Per
i tipi di Meltemi, collana Visioni Eretiche, diretta da Carlo Formenti,
è uscito nel 2019 questo impegnativo libro, sotto la poco usuale
forma di un dialogo tra le due autrici. Il testo affronta l’ambiziosa impresa
di fare il punto su come si possa sviluppare oggi una descrizione generale ed
una critica al capitalismo. Le due autrici hanno una formazione piuttosto diversa:
Nancy Fraser, settantadue anni, insegna scienze politiche e sociali e filosofia
alla New School di New York, è Presidente della divisione est dell’American
Philosophical Association, è stata a lungo condirettore di Constellations[1]. Dal punto di vista
accademico e della influenza editoriale è certamente una donna di potere. Laureata
nel 1969 e dottorata nel 1980, attraversa biograficamente tutta la parte
ascendente del movimento libertario americano. Si specializza nel corso degli
anni novanta nell’articolazione del concetto di “giustizia”, per il quale
distingue due dimensioni reciprocamente separate, ma correlate: la giustizia
distributiva e la giustizia del riconoscimento. Seguendo la traccia
di questa concettualizzazione la Fraser è giunta al termine a sostenere che i
movimenti identitari, concentrati sul riconoscimento di diverse identità di
gruppo all’interno della società, hanno compiuto l’errore di trascurare l’altra
dimensione correlata della distribuzione. Di qui è passata a criticare il
femminismo liberale, come abbiamo visto in alcuni suoi recenti articoli[2], come in un libro del 2013[3] e nel recente manifesto “Femminismo
per il 99%”[4].
Ad esempio, "Come il femminismo divenne ancella del capitalismo”, un
articolo del 2013 su The Guardian ha scatenato un aspro dibattito nel
quale si sono confrontate posizioni che identificavano l’eguaglianza di salari
sul lavoro come lotta per la distribuzione e accuse di voler tornare agli anni
settanta ed a un’impostazione marxista che ‘imprigiona la mente’. La provocazione
della Fraser era rivolta al cosiddetto “femminismo della seconda ondata”, che,
nella sua ossessiva concentrazione sulla critica del capitalismo statocentrico e
welfarista del compromesso fordista (del quale criticava il welfare ‘patriarcale’
e ‘fallocratico’, e le organizzazioni connesse, sindacati inclusi) ha finito
per farsi arruolare nell’esercito del suo nemico: il capitalismo neoliberale. O,
secondo il linguaggio sessista della nostra “è diventato la sua ancella”. La critica
avanzata era ambivalente, da una parte si trovavano le forme di solidarietà
sociale e di potenziamento democratico, dall’altra il potenziamento dell’autonomia
individuale e la promozione della scelta e avanzamento meritocratico. Alla fine
il femminismo, nella critica della Fraser, si è reso disponibile ad essere utilizzato
a portare acqua al neoliberismo. Gli ha conferito ‘carisma’. E non è stato un
ruolo passivo, tutt’altro: il femminismo ha contribuito con tre idee importanti
allo sviluppo dell’egemonia neoliberale: la critica al “salario familiare” ha
finito per legittimare il ‘capitalismo flessibile’ che, in pratica, ha
abbassato il salario a tutti (in modo che ora lavorano in due guadagnando
spesso meno di quanto prima guadagnava uno). L’accesso delle donne in massa al
lavoro ha scardinato il patto sociale del lavoro. Il secondo contributo
decisivo è stato la critica (condivisa con tanta parte della ‘nuova sinistra’)
all’economicismo marxista che ha finito per buttare bambino ed acqua. La politicizzazione
del “personale” ha finito per andare nella stessa direzione in cui andava la
critica neoliberale all’egualitarismo economico welfarista. Il terzo è stato l’attacco
diretto al paternalismo dello Stato Sociale, che era esattamente quel che
contemporaneamente faceva il neoliberismo per mercificare completamente la vita
di tutti e tutte, esponendoli senza filtri alla durezza della vita. Si tratta
della formazione, più in generale, di quel modello ideologico di grande potenza
che qualche anno dopo, chiamerà “neoliberismo progressista” individuando in
esso una sorta di paradossale ‘astuzia della storia’[5].
Invece
Rahel Jaeggi, che ha giusto venti anni di meno, insegna filosofia pratica e
morale all’Università Humboldt di Berlino. Si occupa di tipici temi filosofici,
come l’antropologia filosofica, l’ontologia sociale e la teoria critica. Dal
1996 al 2001 è stata assistente di ricerca di Axel Honneth[6], l’ultima generazione
della Scuola di Francoforte ed allievo di Jurgen Habermas. La sua tesi di
dottorato è stata scritta sul poco tradizionale tema della “alienazione”
(concetto da tempo espulso dall’accademia tedesca); si occupa di crisi del
capitalismo e della democrazia ricevendo anche finanziamenti dalla Humanities
& Social Change International Foundation di area Spd. Oltre alla tesi
di dottorato, pubblicata con il titolo “Alienazione”[7], ed il libro in oggetto,
ha pubblicato l’interessante “Forme di vita e capitalismo”[8].
All’avvio
la conversazione riconosce che c’è un notevole ritorno in auge della critica
del capitalismo causata dalla grave crisi sistemica in corso. La critica del capitalismo,
come ricorda la Jaeggi, era cruciale per la teoria critica francofortese ma fu da
questa in seguito abbandonata dopo l’estremo tentativo (ed al contempo la
liquidazione) compiuto da Habermas in “Teoria dell’agire comunicativo”[9]. Da allora la teoria
critica è diventata semplicemente l’ala sinistra del liberalesimo, sospendendo
definitivamente il dubbio se si possa ancora domare il capitalismo. Ovvero si è
adeguata a quel tentativo che per la Fraser è stato condotto dal liberalesimo
novecentesco e dal post-strutturalismo francese di togliere di mezzo la
problematica dell’economia politica.
Questa
è la situazione. Per la Jaeggi, ma in questo in accordo con la sua collega, però
non è solo un male perché il superamento dell’economicismo riduzionista delle
teorie marxiste ha lasciato lo spazio per esplorare una “vasta gamma di
questioni culturali, come il genere, la razza, la sessualità, e l’identità”. Tuttavia,
per entrambe “ora bisogna ripristinare l’equilibrio”, per non perdere di
vista l’importanza del lato economico nella vita sociale. Qui nasce l’approccio
“sia/sia” della Fraser, ed il suo tentativo, per il quale spenderà le
pagine centrali del libro, di “complicare, approfondire e arricchire quella
critica [economica] incorporando [in essa] le intuizioni del pensiero
femminista, della teoria culturale, del post-strutturalismo, del pensiero
postcoloniale e dell’ecologia”[10]. Cercando, cioè, al
contempo di non trascurare i motivi strutturali delle tendenze di crisi
legate al decentramento della produzione industriale nel nord del mondo,
all’ascesa della economia della conoscenza, alla centralità della finanza e
dell’informatica ed in generale al lavoro simbolico. Si tratta, in altre
parole, di un recupero di elemento di critica dell’economia politica
condotto dall’interno del quadro logico ed assiomatico di un paradigma
che oltre quaranta anni fa l’ha espulsa[11], accusandola di
“economicismo”. Vedremo al termine se questo tentativo raggiunge il suo scopo.
