Un
interessante dibattito rimbalza sulle colonne di “Sinistra in rete”,
attraverso una confutazione sulla quale torneremo[1], muovendo da un libricino[2] disponibile in rete della
filosofa francese Valérie Gérard. La Gérard si interroga sulla natura di quel
movimento che ogni sabato batte le strade francesi contro il pass sanitario e
che apparentemente ha preso la staffetta lasciata dai Gilet Gialli. La tesi
della filosofa è che per giudicare un movimento non bisogna tanto prestare
attenzione alle idee, quanto ai discorsi ed alle pratiche concrete. Ovvero agli
atti ed agli affetti che mette in campo.
La
tesi è quindi che il movimento in oggetto ha un segno diverso da quello
dei Gilet Gialli, e per alcuni versi opposto (con tutto che alcuni
leader dei GG sono presenti). Si tratterebbe infatti di un movimento individualista
e iper-liberista. In sostanza la mobilitazione contro il pass sanitario, e
contro la “società del controllo”, si muoverebbe in continuità con ambienti che
la nostra non esita a chiamare di estrema destra o segue promotori disonesti di
trattamenti inefficaci, no-vax, complottisti[3]. Un elemento che seduce la
sinistra radicale è la critica del controllo sociale sicuritario, oltre, ed è
un altro tema, il tentativo di non lasciare la piazza. O, come scrive, la
pretesa di essere l’avanguardia illuminata che guida quelli che non sanno quel
che fanno.
Quel
che la preoccupa “sono le linee di forza che acquisiscono importanza nel campo
politico e quello che questo movimento costituisce e prefigura”. E la
diagnosi è impietosa:
“Quello
che viene affermato è la libertà dell’individuo contro gli altri, la
libertà di essere contaminato e incidentalmente di contaminare gli altri, ma
anche quello di lasciare che il virus circoli, col rischio delle mutazioni e
dunque di divenire più pericoloso e di far durare più a lungo l’epidemia e le
restrizioni – e anche la disgregazione sociale – che le sono ovviamente legate.
È una libertà puramente egocentrica per la quale il mondo può anche
finire, ma le libertà puramente individuali non devono essere toccate. Sono
degli individui-monadi autarchici, imperi in un impero, e quello che accade
agli altri non gli interessa minimamente. È un discorso radicato in una visione
spenceriana della società in cui la gente sana, con delle buone difese
immunitarie, sopravviverà e tanto peggio per gli altri”.
Oppure
si può anche riconoscere che alcune provenienze sono connesse ad una naturopatia
che non è radicata solo nelle posizioni della sinistra (come ingenuamente
si pensa), quanto anche della destra radicale. Anche qui si fa strada una
posizione che suona più o meno così: “se io da sempre mi prendo cura di me
non posso permettere che per colpa di altri (o per altri) una sostanza estranea
entri dentro di me”. Una posizione che, al di là dell’eventuale realtà o
adeguatezza, suona eticamente e politicamente irresponsabile. In sostanza si
dice che se io sono in forma ed ho una (presunta) buona immunità (perché sono
aderente alla ‘natura’) allora mi posso chiamare fuori. Che gli altri pensino a
sé, fatti loro. Come scrive: “Non si tratta in nessun caso, ai loro
occhi, di pensare a una forma di risposta collettiva contro la pandemia (mentre
è evidente che la risposta non può che essere collettiva). Dell’idea che ci si
prenda tutti e tutte la responsabilità di farsi vaccinare (e applicare
delle misure serie per frenare la pandemia), di fermare insieme, in modo
solidale, la circolazione del virus, non ne vogliono neanche sentir parlare”.
Qui
la questione non è di prova scientifica (che nessuno è in grado di
discutere con la necessaria competenza, se non scegliendo la ciliegia del
principio di autorità che conferma i propri orientamenti), ma di preferenze
per delle relazioni. E quindi la preferenza che delimita la scelta della Gérard
è quella per il modo di vivere e legarsi agli altri, quindi “una preferenza per
un mondo in cui si è solidali gli uni con gli altri per far fronte a un
pericolo, a un virus, più che per uno in cui si lascia ciascuno a vedersela da
solo con la sua pretesa natura o la sua fortuna, le sue eredità o capitali
sociali”.
