Sulla
rivista cinese Guancha è presente[1] la notizia che il 18
aprile 2022 l’ambasciata cinese a Washington ha pubblicato sulla rivista “The
National Interest” un articolo[2] a firma dell’ambasciatore
Qin Gang. Nell’articolo l’ambasciatore definisce la posizione del paese.
La
crisi e le sue ragioni
In
primo luogo, la Cina afferma di amare la pace e opporsi alla guerra in ogni
possibile circostanza, quindi di sostenere il rispetto del diritto
internazionale e le norme che proteggono sovranità ed integrità territoriale di
tutti i paesi, incluso l’Ucraina. La posizione cinese è dunque “westfaliana”, incardinata
sul principio di sovranità (mentre quella Usa è, almeno dal tempo della crisi
Jugoslava, ovvero dalla fine della Guerra Fredda “non vestfaliana”[3] ed imperniata sull’affermazione
di una guida unica del mondo). Questa è la principale linea di divergenza che la
nota, scritta in un misurato linguaggio diplomatico, esprime. Come risulta
anche da precedenti esternazioni dell’ambasciatore si intravede l’interesse
della Cina per la prosecuzione di un Grande Gioco triangolare, tra Russia, Usa
e Cina ed il forte disappunto per il tentativo americano di semplificare il
quadro polarizzandolo in uno ‘scontro di civiltà’ con fortissime connotazioni
ideologiche.
Il
secondo capoverso entra nella questione centrale delle lezioni che dalla crisi
devono essere apprese. Riferendosi non per caso al “sistema internazionale
del dopoguerra” (imperniato sull’Onu e quindi sul principio vestfaliano di
autodeterminazione dei popoli e sovranità delle nazioni) l’ambasciatore denuncia
come si trovi ora a dover fronteggiare la pressione più pesante dal tempo della
Guerra Fredda (ovvero dal 1991). In rapida successione si è avuta, infatti, una
pandemia, la crisi Ucraina e le relative sanzioni senza precedenti, quindi la
spirale dell’inflazione riattivata e la recessione incombente. La ‘caldaia’ del
sistema internazionale è perciò sotto pressione critica, bisogna ridurre la
pressione.
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Qin Guang |
Il
centro della crisi è in Europa, per la quale è necessario sia cessare la guerra
sia progettare un sistema equilibrato, stabile e sostenibile di sicurezza
comune. L’esempio da seguire è illuminato dalla diversa reazione che l’Occidente
e i paesi orientali ebbero alla fine della Guerra Fredda ed al cambio di regime
con crollo del Urss e del relativo impero. Mentre la Nato si estendeva verso oriente,
ricercando una sicurezza a scapito di quella russa, la Cina, la stessa Russia
ed i paesi dell’Asia centrale hanno promosso il meccanismo “Shangai Five”.
Nel 1996, proprio mentre il Presidente Clinton annunciava l’estensione ad Est
della Nato, la Cina, la Russia, il Kazakistan il Kirghizistan e il Tagikistan
hanno firmato un Trattato sulle regioni di confine. In esso, poi sviluppato
come “Organizzazione per la Cooperazione di Shangai”, i principi
ordinatori sono stati la fiducia reciproca, il vantaggio reciproco, l’uguaglianza,
la consultazione, il rispetto della diversità culturale e il perseguimento
dello sviluppo comune. Come conclude dunque l’ambasciatore, se si sceglie la
sicurezza a danno degli altri questa diversa scelta porterà frutti cattivi.
