Cosa
caratterizza il capitalismo[1]
in quanto forma sociale e modo di produzione? Almeno due cose:
in primo luogo un rapporto tra la capacità di trasformare la natura tramite il
lavoro (concetto propriamente capitalista e non eterno[2]) e la peculiare forma di
concentrazione di potere nel denaro che genera “il capitale”[3]; quindi la possibilità,
creata dallo Stato, di appropriarsi individualmente del capitale e, tramite
questo, del lavoro e della natura stessa. Questa forma sociale nativamente
diretta all’estensione del dominio sulla natura (e quindi gli uomini che ne
fanno parte) si impernia perciò sull’accumulazione e la valorizzazione, ed è
intrinsecamente dinamica. È dinamica perché qualunque cosa si può prestare ad
essere valorizzata e, quindi, trasformata in capitale e di qui accumulata per l’attivazione
di un nuovo ciclo. Vediamo che, in un certo senso, alcune dimensioni del
capitalismo riescono efficacemente a trasformare in fattore di accumulazione
anche la crisi pandemica (cosa che non significa l’abbiano provocata[4]). Semplicemente per il
modo di produzione capitalista l’unico bisogno riconoscibile è quello che si
può definire in termini di merce e quindi entrare in un ciclo di valorizzazione.
Nessuna risorsa è disponibile nel capitalismo se non produce un profitto. Ogni,
e qualsiasi aspetto della natura (entro e fuori dell’uomo) viene incorporato in
questa logica illimitata e trasformato in merce da realizzare nei mercati.
Gradualmente,
e non da poco tempo, ma almeno dall’estensione della ‘rivoluzione informatica’
(ovvero, da oltre cinquanta anni) sempre più dimensioni della vita sono infatti
state incorporate (o ‘sussunte’) nel processo di valorizzazione. Nel fare
questo il capitale ha incorporato, funzionalizzato e mercificato processi
delicatissimi di riproduzione, talvolta sotto l’apparenza di liberarli. E’ un
segno di questa sussunzione l’enorme estensione delle forme informali e fluide
di tempo, di strutture del lavoro apparentemente a-gerarchiche, dell’importanza
delle produzioni culturali, di svago, intrattenimento, e delle persone che in
condizioni spesso flessibili vi si dedicano. Questo, la forma di tempo che ne
deriva, l’idea di ‘libertà’ che gli è propria, il tipo di piano di vita e
personalità che favorisce sono i tratti caratteristici del modo neoliberale del
capitalismo. Solo chi vi è nato dentro, ovvero tutte le generazioni nate dal
1980 in poi, fatica a vederlo. Difenderli significa necessariamente difendere
la forma neoliberale del modo di produzione capitalista.
Dentro
questo processo dinamico si creano, però, continuamente linee di frattura.
Per fare un esempio, una tendenza che è stata visibile a partire dall’avvio del
nuovo millennio, e crescentemente, è quella tra i luoghi (e relativi soggetti
sociali) nei quali, per caratteristiche di rete, si addensano i ‘capitali’[5] e quelli nei quali, di
necessario converso, si diradano. Questo è il macro-processo che si è
manifestato durante tutti questi venti anni, preparato nei venti precedenti. Ma
questo processo ha una faccia posteriore sociale e culturale. Si presenta
attraverso una gigantesca trappola per le vite di miliardi di persone, le quali
non possono in alcun modo evitare di essere risucchiate nella marginalità, e
per le quali la distanza tra la promessa luccicante del liberalismo e la realtà
si allarga sempre di più.
Vite
di persone che possono essere poste in diverse posizioni sociali e, talvolta,
anche essere detentrici di frazioni non banali di ‘capitale’[6]. Ma frazioni poco mobili,
difficilmente in grado di competere con le immani concentrazioni di potere e
relazioni di cui dispongono i Grandi Capitali ed i loro gestori. Anche qui si
apre un conflitto, molto visibile e rumoroso.