L’obiettivo
politico fondamentale è quello di cercare di costruire una piattaforma
interpretativa che crei le condizioni per quella che la Fraser chiama una
“alleanza controegemonica”, tra quelle forze politiche e sociali, che spesso si
contrappongono, concentrate rispettivamente sulla distribuzione e sul
riconoscimento. Da una parte i progressisti, sulla base materiale delle
nuove professioni e del “capitalismo cognitivo”, hanno sviluppato nel tempo un’acuta
attenzione all’emancipazione individuale ed al riconoscimento, dall’altra
permangono e da tempo si rafforzano tendenze alla rivendicazione della
protezione sociale. La stessa mossa con la quale si sono vendute come
sensazionali ed esteticamente interessanti (Jaeggi parla di problemi
interessanti, sexy e ‘bohemien’) i temi della sessualità oppressa,
dell’identità non eteronormative o non cisgender, è quella che ha abbandonato i
più grigi temi del lavoro e della classe. Temi fattisi “assolutamente noiosi”. Ma
la desiderata alleanza tra emancipazione e protezione sociale passa per una
presa di posizione anche verso la questione della ritirata della
globalizzazione.
È molto netta la posizione delle nostre sul punto: la lampada della mondializzazione non può essere spenta. E quindi “la protezione sociale non può essere immaginata in un quadro nazionale”[12]. Sia perché ci sono sfide globali come il riscaldamento, sia perché il modello del capitalismo a gestione statale non riusciva comunque ad eliminare le ineguaglianze, oltre a sfruttare il terzo mondo. Funzionava trasferendo valore dalla periferia al centro. Non è dunque un modello (peccato che quello che è venuto dopo ha fatto peggio sotto tutti i profili, incluso lo sfruttamento imperialista[13]). Ripetendo quello che è uno dei più classici giri di pensiero del progressismo occidentale, le nostre ripetono insieme il mantra rassicurante (e identificante una tribù influente e vendicativa) che se il capitalismo “è, ed è sempre stato, una dinamica globale. [allora] Qualsiasi soluzione possiamo trovare, anche progettata per promuovere tipi di autonomia a livello nazionale o locale, dovrà essere sviluppata con questa dinamica globale in mente”. Nell’urgenza di difendersi dal rischio di debolezza ed intelligenza con il razzismo, xenofobia, misoginia, e dal populismo di destra che li rappresenta ed utilizza, ma consapevoli dell’insostenibile erosione in corso, il dilemma posto dalla discussione tra le due filosofe diventa se asserragliarsi a difesa delle conquiste libertarie, scontando anche un rafforzamento dell’alleanza con le forse progressiste (soluzione verso la quale inclina la Jaeggi). Oppure passare all’offensiva e cercare di costruire un nuovo blocco controegemonico. Il progetto che la Fraser chiama del “populismo progressista”.
“Combinando in un unico progetto un
orientamento economico egualitario e a favore della classe lavoratrice con uno
di riconoscimento non gerarchico e inclusivo, questa formazione avrebbe almeno
una possibilità di combattere unendo l’intera classe lavoratrice: non solo le
frazioni storicamente associate all’attività manifatturiera e all’edilizia, a
cui i populisti reazionari e i tradizionalisti di sinistra si sono
principalmente rivolti, ma anche quelle parti della classe lavoratrice più
ampia che svolgono attività domestiche, agricole e di servizi – retribuiti e
non retribuiti, in aziende private e in case private, nel settore pubblico e
nella società civile -, attività a cui le donne, immigrati e persone di colore
sono fortemente rappresentati. Corteggiando entrambi i segmenti, l’espropriato
e lo sfruttato, un progetto populista progressista potrebbe posizionare il
lavoro di classe, inteso in modo espansivo, come la forza trainante in
un’alleanza che comprende anche i segmenti sostanziali di giovani, la classe
media e lo strato professionale-manageriale”[14].
A
questo progetto, così abbozzato (appunto sia/sia), la Jaeggi oppone la
sensazione che la situazione politica sia mossa dal risentimento proprio
verso il progressismo, causato non tanto dalla perdita
di status e risorse, quanto dalla percezione di subire una insopportabile impotenza e per questo
di essere moralmente in credito. Il ressentiment è, sotto questo profilo, un
meccanismo di difesa, ma è anche una regressione. Ne consegue, come dice, che:
“non serrare i ranghi con i neoliberali progressisti per difendere i risultati
emancipatori ottenuti potrebbe presentare dei rischi”.
La
divergenza fondamentale tra le due si situa su questo punto. Si tratta quindi
di due diverse agende politiche. Una delle quali, la seconda, è una
versione del “male minore”, l’abituale postura della sinistra riformista, che
rischia di ridursi al ruolo di ventriloquo degli obiettivi liberali. Il punto
della Fraser è che questo atteggiamento, che del resto abbiamo visto
abbondantemente all’opera negli ultimi decenni, “fertilizza” il terreno sul
quale cresce il risentimento. Alimenta esso stesso la rabbia, quindi è
controproducente. Inoltre, e questo argomento ha decisamente peso, liberalismo
e ‘fascismo’ non sono realmente opposti, ma restano due facce simmetriche se
pur non equivalenti, delle medesime dinamiche sistemiche del capitalismo.
Sono entrambi i prodotti di un capitalismo sfrenato che destabilizza mondi
vitali e habitat. Forze liberali e controforze autoritarie sono legate
reciprocamente, “così, lungi dall’essere l’antidoto al fascismo, il (neo)
liberalismo ne è complice”, scrive la Fraser. Ovviamente questa diagnosi è
possibile solo se si recupera uno sguardo sistemico e funzionale della
situazione data, ovvero, come dice la nostra, se si riprende in mano l’economia
politica. Nel momento in cui l’abbandoni e ti concentri sulla emancipazione
individuale non è più visibile. Questo è, precisamente, ciò che è avvenuto.
Del
resto, oggi il neoliberalismo è ancora al potere, ma ha perso egemonia. Quindi
si sommano la crisi materiale e quella egemonica, e si aprono opportunità (e
rischi). La prima relatrice vede soprattutto i primi, la seconda vede gli
altri.
Ma
ora andiamo con più ordine a cercare di capire di cosa parla il testo. Si parte
con una breve discussione sulla definizione del termine “capitalismo”,
etichetta che riassume cose abbastanza diverse come il “capitalismo competitivo”
della prima parte del XIX secolo e il “capitalismo monopolistico” del XX secolo
(o, nel linguaggio marxista, include diversi e successivi modi di produzione).
Ci sono, insomma, molte varietà di capitalismo che è un fenomeno storico
mai uguale a se stesso. Nel tentativo di individuare le caratteristiche
fondamentali del capitalismo, dunque, la Jaeggi propone la costanza di due
elementi:
1- la
proprietà privata dei mezzi di produzione, che a sua volta implica
divisione di classe tra proprietari e produttori;
2- la
presenza dell’istituzione del mercato del lavoro libero;
3- la
dinamica dell’accumulazione del capitale basata su un
orientamento interno all’espansione.
