Yu
Yongding è un economista cinese, membro dell’Accademia delle Scienze Sociali e
già del Comitato di politica monetaria della Banca Centrale Cinese, in questo
articolo per Guancha[1]. Nel Forum finanziario
globale PBCSF di Tsinghua del 2022[2], espressione di un think
thank cinese fondato nel 1981 dalla Banca Centrale, Yongding ha attirato l’attenzione
sul “dilemma” centrale del sistema internazionale monetario: il dollaro può
fungere da moneta di riserva e fornire quindi una piattaforma monetaria di
scambio al mondo (banalmente, garantendo che ci siano sempre dollari a disposizione
per scambi tra terzi), solo se gli Stati Uniti sono in deficit. Un paese in surplus, infatti,
aspirerebbe dollari mentre uno in deficit li distribuisce. Questa è la
contraddizione interna sulla quale si è bloccata l’economia mondiale dopo la rottura
della parità legale con l’oro che era prevista nello schema di Bretton Woods. Ma
il ‘dilemma’ ha un suo scolio decisivo: la domanda internazionale di valuta di
riserva e di scambio è correlata con la crescita del commercio mondiale e
questa con la tenuta del dollaro. Se cala il commercio mondiale diminuisce la
richiesta di valuta internazionale e quindi il dollaro si svaluta, ma allora,
aumenta anche la possibilità che gli Stati Uniti si vedano costretti a non
rispettare il proprio credito. Ovvero a replicare la crisi 1969-71 che portò al
disaccoppiamento dollaro-oro. Questo scolio mostra la reale posta in gioco, e
la reale funzione sistemica, della continua espansione della cosiddetta “mondializzazione”.
Nelle condizioni poste dal disaccoppiamento il sistema di potere del dollaro
può funzionare solo fino a che cresce. Trascinando il mondo in una insostenibile,
se non altro sotto il profilo ambientale, bulimia.
Ora,
la domanda che tutti da allora si sono sempre fatti (ovvero negli ultimi
cinquanta anni) è: quale è il reale valore del dollaro e quindi dei crediti
in dollari?
Il
debito estero netto degli Stati Uniti, alla fine del 2021, era salito a 15.000
miliardi, con una economia che ogni anno produce 18.000 miliardi di Prodotto
Interno Lordo, e resta stabile solo fino a che molti paesi del mondo, Cina (che
è la prima economia, dal 2017, ormai certificata anche dal FMI[3]) e altri come l’India (che
è la terza), o Russia e Brasile (rispettivamente sesta e settima) o Indonesia (nona),
comprano titoli di stato Usa per fare riserve. Semplicemente, se smettessero il
dollaro si deprezzerebbe, e l’inflazione farebbe il resto.
Ma
questa era la situazione prima della crisi pandemica e di quella ucraina. Dopo
la prima le politiche monetarie ultraccomodanti hanno inondato il mondo di
denaro ‘caldo’ e di dollari, accelerando una tendenza in continua accelerazione,
a sua vola in risposta a problemi strutturali evidenziati dalla crisi del 2008.
Dopo la seconda questa enorme massa di crediti, distribuiti dalla FED come suo
debito, e acquistati da tutto il mondo, sono stati posti sotto minaccia
geopolitica globale dalla mossa di congelare (e forse sequestrare) ben 300
miliardi di riserve russe. Dollari che erano il controvalore di prodotti come
il petrolio ed il gas esportati dal paese euroasiatico.
Dopo
l’esplosione di questa bomba nucleare monetaria (termine evocato dal banchiere
cinese), i 3.300 miliardi di riserve in dollari della Cina non possono che
essere visti in un’altra luce.
Una
massa di dollari all’estero che è stata ottenuta da quaranta anni di doppio
surplus, delle partite correnti (esporta più che importa) e del conto capitale
(acquista attività finanziarie o beni reali all’estero più di quanto ne
comprino in patria gli operatori esteri). Ovviamente l’avanzo commerciale
produce un surplus di moneta che va investita, i due avanzi indicano che il paese
continua la sua espansione.