Nel
contesto della prima fase della crisi del 2008 (fase che si è definitivamente
chiusa con l’insorgenza della pandemia nel 2020) questa tensione dinamica si
era rappresentata quindi come lotta tra Grande Capitale e Piccoli Capitali;
ed aveva avuto per lo più una espressione nel populismo di destra,
antiglobalista e interclassista[7]. Un’espressione che aveva
preso una direzione nazionalista e, in alcune forme estreme, si era presentato anche
simmetricamente ostile ad ogni espressione del cosiddetto “progressismo”[8] (ovvero, in forme che
tecnicamente si direbbero ‘reazionarie’[9]).
La
sconfitta di questa prospettiva nella sua rappresentazione politica (Trump in
primis) ha aperto all’avvio, nel contesto per ora confuso di una pressione
esterna al sistema economico di grande momento ed estensione, di una fase di riassorbimento
subalterno nella quale alcune delle dinamiche di concentrazione e
disgregazione sono diventate oggetto di un rinnovato tentativo di governo. Si
vede poco in Italia, periferia che deve eternamente prima “fare i compiti” (e
che li fa con commovente servilismo), ma appare come tendenza ben presente nelle
metropoli. Sembra di vedere, cioè, il prodromo di un tentativo di aggiornare il
processo di governo delle tensioni tra capitali e tra territori più adatto alla
competizione di sistema che si preannuncia. Siamo, infatti, sul crinale
di una crisi del sistema storico capitalista che si presenta al contempo:
- come
sfida esterna (da parte di modi di regolazione e di produzione non completamente
riconducibili al modello-base, per lo più nell’estremo oriente e nella tradizione
comunista e Daoista al contempo),
- come
minaccia interna (causata da una disgregazione sociale e di autorità che
coinvolge allo stesso momento la politica -quella che pomposamente chiamiamo
“democrazia”- e l’impresa tecnico-scientifica, che sempre più è confusamente percepita
come di parte).
- Quindi come minaccia competitiva di potenza,
che rende non più facilmente perseguibile la strada di stabilizzare il sistema
aumentando, semplicemente, il dividendo imperiale collettivo.
Il
cambio di fase non interrompe l’egemonia neoliberale
(anzi, è promosso per consolidarla e proteggerla), tantomeno rimette in
questione il dominio che con dizione invecchiata e certamente imperfetta
chiamiamo ‘di classe’, quanto la riproduce ed estende, sussumendo in
essa anche ogni traccia di opposizione. Gli unici conflitti ammessi sono,
infatti, quelli per la corretta interpretazione della ‘libertà’, purché questa
sia strettamente prorompente dall’individuo.
La
battaglia per la libertà di lavorare e godere degli spazi, simmetricamente pro
e contro il Green Pass (entrambe le fazioni vogliono il medesimo), ne è una
chiara espressione. Il passaporto vaccinale (dizione non perfetta, ma migliore)
è obiettivamente un aspetto marginale, se pure con aspetti gravi[10], di una vicenda dai confini
assolutamente epocali.
Abbiamo:
- una
pandemia generata da un salto di specie (spillover) come ce ne sono stati
parecchi altri e altri ce ne saranno;
- tutti
determinati dalla insostenibilità sistemica del nostro stile di vita e
sfruttamento della natura, ovvero dall’insostenibilità del capitalismo
per il destino del pianeta e della specie;
- questa,
calata nella grandissima fragilità strutturale dei nostri sistemi sociali e
produttivi, estesa a l’intero sistema-mondo, ha determinato colossali problemi
di gestione, economici, sanitari, politici e sociali;
- i
suoi effetti cumulati stanno determinando un rivolgimento progressivo e
crescente delle catene del valore mondiali che è sempre più difficile da
gestire e che potrebbe portare a crisi economico-finanziarie e quindi
politico-sociali di primissima grandezza;
- il
rischio è nientedimeno che si avvicini una tempesta da fine-di-mondo[11].