Una
definizione classica, dunque. Una delle cose più rilevanti è che in questa
formazione sociale è presente una spinta sistemica oggettiva verso
l’accumulazione del capitale, ovvero all’autoespansione del valore. Con
riferimento alla presenza di mercati la Jaeggi sottolinea che si tratta di una
relazione intrecciata e complicata, in quanto il capitalismo è molto più di una
“società di mercato” e i mercati sono esistiti ben prima dello stesso. Altrettanto,
sostiene, “potremmo pensare a una società socialista che include meccanismi di
mercato”[15].
Di
qui la lettura dell’americana procede a indicare nella mossa critica di Marx
nei primi capitoli de “Il Capitale”, l’individuazione della forma di
merce come caratteristica del capitalismo in quanto intreccio di mercati, ma,
più in profondità della creazione del valore nel laboratorio della produzione.
Ovvero la comparsa del valore come risultato dello sfruttamento (dell’appropriazione
di plus-valore). Quindi Marx sarebbe incline a “sostituire l’attenzione allo
scambio di mercato tipica dell’economia politica borghese, con un più profondo
e critico focus sulla produzione”.
Mettendo
da parte questa questione, la discussione passa a concentrarsi sul problema
dell’esistenza sistematica di aree che sono escluse dal mercato, sono ai
margini del circuito delle merci, agiscono sulla base di altre metriche. Una
condizione che spinge, o trattiene, masse enormi nell’informale, nel
non-mercificato. L’interpretazione di questa condizione che il testo propone è
che anche qui si tratta di una dimensione sistemica del capitalismo. “Una
caratteristica insita nel DNA del capitalismo – per la Fraser –. In effetti la
‘coesistenza’ è un termine troppo debole per cogliere la relazione tra gli
aspetti mercatizzati di una società capitalistica di mercato e quelli non
mercatizzati. Un termine migliore potrebbe essere ‘embricatura funzionale’ o,
ancora meglio e più semplicemente, ‘dipendenza’”. In sostanza, come sostiene
Polanyi, la società non può essere merce e i mercati dipendono da relazioni
sociali non mercatizzate che forniscono le condizioni di possibilità
psicologiche e materiali. Se la società fosse interamente mercatizzata non
funzionerebbe. O renderebbe impossibile trasmettere un ethos ad essa
necessario. Se accadesse, in altre parole, si creerebbero quelle che la Jaeggi,
spostandosi sul piano normativo, chiama “gravi contraddizioni immanenti”.
E
proprio in questo punto viene inserito il focus tematico femminista della riproduzione,
intesa in modo molto largo come tutte quelle forme che “producono e mantengono
legami sociali”, e consistono nella ‘tutela’, nel ‘lavoro affettivo’, nella
formazione di soggetti umani come esseri incarnati e come esseri sociali. Qualcosa
che forma il loro habitus e la loro sostanza socio-etica nella quale si
muovono. Si tratta, cioè, del lavoro di socializzazione dei giovani, della
costruzione di comunità e di produzione e riproduzione di significati
condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti di valore che sostengono la
cooperazione sociale. Il punto è che, parla la Fraser, “nelle società
capitaliste molta (anche se non tutta) quest’attività continua al di fuori del
mercato – nelle famiglie, nei quartieri, nelle associazioni della società
civile e in una serie di istituzioni pubbliche, tra cui scuole e centri di
assistenza all’infanzia e agli anziani”[16].
In
questa formulazione così ampia si tratta di una presa di posizione
indiscutibilmente corretta. Ma, se pure alcune di queste attività indispensabili
e non mercatizzate (non mercatizzabili) sono comparativamente svolte in misura
maggiore da donne, nessuna è specificamente ed esclusivamente femminile. Non
solo le donne creano e mantengono i legami sociali, svolgono ‘lavoro
affettivo’, formano esseri umani e li socializzano, costruiscono comunità e
producono significati, disposizioni affettive e orizzonti di valore. Non solo
le donne sostengono la cooperazione sociale.
Ma,
e in questo ovviamente la mia distanza dal femminismo, io dico di più: non lo
fanno principalmente le donne, e non lo fanno maggiormente le
donne. Ovviamente lo fanno sia le donne sia gli uomini, e, naturalmente, lo
fanno diversamente. Rivendico, in altre parole, anche come padre oltre
che come essere sociale e buon amico, parte responsabile di una comunità umana,
la mia capacità, pur non essendo donna, di produrre e mantenere legami sociali,
di amare e essere capace di tutela dei più deboli e dei vicini e parenti, di
contribuire per la mia parte a formare soggetti umani come esseri incarnati e
come esseri sociali. Rivendico la mia capacità di comprendere e rispettare l’habitus
nel quale viviamo e la sua sostanza socio-etica. Di essere parte della socializzazione
dei giovani, della costruzione di comunità e di produzione e riproduzione di
significati condivisi, di disposizioni affettive e orizzonti di valore che
sostengono la cooperazione sociale.
Ma
torniamo al testo. In genere il femminismo per “riproduzione” intende
strettamente l’allevamento dei nuovi esseri umani come forza lavoro (per cui, schematicamente,
se non ci fossero le madri a tutta evidenza non ci sarebbero i figli, non
crescerebbero, e dunque non ci potrebbero essere lavoratori). Una funzione che nella
prospettiva tradizionale del cosiddetto “salario familiare”[17] è femminilizzata. Se fosse
tutto qui il femminismo sarebbe una battaglia di retroguardia, in quanto le
condizioni di riproduzione sociale per l’accumulazione lo hanno superato da
tempo. Come abbiamo visto è tramontato come modello normativo e socialmente
dominante con l’insorgere dell’accumulazione flessibile nella quale si è passati
ai due salari e quindi alla ripartizione del lavoro su entrambi i ruoli. La
Fraser propone perciò una versione molto allargata del termine, quella sopra
schematizzata, al fine di rendere ancora possibile la critica femminista in un
mondo nel quale in linea di principio tutti lavorano (se pure male). Un mondo
nel quale sembra si sia riprodotta quella condizione denunciata da Angela Davis
in “Donne, razza e classe”[18] per la quale donne e
uomini erano del tutto equivalenti, in tutti i lavori, perché visti dai padroni
di schiavi dei paesi del sud solo come forza lavoro.
Da una parte la ‘riproduzione’ sociale comprende ora in senso larghissimo la creazione, socializzazione e soggettivazione degli esseri umani, in tutti i loro aspetti. Quindi “anche la realizzazione e il rifacimento della cultura, delle varie aree dell’intersoggettività in cui gli esseri umani sono inseriti – le solidarietà, i significati sociali e gli orizzonti di valore nei quali e attraverso i quali vivono e respirano”. Dall’altra resta appannaggio femminile. In pratica, detto in altro modo, per la visione sessista della nostra le donne sono esseri umani completi e gli uomini solo forza lavoro. Si tratta chiaramente, nello sforzo di restare femminista riconoscendo al contempo che la lotta allo stato fordista è un residuo e un rischio, di gettare una rete così ampia che la Jaeggi, con una certa malizia che ricorrerà qui e lì nel lungo testo, gli chiede se vuole incorporare nella prospettiva femminista anche tutta la problematica foucaultiana della creazione del soggetto e quella bourdieusiane dell’habitus, insieme ai neohegeliani con il termine sittlichkeit.
