Un
anno fa la nuova amministrazione democratica americana ha convocato un
ambizioso evento, invitando ben 110 nazioni del mondo[1], dal nome “Summit for
democracy”[2].
Lo slogan era “la democrazia non accade per caso. Dobbiamo difenderla, lottare
per essa, rafforzarla, rinnovarla”. A questo evento, cui ne seguiranno altri e
che rappresenta il nucleo di una nuova dottrina internazionale più
interventista, come scrivono in modo esemplare ‘adatta al movimento’ in corso,
l’amministrazione ha invitato paesi asiatici come il Giappone, la Corea del Sud
e Taiwan, ma anche l’India e le Filippine, e non Singapore. In cambio era
invitato il cosiddetto “Presidente ad interim” del Venezuela Juan Guaidó, ma
anche i leader, o attivisti eminenti, dell’opposizione di Hong Kong, Birmania, Egitto,
Bielorussia. Un notevole e sovradimensionato spazio è stato affidato, infine,
ai paesi europei nordici che si affacciano sulla Russia: la Lituania, Lettonia,
Estonia, Finlandia, Danimarca.
La
crisi Ucraina ha prodotto qualche smagliatura su questo schema “noi/loro”. In
questi giorni, ad esempio, il governo di Singapore si è mosso verso la
coalizione occidentale[3], se pure con qualche
dichiarazione rispettosa verso la Cina, mentre l’India si sta chiaramente
avvicinando alla Russia[4] e persino alla Cina. D’altra
parte, storici alleati Usa come la Thailandia e le Filippine da tempo si stanno
avvicinando alla Cina, e, recentemente le Isole Salomone (fronteggianti l’Australia)
hanno dichiarato di voler stipulare un accordo di cooperazione militare con il
gigante asiatico (ricavandone le minacce del vicino anglosassone). Inoltre, il
Pakistan, che fino ad anni recenti era stato alleato degli Stati Uniti, si sta
muovendo con decisione verso la Russia e partnership più pronunciate con la
Cina (ma è stato fermato, al momento da una severa crisi di governo con
probabili nuove elezioni).
Insomma,
il mondo è in movimento.
Il
tentativo americano è quello di codificare questo movimento secondo una chiave
unica che massimizzi quelle che ritiene essere le proprie caratteristiche più
profonde: la distinzione tra un “ordine basato sulle regole” ed un semplice ‘stato
di fatto basato sul potere’. Dietro questo slogan si cela la convinzione che
sia possibile definire un canone universale, fondato su un ordine
naturale, e, ovviamente, la certezza di avere uno speciale accesso ad esso. Quindi
si cela la pretesa che lo scostamento relativo da questo canone definisca univocamente
la legittimazione di ogni azione ed esistenza nazionale. Secondo questa
impostazione, ad esempio, la guerra preventiva di Bush in Iraq è più legittima
della guerra preventiva della Russia in Ucraina, in quanto la prima mirava all’affermazione
della democrazia in Medio Oriente, mentre la seconda mira solo a difendere il
potere russo (o a diffonderlo).
Durante
il Summit prima citato il Vicepresidente Kamala Harris ha affermato quindi che
la democrazia, ovviamente secondo il codice anglosassone, è “la migliore speranza
del mondo”; e lo è essenzialmente perché “i sistemi democratici sono in grado
di promuovere i diritti umani, la dignità umana e sostenere lo stato di diritto”.
La frase, considerando il significato strettamente attinente la dottrina liberale,
suona involontariamente tautologica: la democrazia è la speranza del mondo
perché promuove la propria visione dell’uomo. Ovvero quella di un uomo slegato;
un uomo nel quale, parole conclusive del Presidente Biden, “arde la brace della
libertà”.