La
potenza che si manifesta nel movimento rinvia al contrario alla distruzione di
ogni solidarietà, ad un immaginario politico ultra-liberale ed
anti-egualitario. Anche i pochi che cercano di far sentire la propria voce
su agende più condivisibili, per la sanità pubblica, per la vaccinazione
obbligatoria in categorie a rischio primario (e diffusa nel terzo mondo), per la
revoca dei brevetti, non danno il tono al movimento. Che resta offuscato dalle
grida per la ‘libertà’, per ‘la libera scelta del proprio corpo’, etc. Preso
interamente in una enorme confusione e caos (che riconosceranno tutti gli
autori che qui leggiamo) che fa uso di volta in volta delle citazioni del “biopotere”,
applicato fuori senso per misure di mutua protezione (qui la nostra cita
Agamben), o dalla ripresa delle posizioni di Raoult (che la nostra chiamar
direttamente “impostore” e “manipolatore”). Un movimento nel quale è finito per
passare, per essere accettato, che “la resistenza al sistema, al potere, allo
Stato, al governo, si allei col covid-scetticismo” e nel quale “si è fatto
troppo poco per separare le due questioni, quella della resistenza
all’indurimento autoritario del regime e quella della protezione reciproca da
organizzare collettivamente, per combattere insieme il virus e proteggersi a
vicenda”. Vedremo nell’ultimo intervento che l’intera esistenza di un “noi”
che si dovrebbe difendere è negata in radice.
Per
l’autrice, invece, si poteva combattere ad un tempo Macron e il virus. Il presidente
francese, come i premier italiani, non ha infatti investito abbastanza su scuola
e trasporto, ha manifestato carenze nelle politiche di vaccinazione, nei
controlli negli aeroporti e nelle procedure di accesso al paese, ha prodotto un’azione
piena di contraddizioni e insufficienze. Ma un punto bisogna tenerlo fermo: “Il
campo di forza costituito dal movimento attuale non è né egualitario né
emancipativo. Prospera sulla confusione. Per questo è tanto più importante
tracciare delle linee chiare”.
Questa
posizione molto netta, e con toni anche qui e là problematici, viene commentata
con favore da Marcello Tarì[4] e con sfavore da Michele
Garau.
Il
primo a tutta evidenza parla da una posizione più radicale e segnala la disgregazione
e sconfitta del senso di direzione e comunanza di quel movimento che nel finire
degli anni novanta si riunì sotto le bandiere “no global”. Chiarisce “l’esplosione,
dispersione e dileguamento di quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo,
quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e
lottare»”. E con essa anche l’inevitabile decomposizione di tutti i “noi”,
per quanto piccoli, che erano sorti intorno a questa prospettiva (che aveva
raccolto, per un breve attimo, gli orfani della lotta di classe).
Precisamente
questa confusione produce l’ambiente nel quale il concetto di libertà è slittato,
anche nella sinistra radicale, dal “noi” (che si è perso) all’ “io”. Cioè che ha
finito per ancorarsi a ciò che “il so”, “io voglio”, “io giudico”.
Dunque:
“dagli
insorgenti di Capitol Hill a quelli che assaltano i centri di vaccinazione in
Francia, la tendenza emergente è che quegli Io si aggregano e formano delle
folle compatte le quali inclinano naturalmente verso pulsioni anarco-fasciste.
Sarebbe ingenuo credere sia una novità dovuta a questo momento storico
costituito dalla pandemia ma, come sempre quando si tratta di storia delle
mentalità, era qualcosa che era già qui da tempo e a cui l’evento pandemico
ha dato la possibilità di riconoscersi e mostrarsi a cielo aperto. Nello
stesso identico modo in cui la pandemia ha permesso che strumenti tecnologici
per la produzione-consumo-controllo individualizzanti, anch’essi già presenti
da tempo nelle nostre abitazioni e nelle nostre tasche, cioè installati nella
nostra mente, abbiano ricevuto una nuova coerenza logistica che permette
ai governi e alle corporation di fare un «salto di qualità». Gli uni sono lo
specchio degli altri, ovvero gli uni sono funzionali agli altri, avendo
come base comune il delirio monocratico dell’Ego. Spirito
dell’Io e spirito della Tecnica, unificati nel capitalismo apocalittico,
costituiscono un dispositivo diffuso, un gas atmosferico attraverso
cui spira e regna lo «spirito di questo mondo», spirito della
separazione e dell’angustia”.
