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lunedì 14 febbraio 2022

McKinsey&Company, Circa la “The net-zero transition”

  

Il rapporto

La notissima società di consulenza internazionale McKinsey & Company, la cui capacità di influenza è più spesso sopravvalutata che sottovalutata, nel gennaio 2022 ha emesso un corposo rapporto sulla transizione ecologica a livello mondiale che enfatizza notevolmente la portata della trasformazione e dei relativi investimenti. Chiaramente non bisogna mai dimenticare che la società guadagna dalle consulenze strategiche dei grandi gruppi multinazionali (ed in misura minore dai governi), per cui la drammatizzazione della transizione è nella stessa direzione del suo interesse. Difficilmente ci si impegna nel richiedere consulenze milionarie se si pensa che nulla stia cambiando.

Ma il rapporto è comunque impressionante. Sotto il titolo “The net-zero transition[1], che a sua volta usa come base lo studio “NGFS Climate Scenarios[2] del Network for Greening the Financial System, emesso nel giugno 2021, è ipotizzato che per mantenere il clima entro i limiti negoziati a Parigi[3] siano necessari ormai investimenti di un ordine di grandezza che dalla II Guerra Mondiale non si erano mai visti. Di fatto raggiungere l’obiettivo “net-zero” (emissioni nette nulle) in tempo per non superare in una misura eccedente gli uno virgola cinque gradi il livello della temperatura media del pianeta pre industriale comporterebbe secondo lo studio, esteso a poco meno di settanta paesi, una trasformazione fondamentale dell’intera economia mondiale. Imporrebbe drastici cambiamenti alla produzione dell’energia, all’industria, alla mobilità, l’agricoltura e silvicoltura, l’edilizia ed i rifiuti. Definire, di zona in zona, il mix appropriato di tecnologie da applicare, individuare e risolvere inevitabili colli di bottiglia, superare vincoli fisici, livelli di spesa, modulare l’impatto su lavoratori, consumatori ed imprese.



 

Entità degli investimenti globali

Le stime correnti ipotizzano necessità di investimento globale nell’ordine di 3.000/4.500 miliardi di dollari all’anno, quelle della società americana le superano abbondantemente. Si parla qui di quasi 10.000 miliardi all’anno, complessivamente in trenta anni (dal 2021 al 2050) una spesa cumulata di circa 275.000 miliardi di dollari. Difficile rendersi conto dell’enormità di questa cifra, 9,5 trilioni di dollari corrispondono ai profitti aziendali globali (li superano), la metà ed oltre delle entrate fiscali totali, il 15% della spesa familiare globale. Qualcosa come il 9% del PIL del mondo intero.



Dal grafico si può vedere che il livello 2020 di investimenti globali è nell’ordine di 6.000 miliardi, di cui 2.000 per la mobilità, poco meno di 1.000 per la transizione energetica, poco più per l’edilizia, e quasi 1.000 miliardi per le energie fossili, il resto soprattutto agricoltura. Quindi al momento fossili e rinnovabili ricevono circa la stessa dotazione di investimenti.

Nel primo quinquennio cresceranno gli investimenti in mobilità (in questa dimensione lo scenario “politiche correnti” a destra e quello “net-zero” a sinistra non sono molto diversi), e del 30% quelli nelle rinnovabili (qui con un netto incremento tra i due scenari), mentre calerà leggermente quello nelle fossili. Nel secondo ci sarà un’autentica esplosione della spesa per rinnovabili (che nello scenario ‘net-zero’ sale a 2.000 miliardi) con una significativa crescita della spesa per mobilità (da 2.500 a 3.000 miliardi) e del settore edilizio (che supererà i 1.000 miliardi), inizierà la contrazione della spesa per fossili e comincerà a crescere quella per l’idrogeno.

Nel primo quinquennio degli anni trenta la spesa per mobilità continuerà a crescere progressivamente, mentre quella da rinnovabili confermerà il livello del quinquennio precedente, come l’edilizia, calerà ancora l’investimento da fossili. Nel secondo calerà l’investimento in rinnovabili (che si stabilizzerà intorno ai 1.500 miliardi all’anno) e continuerà a calare quello da fossili.

Negli anni quaranta ci sarà una leggera contrazione del livello complessivo di spesa che, ormai, sarà quasi per metà affidato alla mobilità, ed il resto rinnovabili e adeguamento dell’edilizia, oltre che agricoltura.

 

“Net-zero”, definizione

Un chiarimento sul termine “net-zero”, si tratta dell’ipotesi di raggiungere complessivamente, tra generazione di energia, industria, edilizia, mobilità e agricoltura, tenendo conto di crescenti capacità di estrazione e stoccaggio della CO2 dalle emissioni, un saldo nullo di emissioni globali. In altre parole, che al 2050 le emissioni da generazione di energia siano nulle, quelle dall’edilizia molto ridotte, dalla mobilità ridotta di almeno un terzo, dall’industria di quattro quinti e dall’agricoltura azzerata. Le emissioni residue (sostanzialmente industria e mobilità) siano compensate completamente dalla cattura della CO2.



 

Quadro delle politiche italiane ed europee

Leggeremo sistematicamente il rapporto della McKinsey, ma prima conviene fare cenno ad alcune delle politiche e strumenti europei ed italiani che vanno nella direzione della gestione della transizione climatica, al fine di situare meglio le stime e le informazioni in esso contenute.