Quasi, o forse proprio, senza accorgersi che la collega la sta accusando benevolmente di fare minestroni di difficile digeribilità la nostra conferma di “stare stendendo deliberatamente un’ampia rete”. Tanto ampia che, aggiungo, oltre ai divergenti pensatori citati ci sarebbe appunto da chiedere che c’entri il femminismo in sé. Ma per lei si tratta di costruire quella che chiama una “concezione espansa” del capitalismo per fare spazio e a tutte queste tradizioni interpretative. La divisione tra riproduzione sociale, in questo senso totalizzante, e la produzione di merci sarebbe quindi fondamentale per il capitalismo, e contemporaneamente ne sarebbe un artefatto (cosa che storicamente può essere sostenuto in modo arduo). Ma, di più, “questa divisione è completamente di genere, essendo la riproduzione associata alle donne e la produzione agli uomini”. Per l’appunto le donne sono esseri umani completi e gli uomini solo forza lavoro. Nel senso che sono forza lavoro entrambi (come era per gli schiavi), ma le donne in più creano anche la società.
O
è così, o in questo passaggio, sul quale la Jaeggi ha una delle sue divergenze,
in effetti la Fraser slitta inavvertitamente indietro sulla sua stessa
definizione. La riproduzione e la dipendenza sarebbero ricondotte all’assenza
del salario, e quindi alla base della cura dei figli. La più larga riproduzione
sociale e dei significati ne diventa un effetto derivato (come l’intera umanità,
in effetti). Questo che è il nodo centrale, costantemente ripreso allo stesso
livello di incoerenza interna in tutti i suoi testi, suona misandrico (o,
forse, solo espressione di una comunità di trauma). L’affermazione è
contemporaneamente superata dai tempi (ormai la famiglia standard, quando
non è monocomposta è bisalariata) e limitata ad una dimensione
importante, ma non ampia come quella descritta nelle pagine precedenti. Infatti,
se si può ben dire che dove permane la condizione per la quale il “salario
familiare” è appannaggio di un solo partner, come nella forma socio-economica
fordista, l’altro è in condizione strutturale di dipendenza (come mi
ripeteva sempre mia madre, che infatti ha sempre lavorato a volte guadagnando
più di mio padre), tuttavia è palese che la capacità di sostenere materialmente
la riproduzione non è diversa se la somma necessaria viene da un salario o da
due. Infatti, quando, nella forma socio-economica “emancipata” nella quale
viviamo, il saggio di sfruttamento è cresciuto dal momento che i due salari
sommano il vecchio, il sostegno materiale si è degradato. La stessa Fraser lo
ricorda sotto l’etichetta di “fine della cura”[19].
La
seconda dipendenza del capitalismo da qualcosa che non è in grado di riprodurre
si manifesta rispetto alla più ampia natura non umana. Una critica che la
Jaeggi trova romantica: per lei non bisogna mai dimenticare che è bene non
essere più dipendenti dalla natura.
Infine,
ed in terzo luogo, il capitalismo dipende dal potere pubblico e dallo Stato per
garantirsi le condizioni legali di esistenza, il quadro legale. Ma è anche
connesso e dipendente dalle logiche centro-periferia imperialiste e dall’oppressione
razziale. Parte integrante della società capitalista è quindi la dominazione di
genere e razziale. Ovvero l’espropriazione che è resa possibile dall’assenza di
protezioni politiche e dallo squilibrio di forza e potere. Tutte queste forme
di espropriazione e di appropriazione senza controvalore sarebbero necessarie
all’esistenza stessa del capitalismo che quindi dovrebbe, per esistere,
allargare sempre l’area di espropriazione. Una idea che risale a Luxemburg[20].
Ma
nella versione proposta dalla Fraser tutto si riconduce ad un piano invero piuttosto
contraddittorio, anche se a suo dire mai pensato dal marxismo ortodosso:
per garantirsi l’espansione progressiva, e in via di principio illimitata,
dell’appropriazione privata del plusvalore i proprietari del capitale devono
ottenere mezzi produttivi ad un prezzo inferiore alla sua riproduzione.
Ciò si verifica con il (sovra)sfruttamento della natura e con il soggiogamento
di popolazioni razzializzate. “I tassi di profitto salgono nella misura in cui
il capitale è in grado di rendere gratuiti tali processi, evitando
responsabilità per il loro sfruttamento”[21]. E contenendo anche i
costi di riproduzione della forza lavoro normale, ottenendo un dividendo
indiretto (dall’imperialismo e dalla distruzione delle risorse naturali). Una
formulazione certamente presente in tutta la tradizione marxista (a partire
dalla critica dell’imperialismo di Lenin, e dalle analisi dell’ultimo Engels, e
poi da tutta la tradizione delle lotte terzomondiste cui, pure, in varie
occasioni si richiama). Al contempo una formulazione che retrocede
significativamente rispetto al livello di distinzione ed analisi dello stesso
Marx e della tradizione che ne deriva. In senso stretto non si può ottenere un
bene qualsiasi (e tanto meno la forza lavoro) ad un prezzo “inferiore alla sua
riproduzione”, perché si distruggerebbe. Persino il selvaggio sovrasfruttamento
degli schiavi neri, prima della interruzione del traffico che ne sostituiva i
frequenti morti, era condotto al prezzo della riproduzione, se con questo termine
si intende, coerentemente con una definitoria economica, il totale dei prezzi
derivanti dall’insieme dei meccanismi volti a riportare il giorno dopo, ed i
successivi, la stessa quantità di forza lavoro in campo (nell’esempio era il
prezzo delle misere abitazioni, dell’insufficiente cibo e legna, o vestiti, e
il costo necessario per sostituire i deceduti). Ma, qui l’argomento ben più
sofisticato della Luxemburg, in un sistema chiuso la mera riproduzione del
capitale (e non della forza lavoro) presume il realizzo nella circolazione, e
questo tende alla riproduzione stazionaria. La crescita resta inspiegata. È il
problema del passaggio dalla cosiddetta “riproduzione semplice” alla “riproduzione
allargata” (estensione della produzione di plusvalore).
La
Fraser sembra affastellare definizioni e frammenti di argomentazione senza far
capire come risolve i sottostanti problemi con un approccio additivo e alquanto
eclettico.
Il
capitalismo è per lei qualcosa come un ordine sociale istituzionalizzato ed una
forma di vita che non ha un vero e proprio dentro o fuori, ma dispone di una
sua topografia sociale. Una forma storicizzata, nella quale elementi
diversi hanno proprie normatività e ontologie sociali. Capaci di sviluppi
“relativamente autonomi” che non sono solo, o semplicemente, “riflessi” degli
sviluppi economici e tecnologici. Possono esserne influenzati, ma possono anche
influenzarli. Le sfere della riproduzione, dell’ambiente e natura, del potere,
sarebbero così viste come semi-indipendenti dalla produzione di merci e dalla
relativa circolazione e valorizzazione, e, al contempo, sfruttate da questa per
la sua esistenza e stabilità. Quel che cerca di fare la Fraser, che guida
questa parte della conversazione, non è solo di salvare la politica del
riconoscimento e delle identità nella quale si è formata, associandola
all’economia politica che vuole recuperare, ma con una specie di gioco di
prestigio anche sostenere al contempo che nella dichiarazione del ruolo
necessario della riproduzione, della natura e dello Stato esista una vera novità
rispetto al marxismo.