Vale
la pena di sottolineare gli elementi di novità di questa agenda. Lo Statuto
dell’Onu, all’art 1, riconosce contemporaneamente ed indissolubilmente il
rispetto dei diritti umani (su cui è necessaria una glossa[5]) e dei “diritti all’autodeterminazione
dei popoli”. Altre fonti primarie sono i Patti internazionali del 1966
(sui diritti civili e politici e sui diritti economici) e l’Atto finale di Helsinki
del 1975, principio VII e VIII. In base ai Patti del 1966, tutti i popoli sono
liberi “di determinare, senza intervento dall’esterno, il proprio status
politico e seguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”. In base
alla dichiarazione dell’Assemblea generale del 24 ottobre 1970, inoltre, l’attuazione
del principio dell’autodeterminazione si esplica nella fondazione di uno Stato
sovrano ed indipendente, nella sua libera unione con altri e nella sua libertà
di cambiare status politico. Entrambe le dichiarazioni, del 1966 e del 1970,
avvengono non per caso in una fase di liberazione dei paesi del Sud dai legami
che si erano istituiti nella fase coloniale con le ‘potenze bianche’ del Nord.
Il principio di autodeterminazione, così definito, si classifica nella
tassonomia Onu come ius cogens, diritto inderogabile a tutela di valori
fondamentali. Si tratta di un diritto di libertà dal dominio concreto di un
popolo su un altro.
La
novità è quindi, precisamente, che la crociata lanciata dall’amministrazione
americana, facendo leva su una interpretazione oltranzista e
etnograficamente connotata[6]
dei “diritti umani”, introduce una deroga al principio di autodeterminazione,
nel momento in cui lo sottordina gerarchicamente al principio dell’affermazione
della ‘democrazia liberale’ che, attenzione, non è l’unica forma e non è tutta
la democrazia. Quest’ultima collassata sulla libertà dell’individuo (sia fatta
attenzione, dell’individuo possessore, di quello che dispone dei mezzi di proprietà
per esserlo effettivamente).
Ovviamente
qui è all’opera un ben prosaico obiettivo: la conservazione con qualsiasi
mezzo dell’ordine americano. Ovvero la prosecuzione del “secolo americano”
anche quando le condizioni di potenza che lo hanno creato stanno venendo meno.
Questo
dispositivo di mobilitazione totale, in altre parole, serve lo scopo
della guerra.
È,
in questo senso, un occultamento di una più elementare logica di potenza. Potenza
e missione, che, in linea con una delle vocazioni dell’occidente, si nutre di
universalismo astratto, messianesimo e razzismo. Si, razzismo, in quanto
nel sentirsi legittimato a proiettare la propria forma, in quanto universale,
sul riottoso mondo, e, soprattutto, nel fondarla su un’antropologia naturalista
(ovvero sul riconoscimento che il ‘vero uomo’ è solo l’uomo occidentale o chi
ad esso si conforma) non può che implicare il carattere sotto-umano dell’Altro.
Razzismo e colonialismo sono, in altre parole, iscritte nel codice genetico
della nozione di libertà e democrazia dell’occidente.
Per
approfondire occorre soffermarsi. Il termine chiave di questo potentissimo
dispositivo è, ovviamente, quello di libertà. Parola vuota, se mai ne è
esistita una. Nel senso di parola che acquisisce interamente il suo significato
dal contesto nel quale è agita e dal conflitto (la parola libertà implica un
movimento e una resistenza) verso il quale è agita. Essa si determina sempre nella
situazione concreta e storicamente data e che si può giudicare, prendendo
posizione, solo osservando il funzionamento complessivo dei rapporti tra i
diversi attori e gli effetti provocati su di essi. Può succedere, ad esempio,
che una lotta per la liberazione nazionale sia allo stesso momento, o per i
suoi effetti, anche lotta per lo schiacciamento e l’oppressione di altri; oppure
può accadere il contrario (come nell’imperialismo politicamente orientato di
Disraeli nell’Inghilterra dell’Ottocento, per stare ad un esempio lontano). Quello
nel quale si può definire la lotta per la libertà è sempre un “conflitto”
policentrico, dunque, e non binario, nel quale occorre sforzarsi
sistematicamente di applicare uno sguardo alle determinazioni strutturali e
oggettive della situazione. È noto l’esempio ottocentesco della lotta di
liberazione, nazionale e quindi interclassista, polacca. Nella situazione data
(che non va estrapolata all’oggi), per Marx ed Engels, quando il proletariato polacco si
mette alla testa della lotta di indipendenza nazionale, portando con sé anche
le altre classi, allora svolge con questo solo fatto un “ruolo
internazionalista”. Il ruolo internazionalista ha dunque, per i nostri, basi
oggettive, e non soggettive, perché getta le fondamenta necessarie per una
cooperazione diversamente impossibile. Il giudizio non viene da una sostanza
naturale, quando dalla totalità[7].