 

Per fare ciò analizzeremo rapidamente il “Pniec”, la “Strategia di lungo termine” e il “Pnrr” italiani.

 

Il “Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima” per il 2030 italiano[4], emesso nel 2020, prevede la riduzione delle emissioni nel settore della grande industria del 56 per cento, del settore terziario e trasporti del 35 per centro ed un obiettivo delle rinnovabili al 30 per cento. Si sviluppa su cinque linee di intervento: decarbonizzazione, efficienza, sicurezza energetica, sviluppo del mercato interno dell’energia, ricerca e competitività.

Gli obiettivi generali sono: accelerare il percorso di decarbonizzazione, considerando il 2030 come una tappa intermedia verso una decarbonizzazione profonda del settore energetico entro il 2050 e integrando la variabile ambiente nelle altre politiche pubbliche; mettere il cittadino e le imprese (in particolare piccole e medie) al centro, in modo che siano protagonisti e beneficiari della trasformazione energetica e non solo soggetti finanziatori delle politiche attive; ciò significa promozione dell’autoconsumo e delle comunità dell’energia rinnovabile, ma anche massima regolazione e massima trasparenza del segmento della vendita, in modo che il consumatore possa trarre benefici da un mercato concorrenziale; favorire l’evoluzione del sistema energetico, in particolare nel settore elettrico, da un assetto centralizzato a uno distribuito basato prevalentemente sulle fonti rinnovabili; adottare misure che migliorino la capacità delle stesse rinnovabili di contribuire alla sicurezza e, allo stesso tempo, favorire assetti, infrastrutture e regole di mercato che, a loro volta contribuiscano all’integrazione delle rinnovabili; continuare a garantire adeguati approvvigionamenti delle fonti convenzionali, perseguendo la sicurezza e la continuità della fornitura, con la consapevolezza del progressivo calo di fabbisogno di tali fonti convenzionali, sia per la crescita delle rinnovabili che per l’efficienza energetica; promuovere l’efficienza energetica in tutti i settori, come strumento per la tutela dell’ambiente, il miglioramento della sicurezza energetica e la riduzione della spesa energetica per famiglie e imprese; promuovere l’elettrificazione dei consumi, in particolare nel settore civile e nei trasporti, come strumento per migliorare anche la qualità dell’aria e dell’ambiente; accompagnare l’evoluzione del sistema energetico con attività di ricerca e innovazione che, in coerenza con gli orientamenti europei e con le necessità della decarbonizzazione profonda, sviluppino soluzioni idonee a promuovere la sostenibilità, la sicurezza, la continuità e l’economicità di forniture basate in modo crescente su energia rinnovabile in tutti i settori d’uso e favoriscano il riorientamento del sistema produttivo verso processi e prodotti a basso impatto di emissioni di carbonio che trovino opportunità anche nella domanda indotta da altre misure di sostegno; adottare, anche tenendo conto delle conclusioni del processo di Valutazione Ambientale Strategica e del connesso monitoraggio ambientale, misure e accorgimenti che riducano i potenziali impatti negativi della trasformazione energetica su altri obiettivi parimenti rilevanti, quali la qualità dell’aria e dei corpi idrici, il contenimento del consumo di suolo e la tutela del paesaggio; continuare il processo di integrazione del sistema energetico nazionale in quello dell’Unione.

Nel Piano è specificato che l’Italia promuoverà l’ulteriore sviluppo delle rinnovabili associandolo alla tutela e al potenziamento delle produzioni esistenti, “se possibile superando l’obiettivo del 30%, che comunque è da assumere come contributo che si fornisce per il raggiungimento dell’obiettivo comunitario”. Le rinnovabili impattano sulla dimensione della sicurezza energetica, ovvero la riduzione della dipendenza dalle importazioni e la diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Continua: “quanto a sicurezza e flessibilità del sistema elettrico, ferma la promozione di un’ampia partecipazione di tutte le risorse disponibili - compresi gli accumuli, le rinnovabili e la domanda - occorrerà tener conto della trasformazione del sistema indotta dal crescente ruolo delle rinnovabili e della generazione distribuita, sperimentando nuove architetture e modalità gestionali, anche con ruolo attivo del TSO. Parimenti, occorre considerare l’ineludibile necessità dei sistemi di accumulo, a evitare l’overgeneration da impianti di produzione elettrica da fonti rinnovabili: a evidenza di tale necessità, si rimarca che le stime di potenza di soli eolico e fotovoltaico necessaria per gli obiettivi rinnovabili 2030 sono dello stesso ordine del picco annuo di potenza richiesta sulla rete”.

 

Inoltre, gli impatti climatici sul sistema energetico possono essere raggruppati attraverso le seguenti componenti.  Vulnerabilità fisica: rischi causati dall’aumento dell’intensità e della frequenza di eventi meteorologici estremi, cioè dalle modifiche climatiche già in corso: siccità, alluvioni, frane, esondazioni, ecc. Tali rischi riguardano direttamente anche le infrastrutture energetiche, sia impianti che reti di trasmissione e distribuzione. Vulnerabilità operativa: impatto delle variazioni quantitative nei cicli idrologici, la loro variazione stagionale, l’innalzamento delle temperature medie e le modifiche del regime dei venti sull’energia erogata e sul bilancio energetico degli impianti (EROEI-Energy Return On Energy Invested) nonché sulle caratteristiche tecniche dei generatori eolici. Impatti sulla domanda: variazione della domanda di energia per il condizionamento degli edifici a seguito delle modifiche del clima così come evidenziate nei diversi scenari evolutivi considerati dal PNACC. Anche nel settore agricoltura, dovranno essere considerate le variazioni della domanda dei cicli e delle modalità colturali.