Questa
crisi sembra porre fine anche al principio stabilito nelle visite del
Presidente Eltsin in Usa ed in Cina nel 1992: quello di non considerarsi
avversari. Sulla base di tale criterio le relazioni tra Cina e Russia in trenta
anni si sono attenute al triplice principio di non confrontarsi, non prendere
di mira terzi paesi, non allearsi ma restare indipendenti. Quindi “la Cina è
stata e rimarrà un Paese indipendente che decide la propria posizione in base
ai meriti di ogni questione, immune da pressioni o interferenze esterne”. Tuttavia,
le relazioni tra Usa e Russia stanno scivolando verso una nuova guerra fredda
che non è nell’interesse né della Cina, né della Russia e neppure degli Usa. Una
relazione peggiore tra Russia e Usa non porterà, avverte, ad una migliore
relazione tra Cina e Usa. Ma, d’altra parte, anche se la relazione tra Cina e
Russia peggiorasse ciò non porterebbe a migliorare quella degli Usa con la
Russia stessa, o viceversa (in altre parole, il messaggio agli Usa è <non ci
separerete per combatterci uno alla volta>). L’articolo prosegue negando che
le buone relazioni tra Cina e Russia implichino un “Asse Pechino-Mosca” nel
rifiuto delle sanzioni. E avvertendo che trascinare verso il basso le relazioni
tra Cina e Usa (ad esempio, coinvolgendo Taiwan) non farebbe bene a nessuno ed
alle future generazioni.
Una
proposta di cooperazione per il disegno del Nuovo Ordine
Venendo
al centro del testo, per l’ambasciatore i destini attuali dell’Ucraina sono
legati nuovamente a quelli di tutto il mondo (nella Seconda guerra mondiale il
paese è stato sede di alcune delle battaglie più decisive del conflitto). Ricordando
l’orrore della guerra ed i quattro decenni di pace, bisogna aver perciò chiaro
che in nessun modo “qualsiasi paese o blocco di paesi” può avere la “sicurezza
assoluta” ignorando quella degli altri, o, per dirlo meglio, a danno degli
altri. Come dice “senza rispetto, fiducia, accomodamento reciproco e
cooperazione il mondo non sarà mai pacifico”. Quindi la Cina e gli Stati Uniti
devono collaborare sia a combattere il riscaldamento globale come il raffreddamento
del clima politico internazionale, superando ogni diversa percezione della
crisi ed esercitando sforzi congiunti nella prospettiva di lungo termine. Affrontare
insieme le altre aree di crisi, prevenire gli impatti sull’economia ed il
commercio globale, la finanza, l’energia, il cibo e le filiere industriali e di
approvvigionamento.
Cina
e Stati Uniti, come grandi paesi, hanno questa responsabilità storica: impegnarsi
per una pace duratura, la sicurezza universale e la prosperità comune per i 7,8
miliardi di abitanti del mondo.
La
lettera dell’Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Repubblica
Popolare Cinese negli Stati Uniti si conclude quindi con una precisa offerta: la
Cina offre la cogestione e propone il ridisegno delle Istituzioni
internazionali su una rinnovata base ‘vestfaliana’, fondata sul
riconoscimento della pluralità dei valori ed il rispetto reciproco. Propone di
creare un nuovo Ordine mondiale sulla base del multilateralismo e di diplomazie
variabili che incontrino gli interessi di tutti.
Il
liberalismo non-vestfaliano degli Usa
Chiaramente
questa offerta non è ricevibile dagli Stati Uniti, perché contrasta con il
preteso carattere di “paese indispensabile” e “forza del bene” (Bush), il paese
che “sta dalla parte della civiltà” e “fa ciò che è giusto” (George Bush). Quella
forza che lavora per valori universali e ad affermare ovunque nel mondo valori
considerati propri, come la “democrazia, sicurezza e benessere”. Gli Stati
Uniti non hanno rispetto per chi non si conforma ai loro valori, che ritengono
doversi affermare ovunque, ovvero per chi è fuori del loro canone. Questa impostazione
“non vestfaliana” è in contrasto con l’art 1 dello Statuto dell’Onu (che
riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli, un principio in
strutturale tensione con l’interpretazione individualistica dei diritti umani
proposta dagli Usa), con i Trattati in sede Onu del 1966 e con l’Atto Finale di
Helsinki del 1975 (in particolare Principio VII e VIII). Infatti, in base ai
Patti del 1966, tutti i popoli sono liberi “di determinare, senza intervento
dall’esterno, il proprio status politico e seguire il proprio sviluppo
economico, sociale e culturale”. In base alla dichiarazione dell’Assemblea
generale del 24 ottobre 1970, inoltre, l’attuazione del principio dell’autodeterminazione
si esplica nella fondazione di uno Stato sovrano ed indipendente, nella
sua libera unione con altri e nella sua libertà di cambiare status politico.