Con altre parole, se non
si collega, concretamente, la parola “libertà” al conflitto e questo alla
dinamica del tutto dal quale solo può essere rischiosamente giudicato, si
ricade (come in effetti il dispositivo imperiale americano fa), nella medesima
accusa avanzata da questo verso il ‘comunismo’: di essere una ‘utopia capovolta’.
Ovvero, di terminare nella catastrofe, rovescio dell’ambizione, di partire per raddrizzare
‘il ramo storto’ dell’umanità ma di risolversi in arbitrio[8]. Chiaramente, se però
si accetta una definizione contestuale del termine e un suo intrinseco
inserimento nella pluralità dei conflitti, allora si resta presi in un’insopprimibile
ambiguità, dunque, si perde l’idoneità del concetto ad essere arma.
Per concludere, l’agenda
che si vuole imporre al conflitto egemonico in corso, fondata sulla negazione
del principio di autodeterminazione (“westfaliano”) in favore di una separazione
tra ‘democratici’ (liberali) e ‘autocratici’ (ma andrebbe bene anche ‘populisti’),
serve ad una mobilitazione totale dell’Occidente, inteso come Vera Umanità,
contro l’oscurantismo, il sub-umano, il regresso.
Ma, a ben vedere dietro
la retorica e l’ipocrisia che l’accompagna, quelle che si scontrano non sono le
forme astratte universali di ‘libertà’ e ‘dispotismo’ (in sé vuote, libertà da
cosa, dispotismo verso chi), quanto diverse forme concrete di
libertà, connesse a diversi conflitti. Ad esempio, tutte le forme di organizzazione
sindacale, in modo più o meno diretto, coartano la libertà individuali a breve
termine, in favore di una libertà più importante da raggiungere nel futuro: quella
dal bisogno e dalla dipendenza dai rapporti ineguali tra lavoratori e capitale.
Analogamente,
nei rapporti tra le ‘metropoli’ e le ‘colonie’[9], e, più in generale, nelle
relazioni internazionali la libertà di taluni può essere in contrasto con
regimi oppressivi, più o meno mascherati. È possibile, in sintesi, che la
libertà di alcune élite debba essere compressa per garantire quella dei più, o
del paese. Che alcuni paesi si debbano fermare davanti a certi confini e/o
relazioni. In questo senso si oppongono sempre piuttosto ‘libertà’ a ‘libertà’;
il punto è che nel ‘groviglio’ che fattualmente si dà nella realtà sociale si è
spesso costretti a scegliere tra queste diverse libertà.
Dunque,
si può sinteticamente dire che nel “conflitto delle libertà” bisogna sapere con chi stare, e
per saperlo occorre guardare sempre al quadro generale. Quello che dice che la
polarizzazione proposta dall’Amministrazione Usa serve i suoi scopi di dominio.
[3] - Anche se fa parte dell’unione
eurasiatica di libero scambio (EAEU) nella quale è presente la Russia, l’Armenia,
la Bielorussia, il Kazakistan, il Kirghiristan.
[4] - Stipulando addirittura un
accordo per replicare il modello che ha fatto grande il dollaro a partire dalla
crisi energetica degli anni settanta, per il quale il petrolio russo sarà
acquistato in moneta indiana, la quale dai russi sarà depositata in titoli
indiani (creando riserve in rupie). Inoltre ha invitato Lavrov a discutere
accordi strategici su larga scala, che prevedono anche l’acquisto degli
avanzati sistemi missilistici S400.