 

Per questi motivi il Piano propone di costruire un sistema energetico resiliente che rimanga affidabile attraverso gli scenari climatici di breve e medio termine, e in grado di evolvere coerentemente anche negli scenari di lungo termine attraverso: la promozione dello sviluppo di micro grids e smart grids per favorire l’autoproduzione ad alta efficienza di comunità urbane e distretti industriali, nel rispetto della sicurezza del sistema e sfruttando preferibilmente la rete esistente; la realizzazione di programmi e strumenti per la gestione e l’orientamento della domanda (demand side management); la promozione dell’applicazione, in tutti i settori, delle migliori tecnologie (BAT) per la gestione dell’efficienza energetica; il miglioramento dell’interconnessione con le reti europee per compensare il ricorso a fonti rinnovabili discontinue; l’utilizzo di un mix energetico tale da garantire la capacità di adattamento a situazioni climatiche estreme per mantenere la continuità delle forniture di energia; la valutazione, il monitoraggio e la verifica della resilienza del sistema energetico a seguito dell’attuazione e implementazione del PNIEC.

In definitiva il Piano prescrive per l’Italia un obiettivo di copertura, nel 2030, del 30% del consumo finale lordo di energia da fonti rinnovabili, delineando un percorso di crescita sostenibile delle fonti rinnovabili con la loro piena integrazione nel sistema. In particolare, l’obiettivo per il 2030 prevede un consumo finale lordo di energia di 111 Mtep, di cui circa 33 Mtep da fonti rinnovabili. L’evoluzione della quota fonti rinnovabili rispetta la traiettoria indicativa di minimo delineata nell’articolo 4, lettera a, punto 2 del Regolamento Governance.



Per le rinnovabili elettriche tale obiettivo si traduce nel 55% nel settore elettrico al 2030, con un andamento espresso alla seguente tabella.



 Invece la “Strategia Italiana di Lungo Termine sulla Riduzione delle Emissioni dei Gas a Effetto Serra[5], emessa nel gennaio 2021, individua i percorsi che l’Italia deve intraprendere per raggiungere al 2050 la condizione di “neutralità climatica” (definita come quella condizione nella quale le residue emissioni di gas a effetto serra sono compensate dagli assorbimenti di CO2 e dall’eventuale ricorso a forme di stoccaggio geologico e riutilizzo della CO2). Dal documento emerge il ruolo fondamentale che l’elettrificazione e l’idrogeno rivestiranno nel percorso di decarbonizzazione italiano. La proposta suggerisce infatti di valutare la possibilità di progressiva riconversione delle infrastrutture gas per il trasporto e la distribuzione per adattarle dapprima a miscele gas-idrogeno e al solo idrogeno. L’idrogeno avrà, secondo il piano, un ruolo fondamentale anche nel trasporto pesante su strada, ferroviario, marittimo, aereo e nell’industria siderurgica, chimica e del cemento. A livello europeo si propone che le grandi infrastrutture che collegano gli Stati Membri, quali elettrodotti, gasdotti, strade, vie di comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, diventino sempre più interconnesse in modo da poter soddisfare le esigenze di consumatori e aziende in modo omogeneo.

 

Infine il regolamento “Recovery e Resilience Facility[6], del febbraio 2021, che è la parte cardine del pacchetto “Next Generation EU”, prevede l’erogazione di sovvenzioni per 312 miliardi e prestiti per 360. La cosa rilevante è che vengono definiti 4 criteri e uno schema di rating da A a C per l’accesso ai fondi. Uno dei criteri è la capacità del Piano di contribuire alla transizione verde (salvaguardando anche la biodiversità). A questa funzione va dedicato il 37% delle risorse.

Bisogna notare che tutti gli investimenti si devono attenere al principio del “Do no significant harm” (DNSH), ai sensi del regolamento europeo sulla tassonomia per le attività sostenibili[7]. Quest’ultimo è uno strumento che aiuta investitori, aziende e promotori di progetti a guidare la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, resiliente ed efficiente sotto il profilo delle risorse. La tassonomia stabilisce le soglie di rendimento (denominate “Criteri di screening tecnico”) per le attività economiche che: diano un contributo sostanziale a uno dei sei obiettivi ambientali1; non rechino danni significativi (DNSH) agli altri cinque; soddisfino le garanzie minime (ad esempio, Linee guida OCSE su Imprese multinazionali e principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani).

 

Per il secondo criterio “non rechino danni significativi”, è stata pubblicata una guida che definisce “danno significativo”: l’emissione di gas serra e quindi il danno alla mitigazione del cambiamento climatico; se aumenta l’impatto negativo al cambiamento in corso portando danno alle politiche di adattamento; se è dannoso per il buono stato dei corpi idrici; se porta inefficienze nell’uso dei materiali o delle risorse naturali, o lo smaltimento rifiuti, ovvero se porta danni alla strategia della “economia circolare”; se aumenta significativamente le emissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo; se è dannoso per la resilienza e la buona condizione degli ecosistemi e della biodiversità, quindi degli habitat e delle specie. Completano il toolkit una checklist e un indicatore “Transition Performance Index” che è basato su 4 variabili (riduzione delle emissioni, biodiversità, produttività delle risorse, produttività energetica).

