Giovanni Arrighi descrive la svolta degli anni ottanta che produsse il ridisciplinamento dei lavoratori occidentali (il cui reddito reale è da allora stagnante[1]) come ultimo effetto di una lunga catena di cause e conseguenze il cui punto focale è la decolonizzazione. La svolta i cui alfieri furono Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna è quindi letta nel contesto della lotta egemonica tra Est ed Ovest. La crisi dei profitti e della competitività delle merci occidentali, attivata dal cambiamento delle ragioni di scambio, in particolare di alcuni prodotti chiave (in primis energetici), determinò allora uno squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti e fiscale. Squilibrio che fu aggravato dalle politiche di compensazione che si accumularono per tutti gli anni sessanta e settanta giungendo, alla fine, ad un punto di rottura. Politiche rivolte a salvare il grande capitale e cercare di conservare, allo stesso tempo, la pace sociale. Allora, con la svalutazione del dollaro (e della sterlina) del 1969-73 e con il distacco del 1971 dalla parità con l’oro derivarono un gioco di reciproco scaricabarile tra alleati. Un gioco a chi alla fine si sarebbe trovato a pagare la crisi. Toccò a noi.
Per
evitare la distruzione di capitali, questi si rifugiarono nel loro “quartier
generale”, ovvero nei mercati finanziari, cercando di moltiplicarsi senza
passare per la produzione. Ma, come scrive Arrighi in “Adam Smith a Pechino”,
in questo modo alla fine “gli Stati Uniti passarono dal ruolo di principale sorgente
mondiale di liquidità e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto
durante gli anni Cinquanta e Sessanta, a quello di principale nazione debitrice
e di pozzo di liquidità che non hanno più abbandonato dagli anni Ottanta”[2]. Ottennero così i
risultati di fine millennio: la sconfitta dell’Urss e il disciplinamento del
Sud del mondo. I margini della produzione furono ricreati distruggendo ed
incorporando in modo subalterno l’industria del blocco sovietico, che competeva
sui mercati del Sud; quindi attraverso la recessione e l’allargamento delle catene produttive ad
occupare lo spazio che si era aperto; infine questi eventi liquidarono lo Stato Assistenziale e
ricostituirono l’esercito di riserva industriale; le crisi finanziarie e di
debito ripetute per tutti gli anni ottanta e novanta crearono lo spazio per
imporre l’apertura dei mercati al capitale speculativo ed industriale[3]. Alcuni hanno chiamato
tale modello, che scava costantemente sotto le proprie fondamenta, “Grande
Moderazione”[4].
Quel
che era accaduto in quel torno di anni, ed alla fine produsse il rivolgimento
nel ventennio ’80-’90, rivoltò l’intera società. La direzione e qualità dei
consumi passo da un assetto che aveva trazione da parte dei consumi di massa a
uno guidato dai consumi “distintivi”. Si insediò l’egemonia della classe sociale
“affluente”, che esibisce i propri consumi facendone elemento del prestigio,
della legittimità a dirigere e della stessa propria qualità morale, la quale si
impose sulla precedente semi-egemonia “popolare”. Il processo trovò i suoi
cantori e trovò i suoi critici[5], ma fu praticamente
irresistibile. Si trattava di una nuova Belle Époque fondata su un
meccanismo che, in basso, era sostenuto da una continua anticipazione di
futuro, ovvero da una costante espansione finanziaria e quindi delle strutture del
debito, e che, secondo Arrighi, nel lungo periodo avrebbe potuto portare a un “nuovo
crollo sistemico” (e in realtà molto più vicino, dato che “Adam Smith a
Pechino” uscì nel 2007). Si affermò, insomma, un modello nel quale dominava
la riduzione della concorrenza attraverso l’estensione delle relazioni clienti-fornitore
“captive”, basate sull’associazione di monopoli e monopsoni, e l’interconnessione
internazionale per sfuggire, o per arbitrare, ai regimi di regolazione[6]. E’ il modello Walmart
degli anni Novanta, sulla base del quale, generalizzandolo, si imporrà nel
nuovo millennio il modello della “gig economy”[7] e di “Amazon”[8]. E un rovesciamento completo
del modo di regolazione della società.
Tutto
questo si avvia alla fine e permane ormai come fantasma.
Ma,
naturalmente, di quel che accadrà nei prossimi mesi e soprattutto anni è solo possibile
congetturare. Per sviluppare queste congetture partiamo da un’interpretazione:
l’accumulazione del capitale, dal quale nel nostro sistema dipende assai
strettamente la stabilità politica (sia in ‘alto’, come consenso dei ceti
dominanti, sia ‘in basso’ come accesso alle risorse dei ceti subalterni via
lavoro), è strettamente connessa con lo sfruttamento di dissimetrie che il sistema
coltiva. Oppure, per dirlo in altro
modo, il movimento del capitalismo genera sempre una dialettica spaziale
che è internamente connessa con la lotta di classe. Il gioco è quello di
cercare sempre nuovi sbocchi sfruttabili per le eccedenze di capitale e di
lavoro che si generano continuamente, senza redistribuirle. Perché nei nuovi
sbocchi si dia il processo completo di valorizzazione del capitale
(investimento-produzione-realizzo) è necessario che sia presente una certa
stabilità e, al contempo, un certo controllo da parte dell’investitore almeno
fino al momento del completamento del ciclo produzione-realizzo. Quando il
capitale investito rintraccia le occasioni di investimento fuori della propria
area di controllo è necessario che prima la estenda, in qualche modo. E’ così che
le forme di dipendenza, anche reciproca (anzi, sempre reciproca) si
determinano.