Di
fronte a tutto questo, una vera minaccia esistenziale alla quale potremmo non
sopravvivere (se innescasse una fase di belligeranza e questa andasse fuori
controllo[12]),
ed in assenza quasi totale di rimedi tecnici (malgrado le leggende
metropolitane che in questi casi abbondano come la grandine non ci sono
soluzioni definitive adeguate[13],
allo stato) ma in presenza di pochissimi mezzi per allontanare almeno
provvisoriamente il calice (i vaccini sono per ora questo: un rinvio), abbiamo
una confusa folla solitaria che vuole difendere la propria libertà di avere
paura e nutre contro ogni evidenza, ostinatamente, la speranza che sia solo un
brutto sogno, e, dall’altra parte, una vasta maggioranza che vuole tornare nel
suo mondo e identifica il mezzo tecnico come salvezza (dunque chi vi si oppone,
o lo teme, come oscurità[14]). Da questo punto si
diramano, in entrambe le direzioni, reciproche accuse di inumanità e i
due fratelli siamesi dello scientismo[15]
e delle teorie del complotto[16],
che vedono rispettivamente bianco e nero rovesciati. I due fenomeni sono
identici (nell’essenziale) in quanto il mondo è identificato come perfettamente
trasparente e logico, abitato da ‘bianchi’ e ‘neri’, senza sfumature (solo che
per alcuni i ‘bianchi’ sono ‘neri’ e viceversa), e la ‘verità’ è perfettamente
disponibile se ci si impegna abbastanza nel ‘cercarla’. I fedeli conoscono la
verità, e questa li farà liberi. I fedeli hanno la loro ecclesia, e oltre essa
nessuna salvezza è possibile (extra ecclesia nulla salus).
La
crisi del Covid sarebbe meno grave, gestibile, se intervenisse nel ben più
robusto, coeso, e denso di fiducia sociale, mondo per come si presentava al
termine dei trenta gloriosi. Oggi invece arriva in un mondo estenuato,
nel quale centinaia di milioni di persone sono senza speranze e si sentono
esclusi e vittimizzati dalla società nella quale non hanno, e giustamente, più
alcuna fiducia. Individui privi di cultura sociale e politica, per effetto del
completo abbandono da parte di ogni organizzazione nel quarantennio che ci
precede. Che hanno passato i loro anni di formazione a dire che della politica
non si interessavano perché era lontana e sporca. E quindi individui che,
logicamente, reagiscono rivendicando in sostanza il loro ‘diritto’ di
disinteressarsi del bene collettivo, negandone l’esistenza stessa. ‘Bene
collettivo’ che, sia molto chiaro, è usato come termine fantoccio da
quel medesimo sistema di potere che li ha schiacciati per tutta la vita e che
ora intende soltanto tornare a farlo perché è sì spaventato dalla possibilità
della crisi fine-di-mondo che vedono avvicinarsi all’orizzonte, ma non può rinnegare
se stesso.
La
situazione è dunque ambigua. Risponde al vero che i dispositivi
di colpevolizzazione individuale, che scaricano ancora una volta tutto il peso
sui comportamenti ‘volontari’ del singolo (e non si fanno carico di rendere
possibile assumerli, ascoltando legittime paure, garantendo la praticabilità di
alternative, impedendo abusi ad esempio da parte dei datori di lavoro) sono ancora
una volta forme di governamentalità neoliberale ed eludono, nascondendola
astutamente nel frastuono derivante dai dispositivi parziali proposti, il nodo
di affrontare le questioni di fondo. Tuttavia, la questione in campo è
enormemente più grande, e più decisiva.
A
chi dice che bisogna guadagnare tempo (con la vaccinazione a tappeto) occorre
rispondere non che ce ne disinteressiamo, ma che il tempo comprato a prezzo
così caro deve essere ben speso. E per poterlo dire credibilmente abbiamo
bisogno di una visione alternativa del mondo e non solo della rivendicazione
dei confini del nostro proprio corpo. Invece delle battaglie liberali di
retroguardia, le quali consolidano soltanto il comune sentire neoliberale
(anche e soprattutto quando pensano di combatterlo, riproducendone i tipi più
classici di lotta allo Stato, difesa della propria determinazione originaria,
ribellismo), bisogna combattere una buona volta quelle scelte che hanno
svuotato conoscenze e strutture pubbliche, dobbiamo ricentralizzare, de-privatizzando e destinando imponenti risorse aggiuntive a garantire l’effettività del diritto
alla salute, all’istruzione, alla mobilità, alla città.