L’Italia è nella migliore posizione in questo indicatore, con 77 punti (12 sopra la media). Tuttavia, l’ultima tendenza di riduzione delle emissioni italiane, dal 2015 al 2018 registra un calo delle emissioni del 0,9% all’anno, mentre l’obiettivo comunitario del 40% del “Quadro 2030” indicherebbe un target del 2,7% all’anno. Con la nuova proposta, che sarà formalizzata al giugno 2021, di arrivare al 55% di riduzione questo salirebbe al 5% all’anno.

 

Nell’aprile 2021 il Recovery Plan (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, PNRR) è stato trasmesso alle Camere al fine della successiva trasmissione alla Ue, poi avvenuta. Nel Piano sono presenti sei “missioni” ed alcuni “progetti”[8], le prime sono: 1- digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo e della Pubblica Amministrazione, l’istruzione, la sanità ed il fisco; 2- rivoluzione verde e transizione ecologica; 3 - infrastrutture per la mobilità e le telecomunicazioni, con la realizzazione di una Rete nazionale in fibra ottica, lo sviluppo delle reti 5G e l’Alta Velocità; 4- istruzione, formazione, ricerca, cultura; 5- equità sociale, di genere e territoriale, con focus sulle politiche attive del lavoro e sul piano per il Sud; 6- salute.

Tra gli obiettivi dichiarati del piano troviamo: innalzare gli indicatori di benessere, equità e sostenibilità ambientale; rafforzare la sicurezza e la resilienza del Paese nei confronti di calamità naturali, cambiamenti climatici, crisi epidemiche e rischi geopolitici.



Da ultimo il 14 luglio 2021 la Commissione Europea ha presentato il pacchetto “Fit for 55[9], che contiene proposte legislative disegnate per permettere di raggiungere gli obiettivi intermedi del “European Green Deal[10] del 2019, e gli obiettivi di neutralità climatica del Regolamento UE 2021/119, raggiungendo quindi la riduzione del 55% delle emissioni di gas serra. Il pacchetto comprende 12 strumenti legislativi che vanno dalla riduzione delle emissioni di gas serra, al settore energetico, all’uso del suolo, dai traporti alla fiscalità.



 

Impatti del livello globale degli investimenti, energia

Tutto ciò considerato e tornando al documento della multinazionale americana, alcuni dei costi ipotizzati, vanno compresi come una sorta di (costosissima) assicurazione contro i rischi del cambiamento climatico (che, se lasciato a se stesso potrebbe provocare un collasso di civiltà incalcolabile), altri come investimenti a ritorni positivi. Inoltre si tratta di proiezioni a tecnologia costante, e nuove forme tecnologiche potrebbero ridurlo anche significativamente.

L’impatto di questo alto livello di investimento (che, in sostanza, comporta la forzata obsolescenza di molti investimenti attualmente ancora attivi e redditivi) nel settore energetico che è uno di quelli più direttamente impattati potrebbe comportare per il rapporto l’aumento del costo medio globale dell’energia nel breve termine. Stimano un incremento del 25 per centro tra il 2020 ed il 2040, per poi abbassarsi leggermente. La causa è l’enorme quantità di investimenti contemporanei in centrali di produzione (rinnovabili), nuove reti di trasporto e distribuzione mentre le attuali fonti dovranno essere in parte dismesse. Successivamente i costi operativi molto bassi delle rinnovabili (che non pagano il combustibile) potranno far scendere il costo medio dell’energia.

 

Per comprendere la rilevanza di questa dimensione si può far mente all’attuale emergenza prezzi del gas e dell’energia, non direttamente imputabile alla transizione come vedremo. Il più recente rapporto di S&P Global Ratings stima che per l’intero decennio la scarsità relativa di gas determinerà prezzi alti per l’energia elettrica. Anzi, il picco si dovrebbe raggiungere verso il 2025 (a meno che la guerra in Ucraina lo faccia esplodere subito). I fattori sono la necessità di uscire dal carbone (per norma europea fissata al 2025) e la bassa incidenza delle rinnovabili, per cui permane la dipendenza dalle forniture di gas. Chiaramente gli obiettivi di crescita delle rinnovabili, in particolare quelli al 2030 (triplicare la presenza di impianti fotovoltaici ed eolici, rispetto all’attuale dotazione), faranno da fattore calmierante i prezzi, ma ancora al 2040 si stima che il gas coprirà il 40% della domanda complessiva.

 

Impatti degli investimenti, occupazione e aree nazionali

Tra i più significativi impatti della transizione ci sono in ogni caso le ricollocazioni dei mix di occupazione intersettoriale, con una perdita stimata a livello mondiale di qualcosa come 185 milioni di posti e un guadagno (ma non negli stessi settori, né territori) di poco di più (200 milioni). Il solo settore delle energie fossili dovrebbe perdere 9 milioni di posti di lavoro diretti e 4 indiretti, mentre si creerebbero 8 milioni di posti di lavoro nelle rinnovabili, nell’idrogeno e nei biocarburanti. È tantissimo, ma meno dell’impatto stimato dei sistemi di automazione (i due, però, si sommano).