Entrambe le dichiarazioni, del 1966 e del 1970, avvengono non per caso in una
fase di liberazione dei paesi del Sud dai legami che si erano istituiti nella
fase coloniale con le ‘potenze bianche’ del Nord. Il principio di
autodeterminazione, così definito, si classifica nella tassonomia Onu come ius
cogens, diritto inderogabile a tutela di valori fondamentali. Si tratta di
un diritto di libertà dal dominio concreto di un popolo su un altro.
Al
contrario, la pretesa propria della cultura liberale, tecnicamente totalitaria
(ovvero che si pensa come espressione della totalità del Giusto e del Bene), ed
etnograficamente connotata[4],
sottordina gerarchicamente il principio di autodeterminazione al principio di
universale affermazione della ‘democrazia liberale’, a sua volta collassata sulla
libertà dell’individuo (ma interpretato, anche senza esserne del tutto
cosciente, nel quadro della società dei proprietari[5]). È peraltro dalla fine
della Guerra Fredda che nelle élite politiche statunitense, sia democratiche
come repubblicane, è emersa la convinzione che la politica internazionale debba
conformarsi ad un Ordine Post-nazionale e quindi “non vestfaliano”. Alla fine,
lo scopo è rendere tutto il mondo simile agli Usa e promuovere una forma di
interdipendenza ancorata ai principi liberali. In questa accezione la stessa
dizione non-liberale (o illiberale) è diventata un giudizio di valore
inappellabile e non più una semplice descrizione di differenza legittima[6].
Contesto,
interregno e tensioni di trasformazione
Per
approfondire questa posizione, che ha i crismi dell’ufficialità (anche se veicolata
attraverso l’indiretta forma di un articolo di giornale, al quale non è
obbligatorio rispondere), proviamo a confrontarla con la posizione che emerge
dal discorso programmatico[7] tenuto il 7 aprile dal
prof. Yongnian Zheng al Ciclo di Conferenze “Situazione politica” presso
l’Università cinese di Hong Kong.
Quel
che si vede, anche nell’articolo dell’ambasciatore, è l’avvio di una fase di
ricostruzione dell’ordine mondiale che vedrà le Grandi Potenze, e le potenze
intermedie, impegnate probabilmente per decenni, fino a che l’interregno sarà
concluso. Gli interregni tra diversi Ordini mondiali sono il tempo più
pericoloso nel quale vivere, individualmente e come paesi.
Questo
interregno, anticipato dalla ‘scuola dei sistemi-mondo’ già sul finire degli
anni Ottanta[8],
è determinato dall’esaurimento delle risposte per acquistare tempo che l’Occidente
ha messo in essere dalla crisi dell’Ordine Americano degli anni Settanta. Oggi l’assetto
individuato da finanziarizzazione e globalizzazione a guida anglosassone (la
prima in cogestione con la piattaforma londinese e la seconda dominata dalle
grandi aziende statunitensi) che era già giunto a crisi terminale con il crac
del 2007-8 (termine allontanato con sempre più disperate mosse di finanza
pubblica non convenzionale le quali aggravano costantemente la situazione), viene
condotto a termine dall’insorgenza di quattro fattori:
1- L’impatto
dell’epidemia alla scala mondiale, che fa da preludio alla
guerra come quasi sempre è avvenuto nella storia (i quattro cavalieri della
fame, peste, guerra e conquista). Impatto che si è rivelato diverso in
relazione ai sistemi sociali e politici, ed in linea generale ha colpito in
modo più severo i paesi in cui le relazioni tra la popolazione ed il governo
sono fondate su un individualismo più pronunciato. Queste tensioni hanno anche
esacerbato le disuguaglianze, senza riuscire a ripartire i costi in modo equo,
e favorito nazionalismo e risposte politiche estreme,
2- La
guerra russo-ucraina, la tensione da lungo tempo accumulata