Senza
alcuno sconto, facendo la propria parte per difendere
il corpo sociale (e quindi, sì, vaccinandosi dato che ora c’è questo, ma con la
necessaria prudenza[17] in una situazione che è
ancora ambigua), bisogna porre la vera questione della scienza. Non quella di
rivendicare un’impossibile capacità di farsi, ciascuno o ciascun gruppo
elettivo, il proprio episteme[18] (cosa che, ancora una
volta manifesta l’isolamento della personalità neoliberale e la disgregazione
sociale in corso), ma quella di pretendere che i risultati della conoscenza
(con tutti i suoi limiti, e oltre una prospettiva ‘scientista’) siano discussi
e messi in comune. Dunque dobbiamo pretendere non solo che il sapere delle
scienze sia messo a confronto con quello delle altre (ad es. la medicina, nelle
sue diverse specializzazioni, con le scienze sociali e con le altre discipline pertinenti
il problema), quanto che i brevetti siano sospesi, che la produzione
dei farmaci sia resa pubblica, per ora entro l’emergenza poi
permanentemente, e siano distribuiti alla generalità della popolazione del
mondo. Abbiamo infatti la capacità industriale di produrre tutti i vaccini
che ci servono, e tutti i farmaci necessari per ridurre ancora la mortalità (i
due non sono in competizione, sono sinergici), è un crimine non usarla.
Questo
è il crimine, non lo è la violazione di una libertà
individuale che di per sé non esiste. Nessuno di noi è libero se è nato in una
società che lo ha sostenuto e lo sostiene dalla culla alla tomba. Nessuno può
chiamarsi fuori; questo è propriamente il sogno nel quale siamo stati cullati negli
ultimi cinquanta anni (un sogno che è un inganno, solo per chi ha i mezzi lo è,
per gli altri la libertà è solo quella di essere sfruttato).
Un
altro crimine, contro il nostro futuro, è di perdere l’occasione
dei pur pochi fondi strutturali messi a disposizione dal Pnrr (o mobilitabili
con più coraggio, grazie allo scudo della Bce) di rivisitare organicamente il
SSN: passando da una medicina centrata sul singolo individuo/cliente e sull’emergenza
ad una di comunità, fondata sulla programmazione ed adatta ai diversi territori;
riducendo la presenza del privato che non persegue finalità pubbliche, ma
quelle della autovalorizzazione del proprio capitale; modificando la figura del
Medico di Medicina Generale (MMG) da professionista a dipendente del SSN, in
modo da poterne programmare le funzioni e ridurre le distorsioni,
potenziandolo.
La
vera battaglia non è quella che riempie le piazze (soprattutto virtuali), ma è
quella per la liberazione dei diritti di proprietà intellettuale che
impediscono di distribuire i benefici e proteggere la società, quella per la
ripresa della responsabilità sociale e per il potenziamento del ruolo del
pubblico. E’ la battaglia perché nessuno sia lasciato solo ad affrontare il
rischio, per mettere in comune la conoscenza, e la responsabilità, da
ciascuno e per tutti.
Qualcuno
potrebbe chiamarlo ‘comunismo’. È quello buono.
[1] - E’ ovviamente molto difficile
dare una definizione sintetica di “capitalismo”, un termine che Marx, ad
esempio, non usa quasi mai e che viene introdotto successivamente da Sombart e
Weber. Parla piuttosto di “modo di produzione capitalistico” e società in cui
questo domina. Per comprendere un modo storico bisogna confrontarlo con quelli
che ne sono privi, e il punto di differenza non è la presenza del “capitale”
(ma poi questo stesso termine andrebbe qualificato), quanto ciò che rende
possibile la produzione sociale e la mobilitazione delle risorse nella società da
esso ‘dominata’. Proprio del ‘capitalismo’ è che la produzione socialmente
necessaria alla riproduzione della società non viene attivata dalla necessità
di dare soddisfazione a bisogni dati e preesistenti, quanto a conseguire un
profitto (per il quale, se mai, i bisogni sono costruiti). Il processo tipico è
quello nel quale un capitale dato è impiegato, suscita una produzione e questa
è realizzata nel mercato per ottenere un capitale maggiore, che al termine del
ciclo è reinvestito. L’economia capitalistica è strutturalmente illimitata, si
allarga continuamente e travalica ogni confine.