Alla fine i settori colpiti sono qualcosa come un quinto dell’economia attuale (con azzeramento del ciclo del carbone e dimezzamento del petrolio, o riduzione del 70 per cento dell’uso del gas), inoltre aumenterebbero significativamente i costi di produzione in molti settori, come acciaio o cemento, che potrebbero salire dal 30 al 45 per cento rispetto ad oggi. Viceversa alcuni settori connessi con l’incremento d’uso dell’energia elettrica, o con basse emissioni di carbonio, si espanderebbero (alcuni settori raddoppieranno).



L’impatto geografico sarà molto disomogeneo, con regioni come l’India o l’Africa che per seguire lo stesso percorso dovranno investire fino al 50 per cento in più, ma lo stesso vale per regioni interne ai paesi sviluppati nei quali sono presenti cluster che dovranno essere sacrificati. La cosa mostra, e ci torneremo, una delle poste geopolitiche più rilevanti della transizione. Ai capi opposti della vulnerabilità dei paesi agli stimoli ed ai correlati stress da trasformazione si trovano gli Usa e alcuni paesi in transizione di potenza (e potenzialmente o attualmente sfidanti) come l’India, la Cina, il Brasile. Infine quello sulle famiglie, che sarà molto disuniforme in relazione alle capacità di investimento ed all’allocazione della spesa tra i diversi fattori. La sostituzione di caldaie o di automobili, con altre elettriche, potrà creare un notevole impegno di investimento nel breve termine (anche se potrebbe comportare riduzione dei costi operativi nel medio).



Il fattore più rilevante è la gradualità della transizione, e la progressione dell’abbandono delle attività ad alte emissioni ancora attivi, e qui si trova il cuore della questione: chi pagherà per la transizione?

 

Livello e articolazione degli investimenti, generalità

Questa politica indurrà un enorme aumento della spesa per investimenti, pubblica e privata, industriale e non, e un netto spostamento tra i settori di spesa. Le questioni sono: se i capitali dovranno essere forniti dalla parte pubblica, o incentivati e canalizzati da quella privata; quanta parte andrà diretta ai paesi sviluppati e quanta a quelli in convergenza; ma anche se il capitale andrà raccolto a debito (contando sull’effetto leva di questo e sull’espansione derivante dal piano di investimenti e l’incremento di efficienza sistemica) o da tassazione (e di chi). Tra le tasse si possono indicare quelle dirette sul reddito, o indirette[11], le tasse sulle emissioni, quelle sui consumatori e i loro comportamenti.

Per McKinsey bisogna valutare quale approccio, tra i tanti possibili, aumenta il capitale disponibile per gli investimenti nella misura e velocità necessaria, quale è più equo e più efficiente. In particolare, con riferimento alle conseguenze sul sistema economico complessivo. Alcune tasse, o obblighi, potrebbero infatti comprimere eccessivamente altre parti e produrre effetti a catena, potrebbero esacerbare le diseguaglianze. L’esempio più facile è la compressione della metà del settore siderurgico e cementizio, che potrebbe alzare notevolmente i prezzi di alcuni beni di base, incidendo a sua volta su una vasta serie di beni di consumo (dal costo delle case alle automobili, il trasporto, etc.). Oppure l’aumento contemporaneo del costo dell’energia di un quarto e di alcune materie prime di base della metà potrebbero produrre effetti molto significativi, e dissimmetrici, tra i territori più dotati e altri meno di energie rinnovabili e più dipendenti da settori industriali ad alte emissioni di gas climalteranti. Questa considerazione potrebbe essere tanto più rilevante quanto più si procede verso l’elettrificazione spinta del sistema produttivo e del consumo (strada inevitabile, ma la velocità conta). Il picco di questi effetti combinati, secondo la stima, si dovrebbe avere verso il 2040, per poi calare (nello scenario estremo con una riduzione dei costi operativi anche del sessanta per cento, e quindi un netto attenuarsi dell’effetto aggravio). Più velocemente potrebbero ridursi i costi della mobilità: ad esempio i camion elettrici di medio servizio potrebbero essere pari a quelli a carburante entro il 2025, mentre quelli pesanti al 2030 almeno in Europa.

 

D’altra parte, i recenti eventi connessi con l’enorme aumento di costo del gas e quindi dell’energia elettrica, se pure non siano direttamente attribuibili alla transizione in corso verso il “net-zero”[12] evidenziano molto bene la vulnerabilità della catena internazionale di approvvigionamento e della rete. In sostanza durante una transizione che da una parte obbliga a ridurre l’approvvigionamento da fonti fossili in modo molto ripido, dall’altra dipende dalla capacità di investimento e installazione di nuove fonti che, a loro volta, dipendono da forniture strategiche di litio, materiali rari ed altre materie prime non uniformemente distribuite, potrebbero presentarsi problemi dal lato della domanda e dell’offerta difficili da gestire. Ancora più quanto l’elettrificazione procede lungo la sua strada.

 

Da un altro lato le regole tendenti a ridurre l’impatto delle attività umane sul clima potrebbero indurre aumenti significativi dei costi, e disuniformi, sulle produzioni che ci troviamo ogni giorno nelle mani o nel piatto. Un esempio sono gli allevamenti intensivi di animali a bassa efficienza, quanto ad emissioni di gas climalteranti (nel senso che ne emettono molta a parità di prodotto utilizzabile), come i bovini e gli ovini. Imporgli regole stringenti ne aumenterebbe il prezzo e costringerebbe molti a modificare le proprie diete (non a caso si sta lavorando per introdurre proteine a basso tenore di emissioni, come quelle derivanti dagli insetti). Un altro è, ovviamente, l’efficientamento degli edifici. Una politica assolutamente indispensabile, ma condotta con strumenti altamente problematici e socialmente regressivi come il superbonus[13].