Nel
suo ordine di discorso, che è più una focalizzazione, le crisi nel sistema capitalistico
non sorgono tanto nella sua meccanica produttiva (la tendenza alla caduta del
saggio di profitto, ad esempio), quanto al suo confine con le condizioni non
economiche di possibilità. Ne derivano tendenze di crisi che chiama “(quasi)
polanyiane”. Detto in altre parole:
“l’economia del capitalismo risulta
anche da una relazione di negazione nei confronti delle sue condizioni
sottostanti. Essa ne sconfessa la propria dipendenza trattando la natura, la
riproduzione sociale e il potere pubblico come ‘doni gratuiti’, che sono inesauribili,
privi di valore (monetizzato) e di cui ci si può appropriare ad infinitum senza
nessuna preoccupazione per il loro rifornimento. Di conseguenza, la relazione è
potenzialmente contraddittoria e incline alla crisi, perché l’incessante deriva
verso l’accumulo in continua espansione destabilizza le condizioni sottostanti
da cui dipende la dinamica in primo piano. Tutto sommato si tratta di una
relazione di divisione-dipendenza-disconoscimento. E questa è una fonte interna
di potenziale instabilità, una ricetta per crisi periodiche”[22].
Una
formulazione inconsapevolmente perfettamente marxiana, in ogni sua
parte. Se non che compie il percorso inverso rispetto a quello di Marx, che
procedeva verso l’astrazione e la ricerca della relazione essenziale, mentre la
Fraser cerca di mettere sullo stesso piano tutto, nella logica sia/sia
prima enunciata. Quello che Jaeggi chiama “un vocabolario olistico per spiegare
come le sfere interagiscono in modo diverso in tempi diversi”. Sarà olistico,
ma è anche confuso.
Nel
ricostruire quindi l’evoluzione storica dei modelli capitalisti (mercantilista,
liberale ottocentesco, e “a gestione statale” novecentesco) si giunge infine alla
descrizione della crisi degli anni settanta, crogiolo della sua formazione, e qui
la settantaduenne Fraser racconta alla più giovane collega che il capitalismo a
gestione statale, pur avendo stabilizzato per alcuni decenni le tendenze di
crisi di riproduzione del capitalismo, è al termine “incappato nelle sue stesse
contraddizioni, sia economiche sia politiche”. Precisamente che i “salari
crescenti e i generalizzati incrementi della produttività, combinati a minori
tassi di profitto nell’attività manifatturiera del centro” hanno alla fine “suggerito
la necessità di nuovi sforzi da parte del capitale per liberare le forze del
mercato dalla regolamentazione politica”. Ciò che colpisce di questa
scheletrica ed economicamente confusa descrizione (se salgono sia i salari
sia la produttività perché calano i tassi di profitto?) è il modo in cui continua,
con l’associazione che propone immediatamente: “sono così esplosi movimenti
globali di sinistra radicale per sfidare le oppressioni, le esclusioni e le
predazioni su cui poggiava l’intero edificio”.
Insomma,
il capitalismo è in difficoltà quanto alla riproduzione del capitale (ovvero ha
difficoltà determinate dalla crescita dei salari oltre l’incremento della
produttività -quindi salari reali- a danno della quota profitti), e risponde
con la deregolamentazione che, però, viene aiutata dalla sinistra
radicale la quale attacca sincronicamente lo stesso bersaglio. Insomma, sembra
dire la Fraser, una sinistra che lavora oggettivamente per il re di Prussia.
Di
fatto da allora il capitalismo finanziarizzato ha revocato quelle protezioni,
introducendo però ancora più oppressioni, esclusione e predazioni. La crisi a
questo punto si presenta al capo opposto del pendolo marxiano: riducendo
la quota salari (anche grazie all’estensione della concorrenza tra lavoratori,
causata sia dalla femminilizzazione della forza lavoro sia dalla sua
razzializzazione) rispetto alla produttività la quota profitti è cresciuta costantemente,
con essa l’accumulazione al vertice della piramide sociale. Ma in questo modo
la riproduzione della forza lavoro è sfidata (“fine della cura”[23]) e la carenza di domanda,
come proponeva già la Luxemburg centodieci anni fa, rende difficile il
“realizzo” del plusvalore estratto. Di qui la finanziarizzazione e, al termine
del ciclo, la crisi contemporanea.
Si
potrebbe dire che la socialdemocrazia ha creato i propri becchini. Tutte le
lotte del movimento sociale degli anni sessanta, dice la Fraser che le ha
vissute (quelle per la decolonizzazione e l’uguaglianza razziale, il femminismo
della seconda ondata), hanno “valicato i confini del buonsenso
socialdemocratico. Nel tempo, le loro sfide hanno finito per convergere non
solo tra di loro, ma anche con quelle di un nascente partito ‘neoliberale’,
determinato a strappare le ‘forze del mercato’ al controllo statale e a
globalizzare l’economia capitalista. È stato questo duo tra movimenti sociali
emancipatori e neoliberalismo che ha distrutto l’egemonia della
socialdemocrazia e alla fine il regime del capitalismo di stato”[24]. È a questo che coloro i
quali hanno meno di quaranta anni debbono una vita intera di precariato,
indipendentemente siano uomini o donne.
La
critica di sinistra allo stato sociale è parte di questo movimento. Quella alla
società disciplinare, al potere amministrativo, alle tendenze alla
normalizzazione dello stato sociale, alla burocratizzazione ad esso
connaturata. Con il linguaggio di Habermas, che esprime una particolare
versione di quella costellazione, la critica alla “colonizzazione del mondo vitale”
(da parte del ‘codice potere’). La risposta è stata di delegittimare ogni
intervento pubblico (anche quando era diretto contro lo strapotere del
capitale) per rifugiarsi nel privato o nel privato-collettivo: “organizziamoci
in movimento sociali; occupiamoci dei nostri problemi”, razza, sesso,
orientamenti. Puntiamo ad essere riconosciuti come individui e per i nostri
desideri. Si è perso di vista il potere del capitale privato, delle grandi
concentrazioni private di capitale e queste sono state leste ad approfittarne.
In parte è stato un effetto della diffusione della ricchezza, dello sprawl
urbano, persino (con la disintegrazione delle preesistenti unità sociali dei
quartieri operai in villette diffuse che incoraggiano una visione individuale
dell’abitare).
L’immaginario
socialdemocratico, concentrato sulle questioni salariali (nelle quali aveva
appunto raggiunto un decisivo successo) e delle condizioni di lavoro non era
più adatto a dare rappresentazione a queste nuove energie e strutture del
sentire sociale che scaturivano dalle donne con istruzione universitaria e di classe
media, le quali rivendicavano riconoscimento, oltre che dalla cultura di massa
e giovanile. La nuova sintesi sarà quindi un insieme sincretico di critica al
paternalismo burocratico, al disconoscimento individuale e, da parte neoliberale,
all’assistenzialismo. L’era neoliberale vive di questo ethos che è stato creato
anche dai movimenti della sinistra radicale. Quella che la Jaeggi, che
concorda, chiama “una bella astuzia della storia”.