Si
tratta, dunque, di un concetto angusto di libertà che è penetrato anche nel
campo che dovrebbe opporvisi. Persa la prospettiva anticapitalista comune, smarrito
il “noi”, è restato solo lo “stare bene, padrone della mia vita”.
Questo
è il senso letto nell’articolo della Gérard e rimarcato da Tarì:
“il suo puntare una
cruda luce sul fatto che lo sfondo ideologico e le pratiche di quel
movimento non hanno nulla di emancipativo o liberante, nonostante gli
sforzi di quelli che cercano di portarvi un discorso contro il controllo
sociale, ma che è un exploit sostanzialmente ultra-liberista, dove ciò
che conta è solo il mio desiderio, la mia salute, la mia scelta, il mio corpo, la mia libertà, la mia festa, la mia vita e, al limite, la mia piccola cerchia. Gérard è chiara e tagliente: si tratta in
fin dei conti della libertà feroce di un Io, alleato ad altre individualità che
si immaginano vere, forti e vincenti, usata contro i più fragili. Il problema è che questi Io, pochi o tanti che
siano, sono all’offensiva”.
Questo
è un punto da scolpire: “libertà feroce di Io, alleati ad altre individualità
che si immaginano vere, forti, vincenti” e che, per questo, rifiutano
qualunque per quanto minimo sacrificio. Gli altri se la cavino da soli.
Per
Tarì, insomma, anche se il testo della Gérard “non è abbastanza antagonista”
solleva una questione vera. Il taccheggiare, l’assecondare la confusione e dare
spago a “una massa di narcisi egoisti truccati da anti-sistema”. Quindi,
alla fine, “Quello che resta del campo antagonista o alternativo davanti
all’evento maggiore di quest’epoca balbetta, non sa bene che dire né che
fare e quello che fa e dice spesso lo fa e dice male, cercando di darsi delle
ragioni per essere presente o assente. Capisco che non sia facile,
comprendo il balbettamento e anche gli errori. Sono in gran parte anche le mie
difficoltà, il mio balbettamento e i miei errori, ma detesto l’ipocrisia,
l’ambiguità e la furberia”.
Quella
di chi non sa distinguere tra chi esprime in sostanza una “adesione piena all’individualismo
ultrà” che domina sulla scena. Chi immagina l’intera realtà come nemica,
malvagia e rivolta contro se stessi. Chi ha una visione chiaramente
paranoico-ossessiva (così la definisce) che vede solo biopotere, apparati
securitari, potere medico, occulti centri di controllo e masse di stupidi che
rifiutano la ‘verità’.
“È come se un brutto
sogno notturno assumesse al risveglio la dignità di manifesto politico del
giorno. I concetti che per un periodo hanno costituito l’armatura di un
discorso antagonista all’ordinamento del mondo, che sono stati usati per
comprendere il presente, vengono così banalizzati e stravolti in una ideologia
bipartisan i cui aderenti, per essere davvero coerenti, dovrebbero onorare
Trump e Bolsonaro come i veri padri nobili della “nuova resistenza”; quelli
infatti se ne sono sempre fottuti tanto dei vaccini che di tutto il resto. Per
contro, in tale visione totalizzante, non esistono i morti, i malati, i deboli,
i poveri, gli ultimi, i Sud del mondo. O comunque non contano nulla nella mia lotta contro lo sfregio alla mia libertà”.
Infine, sulle stesse
colonne Michele Garau ha una
posizione del tutto opposta, ed è quella riportata da “Sinistra in rete”
(che ha evidentemente scelto la parte in cui stare). Garau parte da un preambolo
nel quale riconosce che l’intero dibattito collassa e si polarizza mischiando
piani sanitari, tecnici, politici ed epidemiologici in un modo che si interseca
con la questione diversa delle potenzialità conflittuali delle proteste in
corso. Il piano della critica scientifica è rigettato dall’autore, che in
proposito ricorda la presa di posizione contro Illich dello stesso Foucault[5]. Non
si può criticare una formazione di sapere assumendone linguaggio e categorie,
ovvero immettendosi nel suo proprio campo di interrogativi e di competenze
tecniche. Si fa inevitabilmente la figura del dilettante o del ‘raccoglitore di
ciliegie’[6].