Infine, come abbiamo già visto, l’effetto sul lavoro, che può stimarsi nella perdita di ca. 190 milioni di posti di lavoro persi, ai quali vanno aggiunti quelli derivanti dalla politica gemella dell’automazione e digitalizzazione, la quale ne potrebbe far perdere altri 300 in otto paesi, ed entro il 2030. Nel decennio in corso qualcosa come mezzo miliardo di lavoratori dovrebbero essere dunque ricollocati o aiutati. Ma se i guadagni si avrebbero nelle produzioni a basse emissioni e nei settori ad alta tecnologia dell’economia, le perdite si concentrerebbero sulle aree di vecchia industrializzazione, o nei settori penalizzati come allevamento e mangimi (che potrebbero perdere posti di lavoro fino a 35 milioni di addetti, solo per un terzo compensati dalla espansione di altri allevamenti). D’altra parte il settore delle ristrutturazioni edili dovrebbe espandersi, fino a una quarantina di milioni di nuovi posti di lavoro e le rinnovabili per altri sei. Chiaramente ci sono regioni nelle quali il 10 per cento o più della forza lavoro potrebbe essere toccata dalla transizione, ed altre avvantaggiate.

 

Il grafico 15 mostra i settori nei quali sono presenti più lavoratori per grado di esposizione alla transizione. Tra i più grandi ed esposti il settore agricolo (molto rilevante nei paesi in sviluppo) e piccoli settori come quelle delle macchine utensili, rifiuti, miniere e produzione da fossili, poi, via via a minori livelli di esposizione il settore del cemento, dei motori, della fabbricazione di metalli, della chimica, e dei trasporti. Poco esposti settori anche ad alto impatto di lavoro come il commercio, la finanza e l’immobiliare.



 

 

Livello e articolazione degli investimenti, impatto sulle ‘catene del valore’

Ma una delle conseguenze più rilevanti è sulle cosiddette “catene del valore”. Una dimensione che è cresciuta in particolare nello scambio dei cosiddetti “beni intermedi”, ovvero negli scambi tra imprese di parti di un prodotto finito commerciabile. Questi sono triplicati negli ultimi venti anni, arrivando a 10.000 miliardi di controvalore annuale. Quando in una ‘catena del valore’ sono coinvolti centri di produzione ad alte emissioni di carbonio o consumo di energia si può considerare che le relative emissioni siano prodotte per altri. O, viceversa, che le emissioni siano spostate. Ma se vengono penalizzati i beni ad alto contenuto di carbonio e consumo energetico, intervenendo con tassazioni e regolamenti nella formazione del relativo prezzo, allora tutto il sistema dei vantaggi comparati che organizza (certo non da solo[14]) il mercato internazionale si trova ad essere alterato profondamente. Mentre oggi i paesi con bassi livelli di investimenti e tenore di vita sono avvantaggiati, domani potrebbero esserlo quelli con una maggiore efficienza di emissione e nell’uso dell’energia. Ne deriverebbe una profonda ridislocazione delle opportunità localizzative per il sistema produttivo.

Ma in caso le emissioni ‘portate’ non fossero correttamente conteggiate l’effetto sarebbe opposto, i paesi con politiche più severe, che si trasferirebbero nei prezzi locali, sarebbero svantaggiati. Qui emerge una posta in campo di altissima rilevanza geopolitica, come si può facilmente rilevare dal tenore dei conflitti che sovraintendono ad ogni turno di negoziati globali sul clima.



Per dare un’idea dell’importanza del tema questa è l’immagine dei flussi interregionali globali di carbonio incorporato nelle merci trasportate nel 2021. Si può notare che le quantità scambiate tra Cina e Usa dominano la scena, risultando qualcosa come tre volte superiori all’interscambio cumulato entro l’emisfero Nord del continente americano e supera di circa due volte quello interno all’Asia. Ma la Cina sposta emissioni anche verso l’Europa in un ordine pari a quello interno all’Asia e circa la metà di quello verso gli Usa.

 

Livello e articolazione degli investimenti, distribuzione dei pesi

Una sintesi si ottiene anche dallo studio di NGFS, che mette a confronto tre scenari, quello a politiche invariate (che, come abbiamo visto comporta minori investimenti nell’ordine di 3.500 miliardi all’anno, e maggiori rischi di lungo periodo connessi con il cambiamento climatico), quello ad una transizione ulteriormente rallentata, e quella “net-zero” che abbiamo descritto. Mettendo a confronto gli effetti su inflazione e disoccupazione in quattro aree, Europa, America Latina, Stati Uniti e Cina si vede come l’inflazione potrebbe essere significativa in Europa e America Latina nel caso della “net-zero”, mentre Cina e Usa piuttosto potrebbero subire una certa disoccupazione.