Lo
scopo della costruzione addizionale della Fraser è, secondo la Jaeggi in quella
che suona come una garbata obiezione (il registro è spesso di questo tenore, la
filosofa tedesca avanza obiezioni radicali alle tesi dell’americana, ma nascondendole
in un velo di cortesia accademica), mettere insieme molte e diverse strutture
di dominio e oppressione correndo il rischio di riprodurre forme gerarchiche
non sufficientemente argomentate e senza chiarire bene come le istanze di
dominio ed oppressione funzionano insieme. L’impressione che la tedesca trae è
che nella vecchia polemica tra marxisti e femministe sulla cosiddetta “teoria
del sistema duale” (circa la questione della ‘contraddizione primaria’,
rappresentata dal capitalismo) la Fraser scelga di stare con i marxisti. La
risposta è: “rifiuto categoricamente la visione delle contraddizioni primaria e
secondaria”. Vediamo:
“l’intera teoria del disvelamento di
ulteriori ‘dimore nascoste’, oltre a quella su cui si è concentrato Marx,
intende mostrare che le forme di oppressione ospitate (subordinazione di genere
e razziale, imperialismo e dominio politico, saccheggio ecologico) sono
caratteristiche strutturali integrate della società capitalista – profondamente
radicate quanto sfruttamento e dominio di classe. La mia argomentazione intende
confutare la visione secondo cui solo la classe sarebbe strutturale. E farei lo
stesso nei confronti di chiunque cercasse di installare qualsiasi altra istanza
in quella posizione privilegiata, definendola ‘contraddizione primaria’.
Tuttavia - ed ecco il
mio secondo punto – respingo anche gli approcci pluralisti o additivi, come la
teoria del sistema duale (o triale). Lungi dal concepire il capitalismo, il
patriarcato e la supremazia dei bianchi come ‘sistemi’ separati, che in qualche
modo di combinano misteriosamente, io sto proponendo una teoria unificata, in cui
tutte e tre le modalità di oppressione (di genere, ‘razza’, classe) sono
strutturalmente radicate in una singola formazione sociale – nel capitalismo in
senso ampio, concepito come un ordine sociale istituzionalizzato. E, a
differenza delle teorie dell’intersezionalità, che tendono ad essere
descrittive, focalizzate sui modi in cui le posizioni dei suddetti soggetti si
incrociano l’una l’altra, il mio discorso è esplicativo. Guardando dietro queste
posizioni, all’ordine sociale che le genera, io identifico i meccanismi
istituzionali attraverso cui la società capitalista produce genere, razza e
classe come assi trasversali del dominio”[25].
Ciò
implica che talvolta, storicamente e localmente (ad esempio ora nelle società
occidentali avanzate) il capitalismo, in alcune sezioni (ad esempio avanzate),
possa anche fare a meno delle divisioni di genere o razza. Tutto dipende dal
regime di accumulazione in vigore, “da come e dove i suoi limiti costitutivi
sono stati tracciati, nella portata distruttiva della sua matrice istituzionale
e nella misura in cui stanno sondando alternative”. Come propone di considerare
la Jaeggi, quindi, è possibile che un dato ordine razziale o sessuale possa rivelarsi
ostile ad alcuni settori del capitale (e “qualcosa di simile potrebbe essere in
corso oggi”), ma non è corretto inferirne, per la Fraser, che il capitalismo in
quanto tale possa oggi fare a meno della gerarchia di genere o razziale simpliciter.
Proseguendo
la sua decostruzione a questo punto la Jaeggi inferisce che nei termini del
discorso dell’americana il capitalismo sarebbe caratterizzato, in quanto
modello e quindi al di là delle sue incarnazioni storiche o geografiche, dal
fatto di avere bisogno di soggetti di sfruttamento ed espropriazione (i due
termini essendo mal definiti). Dunque, che “non esiste assolutamente alcuna
ragione [entro la teorizzazione dell’anziana filosofa] per la quale [gli
sfruttati] debbano essere definiti lungo linee sessualizzate o razzializzate”.
Quindi l’ordine di genere e di razza descrivono “semplicemente i modi empirici
con cui espropriazione e sfruttamento sono stati organizzati”. A questa
obiezione la nostra risponde che “ogni forma di capitalismo separa la produzione
dalla riproduzione, lo sfruttamento dall’espropriazione”. Dove, secondo la sua
imperfetta definizione, la seconda si caratterizza perché esso non si fa carico
dei costi di riproduzione (come abbiamo già detto in senso proprio ciò
significa che è espropriazione il genocidio degli Inca sudamericani, ma non lo
è la schiavitù perché il padrone di schiavi in genere si assicura della
riproduzione in qualche modo). Queste divisioni sarebbero, cioè, costitutive
della società capitalista. E sarebbero esistite a partire da questo. Come dice,
“se il capitalismo richiede che la produzione e lo sfruttamento vengano
separati dalla riproduzione e dall’espropriazione, rispettivamente, e se
richiede che queste ultime funzioni vengano assegnate a classi di persone
separate e distinte, espressamente designate a tale scopo, allora il
capitalismo non può essere distaccato dall’oppressione di genere e razziale”[26]. A questa riaffermazione
definitoria, contraddittoria nei termini della sua stessa ricostruzione
storica, ed in fondo dogmatica, senza la quale la Fraser a tutta evidenza non
potrebbe più dirsi “femminista”, ricadendo nel novero delle pensatrici
semplicemente “socialiste”, la Jaeggi insiste spietatamente.
Chiede,
infatti:
“tu dici che il capitalismo separa
la storia in primo piano, quella della produzione di merci, da quella sullo
sfondo, quella dell’espropriazione e della riproduzione sociale. Dici anche che
il sessismo ed il razzismo sono intrinseci al capitalismo fintanto che esso
assegna le funzioni della storia sullo sfondo a popolazioni appositamente
designate, che di conseguenza saranno razzializzate e femminilizzate. Ma lasci
aperta un’altra possibilità. E se il capitalismo non richiedesse questa
seconda condizione? E se mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’
quasi tutti, esigendo manodopera in quelle dimore nascoste dall’intera
popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già richiede loro
attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Non è uno scenario possibile?
E se lo fosse, il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non
sessista?”[27].
Messa
alle strette la Fraser ammette espressamente che si tratta de “il nocciolo
della questione”.
Lo
scenario descritto è infatti “logicamente possibile” (e dissolve come lotta di
retroguardia, se pure a volte necessaria, l’intero femminismo). Ma per la
Fraser “possiamo escluderlo per tutti gli scopi pratici”. Il capitalismo
finanziarizzato di oggi (ovvero quello che segue al modello del capitalismo
sostenuto dallo stato precedente) è “un regime di espropriazione
universalizzata”, e non solo le popolazioni razzializzate ma anche la maggior
parte dei “bianchi” ora “guadagnano salari che non riescono a coprire
interamente i costi di riproduzione”, e sono in balia senza protezioni di
aggressioni date da usura predatoria e precariato. Inoltre, non solo gli uomini,
ma anche le donne, devono vendere la propria forza lavoro a tempo pieno.
Eppure, scrive, “il capitalismo attuale è tutt’altro che postrazzista o
postsessista”. Esiste ancora una sproporzione.
