da parte del centro carolingio di uno schema di finanziamento asimmetrico che si pone in creativa continuità con i fondi strutturali, ma, come e molto più di questi, si propone come veicolo di gerarchizzazione ulteriore e fuga in avanti sulla strada della competizione ineguale e quindi della costruzione europea come progetto compiutamente imperiale.

Come abbiamo detto le tre cose agiscono nella contingenza, per ora solo potenzialmente, in direzione di una oggettiva stabilizzazione a medio termine, rafforzata dall’esito elettorale. Stabilizzazione in primo luogo politico-ideologica, con riferimento alle élite, e in secondo economica. Ma questa stabilizzazione, con riferimento al caso italiano, in primo luogo allontana la prospettiva elettorale, soprattutto inverte quel processo, che pure si intravedeva, di scollamento delle élite medio-alte dal progetto europeo di fronte alla promessa di erogazione e, soprattutto, di stabilità. Le piazzeforti hanno tenuto. Apre inoltre una fase delicatissima che, pur senza avere un immediato sbocco politico-elettorale, presiede all’effettiva trasformazione del paese nel combinato dell’erogazione selettiva di fondi del Recovery (territoriale, funzionale e di classe) e quindi della restrizione compensativa con le connesse condizionalità[41]. Ciò avviene sotto il perdurante ricatto implicito della stabilizzazione monetaria revocabile in qualsiasi momento (ovvero della fine del Peep[42]).

Questa fase ha in definitiva una conseguenza capitale nel quale si giocherà almeno il prossimo decennio: diventa decisivo non già un velleitario scontro interno/esterno, che si autorappresenta in omogenea purezza il primo e in nefasta malizia il secondo, secondo una visione del tutto manichea dell’effettivo fenomeno della dipendenza. Bensì è decisiva la lotta egemonica per l’affermazione delle ragioni delle frazioni di ceto e aree che sono designate come vittime perché arretrate, inutili. Ne consegue che se un’alleanza tra forze collocate su un piano diverso di interesse e posizione strutturale, oltre che culturale, ma egualmente se pur differentemente penalizzate è sempre astrattamente necessaria, per fare maggioranza, il cambio di fase, rende necessario uno spostamento di accentuazione. In una fase di ristrutturazione così pronunciata, nella quale torna possibile ‘acquistare’ la fedeltà di alcuni per meglio comprimere altri, occorre preliminarmente che a farne le spese non siano i soliti e tutto non si riduca ad un’accelerazione della trasformazione neoliberale. Anzi di quella “ordo” liberale.

Non c’è quindi altra via se non il lavoro determinato e paziente di creazione di soggettività e comunità politiche che esprimano una nuova visione del mondo. Né tale visione, al pari della leadership, può calare dall’alto, come hanno dimostrato i fallimenti cui sono andati incontro esperimenti politici che hanno scelto questa strada. Servono, al contrario, un lavoro sistematico di interpretazione e di rottura, l’azione concreta sui territori, l’immersione nelle controversie del proprio tempo, la fatica del dialogo con i diversi e con i vicini.

Ad una fase di discontinuità si risponde riadattando strumenti e visione. La semplice durezza dello scontro, sui molteplici piani accennati, non consente di navigare nella nebbia, contando di evitare gli scogli. Bisogna portare a prua una lampada. Ma soprattutto è necessario che i piloti ed i vogatori abbiano chiaro per quale trasformazione sociale si sta lavorando. La cosa è stata fino ad ora tutto sommata vaga; una sorta di esercizio astratto, che, tanto c’era il pilota automatico. Si raccoglievano le forze un poco a caso, nel crescente bacino dei cosiddetti “perdenti della mondializzazione”, avendo come principale alleato il crescente scatenamento degli spiriti animali del capitalismo naturalmente polarizzanti e divaricanti tra ceti e territori. Ma ora si prepara una fase nella quale il principio di ordine, munito sia di carota come di bastone, torna capace di cooptare i meno deboli contro i debolissimi. La modifica di fase nel progetto europeo, che muta di spalla al fucile ma conserva lo stesso bersaglio, rende, in altre parole, oggi necessario sapere a chi si vuole vadano le risorse e a chi non vadano tolte. Nella semplice aritmetica che vede qualcuno necessariamente perdere. Nella quale non ci sono solo competitori, ma proprio nemici. Nella quale non è questione di agonismo, ma di antagonismo.

È l’unica via perché sia possibile, un giorno, a creazione di un blocco sociale post-liberale che lavori per una società materialista decente.