La domanda è quindi:
“È possibile schivare
questo rischio? È accettabile individuare un campo di battaglia nel progetto di
manipolazione e mappatura del vivente, di raccolta di dati biologici e quadrillage poliziesco che il dispositivo del passaporto
vaccinale porta con sé, senza per questo entrare nel merito dell’efficacia
sanitaria del vaccino, ma soprattutto delle alternative più o meno credibili al
suo utilizzo? È legittimo criticare il modo in cui l’emergenza è stata
affrontata, compreso il perseguimento della campagna vaccinale come assoluta
panacea, l’ospedalizzazione sistematica a discapito di qualsiasi cura
domiciliare, senza perdere la lucidità rispetto alle dimensioni del problema?
Si può, inoltre, guardare con interesse al conflitto sul passaporto sanitario
in termini politici, di sintomo epistemologico e di rifiuto della presa delle
istituzioni, mediche ed economiche, sui corpi, andando oltre il linguaggio
della medicina?”
Evidentemente Gérard
propone come criterio alternativo l’affinità verso le ‘forme di vita’ elette, l’intesa
sulle visioni dell’esistenza, il “fondo antropologico”. Una posizione che Garau
non può accettare completamente. Per lui si tratta, al contrario, di accettare
il rischio di frammentarietà, di balbettamento, ma non esimersi
completamente dalla critica verso il complesso delle tecniche e dei registri
scientifici, e relativi apparati. Criticare quindi, malgrado il rischio di
incomprensione, la politicità intrinseca, la decisionalità, le caratteristiche
di strategia e comando, proprie della razionalità scientifica come ‘istituzione’.
Anche se l’autore non
crede che questa mobilitazione darà una scossa e che avrà carattere di
permanenza e lungo respiro, purtuttavia resta legato ad un principio
metodologico che enuncia così: “un conflitto non si giudica dagli enunciati
iniziali dei suoi soggetti, dalla loro identità. Un principio metodologico
semplice che è soggetto a brusche oscillazioni e non fornisce garanzie, quello
di privilegiare il divenire degli eventi rispetto alla sostanza dei ruoli,
delle etichette, del calcolo sociometrico”. Un principio
chiaramente e radicalmente anti-marxista, di evidente matrice anarchica (per
chi conosce le famiglie ideologiche del novecento).
Se, quindi, il nostro ammette
tranquillamente che “in gran parte il profilo delle persone che scendono in
strada sia lo stesso, con la medesima costituzione antropologica
«ultraliberale» ed un’analoga e spuria visione del mondo”, e quindi resta
sempre il rischio di “essere travolti dal fango”, purtuttavia rifiuta di
squalificare gli elementi di verità presenti (la riduzione dei corpi a fondo e
mappatura dei dati[7]), sulla base di un mero “giudizio
antropologico”.
Ricapitoliamo:
Garau non mette affatto
in discussione il “giudizio antropologico” di iper-liberismo, lo accetta per
vero, ma nega che questa diagnosi debba guidare l’azione. Perché lo nega? Il motivo
è semplice e netto, e lo scrive molto bene: “In quanto al progetto di
difendere o ricucire il legame sociale, resto convinto che il gioco delle forme
di vita, il loro conflitto e la loro composizione come sola essenza di un agire
etico, passi dalla sua distruzione e frammentazione”. Quel che vuole
produrre è quindi, ed anche nel mezzo di una pandemia, una “secessione” e
uscita dalla civiltà presente; intende arrivare ad un “fuori esistenziale e
politico”. E, per questo, per lui bisogna ammettere che questa prospettiva “non
si può intravvedere da nessuna altra parte che in desideri e immaginari che
sono, da principio, ‘ultraliberali’.”