[5] - La Dichiarazione
dei Diritti Umani del 1948 è, ovviamente, una pietra miliare del processo di
formalizzazione del concetto. I suoi antecedenti sono la Dichiarazione di
indipendenza americana del 1776, dall’altra alla Dichiarazione dei
diritti dell'uomo del cittadino francese del 1789. C’è, però, una importante
differenza tra i due antecedenti. La Dichiarazione americana non è una carta
dei diritti e il testo è dedicato prevalentemente a motivare le ragioni
dell'indipendenza dalla corona britannica, e gli argomenti sui diritti
dell'uomo sono inseriti solo come cappello retorico introduttivo e chiave di
una legittimazione che si pretende estranea alla fedeltà al re. Si può dire che
il famoso preambolo per il quale tutti gli uomini sono creati uguali,
cioè dotati di inalienabili diritti, tra cui la vita, la libertà e il
perseguimento della felicità, serve, in tutte le Dichiarazioni di questo
periodo ad affermare che i governi sono istituiti per garantire questi
diritti, e quindi sia diretta ad affermare che il fondamento della vita
sociale non deriva dal re, non deriva dalla tradizione, ma deriva da Dio per
come viene interpretato nel testo. Compiendo questo rovesciamento del canone
fondativo si esprime con la massima chiarezza, e si pone al centro della scena,
una mossa emancipativa di primario valore. Ma i contenuti e fondamenti dei
diritti inalienabili, su cui si basa quella mossa, sono ridotti al contempo ai
minimi termini; non è il caso di ricordare che in tutti gli uomini non erano
incluse né le donne né, tantomeno, gli schiavi. Del resto, quando dieci anni
dopo viene approvata la Costituzione americana non ci sono in essa Dichiarazioni
dei diritti. Queste vengono aggiunte ancora dopo nel 1789 e nel ‘91, anche
sulla scorta della Rivoluzione francese, in forma di emendamenti alla Costituzione,
e in esse si parla di diritti civili interni alla nazione americana. Invece la Dichiarazione
dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 francese ha una
caratterizzazione dei diritti dell'uomo molto particolare. Ci si appella qui a diritti
naturali inalienabili e sacri dell'uomo, cioè ad una dimensione
universalistica astorica; però, già dal terzo articolo, la Dichiarazione prende
una piega storicamente determinata, eminentemente politica, e la libertà
individuale viene limitata dalle leggi “espressione della volontà generale”, quindi
giustificate dal bene della società verso le quali la resistenza del cittadino è
giudicata inammissibile. Dunque, il protagonista della Dichiarazione del 1789 è
la legge civile, definita dalla Nazione, all'interno della quale il
cittadino trova il suo spazio di libertà. L'intera Dichiarazione si rivolge al
cittadino.
Centocinquanta
anni dopo, la Dichiarazione del 1948 è diversa. Per la prima volta l'idea di un
“Diritto naturale” che appartiene individualmente a ciascun membro della
specie umana è effettivamente articolato. Ci si trova di fronte a un
tentativo di creare un corpus di diritti nel senso comune del diritto legale
che però, diversamente dai codici delle leggi finora conosciute, non dipende
da alcun organismo politico. È chiaro che una delle spinte decisive per
scrivere questo documento consisteva nel desiderio di trovare un modo per
condannare i criminali nazisti che non facesse riferimento alla legge tedesca. Peraltro,
atrocità come l'olocausto non sarebbero risultate legali neppure secondo la
legislazione razzista del Terzo Reich, ma di fronte a ciò che si presentava
come male assoluto e avendo vinto la guerra emergeva con potenza, da
entrambe le parti vincitrici, la necessità di trovare un punto di vista
superiore astorico che non concedesse alcun terreno di legittimità la
legislazione nazista. In questa ottica, storicamente data, l'idea di diritto
umano con i suoi antecedenti storici si sposava perfettamente a questa
funzione. Naturalmente a questa esigenza storica si univa la tendenza e la
cultura individualista e antitradizionalista americana. Ma nelle fasi
preparatorie emersero subito notevoli difficoltà. Nell'inquadrare dal punto di
vista etico e filosofico il testo, ad esempio, l'Associazione Antropologica
Americana mosse critiche molto severe alla possibilità stessa di
concepire qualcosa come una ‘dottrina universale dei diritti umani’. Gli
antropologi osservarono come fosse impensabile considerare come base di
partenza dell'analisi un individuo desocializzato. Ciascun individuo si
determina sempre ed inevitabilmente come parte di un gruppo sociale, con una
forma di vita sanzionata nei modelli il comportamento. In questa prospettiva
una Dichiarazione che pretendesse di applicarsi a tutti i singoli esseri umani,
prescindendo dalle appartenenze culturali (e quindi in effetti prescindendo
dalle particolarità dello sviluppo della cultura nazista in Germania) rischiava
di essere implicitamente imperialista. Come sostenne l'Associazione “e rischia
di diventare un’affermazione di diritti concepiti solo nei termini dei valori
prevalenti nei paesi dell’Europa occidentale e dell’America”. In sostanza si
rischiava di ripetere la mossa del “fardello dell'uomo bianco” che aveva alimentato
il colonialismo. Queste ragionevoli considerazioni vennero semplicemente
ignorate.