[1] - Carlo Formenti (a cura di), “Dopo il neoliberalismo. Indagine collettiva sul futuro”, Meltemi 2020.

[2] - La concorrenza primaria è tra la potenza economica, geopoliticamente compatta, cinese e la potenza americana, incapace di altrettanta coesione e quindi nel medio termine in svantaggio. Ma ci sono anche conflitti secondari per l’analisi dei quali rinvio agli interventi in questo libro, in particolare quelli di Carlo Galli, Pierluigi Fagan e Raffaele Sciortino.

[3] - Cfr. Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020.

[4] - Sul neoliberismo come forma d’ordine la letteratura è ormai sterminata, per una trattazione classica si veda Pierre Dardot, Christian Laval, “La nuova ragione del mondo”, Derive e Approdi 2013.

[5] - In un interessante testo riedito di recente il teologo sudamericano Hugo Assmann denuncia che la particolare forma della razionalità economica ha “sequestrato e reso funzionale certi aspetti essenziali del cristianesimo”, creando una sorta di “religione economica” la quale in effetti ha una stretta relazione con processi di “idolatria”. Dal punto di vista cristiano è, cioè, una forma di adorazione di falsi dei. Si tratta di un’adorazione di dei sotto forma mascherata, soprattutto per il carattere di “buona novella” che vi riveste la promessa di un’autoregolazione senza intervento umano, attribuita agli interventi di mercato. Questa idolatria è connessa strettamente ed internamente ad una sorta di “ideologia sacrificale”, ovvero al fabbisogno continuo di sacrifici umani. In altre parole, nella forma di vita sociale creata dalla ‘religione economica’ neoclassica, quando vince e prevale, la vita concreta è sacrificata sistematicamente. Hugo Assmann, “Idolatria del mercato”, Castelvecchi 2020.

[7] - Per una ricostruzione del modello interpretativo dei cicli storici in Arrighi rimando ad Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[8] - Vedi Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, la crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013

[9] - Una recente ricostruzione, se pur di parte liberale, si può leggere in Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, Il Mulino 2019.

[10] - Intendo per “piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi, coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (e in ultima analisi possibile).

[11] - ‘Ciclo Polanyi’ è la più ampia fase storica di rovesciamento della legittimazione e dei poteri ormai non più in grado di contrastare o minimizzare la propria tendenza alla disgregazione del sociale. Il riferimento è alla fase almeno trentennale di reazione al crollo del primo ciclo di mondializzazione ad egemonia inglese nell’ultimo quarto del XIX secolo e all’avvio del XX. Una risposta che prese il secondo e terzo decennio del secolo, e che poi troverà una stabilizzazione provvisoria nel dopoguerra ad egemonia statunitense. Si può leggere in proposito Karl Polanyi, “La grande trasformazione”,

[12] - Un ciclo populista è la forma politica, che vive della caduta di legittimazione, ma necessita di un’espressione specifica per addensarsi, dunque ne dipende.

[13] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, 10.

[14] - David Quammen, “Spillover”, Adelphi Edizioni 2012.

[15] - Ovvero la selvaggia, se pur progressiva, compressione del sistema pubblico di sicurezza (sanità, istruzione, sistemi territoriali ed a rete) in modo da esporre i lavoratori “alla durezza del vivere”, e ridurne le pretese.

[16] - Alle prese con la formazione di bolle creditizie non dissimili da quelle verificatesi, e continuamente, nell’occidente capitalista.

[17] - Probabilmente a vantaggio di forme di intrattenimento remote, semigratuite o ad abbonamento, ma la cui dinamica distributiva e produttiva si presenta e presenterà del tutto diversa.

[18] - Per il concetto di luogo “denso” bisogna focalizzare una rete organizzata intorno a “nodi” discontinui nei quali in sostanza si svolge l’azione globale. Questi nodi sono la dimensione globale di alcune grandi città (e le istituzioni pubbliche e private che le mettono in azione come globali) o alcune istituzioni specializzate, o reti di militanti e di ONG. Si tratta di nuove classi globali “incapsulate” in ambienti densi e localizzati, e “mono-logiche”. Questi attori per Sassen si muovono in un nuovo ambiente tecnologico, sintetizzato dal termine “era digitale”, che è insieme globale e uniformante e profondamente “embricato” con il non-digitale. Le reti digitali destabilizzano vecchie gerarchie senza produrne di nuove ancora pienamente formalizzate. Introducono una nuova logica operativa, ma sono strettamente legate a pratiche, competenze ed ambienti sociali densi che le rendono possibili. Sono la sede di proliferazione di una subcultura internazionalizzata, fatta di dipartimenti di economia e finanza e di centri studi di imprese finanziarie e think thank ben finanziati, che è al centro “dell’eruzione” di nuovi concetti e pratiche a partire dagli anni ottanta. Una insorgenza che ridefinì sostanzialmente la narrazione di ciò che è sicuro e di cosa è adeguato. Questo allargamento si appoggia su un’aggregazione di “comunità di pratiche” diffusa e condivisa a livello globale.  Cfr. Saskia Sassen, “Territorio, autorità, diritto. Assemblaggi dal medioevo all’età globale”, Bruno Mondadori, 2008 (in particolare, p.436).