In definitiva la strategia ‘net-zero’ (ovvero una transizione molto spinta ed accelerata) porterebbe effetti altamente dissimetrici tra le aeree economiche, producendo inflazione in Europa ed America Latina (in quest’ultima piuttosto repentina), ma non in Cina e Usa. Viceversa l’impatto sulla disoccupazione potrebbe essere molto più forte in Cina e poco dopo negli Usa, con una drammatica differenza in quest’ultima tra gli scenari accellerazione/frenata che spiegano abbastanza bene le nore esitazioni del sistema politico statunitense.

 

Conclusioni.

Il rapporto della McKinsey fa intravedere i tanti piani di conflitto che attraversano le politiche per il clima e la transizione energetica. Si parla complessivamente di investimenti di un ordine di grandezza di 280.000 miliardi di dollari che corrispondono ai due terzi delle distruzioni totali della II WW (la Seconda Guerra Mondiale costò qualcosa come 1.150 miliardi di dollari ’45 e le relative distruzioni altri 230 miliardi). Ovvero di una trasformazione fondamentale dell’intera economia mondiale. Ovviamente una trasformazione implica, e necessariamente, dei vincitori e degli sconfitti. Ciò sia in termini di paesi sia di aree economiche e di settori. E quindi, scendendo al livello della vita quotidiana, implica qualcosa come mezzo miliardo di ricollocazioni lavorative (o di nuova disoccupazione), e contrazione o espansione nell’ordine di un dimezzamento o raddoppio e più di settori economici, con relative aree geografiche.

Imporre in tempo di pace spese comparabili alle distruzioni di una grandissima guerra non può che avere molteplici obiettivi, alcuni sono presenti alla superficie (e sono, sia ben inteso, reali e motivati) ed hanno a che fare con la necessità di rallentare una crisi climatica provocata in ultima analisi dal capitalismo senza freni ed esteso all’intera superficie del globo degli ultimi quaranta anni. In termini macroeconomici il problema che l’occidente in particolare (ben diversa la situazione nell’estremo oriente ed in Cina in particolare) ha di fronte ha due aspetti interrelati: da una parte sconta una tendenza endemica al sottoinvestimento nei sistemi produttivi e infrastrutturali, che è l’esatto rovescio della tendenza al sovraimpiego dei capitali in quello finanziario; dall’altra la pronunciata internazionalizzazione dei flussi di capitali contribuisce al simmetrico e complementare sovrainvestimento in sistemi infrastrutturali e produttivi dei paesi estremo-orientali e della Cina in particolare. In termini di potenza ciò pone le basi per una transizione in corso che la potenza dominante del secolo scorso non intende accettare.

Questo è il problema sottostante.

La trasformazione fondamentale dell’intera economia mondiale, guidata dalla obsolescenza forzata di tutti i sistemi energetici e delle relative industrie, di buona parte del sistema di mobilità, di molta edilizia e delle industrie, al fine di riattivare un ciclopico ciclo di investimenti guidato da politiche pubbliche senza precedenti, non potrà, come si è visto, che creare degli impatti dissimetrici. E coglierà molti paesi in via di transizione ad una economia pienamente sviluppata a metà del guado, per così dire. Costringendoli a dismettere investimenti ancora del tutto attivi e non ammortizzati, a mutare abitudini di consumo ancora non consolidate.

Infine, ma certo non ultimo, impatterà in modo altamente disomogeneo anche entro il campo delle economie ‘sviluppate’, soprattutto per effetto della maggiore o minore dipendenza dalle fonti fossili e per esse dal gas naturale, dal carbone e dal petrolio. Mentre nel lungo periodo la crescita della generazione di energia da rinnovabili attenuerà significativamente il potere dei fornitori di questi fattori (ovvero alcuni dei paesi ‘non allineati’ o degli alleati scomodi), aumentando l’indipendenza dei paesi ad alta industrializzazione, nel medio e breve potrebbero generarsi turbolenze ed un incremento di costo dell’energia che potrebbe portare una tendenza inflattiva (come si è visto stimata in particolare in Europa). Seconda dimensione cruciale della trasformazione è la ricollocazione delle filiere produttive e dell’occupazione. Si parla di cambiamenti relativi senza precedenti, per dimensione e ruolo. Alcuni dei settori più consolidati saranno sconvolti dalla necessità di adeguarsi alla riduzione dell’inquinamento indotto, altri avranno una espansione senza precedenti.

Le due trasformazioni gemelle della transizione climatica e della digitalizzazione porteranno drastici mutamenti in qualcosa come un terzo della popolazione occupata nel mondo (senza considerare la massa, stimabile in circa due miliardi, impegnata in economia informale o di sussistenza che, probabilmente, resterà a margine della trasformazione). Di questi due quinti per le politiche climatiche e tre quinti per quelle connesse con modernizzazione, automazione e digitalizzazione.

Entrambe colpiranno come una tenaglia ben oltre due terzi dell’attuale economia, costringendola a riadattarsi e riorganizzarsi con presumibile grande concentrazione di capitale ed aumento della relativa composizione organica.

 

E’ facilmente comprensibile, alla luce di queste considerazioni, come le cosiddette “COP” (i negoziati globali sul clima che si tengono con andamento circa biennale) siano diventate un’arena cruciale della ripartizione del potere nel mondo e, da diversi cicli ormai, vedano all’opera vaste alleanze tra paesi ‘emergenti’ che si contrappongono alla Ue e agli Usa (che non sempre sono completamente allineati). Il tema è semplice: chi paga?