in seguito al crollo dell’Urss, all’avanzamento progressivo ed inarrestabile
della Nato, alle crisi economiche nei paesi ex satelliti (o nelle Repubbliche
Socialiste), sono alla fine sfociate nel progetto di parte della società e
della élite Ucraina di disaccoppiare i propri destini da quelli russi e aderire
alle offerte apparentemente generose avanzate dalla Ue e dalla Nato. La crisi
economica devastante che ha portato uno dei più poveri paesi europei a
rimuovere, su spinta organizzativa interessata degli Stati Uniti, il legittimo
governo filorusso in favore di un nuovo governo spiccatamente nazionalista, ha
anche condotto al progetto (esplicito in una intervista[9] del 2019 del consigliere
del Presidente ucraino Arestovich) di risolvere i problemi del paese attraverso
una guerra maggiore con il vicino russo. Questo progetto, che arriva tre anni
prima ad identificare con incredibile precisione le direttrici di attacco, le
modalità e persino le date possibili, ha almeno due distinte ragioni: la
costruzione della nazione dal fuoco della guerra (espellendo in tal modo la
componente russa dal cuore e dalla mente del popolo, se del caso anche dal
corpo); la soluzione del problema del sottosviluppo economico[10], trovando un ruolo
geopolitico indispensabile che giustifichi l’erogazione di aiuti a tempo
indeterminato dall’Occidente. Ruolo, cioè, che può forzare politicamente il braccio
di ferro in corso da decenni tra il FMI (che ha un programma di aiuto vitale
per l’economia da 15 anni e sempre sospeso) e gli oligarchi che controllano
governo, banche, grandi industrie. Con l’organizzazione internazionale che
continuava a chiedere riforme strutturali che il sistema politico locale non
poteva concedere e la necessità impellente dei soldi internazionali per restare
solvibile, la guerra sarà apparsa ad un certo punto come unica credibile strada
per non essere alla fine costretti a tornare a Mosca ed ai suoi aiuti[11]. Questa è la ‘causa
interna’ della guerra in corso.
In
questo contesto, con sanzioni senza precedenti a danno
della Russia, la speranza di una totale sconfitta del gigante geopolitico
euro-asiatico è però molto bassa. Il paese ha una lunghissima storia di
resistenza e capacità di soffrire senza cedere, risultando come tomba di alcuni
dei più grandi eserciti della storia umana. Tra l’altro non è illimitata la
disponibilità di armi che l’Occidente può mandare a distruggersi nel calderone
ucraino. Secondo una interessante analisi di parte cinese[12] lo svuotamento in corso
degli arsenali sovietici, da parte dei paesi dell’ex Patto di Varsavia potrebbe
essere giunto al suo limite, e la dotazione di armi occidentali è tutt’altro
che infinita. Ormai tra i due terzi e la metà della dotazione di “Javelin”, “Stinger”,
NLAW, etc. dei magazzini Nato e Usa è stata consumata, la produzione annuale
della Lockheed è di 6.000 “Javelin”, che bastano appena per due settimane di
guerra. La scorsa settimana le aziende che producono armi sono state convocate alla
Casa Bianca per programmare un ampliamento, ma non è così facile e gli Usa non
sono gli stessi della II WW (basti dire che i motori dei razzi li comprano in
Russia e moltissimi componenti in Cina). Per potenziare le forze sul campo
(almeno 2 brigate Usa e 1 Nato, più la difesa aerea nei paesi baltici e
Polonia) sarebbero necessari almeno 27 miliardi una tantum e 11 all’anno in
seguito. Al contrario, la Russia ha enormi depositi di armi sovietiche e la sua
industria militare riesce senza sforzo a sostituire i materiali usurati. Tuttavia
anche la possibilità che la Russia vinca in modo completo, raggiungendo i suoi
obiettivi, è altrettanto piccola.