[2] - Il “lavoro” con il significato
che gli attribuiamo, è un fenomeno che si presenta insieme all’affermazione
della libertà individuale di contratto e alla crescita della forma salariale
regolata dalla legge come forma centrale della riproduzione sociale. E’ ‘lavoro’
quello che viene sussunto nel ciclo del modo di produzione del capitalismo e
che attraverso la trasformazione della natura, ovvero la produzione di segni
inseriti nel più complessivo processo di produzione sociale, opera la
trasformazione del capitale impiegato in merce, la quale realizzandosi
restituisca più capitale (al netto della parte che trattiene come salario).
[3] - Il “capitale” nel modo di produzione
capitalista è qualcosa di completamente diverso dall’accumulazione di segni di
valore nell’economia non capitalista (sia essa antecedente o successiva). Non si
tratta di valore trattenuto come potenziale (e/o dissipato in consumi
identitari), ma del medesimo potenziale impiegato nell’attivazione del processo
illimitato di valorizzazione. Il capitale opera come legge coercitiva esterna,
nei confronti del suo possessore pro tempore (ovvero il “capitalista”),
costringendolo ad espanderlo continuamente per conservarlo come tale. Questo è
il motivo per cui l’impresa capitalista (o il modo di produzione capitalista) è
necessariamente dinamico e dipendente dalla crescita. Ed è il motivo per cui è
instabile.
[4] - Il proprio del capitalismo è la
messa a valore di qualsiasi cosa e dimensione, anche se non soprattutto quelle
che non genera esso stesso.
[5] - Ovvero i fattori di valore resi
fluidi, mobili, dalla capacità di sussunzione della megamacchina mondiale, senza
centro e senza testa, che chiamiamo “capitalismo”.
[6] - In quanto tali obbligati a
valorizzarlo dalla legge di autoaccrescimento del capitale che li domina dall’esterno,
e, per questo, obbligati a sussumere il “lavoro” nel processo estendendone la
durata (in termini assoluti) o la produttività (relativi), rispetto al livello
del salario, al fine di conseguire merci che, realizzate, producano più
capitale. Questa legge di autoaccrescimento è identicamente rappresentata alle
diverse scale. Ma sui mercati capitali che dispongono di migliori livelli di
efficienza (di una maggiore intensità di capitale) sistematicamente prevalgono,
valorizzandosi in modo più elevato, creando le condizioni per una progressiva e
sempre maggiore concentrazione. Nel capitalismo si tratta della tendenza
dominante (ma ai suoi confini, dato che non tutto è capitalismo, esistono
controtendenze che possono a volte prevalere).
[7] - Attenzione, interclassista solo fino
ad un certo punto in quanto fondamentalmente esteso solo ai “proprietari”.
[8] - Il “progresso” è un termine
relativo (p. rispetto a cosa?) e, al contempo, contiene una metafora spaziale
potentemente ancorata alla esperienza corporea (dal latino progressus -us,
‘andare avanti, avanzare’, impostosi nel XVIII secolo in Francia e Inghilterra,
sincronicamente con lo sviluppo della rivoluzione industriale e il sorgere del
capitalismo). Questa idea di progresso come avanzamento verso stadi superiori,
perfezionamento, evoluzione, miglioramento, è una versione secolarizzata della
fede cristiana nella provvidenza. È dunque una protezione contro l’insensatezza
e la disperazione, l’espressione della direzione all’autoccrescimento (del
capitalismo) e, insieme, la promessa che questo è per il meglio. Ogni sofferenza
è diretta al paradiso. Questa idea, inclusa quella che gli eventi abbiano una
direzione irreversibile lungo la freccia del tempo (da cui lo stigma agli ‘arretramenti’),
è aliena, ad esempio, al mondo orientale. Nella cultura cinese il Dao è
coerenza tra l’ordine cosmologico e quello morale, una coerenza che si chiama zi
ran (talvolta tradotto con ‘natura’). Il significato originario è attuare e
comportarsi in armonia con il sé e senza avere pretese prometeiche, lasciare le
cose come stanno. Anche se c’è tensione nella lettura del concetto nei testi di
Laozi (531 a.C.) e di Zhuangzi (370-287 a.C.) ed il confucianesimo, la massima
armonia si raggiunge nell’unificazione di Dao e Qi (dove il secondo indica gli
oggetti tecnici). Dunque l’idea che la tecnica possa perfezionare la natura
(portando al ‘progresso’) non è presente nella cultura tradizionale cinese, in
quanto subordinata all’ordine cosmologico. L’ordine cosmologico è sempre anche
un ordine morale.