La posizione è quindi
compiutamente e consapevolmente anarchica (e probabilmente di un anarchismo ‘accelerazionista’):
“L’elaborazione di un tipo di «libertà comunista», irriducibilmente altra
dal presente, non sta in nessun’osservanza della responsabilità sociale, in
nessun piegarsi in sacrificio alla collettività come norma universale”, e quindi viene indicato
chiaramente l’avversario, ovvero “i bizzarri rigurgiti socialisti di quei compagni
che delirano di vaccini come «bene comune» o atto d’amore verso la comunità”.
Il suo romanticismo
(direi piccolo-borghese, ma qui mi perdonerà) scaturisce dalla motivazione di
questa scelta, che segue immediatamente: “fare una manifestazione selvaggia,
anche solo per chiedere di tornare alla vita di prima, per rivendicare la mera
e individualistica riproduzione materiale – tra lavoro e consumo – è comunque
una condizione per esperienze più vive ed autentiche della semplice
obbedienza”. Si ricollega quindi ed infine alla esperienza piazze contro il
lock down, anche se il programma non era generalizzabile, se rasentava l’egoismo.
Lo rivendica.
Gramsci, nel 1919[8],
scriverà che gli anarchici, in sostanza, “puntano a ridurre tutto ad una
avventura romantica”. Non potrebbe essere più chiaro.
L’autore conclude, infatti:
“è sempre bene tenere a
mente che nessuna nuova idea di libertà verrà impressa dall’esterno a questa
condizione. Mentre cortei selvaggi e disordini estemporanei animano le strade
della mia città, mentre ministri ed organi di informazione agitano minacce
estremistiche, convocano il pericolo terroristico per un tirapugni ed il
cazzotto (sacrosanto) ad un giornalista, mi pare che l’ultima cosa da fare
sia tracciare le linee sbagliate. Ammettere di balbettare, di essere
interdetti di fronte alla realtà e di faticare a prendere posizioni chiare,
come mostrano queste righe scritte malvolentieri, mi sembra una migliore
soluzione. E se in questa confusione la linea che delimita un punto credibile
da cui pensare e attaccare non è stata forse ancora disegnata, è certo che
passerà più probabilmente tra i farfugliamenti inarticolati dei tumulti, con
tutti i loro pericoli e le loro scorie (anche con i loro deliri) che in mezzo
alla tiepida saggezza di chi resta ben allineato”.
Se poi, mentre il nostro
amico si sente vivo ed autentico, mentre sperimenta, farfuglia, accetta i
deliri, qualcuno muore (magari qualche inutile vecchio come Sepulveda) non
fa niente. L’importante è sollevare la “forza anonima che mina il legame
sociale”, scontandone gli effetti antisociali, irresponsabili e
particolaristici dai quali muove. L’importante, lo dice chiaramente, è distruggere
il “patto sociale”.
Ovvero, come cita:
“L’oscuro spettacolo
delle rivolte del 2011 aveva un aspetto stranamente conformista, e il focus sul
saccheggio dei beni di consumo indica l’enorme potere dell’immaginario
consumistico e l’uniformità ideologica del periodo neoliberale contemporaneo.
Quelli che si sono rivoltati non erano gruppi politicizzati che lottavano per
un mondo più giusto ed equo. Non hanno fatto richieste a chi era al potere, e
non erano in possesso di una visione ideologica di un percorso storico nuovo e
progressivo. Consapevolmente, non volevano cambiare nulla. Erano
sussunti dall’avventura esperienziale della rivolta e, per quanto
riguarda i saccheggi, volevano quello che potevano. Inconsciamente, volevano
cambiare tutto ciò che riguardava il loro essere-nel-mondo”[9].
Dunque, direi che siamo
perfettamente d’accordo, tutte queste sono mobilitazioni neoliberali e non
vogliono cambiare nulla.
Ma, dico, per questo
non basta il capitalismo?
Di sicuro a me basta per
sapere dove stare.