Ma
queste riserve sono ormai eccessive, hanno un rendimento bassissimo, sono detenute
all’estero in modo sbilanciato. Cosa più grave, alcune sono prese in prestito a
tassi alti e con bassi rendimenti, si tratta di un vero e proprio tributo
coloniale, insomma (una cosa senza una comprensibile ragione economica, ma
presumibilmente parte di accordi globali). In sostanza da più di dieci anni,
denuncia l’oratore, circa 2.000 miliardi di dollari Usa detenuti dalla Cina
come patrimonio netto all’estero hanno dato un reddito negativo. La Cina paga,
anno dopo anno, per il privilegio di comprare titoli in dollari, mentre gli Usa
per quello di indebitarsi in dollari guadagnano ogni anno centinaia di miliardi
all’anno.
Dunque
“la struttura delle attività e passività all’estero della Cina deve essere
modificata”.
Naturalmente
per aumentare il reddito dei propri investimenti (che ora assurdamente
costano), riducendo la quota all’estero. Inoltre, per aumentarne la sicurezza,
sia delle riserve detenute come degli investimenti all’estero (anche privati).
Le
cose da fare sono ridurre le partecipazioni in titoli del Tesoro Usa e
aumentare quello in paesi produttori di risorse strategiche, ad esempio nell’Asia
centrale o nei paesi arabi (sono in corso, infatti, serrati colloqui al massimo
livello tra Cina ed Arabia Saudita). Mantenere i nervi saldi verso gli
investimenti esteri in Cina, e quindi potenziare le valute digitali.
Nela
prospettiva del pensiero strategico della ‘doppia circolazione’ (che è un
paziente e progressivo spostamento sistemico e strutturale dalla dipendenza dai
flussi di esportazione ad un sistema autocentrato), si deve:
-
In primo luogo, bisogna passare a politiche
fiscali e monetarie espansive, che stimolino la domanda interna e quindi le
importazioni (riequilibrando la bilancia commerciale del paese),
-
In secondo luogo, cancellare le politiche
rivolte a favorire le esportazioni (e gli investimenti all’estero), come il
rimborso dei dazi imposti dai paesi di controparte,
-
In terzo, aumentare l’importazione di
merci e materiali strategici, come depositi di grano e petrolio, creando
riserve consistenti (una politica che, se implementata ora, come avviene in
effetti da qualche anno, aumenterà enormemente il costo e le crisi alimentari),
-
Ovviamente, quarto, acquistare meno buoni
del Tesoro Usa (che hanno rendimenti negativi e avevano come unico vantaggio la
sicurezza, vanificata dalla mossa verso la Russia), al contempo importare più
prodotti statunitensi,
-
Creare per un certo periodo un disavanzo
commerciale che è l’unico modo per riassorbire le riserve detenute all’estero,
quindi aumentano le importazioni e utilizzando le riserve estere in eccesso per
pagarle,
-
Attuare una politica del tasso di cambio
fluttuante e intervenire sul mercato quando necessario,
-
Ovviamente, mantenere controlli sui
capitali, per frenare l’afflusso di “denaro caldo” (operazioni speculative su
titoli e derivati) e la conseguente fuga di capitali (anche nazionali),
-
Settimo punto, aumentare gli investimenti
all’estero ma cercando di farli dove gli Usa non possono raggiungerli, cosa che
rappresenta un serio problema (al momento mi pare che gli unici paesi sicuri
sono i “cattivi conclamati”, come Russia, Iran, Venezuela, Algeria, e così via),
-
In conclusione, fare attenzione alle
trappole del debito, cercare di restare in equilibrio nella bilancia dei
pagamenti internazionali.
Come
scrive fulmineamente, “se presto denaro a un creditore più potente di me,
questo potrebbe non ripagare il debito che ha. Essere un creditore è molto
imbarazzante nelle attuali condizioni geopolitiche”.