[19] - Mentre alla metà degli anni sessanta e nei primi settanta la stratificazione sociale corrispondeva ad una distribuzione con una ristretta base (nell’ordine del 15% o meno) di ceti disagiati, un ristretto vertice di abbienti o molto abbienti ed una vasta classe media, da tempo la stessa immagine si è rovesciata, sono cresciuti i ceti disagiati, superando il 30% e si è asciugata la classe media, riproducendo l’immagine di una clessidra.

[20] - Basati su consumi gratuiti, erogati per lo più attraverso l’onnipresente rete internet, i social, ed in questo senso virtuali, ma dagli effetti molto concreti. Si veda Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss, 2019.

[21] - Si tratta della doppia tendenza, e contrastante, ad attrarre e quindi concentrare le attività nei centri densi per fruire delle ‘economie di agglomerazione’ (facilità di trovare i fattori di produzione, i clienti, le idee) e di diffondere sul territorio la parte più debole delle imprese e dei lavoratori alla ricerca di costi di localizzazione più contenuti. I due fenomeni trovano un sempre precario equilibrio, tra gentrificazione urbana e sprawl, che è influenzato in modo decisivo dalle specializzazioni urbane, dalle infrastrutture, dalla dinamica della concorrenza tra centri. Fino ad ora abbiamo assistito al prevalere della agglomerazione sulla diffusione ed alla crescita delle città di rango internazionale, o, almeno, dei loro valori immobiliari e non. Abbiamo assistito anche, e i due fenomeni sono connessi, alla tendenza alla diffusione delle frazioni più necessarie, ma anche più deboli in quanto più esposte alla concorrenza, del lavoro e, quindi, alla crescita del pendolarismo e dell’incidenza degli users urbani.

[22] - Si veda, in una sterminata bibliografia, il classico Saskia Sassen, “Città globali. New York, Londra, Tokio”, Utet, 1997.

[23] - La catena degli effetti più facilmente inquadrabile, se non interrotta da massivi investimenti pubblici, è che la riduzione di attività porterebbe immediata crisi della finanza pubblica locale (come sta accadendo a New York) e questa per bilanciare dovrebbe ridurre i servizi almeno in alcuni quartieri periferici. Ma questo effetto, già visibile in alcune città americane, produce effetti alone disastrosi, esattamente di segno contrario al fenomeno della gentrification, tende a creare slums e questi a riverberarsi sui valori, e quindi le attività, delle zone limitrofe. Le città si spopolerebbero con maggiore velocità e comincerebbe a porsi (come è avvenuto in Germania dell’est) il problema del loro ridimensionamento fisico.

[24] - Infatti, l’economia urbana è ormai grande parte dell’economia mondiale, ed è interamente finanziarizzata. La inversione di segno della crescita, e soprattutto la percezione che questa permarrà nel medio o lungo periodo (in caso i dispositivi di lavoro remoto dovessero, come molti sostengono, diventare la nuova normalità anche a crisi sanitaria superata), per solidissime ragioni di equilibrio economico (se devo lavorare in remoto mi conviene vivere dove la vita costa meno), provocherà, quando sfonderà il muro dell’inerzia cognitiva, un immediato crollo delle piramidi di valore (titoli Cdo, Mbs, Abs, Cds) che sono sin dall’inizio, ovvero dalla costruzione, connesse con la costruzione della città contemporanea. E questo rappresenterà, esattamente per la stessa via, l’innesco di una crisi.

[25] - Per distinguerlo dalle forme populiste completamente inserite nella fase precedente, nella quale era ancora presente una qualche stabilità, in Italia la prima Lega, Forza Italia e via dicendo.