La
risposta è indicativa e importante: ad una obiezione di tipo concettuale e
definitorio, estratta dai termini stessi posti dal discorso della Fraser,
questa risponde con un’ammissione e con lo spostamento del punto sul piano
empirico; ancora oggi proporzionalmente le popolazioni razzializzate
sono più povere, mediamente, e molte donne devono sopportare l’onere di
lavorare e di fare i doppi turni per caricarsi anche il lavoro domestico.
Insomma, dato che riconosce, sia pure a denti stretti, che non si tratta di una
necessità organica, ma di una permanenza residua, ne deriva che non sarebbe tanto
“il capitalismo” a richiederlo (dato che questo richiede solo lo sfruttamento e
non determina specifici sfruttati), quanto, piuttosto, la consuetudine ed il
peso della tradizione. È un residuo, e condanna a ben vedere l’intero
femminismo a lotta di retroguardia (se pure localmente ed in alcune circostanze
necessaria).
Sottolineiamo
ancora una volta un’implicazione dell’affermazione che tutti “non riescono a
coprire interamente i costi di riproduzione”: si tratta di una carenza concettuale
e di un abuso definitorio. Il termine “riproduzione” ha infatti un fondo biologico,
ma qui piuttosto è utilizzato nel senso della riproduzione dello stile di vita
adeguato alla media sociale. Ovvero di quello che Engels chiamava la “convenzione
sociale”. Tuttavia, a ben vedere, c’è anche un’aggiunta rispetto a
questa accezione: la riproduzione dello stile di vita che si lamenta essere
impossibile con i salari mediamente praticati è quello borghese. In altri
termini, è palese che la riproduzione meramente biologica è garantita dai
salari (che, altrimenti, la società collasserebbe immediatamente nelle rivolte
del pane), ma quella che non è uniformemente garantita è piuttosto la
disponibilità dei mezzi monetari di spesa per dotarsi del set di merci e
servizi ritenuti necessari per una vita “dignitosa”. Precisando che con tale
termine, per definizione relativo, si intende una vita conforme allo stile
della media borghesia novecentesca. O, più brutalmente, che si è alle prese
con un processo di pauperizzazione al quale si somma una persistente dipendenza,
dissimmetricamente distribuita, tra maschi e femmine (per cui sono le seconde
che, mediamente, sono più facilmente in condizione di deprivazione e
dipendenza). Insomma, il discorso oscilla intorno alla medesima posizione che
viene criticata.
L’azione
politica si rivolge quindi ed espressamente, da una parte, “contro gli
intendimenti tradizionali del socialismo”, in quanto la Fraser ritiene che un
focus esclusivo (che il socialismo non ha mai praticato, a dire il vero)
sullo sfruttamento e la produzione non può emancipare i lavoratori di ogni
colore o genere; dall’altra, contro le femministe liberali e contro gli
antirazzisti, propone di considerare che un focus esclusivo su discriminazione,
ideologia e legge non è la strada giusta per superare razzismo e sessismo.
Nel
primo caso, è necessario anche indirizzare l’azione contro l’espropriazione e
la riproduzione a cui lo sfruttamento e la produzione sono in ogni caso legati.
Nel secondo, è necessario anche sfidare l’ostinato nesso del capitalismo tra
espropriazione e sfruttamento, tra riproduzione e produzione. Seguendo questa
via (che, continuo a dire, è perfettamente presente nella tradizione marxista,
con maggiore rigore concettuale), si accederebbe ad un radicalismo più profondo
“finalizzato alla trasformazione strutturale della matrice sociale
complessiva”.
Cambiando
argomento il testo si concentra sulla critica al capitalismo. Quale è il punto:
esso è un sistema disfunzionale, che è costantemente incline alle crisi? O,
piuttosto, un sistema moralmente sbagliato perché fondato sullo sfruttamento?
Una vita, terza possibilità, fondata sul capitalismo è eticamente malvagia,
impoverita, priva di senso ed alienata?
La
critica marxiana è imperniata su tutte e tre le dimensioni. La prima è
molto evidente e nota, il capitalismo non è orientato alla soddisfazione dei
bisogni umani, quanto alla crescita dell’accumulazione per la quale ha una
tendenza allo sviluppo delle forze produttive intrinsecamente contraddittorio
(su una linea di critica in fondo non dissimile da quella della “riproduzione”
avanzata dalla Fraser, se il termine non si intende in senso individuale ma
sistemico). Ma questa critica poggia sempre internamente su criteri di tipo
normativo e politico. La seconda critica si muove esplicitando questo livello.
Ma qui non basta dire che il capitalismo crea ineguaglianze ingiuste, o non
motivate adeguatamente, perché bisogna stabilire anche quali sono presenti
specificamente di esso. Una ineguaglianza, la semplice esistenza della
ricchezza e della concentrazione di potere, che fosse tale dal tempo delle
prime civiltà stanziali sarebbe una linea di critica ben povera, al
capitalismo. Per questa ragione la critica è in realtà eticamente
orientata, legge il capitalismo nella sua interezza come una modalità distorta
di vita, ed, inoltre un ostacolo alla ‘libertà sociale’[28].
Per
le autrici la visione proposta di capitalismo come sistema sociale ed
istituzionale, e quindi anche come forma di vita e quadro di soggettivazione, e
non solo come sistema economico ha una conseguenza nella concettualizzazione delle
lotte. Mentre nella teoria marxista, sorta alla metà dell’ottocento e
sviluppatasi fino alla seconda metà del novecento, la forma che serbava la
maggiore potenzialità di emancipazione delle lotte era la cosiddetta “lotta di
classe”, ovvero la lotta per l’eliminazione dello sfruttamento e la divisione
della società in ‘classi’, ora per la Fraser sono centrali le “lotte di
confine”. Questo discorso è compreso
dalla sua autrice come “diverso da quello ampiamente associato al marxismo”. Secondo
la sua visione “il capitalismo, concepito come qualcosa di più grande di un
sistema economico, rende visibile e intelligibile uno spettro più ampio di contestazioni
sociali di quanto non facciano i paradigmi ortodossi”[29]. Si tratta, cioè, di
lotte tra una divisione di un primo piano ed uno sfondo, “divisione”, “dipendenza”,
“disconoscimento”. Le lotte contro il razzismo, l’imperialismo e il sessismo
non sarebbero, dunque, manifestazioni di “contraddizioni secondarie”.
La cosa appare realmente nuova alla nostra soprattutto in quanto la sua visione espressa di quel che chiama “marxismo ortodosso” è piuttosto ridotta. Con le sue stesse parole: “per i marxisti ortodossi, la lotta di classe è centrata sul conflitto tra lavoro e capitale, dove per lavoro si intende strettamente quello salariato, specialmente nel contesto delle fabbriche industriali”. Quindi le uniche lotte realmente emancipative sarebbero quelle che appaiono sui “luoghi di produzione”, dove “le due parti si trovano faccia a faccia”. Questa posizione sarebbe problematica “perché esclude le battaglie per il lavoro non salariato e soggetto a espropriazione. Queste ultime non vengono considerate lotte di classe, proprio come coloro che svolgono questo tipo di lavoro non vengono ritenuti ‘lavoratori’”. Invece dovrebbero essere considerate “di classe”, perché sostengono il lavoro salariato e alimentano e riproducono la forza lavoro dalla quale dipende lo sfruttamento.