 

 

 

 



[1] - McKinsey & Company, “The net-zero transition”, gennaio 2022.

[2] - Network for Greening the Financial System, “NGFS Climate Scenarios”, giugno 2021.

[3] - Ovvero della COP 21 nella quale si è faticosamente raggiunto il compromesso di principio di tenere il riscaldamento climatico entro un grado e messo.

[6] - “Recovery e Resilience Facility”, febbraio 2021.

[7] - Di qui il violento scontro di questi mesi intorno alla “tassonomia” (per introdurre in essa il gas ed il nucleare, che, altrimenti, non sarebbero finanziabili).

[8] - I progetti nelle missioni del PNRR sono: M1 – Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura: C1 Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella Pubblica Amministrazione; C2 Digitalizzazione e Innovazione del sistema produttivo; C3 Turismo e Cultura 4.0.  M2 – Rivoluzione verde e transizione ecologica: C1 Impresa Verde ed Economia Circolare; C2 Transizione Energetica e Mobilità locale Sostenibile; C3 Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici; C4 Tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica. M3 – Infrastrutture per una mobilità sostenibile: C1 Alta velocità ferroviaria e manutenzione stradale 4.0; C2 Intermodalità e logistica integrata. M4 – Istruzione e ricerca; C1 Potenziamento delle competenze e diritto allo studio; C2 Dalla ricerca all’impresa. M5 – Inclusione e coesione: C1 Politiche per il Lavoro; C2 Infrastrutture sociali, Famiglie, Comunità e Terzo Settore; C4 Interventi speciali di coesione territoriale. M6 – Salute: C1 Assistenza di prossimità e telemedicina; C2 Innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria.

[9] - “Fit for 55”, luglio 2021

[10] - “European Green Deal”. Nel dicembre 2019 la Commissione Europea ha presentato la comunicazione che si propone di rendere sempre più sostenibili e meno dannosi per l’ambiente la generazione di energia e lo stile di vita dei cittadini. Comprende azioni in tutti i settori dell’economia e un “Piano di investimenti del Green Deal europeo” (EGDIP) dotato di un massimo di 1.000 miliardi di euro.

La strategia si articola in otto principali obiettivi: 1- Rendere più ambiziosi gli obiettivi dell’UE in materia di clima per il 2030 e il 2050; 2- Garantire l’approvvigionamento di energia pulita, economica e sicura; 3- Mobilitare l’industria per un’economia pulita e circolare; 4- Costruire e ristrutturare in modo efficiente sotto il profilo energetico e di impiego delle risorse; 5- Accelerare la transizione verso una mobilità sostenibile e intelligente; 6- “Dal produttore al consumatore”: progettare un sistema alimentare giusto, sano e rispettoso dell’ambiente; 7- Preservare e ripristinare gli ecosistemi e la biodiversità; 8- “Inquinamento zero” per un ambiente privo di sostanze tossiche.

Le azioni previste includono: Una legge europea sul clima per inserire nel diritto dell'UE l'obiettivo della neutralità climatica al 2050, che si pone a sua volta 4 obiettivi: 1) stabilire la direzione di lungo periodo per il raggiungimento dell'obiettivo di neutralità climatica al 2050 attraverso tutte le politiche, in modo socialmente equo ed efficiente in termini di costi;  2) creare un sistema di monitoraggio dei progressi e intraprendere ulteriori azioni se necessario; 3) fornire condizioni di prevedibilità agli investitori e ad altri attori economici;  4) garantire che la transizione verso la neutralità climatica sia irreversibile. Un patto europeo per il clima, volto a diffondere consapevolezza e promuovere l’azione, in un primo momento focalizzato su 4 aree (aree verdi, trasporti verdi, immobili verdi e competenze verdi), mentre potrà successivamente coinvolgere altre aree d’azione, quali consumo e produzione sostenibili, qualità del suolo, cibo sano e alimentazione sostenibile, e così via. Il Climate Target Plan 2030, con il quale si intende ridurre ulteriormente le emissioni nette di gas serra (fissando un nuovo obiettivo di riduzione, per il 2030, di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990) ma anche stimolare la creazione di posti di lavoro verdi nonché incoraggiare i partner internazionali ad essere più ambiziosi nel contenimento del surriscaldamento globale, limitando l'aumento della temperatura globale a 1,5°C. Una nuova strategia UE sull'adattamento al clima, adottata lo scorso 21 febbraio, allo scopo di rendere l'adattamento più intelligente, rapido e sistemico e di intensificare l'azione internazionale sull'adattamento ai cambiamenti climatici così che l'Europa diventi, entro il 2050, una società resiliente al clima e completamente adattata agli impatti inevitabili dei cambiamenti climatici.

 

[11] - Si può considerare una tassazione indiretta l’obbligo di effettuare degli investimenti, di sostituire delle tecnologie, di ridurre delle attività.

[12] - Si tratta di una combinazione di rimbalzo dopo il raffreddamento dell’economia a seguito dell’epidemia e di effetti congiunti di velocità del vento nel Mare del Nord, freddo in Texas, siccità in Brasile, chiusura di miniere cinesi, blocco delle esportazioni australiane, che hanno ridotto l’offerta e/o aumentato la domanda.

[13] - Regressivo perché non rapportato al reddito.

[14] - Nel senso che il sistema dei vantaggi comparati è sistematicamente manipolato dalle ragioni di potenza.

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