La
struttura della situazione può essere inquadrata osservando il grafico della
dimensione economica calcolata a parità di potere di acquisto nel 2020 (prima
della pandemia, ora può essere mutata in peggio per l’Occidente): l’Asia è per
distacco la prima area economica mondiale, la Cina la prima economia (125% di
quella americana), molto distante l’India la terza (metà di quella americana),
il Giappone al quarto posto (metà di quella indiana). Dopo questi big vengono
un gruppo di paesi che ‘valgono’ qualcosa come il 15% dell’economia americana ciascuno:
Russia, Indonesia, Brasile, Germania, Francia. E quindi i “piccolini”, paesi da
2.000 miliardi di dollari PPA, tra questi il Messico, la Corea del Sud, la
Turchia, l’Italia, la Gran Bretagna, il Canada. Seguono Arabia Saudita, Egitto,
Spagna, Polonia, Tailandia, Malaysia.
Sinteticamente,
l’Asia vale al 2020 il 51% del Pil PPA dei principali paesi mondiali, l’Europa
il 17% e il Nord America il 22%, seguono irrilevanze. E quelli sicuramente “Occidentali”
(includendo l’incerta Turchia) ammontano al 45%, mentre i “cattivi” (includendo
solo Cina, Russia ed Iran, che ha il PIL PPA del Canada e superiore a Polonia e
Australia, o Olanda) fanno il 28% e i “non allineati”, ovvero l’ago della
bilancia, il 26%.
Mentre
accade questo gli Usa spendono per le armi (e gli stipendi dei loro due milioni
di militari) circa 780 miliardi di dollari all’anno, il 40% della spesa
mondiale ed il 3,7% del loro Pil nominale, segue la Cina con 250 miliardi, che
però è ‘solo’ il 1,7 % del Pil nominale del paese, e poi, staccate, India (la
terza spesa, con 72 miliardi) e la Russia e Gran Bretagna con 60 miliardi,
quindi Giappone, Germania, Francia, Arabia Saudita e Corea del Sud, con
qualcosa come 50 miliardi cadauno.
Ne
consegue che l’America del Nord, che ha il 22% del Pil mondiale, spende il 50%
della spesa militare mondiale, e l’Asia, che produce il 51% del Pil ha il 30%
della spesa in armi e soldati (ma includendo il Giappone, la Corea del Sud e
Taiwan che, insieme, fanno 100 miliardi di spesa, pari al 6%).
Infine,
il confronto tra “Occidentali” e “cattivi” (questi ultimi essendo cinesi, russi
e iraniani) vede il primo blocco, pari al 45% del Pil mondiale, avere il 70%
della spesa militare ed i secondi, con il 27% ca. del Pil, solo il 19% della
spesa.
Questo
squilibrio spiega sia perché fino ad ora i deboli abbiano prestato ai forti, sia
perché sia crescentemente imbarazzante farlo.
Spiega
anche il motivo per il quale l’Occidente globale ora voglia andare alla guerra.
[1] - Yu Yongding, “Abbiamo preso
obbligazioni statunitensi costose e senza rendimento, cosa fare dopo?”,
Guancha, 20 maggio 2022
[2][2] - Tenuto dal 15 al 17 aprile, è un appuntamento
annuale della Scuola di Finanza PBC, fondata nel 1981 e parte del sistema della
Banca Centrale Cinese, dal 2012 incorporata nella Università di Tsinghua. Si
tratta dunque di uno dei più istituzionali Think Thank cinesi di politica
monetaria. Tra gli interventi Zhou Xiaochuan ha illustrato sei dilemmi
rilevanti nella introduzione di valute digitali, ed il viceministro del
ministero delle Finanze, Liao Min, ha richiamato alla necessità di affrontare
le turbolenze della situazione aumentando la supervisione nei servizi
finanziari, il Presidente della Banca Centrale Cinese, Liu Liange, ha indicato
la necessità di ampliare e accelerare la trasformazione digitale del settore
finanziario e ridefinire i confini dei servizi finanziari. Si veda questo link.
[3] - Misurando la produzione
economica nazionale in termini reali di beni e servizi, si va dai 17.600
miliardi di dollari PPA cinesi, rispetto ai 17.400 miliardi Usa
Quindi finirà prima il mondo o il dollaro? Essendo chiaro che il dollaro finirà, perchè non accompagnarlo, e invece creare questo mostruoso vortice che impoverisce tutti? Vivremo nel mondo tra cento anni mica nel mercato.
RispondiElimina