La
più probabile conseguenza della guerra, per l’analista cinese, è in mezzo tra
questi due estremi: una possibile piattaforma potrebbe vedere, da una parte, l’allontanarsi
dell’adesione alla Nato, e, dall’altra, un piano di sostegno e ricostruzione
dell’economia ucraina sostenuto in modo condiviso da Fmi, Ue, Cina e altri
(Arabia Saudita, Turchia, Usa?). Chiaramente l’accordo non dipende solo dall’Ucraina
e dalla Russia, dato che la posta in gioco riguarda i rapporti internazionali
tra le Grandi Potenze (di qui l’articolo dell’ambasciatore, che si occupa della
‘causa esterna’), ed un correlato di questo accordo di vitale importanza
per l’Ucraina passa per la risoluzione delle sue esigenze finanziarie
impellenti. Per cui qualcuno dovrà decidere di farsi carico della ricostruzione
integrale dell’economia per togliere la ‘causa interna’ della guerra.
Al
momento la guerra segnala la disintegrazione del sistema mondiale imperniato
sulle Nazioni Unite. E mostra alcuni risultati come la
creazione di unità nei paesi europei ed allineamento di questi con gli Usa
(tagliando i ponti che alcuni, come la Germania, stavano tendendo da decenni
con la Russia e la stessa Cina), ma, al converso, anche l’avvicinamento della
Russia stessa alla Cina.
L’osservatore
cinese dubita che la Ue resterà di questa posizione, ciò
perché i danni per le economie e la società europee saranno molto ingenti, e la
capacità di resistenza di queste è giudicata molto inferiore a quella della
popolazione russa. Inoltre, la ri-militarizzazione della Germania dovrebbe
provocare nel medio termine reazioni di preoccupazione ed allarme nelle
controparti francesi.
3- La
competizione per il Nuovo Ordine vedrà all’opera su un
lungo arco temporale alcune Grandi Potenze come gli Usa, la Cina e la stessa
Russia, ma anche la Turchia (paese che ha grande importanza ed influenza per la
Cina, in corso di de-secolarizzazione e molto implicato in regioni delicate
come lo Xinijang), l’India che è tirata da tutte le parti per scegliere un
campo di gioco, il Giappone che è decisivo per la questione di Taiwan e l’Indonesia.
Ovviamente dal lato dell’emisfero occidentale andrebbero nominati anche il
Brasile, il Messico, alcuni grandi paesi africani come la Nigeria, l’Arabia
Saudita, l’Iran, l’Egitto, l’Australia e forse il Canada.
4- Le
relazioni bilaterali tra Cina e Usa, nella Guerra Fredda si
instituì una sorta di triangolo Cina-Usa-Unione Sovietica nel quale in effetti
i primi due, pur non essendo alleati, contenevano insieme l’ultima; ma dopo la
fine di questa gli Usa cominciarono a concentrarsi sulla Cina, vista come un
potenziale concorrente a lungo termine. L’11 settembre 2001, spostò l’attenzione,
creando una sorta di decennio franco che terminò con Obama. Questi spostò
nuovamente l’attenzione strategica sulla Cina con il “Pivot to Asia”. L’allentamento
dell’attenzione all’Europa, il ritiro dall’Afghanistan e il minor protagonismo nel
Mediterraneo dell’epoca Trump sono motivati con questo riorientarsi ad Est
(inizialmente accompagnato da tentativi di ricucire con la Russia, poi fermati
dalle forze interne antirusse). Mentre per un certo periodo era sembrato che il
triangolo si stesse riformando, ma a parti invertite (per cui, senza essere alleati,
più o meno tacitamente Russia e Cina bilanciavano il potere statunitense) ora gli
Usa puntano ad una semplificazione del quadro e stanno cercando di formare una
Nato orientale contro la Cina. Fa parte di questa strategia di polarizzazione l’enfasi
di Biden per l’alternativa secca tra “democrazia americana” e “autocrazia cinese
(o russa)” come lotta di sistema.
Rispondere
alle sfide
La
risposta a queste quattro sfide proposta dal politologo parte da due percezioni
del sistema politico e sociale cinese:
-
se la guerra è qualcosa al quale bisogna
opporsi, nello stesso tempo bisogna farlo alla sua causa, che è l’allargamento
della Nato;
-
la guerra è usata dagli Stati Uniti per
fare pressione sulla Cina e polarizzare l’ordine mondiale in due soli blocchi,
operazione che è contro gli interessi cinesi.