Una mossa che spesso ricorre nel dibattito accademico, si chiama “combattere un argomento fantoccio”. Si costruisce un ‘uomo di paglia’ e gli si dà fuoco. Una visione così ristretta e banale del marxismo in pratica non è stata mai sostenuta da nessuno, e sicuramente non dai fondatori. Peraltro, facendo mente alla definizione amplissima proposta di “riproduzione” questo modo di allargare la definizione di “lavoro” (e classe) fino ad includerlo in pratica rende ogni cosa della vita, incluso quel che sto facendo ora, lavoro. Si tratta chiaramente di una definizione con la quale non ce ne si può far nulla.
La
Jaeggi reagisce a questa posizione qualificandola in modo sottile come un
“concetto produttivo”, ovvero come quel che è, in sostanza, un utensile per uno
scopo, quello di recuperare la tradizione delle lotte identitarie entro la
necessaria ripresa del tema dello sfruttamento materiale. In altri termini un
termine polemico. Ma pone con precisione chirurgica il punto che la nostra
cerca di avvolgere in una coltre di nebbie: “sto ancora cercando di capire se
si tratta di un’aggiunta alla o di una sostituzione della lotta
di classe”. La risposta è che si tratta di un 'né/né'. Non aggiunte e non sostituite.
Le lotte di confine si sovrapporrebbero e intreccerebbero alle lotte di classe,
la distinzione è in sostanza questione di prospettiva. La distinzione sarebbe
analitica (come l’intera architettura concettuale marxiana, in effetti) e molto
spesso, ammette, le lotte di confine sono sovradeterminate da questioni di
classe. Ma questo non significa che ogni lotta debba essere espressa “solo o
soprattutto” come una lotta di classe (e prosegue, richiamando l’uomo di
paglia, “almeno non in senso stretto, ortodosso”).
Senza alcuna comprensione per lo sforzo erculeo di muoversi sull’orlo dell’abisso dell’americana, a questa posizione la tedesca replica chiarendo che ci sono dimensioni di lotte di confine “che non possono essere coperte dal vocabolario di classe, per cui non avrebbe senso tradurle in una lotta di classe”. Un ottimo esempio sono le lotte ambientali (se pure l’impatto di esse cade diversamente sulle diverse classi) e un altro è il “femminismo del tetto di cristallo” contro il quale la stessa Fraser si spende sempre e con il quale apre il suo “Femminismo per il 99%”[30]. Apparentemente senza cogliere la profondità della sfida, questa replica che “il capitalismo”, consolida normativamente “strutture ingiustificabili di dominio lungo le linee di classe, ma anche lungo altri assi trasversali: genere, razza o etnia, nazionalità”. Insomma, il capitalismo è tutto.
Un
quadro che la Jaeggi giudica offrire molte possibilità, ma anche “piuttosto
confuso”[31].
E
soprattutto che non consente di distinguere tra lotte regressive ed emancipatorie
(cosa che, ad esempio, la priorità per la liberazione/dissolvimento della
classe fa). O, nel gergo filosofico novecentesco: se non si vuole ricadere in
una concezione essenzialista della giusta definizione di confini (o “sfere”),
come si può delineare nel vasto quadro disegnato dalla Fraser quali lotte
vadano sostenute e quali avversate?
Una
domanda alla quale in effetti non ha risposta. I criteri che propone sarebbero:
il “non dominio” (lungo tutti gli assi indicati parallelamente), la
“sostenibilità funzionale”, la “democrazia”.
Non
mi pare che la mappa del labirinto sia stata scoperta.
[1] - Constellations è un
giornale accademico di critica e teoria democratica edito da Jean Cohen, Amy
Allen e Andreas Kalyavas.
[2] - Ad esempio, “Nancy
Fraser, ‘Come il femminismo divenne ancella del capitalismo’”, e “Nancy
Fraser, ‘Contro il neoliberismo progressista, un nuovo populismo progressista’”,
Nancy Fraser, ‘Il
vecchio muore ed il nuovo non può nascere”; Nancy Fraser, “La fine
della cura”; Nancy Fraser, “Cosa significa socialismo nel XXI secolo”
.
[3] - Nancy Fraser, “Fortune del
femminismo”, Ombre Corte, 2013.
[4] - Cinzia Arruta, Tithi
Bhattacharya, Nancy Fraser, “Femminismo del 99%”, Tempi Nuovi 2019.
[5] - Nancy Fraser, “Femminismo,
capitalismo e l’astuzia della storia”, 2009, in , “Fortune del femminismo”,
op.cit.
[6] - Di cui abbiamo letto, Axel
Honneth, “Reificazione”;
Axel Honneth, “L’idea
di socialismo”; Axel Honneth, “Il
diritto della libertà”.
[7] - Rahel Jaeggi, “Alienazione”,
Editori Riuniti 2013, ed. or. 2003.
[8] - Rahel Jaeggi, “Forme di vita
e capitalismo”, Rosemberg & Sellier, 2016.
[9] - Jurgen Habermas, “Teoria
dell’agire comunicativo”, Il Mulino 1986, ed. or. 1981.
[10] - Fraser, op.cit., p.22
[11] - Si veda, per un tentativo di
ricostruzione e critica di questa mossa del “femminismo della differenza”, il
post “Pochi
appunti sul ‘femminismo della differenza’”.
[12] - Ivi., p. 313.
[13] - Si veda in proposito la polemica
tra John Smith e David Harvey nel post “Dibattiti
sull’imperialismo: John Smith contro David Harvey”, e quello tra Utsa e Prabhat
Patnaik e lo stesso David Harvey in “Un
dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik”.
[14] - Fraser, Ivi., p.316.
[15] - Fraser, op.cit., p.40.
[16] - Ivi, p. 57
[17] - Quell’assetto tipico delle
società “opulente” della parte centrale del secolo scorso (diciamo dagli anni
venti agli anni ottanta) nella quale in media un solo membro della famiglia,
quasi sempre il maschio, lavorava all’esterno come dipendente prelevando un
“salario” in grado di mantenere l’intera famiglia, e quindi demandava la gran
parte delle attività di ‘cura’ al partner che restava a casa.
[18] - Angela Davis, “Donne, razza e
classe”, Alegre, 2018 (ed. or. 1981).
[19] - Nancy Fraser, “La fine della
cura”, op.cit.
[20] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione
del capitale”, PGreco 2012 (ed. or. 1912).
[21] - Fraser, “Capitalismo”,
cit, p. 78
[22] - Ivi., p. 116
[23] - E’ il tema del libro di Nancy
Fraser, “La fine della cura”, o, più avanti, delle pagine 132-136 che ne
riproducono molti passaggi.
[24] - Ivi., p. 127
[25] - Ivi., p. 169
[26] - Ivi, p.172
[27] - Ivi, p.172
[28] - Termine centrale nella
teorizzazione che la Jaeggi condivide con Honneth.
[29] - Fraser, Ivi. p.245
[30] - Cinzia Arruzza, Tithi
Bhattacharya, Nancy Fraser, “Femminismo per il 99%. Un manifesto”, cit.
[31] - Fraser, ivi, p.261
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