[1] - Un pezzo, davvero interessante e
di cui parleremo tra breve, di Michele Garau “Alcune
note polemiche a partire da uno scritto di Valérie Gérard”
[2] - Disponibile a questo link https://www.editions-mf.com/produit/108/9782378040420/tracer-des-lignes
[3] - In questo contesto non si
intende, naturalmente, il fatto che più persone si riuniscano in segreto per
agire contro altre (perché questo avviene continuamente), ma quelli che
riguardano la politica e che sono indeterminati e contemporaneamente
illimitati. Ovvero è una ‘teoria del complotto’, in questo contesto,
l’attribuzione di un fenomeno sociale all’azione di indeterminati attori, dai
fini vaghi, perfettamente eseguiti, interminabili, non connessi ad una
specifica conformazione temporale e spaziale. Esse sono, tipicamente: ‘sfocate’
(hanno fini illimitati come il dominio del mondo); coinvolgono attori sia
indefiniti sia innumerevoli (ed estendibili a chiunque li neghi); dallo
svolgimento coerente e perfetto (ad onta della innumerevole partecipazione e
vaghezza degli obiettivi); astorici e fuori contesto e quindi eterni.
[4] - Marcello Tarì, “We are Winning”
[5] - M. Foucault, Crisi della
medicina o crisi dell’antimedicina? (1976), in Il filosofo
militante: Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 202-219.
[6] - Si usa questa locuzione di chi
sceglie da un albero (es. da un dibattito disciplinare) solo quelle parti che
si confanno sin dall’inizio alla propria tesi, ignorando quelli contrari e
spesso forzando l’interpretazione di testi e significati.
[7] - Singolare affermazione per un
semplice, banalissimo, certificato di avvenuta vaccinazione (i cui dati non
sono certamente prodotti per l’essere scaricati nell’app “io”), quando la
Pubblica Amministrazione registra, come ovvio e necessario, ogni visita, ogni
prestazione, medicina, visita in ospedale, e innumerevoli altri momenti della vita.
E, soprattutto, quando lo fanno tutti.
[8] - Antonio Gramsci, ad esempio in “Lo
Stato e il socialismo”, L’Ordine Nuovo, 1919, chiarisce che il “tipo
sociale” dell’anarchico, con riferimento ad un articolo precedente nella
medesima rivista, deve essere “conosciuto, studiato, discusso e superato”,
perché si tratta di “pseudorivoluzionari” che basano la propria azione solo sulla
“mera
fraselogia ampollosa, sulla frenesia operaia, sull’entusiasmo romantico è solo
un demagogo, non è un rivoluzionario”. E’ tutto il contrario, infatti, “Sono
necessari, per la rivoluzione, uomini dalla mente sobria, uomini che non
facciano mancare il pane nelle panetterie, che facciano viaggiare i treni, che
provvedano le officine di materie prime e trovino da scambiare i prodotti
industriali coi prodotti agricoli, che assicurino l'integrità e la libertà
personale dalle aggressioni dei malviventi, che facciano funzionare il
complesso dei servizi sociali e non riducano alla disperazione e alla pazza
strage interna il popolo. L'entusiasmo verbale e la sfrenatezza fraseologica
fanno ridere (o piangere) quando uno solo di questi problemi deve essere risolto
anche solo in un villaggio di cento abitanti”.
Salve. Complimenti per l'articolo. Con il suo permesso, vorrei pubblicarlo sul mio profilo Facebook integralmente, specificandone chiaramente la fonte, perché tempo che postarlo direttamente dal blog scoraggerebbe le persone dal leggerlo (stando a quali sono le odierne abitudini dell'utente medio di internet). Mi autorizza? Se si, la ringrazio. Se no, grazie lo stesso. Condividerò il suo pezzo direttamente da qui, magari estraendone solo una piccola parte come introduzione. Buona serata.
RispondiEliminama certo
EliminaE' invecchiato malissimo questo articolo. A settembre 2021 ancora il quadro non era chiaro, ma certe tendenze mistificazioni e strumentalizzazioni erano davanti agli occhi, a volerle vedere senza pregiudizi
RispondiEliminaFrancamente non concordo. Io resto della medesima idea, poi il fatto che ci siano strumentalizzazioni, esasperazioni, letture unilaterali (ed in questo senso mistificanti) è del tutto normale. Ci sono sempre ed in ogni cosa. Ma la mobilitazione contro le misure sanitarie è una mobilitazione iper-liberale, lavora con la stessa mente che provoca tutti gli effetti che vediamo nella società.
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