Ma
questo non deve significare che gli Stati Uniti in quanto tali siano gli
avversari. Occorre essere razionali e individuare la struttura profonda della
situazione che si è creata, opponendosi in modo determinato a quanto in essa provoca
questi esiti. Concretamente quindi, negli Stati Uniti sono presenti diversi
gruppi di interesse, tra i quali il potente network di Wall Street (che
vorrebbe casomai più apertura e investimenti reciproci), le forze connesse con
il sistema militare-industriale (che spingono per il confronto che, male che
vada, farà crescere enormemente il loro business), le industrie civili e i loro
lobbisti (che hanno grandissimi interessi impegnati e non vogliono lo scontro).
Alcuni sono fieramente anti-Russi, altri anti-Cinesi, o entrambi, altri sono
orientati a compromessi o agli scambi finanziari e commerciali. Questi ultimi
hanno a lungo prevalso, ora non più, ma serbano una loro influenza.
Caso
a parte è quello dell’Europa, con la quale non ci sono mai state dispute
geopolitiche, ma solo interessi commerciali. Ora è allineata, “rapita”, dagli
Stati Uniti, ma questo potrebbe non durare sempre.
Le
relazioni sino-americane sono per concludere da considerare molteplici; in
alcune aree sono di cooperazione, in altre di competizione ed in altre di
conflitto o di possibile guerra.
-
Le aree di cooperazione
sono relative al clima, la salute mondiale e la proliferazione nucleare (ovvero
la limitazione dell’accesso alle armi nucleari da parte delle potenze minori,
cosa che sarà crescentemente difficile dopo questa guerra). La cooperazione
presuppone la reciproca forza, e quindi si espanderà via via ad altri settori,
come l’esplorazione spaziale.
-
Le aree di competizione sono
soprattutto relative all’economico.
-
Le aree di conflitto si
possono dividere in confronti a bassa intensità, come per le questioni dei
diritti umani nello Xinjiang, nel Tibet ed a Hong Kong, tutto sommato
controllabili, e i potenziali conflitti armati, come nel Mar cinese meridionale
ed a Taiwan. In quest’ultimo caso la posizione cinese è univocamente
determinata: non c’è spazio per concessioni.
Che
genere di Ordine Mondiale emergerà da questa fare caotica dipenderà anche da
quale area prevarrà dentro i diversi paesi, ed in particolare in quelli ‘sistemici’
(il paese più grande del mondo e con la maggiore quantità di materie prime
strategiche, quello dotato della maggiore popolazione ed industria, il paese
con il maggiore esercito).
Abbiamo
bisogno della pace, per trovare il tempo di risolvere questi problemi, a
vantaggio di tutti i popoli del mondo.
[1] - Qin Gang “Se c’è un conflitto
simile tra Russia e Ucraina in altri luoghi, la Cina prenderà la stessa
posizione”, Guancha, 18 aprile 2022.
[2] - Qin Gang, “The
ukraine crisisi and its aftermath”, The National Interest, 18 aprile 2022
[3] - Come sostenuto in un’ampia
letteratura internazionale la fine della Guerra Fredda ha visto gli Usa passare
ad una posizione che prevede l’estensione di una politica “fondata sui valori”,
in vece di una “fondata sulla sovranità” (e l’autodeterminazione dei popoli).
In sostanza gli Stati Uniti si sentono in diritto di intervenire ogni qual
volta i valori di libertà individuale e di espressione sono violati, ritenendoli
universalmente validi.