[26] - Il veleno è la disgregazione sociale, individualismo ‘post-materialista’, dominio dei nuovi media disintermedianti, discredito delle élite, snellezza, leaderismo.

[27] - Si veda in proposito l’analisi di Nadia Urbinati, “Democrazia in diretta”, Feltrinelli, 2013.

[28] - Molto sinteticamente, il voto del 4 marzo del 2018 ha rappresentato la prima espressione elettorale maggioritaria della reazione alle politiche di austerità. Rappresentava non solo l’alleanza tra i due partiti antisistema presenti, ma anche tra i ceti e i frammenti di classe marginali delle due parti del paese. Ma giunti al governo i due partiti hanno avuto entrambi, seppur in tempi diversi, una torsione trasformista.  Dopo la caduta del primo governo, il M5S ha formato un nuovo governo con il nemico storico mentre la Lega, sotto la spinta della sua base sociale e del corpo del partito, sta rinnegando tutte le politiche antieuro. Il campo politico che aveva trovato rappresentazione il 4 marzo si è quindi destrutturato, lasciando spazio ad una ripolarizzazione a destra e sinistra che, entrambi, integrano elementi di populismo.

[29] - Il riassorbimento in corso prende forma in Spagna nella partecipazione di Podemos al nuovo governo con il Ps e in Italia sia nella partecipazione subalterna del M5S al governo, sia nell’evoluzione della Lega. Ma è radicato profondamente, quindi non è congiunturale, nel fallimento strategico sfruttato dai “contenitori di potere” nazionali ed internazionali che hanno compreso come incorporare frammenti “populisti” innocui.

[30] - Rimando ai capitoli centrali di Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[31] - La metafora è notoriamente dovuta ad Antonio Gramsci (“Quaderni dal Carcere”, Vol. II, quaderno 7, “Appunti di filosofia”, 60 bis.) per il quale “lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”. In conseguenza “la società civile è diventata una struttura molto complessa e resistente alle ‘irruzioni’ catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni, ecc.)”. Durante le grandi crisi economiche, il ‘fuoco di artiglieria’ della crisi stessa non riesce a travolgere la linea difensiva profonda, che resta efficiente. Nell’immagine gramsciana accade che “né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.” (Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18).

[32] - Antonio Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Vol III, Quaderno 13, “Noterelle sul Machiavelli”, $ 24, 18

[33] - Si legga Colin Crouch, “Postdemocrazia”, Laterza, 2003

[34] - Si legga Pierre Rosanvallon, “La politica nell’era della sfiducia”, Città aperta edizioni, 2009.

[35] - Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. Per Gramsci quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare: 1. il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2. che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi; 3. quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono; 4. quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto; 5. e solo alla fine giovarsi dell’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono.

[36] - Concetto che Antonio Gramsci rilancia, prendendolo dalla tradizione marxista e in Italia dalla lezione di Antonio Labriola.

[37] - Si veda Assmann, cit.

[38] - Si veda, Giovanni Cerami, Alessandro Visalli, “Parigi 1840-1869. Haussmann e la reinvenzione della città”, Cru. Critica della razionalità urbanistica, nº 2 – 1994. Anche in, “Nella fertilità cresce il tempo”, agosto 2014, http://tempofertile.blogspot.com/

 

[39] - Con la ripresa di ruolo della Russia, il ciclo bolivariano, l’ascesa cinese ed i riposizionamenti nell’area estremo orientale, la penetrazione africana delle opposte linee di influenza.

[40] - Si tratta del programma Pandemic Emergency Purchase Programme, varato dal Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea, e dotato di 750 miliardi, poi incrementati di ulteriori 600, per acquisti di titoli di stato anche oltre la soglia statutaria del 33% per singolo Stato membro. La misura può essere estesa anche ai titoli eventualmente emessi dalla Bei o dal Mes. L’attuale scadenza è giugno 2021.

[41] - Anche essa territoriale, ma nelle aree di diradamento, funzionale sull’asse esport/mercato interno, ma anche innovazione/arretratezza, e, infine, di classe -dove la cosa in attesa di migliori descrizioni si deve interpretare sul duplice asse centro/periferia, per aree dotate di coerenza interna, e alto/basso in relazione all’autoidentificazione e disponibilità di classe.

[42] - A ben vedere è molto probabile che il carattere eccezionale e irrituale dello stesso strumento messo in campo dalla Bce, che qualunque Board può revocare, determina una struttura ricattatoria implicita, probabilmente ben nota nei suoi termini dagli addetti ai lavori.

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