In
effetti il progetto non era affatto descrittivo, nessuno pensava che i “diritti
umani” fossero una sostanza data, ma espressamente normativo, tutti la
ritenevano un’opportuna norma da porre. Secondo le parole di René Casin “poggiava
su un atto di fede in un domani migliore”. È ovvio che sul piano logico l'idea
che potesse esistere qualcosa come un “diritto di natura” è un esempio
sfacciato di fallacia naturalistica che trasforma una presunta
naturalità in norma. In natura noi possiamo trovare fatti, ma i valori
implicano delle norme. Non le implicano ‘naturalmente’ e senza il passaggio
della scelta politica e, quindi, della contingenza storica.
Nell'articolo
tre della Dichiarazione troviamo scritto che “ogni individuo ha diritto alla
vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Tutti possiamo
leggerla come una considerazione condivisibile: chi potrebbe mai desiderare che
gli sia tolta la vita o la libertà. Chi potrebbe mai desiderare di vivere
nell'insicurezza. Ma da questi valori ragionevoli non scaturisce alcuna
norma. Il fatto che un individuo abbia diritto alla libertà significherebbe
che la sua libertà non può mai essere vincolata. Ma evidentemente esistono
leggi, carceri, punizioni per i casi nei quali la libertà distrugge il vivere
comune e civile. La questione è, piuttosto, sempre quanta libertà e sotto
quali condizioni. La questione è quella posta dalla Costituzione francese.
Ma se ammettiamo che la libertà di cui si tratta è quella consentita dal
diritto positivo dei vari Stati, allora la Dichiarazione è totalmente vuota. Se,
viceversa, non facciamo riferimento a nessuna registrazione reale non si sa di
che cosa si sta parlando. Peraltro, nella stessa frase è dichiarato, oltre al
diritto alla libertà, anche quello alla sicurezza. Dunque, si pone il problema
di quanta sicurezza e del conflitto tra la sicurezza di uno e la libertà
dell’altro (ad esempio, di costringerlo a lavorare, di rendere insicura la sua
vita, per es. aumentando la “flessibilità” e “precarietà”, per ridurne la forza
negoziale).
Il
tema è sempre, in altre parole, come limitare la libertà o quanta
libertà può limitare la sicurezza. Norberto Bobbio osservava che i “diritti
naturali” non sono “diritti”, ma al massimo “esigenze” che poi devono essere
fatte valere negli ordinamenti normativi positivi. La cosa è particolarmente
evidente appena ci si accosta al gruppo dei “Diritti umani” di contenuto
sociale (articoli da 22 a 27), qui la situazione è davvero paradossale. Si
tratta infatti di “diritti” inseriti inizialmente sotto la pressione dell'Unione
Sovietica (la quale comunque si astenne dalla votazione finale). Di norma
quando si levano gli scudi per denunciare le violazioni dei “Diritti umani”
questi sono sistematicamente ignorati, perché sono ininterrottamente violati
ovunque dal ‘48 a oggi. Il fatto è che per essi ogni individuo ha il “diritto
umano” al lavoro, o alla “protezione contro la disoccupazione”, o, ancora, ad “una
rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua
famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana” (art. 23). Oppure ha diritto
a “ferie periodiche retribuite” (art. 24). Si tratta evidentemente di un libro
dei sogni che conta violazioni innumerevoli anche nei paesi più benestanti.