[4] - Ovvero
disegnata secondo il modello storicamente situato (nella forma di vita
occidentale e nella versione illuminista di questa) che è abbastanza obiettivamente
una potentissima arma ideologica. Una cosa che inizia a prendere forma durante
la guerra fredda come arma contro un altro consenso (tramite la sistematica
denuncia della violazione dei “diritti umani” da parte degli Stati Uniti a
sostegno etico e legittimazione delle proprie iniziative sia contro l'Unione
Sovietica e contro la Repubblica Popolare Cinese ed i loro alleati) e da allora
viene usata, senza soluzione di continuità, contro chiunque si elevi ad
ostacolare il dominio imperiale statunitense. In effetti, già l’idea in sé dei
“diritti umani” può essere accusata di individualismo metodologico il quale è,
esso stesso, alla base della microfondazione della teoria economica. I diritti
sono immaginati come inerenti all'individuo naturale, cioè a un individuo
astratto astorico, aculturale e dunque sono utilizzabili come marcatore e punto
di riferimento del giudizio sulle azioni e sulle dinamiche collettive. Il
dispositivo dei “diritti umani” crea, cioè, un decisivo passaggio teorico in
cui richieste individuali che non fanno per sé stesse riferimento a nessun
organismo sociale dato (o contesto culturale noto) e che finora nessuno ha
riconosciuto possono essere poste come eticamente fondanti ed esistenti
in natura e restare lì, in attesa che qualcuno ad un certo punto se ne
faccia carico. Magari in appoggio alle sue istanze politico-strategiche.
[5] - Questa formula è proposta da
Thomas Piketty nel suo “Capitale e ideologia”, (2020), p.125 e seg. Designa
in questo modo la trasformazione che, a partire dal XVIII secolo, in Europa e
nelle colonie europee, con ritmi e modalità differenti, ha portato le società
tradizionali a trasformarsi in società nelle quali la libertà è rappresentata
concretamente dal possesso di beni, in vece, dei “privilegi” politici. La sacralizzazione
della proprietà, dalla quale emerge quella forma sociale particolare che
chiamiamo ‘capitalismo’, ovvero il rispetto assoluto dei diritti di proprietà
che è il nucleo stesso della individualità dei diritti, è la risposta al vuoto
lasciato dalla religione nel generare coesione sociale ed attese di
comportamento stabili. Si genera una nuova forma di ‘trascendenza’ che evita la
propagazione del caos (ivi, p. 152).
[6] - Si veda anche il post “Politica
estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden”,
Tempofertile, 5 aprile 2022.
[7] - Yongnian Zheng, “Il gioco
dei grandi poteri e la ricostruzione dell’ordine mondiale”, Guancha, 18
aprile 2022
[8] - Ne parlo diffusamente in
Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[9] - Oleksiy Arestovych è Consigliere
del capo dell'ufficio del presidente dell'Ucraina per le comunicazioni
strategiche nel campo della sicurezza e della difesa nazionale. Intervista del
2019.
[10] - Il paese, come racconta Limes in
tempi non sospetti il 9 luglio 2021, dal 1991 non ha fatto altro che ridurre il
proprio benessere economico rispetto ai vicini. Dal 2014 si è trovato a
dipendere crescentemente da aiuti economici e militari occidentali, del Fmi e
della Ue, oltre che degli Usa. Come scrive la rivista “L’Ucraina post-sovietica
si è trovata di fronte al difficile problema di costruire uno Stato e una
nazione in assenza di una solida legitimizzazione storica basata su tradizioni
istituzionali, confini chiari e stabili e una cultura nazionale”. Un
programma di sostegno del FMI, erogato come accade con il contagocce e tra
molte condizionalità, ha tenuto costantemente il paese sull’orlo del collasso,
senza farlo precipitare né sollevare. In questa condizione di oggettiva
precarietà, per non dire ricatto, il Covid ha portato ad un crollo del 7% dell’economia
(seguita ad uno del 15% del 2009 e del 10% del 2015) ed un impatto devastante
sulla popolazione ed il consenso. Con un paese che è abituato a rivolgersi a
vicini potenti è chiaro che il rischio per il governo Zelensky si era fatto
esistenziale.
[11] - Si veda ad esempio, “FMI:
l'Ucraina ne ha bisogno 'come sangue nelle vene", Osservatorio
Balcani e Caucaso, 26 febbraio 2021; Stefano Grazioli, “L’Ucraina
di Zelensky tra crisi economica e riforme necessarie”, Ispi, 3 giugno 2020;
Gian Paolo Caselli, “Il
trentennio perduto dell’Ucraina”, Limes, 9 luglio 2021,
[12] - Chen Feng, “L’esercito ucraino
ha iniziato a crollare? Dove andrà la guerra russo-ucraina?”, Guancha, 18
aprile 0222.
Molto interessante, grazie!
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