[9] - Volte a riprodurre, per reazione
allo spirito di astrazione e mercificazione del capitalismo, e alla sua
tendenza alla concentrazione, forme di vita e modi di produzione fondati su una
gerarchia già data. Storicamente il termine affonda nella reazione alla
rivoluzione francese, volta a ripristinare contro tempo il modo di produzione e
la forma sociale feudale.
[10] - Il principale dei quali è la
delega al controllo ai datori di lavoro, che mette nelle loro mani un
potenziale di potere disciplinare che, nelle condizioni di estrema debolezza
dei sistemi pubblici, potrebbe esplicarsi come discrezionalità ricattatoria
(non ti applico la multa se tu sei bravo e disciplinato, altrimenti …).
[11] - Innescata dal collasso
ambientale, dalla pressione sulle risorse e l’incrudirsi della lotta per il
loro controllo (segnatamente tra Nord e Sud del mondo e tra rivali egemonici). O,
più sbrigativamente, dall’andare repentinamente fuori controllo della
transizione di potenza, cadendo nella “trappola di Tucidide” (esito non
necessario, ma possibile).
[12] - Cfr. Graham Allison, “Destinati
alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?”,
Fazi Editore, 2018 (ed. or. 2017).
[13] - Non lo è il vaccino, che non può
eradicare il virus (in particolare se non viene esteso a livello mondiale), non
lo sono fantomatiche ‘cure’, che mancherebbero delle condizioni tecniche,
operative e materiali per essere erogate alla dimensione necessaria anche se
esistessero (e non esistono).
[14] - La potenza teologica di questa
identificazione, che si lega strettamente alla idolatria del progresso,
è di impossibile sottovalutazione. Ogni eccesso, e ce ne sono in copiosa
quantità, è legato a questa identificazione luce/tenebra, che espelle,
letteralmente, gli scettici ed i timorosi dal novero della società.
[15] - Si può definire scientismo
(storicamente un movimento sorto nel XIX secolo nel contesto positivista) l’idea
secondo la quale l’unico sapere valido è quello reificante (che trasforma il
mondo in una collezione di oggetti, e questi li dispone per la loro
manipolazione) delle scienze fisiche e sperimentali (a loro volta fraintese
come insieme di tecniche).
[16] - In questo contesto non si
intende, naturalmente, il fatto che più persone si riuniscano in segreto per
agire contro altre (perché questo avviene continuamente), ma quelli che riguardano
la politica e che sono indeterminati e contemporaneamente illimitati. Ovvero è
una ‘teoria del complotto’, in questo contesto, l’attribuzione di un
fenomeno sociale all’azione di indeterminati attori, dai fini vaghi,
perfettamente eseguiti, interminabili, non connessi ad una specifica
conformazione temporale e spaziale. Esse sono, tipicamente: ‘sfocate’ (hanno
fini illimitati come il dominio del mondo); coinvolgono attori sia indefiniti
sia innumerevoli (ed estendibili a chiunque li neghi); dallo svolgimento
coerente e perfetto (ad onta della innumerevole partecipazione e vaghezza degli
obiettivi); astorici e fuori contesto e quindi eterni.
[17] - Ovvero non tutti, che per alcuni
i rischi possono eccedere i benefici (non solo per loro stessi, quanto per l’insieme
della società che non ha alcun interesse al sacrificio inutile dei suoi
membri), non necessariamente all’infinito (dato che Oms e Ema, o Fda, mettono
in guardia dall’estensione generalizzata alla terza dose, per due buone
ragioni: che le dosi sono limitate e abbiamo ancora miliardi di persone che ne
mancano nel mondo; che sono necessari approfondimenti anche in riferimento alla
necessità, in quanto non tutte le risposte immunitarie sono adeguatamente
descritte dagli studi).
[18] - Sapere certo, acquisito,
contrapposto alla mera opinione.
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