Anzi che è sistematicamente violato, disapplicato e distrutto tanto più quanto
più il liberalismo e la sua forma pura neoliberale si afferma.
[6] - Ovvero
disegnata secondo il modello storicamente situato (nella forma di vita occidentale
e nella versione illuminista di questa) che è abbastanza obiettivamente una potentissima
arma ideologica. Una cosa che inizia a prendere forma durante la guerra fredda
come arma contro un altro consenso (tramite la sistematica denuncia della
violazione dei “diritti umani” da parte degli Stati Uniti a sostegno etico e
legittimazione delle proprie iniziative sia contro l'Unione Sovietica e contro
la Repubblica Popolare Cinese ed i loro alleati) e da allora viene usata, senza
soluzione di continuità, contro chiunque si elevi ad ostacolare il dominio
imperiale statunitense. In effetti, già l’idea in sé dei “diritti umani” può
essere accusata di individualismo metodologico il quale è, esso stesso, alla
base della microfondazione della teoria economica. I diritti sono immaginati
come inerenti all'individuo naturale, cioè a un individuo astratto astorico,
aculturale e dunque sono utilizzabili come marcatore e punto di riferimento del
giudizio sulle azioni e sulle dinamiche collettive. Il dispositivo dei “diritti
umani” crea, cioè, un decisivo passaggio teorico in cui richieste individuali
che non fanno per sé stesse riferimento a nessun organismo
sociale dato (o contesto culturale noto) e che finora nessuno ha
riconosciuto possono essere poste come eticamente fondanti ed esistenti
in natura e restare lì, in attesa che qualcuno ad un certo punto se ne
faccia carico. Magari in appoggio alle sue istanze politico-strategiche.
[7] - Fino a che i paesi sono connessi con
una catena di sfruttamento e disprezzo le classi dominanti hanno buon gioco,
negli uni e negli altri, di cooptare quelle subalterne distribuendo una parte
del ‘dividendo’ del dominio. Ovvero una quota di risorse estratte, sotto forma
di migliori salari estratti dalle ragioni di scambio istituite con le colonie
(minor prezzo delle materie prime, o del lavoro importato, e maggior prezzo dei
prodotti esportati nei mercati ‘captivi’) e, probabilmente principalmente, una
parte del senso di superiorità implicato nel rapporto di dominio. Questa
strategia di controllo, che al tempo di Marx è messa a punto dai politici della
seconda generazione, Disraeli e Napoleone III, ma anche Bismarck, impedisce la
rivoluzione nei paesi avanzati e perpetua le condizioni di schiavitù negli uni
e negli altri. È, quindi, il vero nodo della situazione, qualunque lotta
internazionalista passa di qui.
[8] - Argomento avanzato tra i primi
da Edmund Burke, il quale, nel libello “A vindication of natural Society”,
che scrisse ancora giovane contro gli scritti postumi del grande politico
libertino Henry St. John Visconte di Bolingbroke, pubblicati nel 1754, viene
attaccato il tono di astratta teorizzazione fondata sulla mera ragione, che,
come un acido corrosivo, scioglie tradizioni e dispone al fuoco della critica
le istituzioni e la religione. Per il nostro ciò porta necessariamente,
passando per il deismo, all’anarchia e alla critica della società civile ed
ogni governo. Come successivamente scriverà la natura umana, piuttosto, è ricca
di sentimenti passionali e sentimenti, complessi, di cui la ragione è solo
parte e non primaria. La politica ed il governo degli uomini deve quindi essere
improntata, più che alla critica astratta e artificiale, alla prudenza e
saggezza aristotelica che tenga conto dei valori condivisi, della tradizione e
dei costumi e quindi di tutte quelle componenti non razionali che inducono ad
agire.
[9] - Per un inquadramento del tema si
veda Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo
e transizione multipolare”, Meltemi 2020.
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