Guardando
la cosa dal lato dei cosiddetti processi di “sviluppo” (ovvero di crescita
delle dotazioni materiali e immateriali, della loro capacità di funzionare insieme
e di generare una maggiore efficienza totale dei fattori produttivi[9]) bisogna riconoscere che
questi non sono autoequilibranti, né dipendono essenzialmente dal mero fatto
degli investimenti, o dalla disponibilità di tecnologie[10]. Tutt’altro, quando gli
investimenti sono squilibrati rispetto alle caratteristiche della situazione
locale più spesso provocano fragilità e dipendenza, in particolare quando sono
commisurati a mercati esteri o controllati da centrali di potere estero[11]. Le dinamiche di
investimento provocano spesso concentrazione di risorse in poche località
emergenti ed ‘effetti di riflusso’ (positivi, in termini di rendita, o
negativi, in termini di svuotamento) da quelle di provenienza. Normalmente seguendo
dinamiche causali di tipo circolare e cumulativo.
La
potenziale instabilità che generano queste dinamiche complesse, determinate dalla
fluidità del capitale (una sua caratteristica intrinseca e storicamente
ostacolata dal potere statuale), viene tenuta sotto controllo da vari
meccanismi di assorbimento ed impiego del surplus e, soprattutto, dall’organizzazione
internazionale e dalla gerarchia delle nazioni. Ovvero da una complessa rete di
rapporti di sfruttamento, creata anche grazie al controllo del capitale in
eccesso e del suo impiego e remunerazione. La creazione e lo sfruttamento dei
divari è quindi una ineliminabile caratteristica del capitalismo[12]. Divari che possono
essere certamente letti come caratteristici della stratificazione interna
funzionale nei singoli paesi, ma anche nello sfruttamento di un territorio sull’altro.
Ciò
che si deve fare, per dominare l’instabilità intrinseca del capitalismo è
quindi, dal lato delle potenze che intendono dominare il proprio destino, di
proiettare il proprio capitale, tecnologia e standard, e forza lavoro a tutti i
livelli (in particolare ai più alti, ovvero direzionali), in aree
controllabili, nelle quali siano presenti divari e risorse da mettere “al
lavoro” per creare forme di sviluppo dipendente. Forme di sviluppo, cioè,
capaci di consolidare economie subalterne alle quali per via della
dominazione politica sia preclusa la possibilità di attivare meccanismi
causali cumulativi che possano un giorno tornare come concorrenti (quando non riesce, ad esempio agli Usa rispetto al dominio britannico, o alla Germania e Giappone rispetto al dominio americano, si ha una transizione egemonica o il suo rischio). Uno sviluppo
nel quale i profitti, in altre parole, siano appropriati e trasferiti (anche
grazie ad opportune ragioni di scambio[13], più o meno imposte) ed
inibiti dal trasformarsi in capitale locale.
Questa
è la geopolitica del capitalismo.
Questa
è quindi la posta in gioco del Grande Gioco triangolare
che è in corso tra gli Stati Uniti (ma anche il suo fedele scudiero Europa), la
Russia e la Cina. La terza è stata a lungo coltivata come area di investimento
dei surplus produttivi e dei capitali in cerca di rendimenti Occidentali,
americani in primo luogo. Ma anche la Russia, a partire dagli anni Novanta è
stata terreno di caccia. Tuttavia le cose non sono andate come l’Occidente
avrebbe preferito, perché il circuito di valorizzazione e controllo, ovvero il
circolo della dipendenza, non si è mai chiuso completamente. Le economie russa
e cinese non sono diventate subalterne, e i pochi agenti che trasmettevano il
controllo per il tramite della loro stessa relazione con l’Occidente (‘imprenditori’
o ‘oligarchi’, come si dice usualmente) sono stati, negli ultimi anni,
riportati sotto il controllo della logica statale, spesso con le cattive. In
questo, a ben vedere riposa l’accusa di ‘totalitarismo’ avanzata da parte
liberale (è sempre ‘totalitario’ un regime che non lascia liberi gli
imprenditori, non lo è uno che schiavizza i cittadini ma nel quale il capitale
si muove liberamente e fa quel che vuole, il “paradosso Arabia Saudita” trova
qui il suo senso razionale). Come spesso accade una formula sembra irrazionale
o contraddittoria solo perché lascia impliciti i propri presupposti, e quella
liberale ha come indefettibile presupposto che ad essere “libero” è il
capitale, e per esso il suo proprietario.
Di
fronte a questa inscusabile colpa muove l’intera macchina di distruzione
dell’Occidente. La più tremenda che l’umanità abbia mai visto. Distruzione ideologica,
morale, culturale e, ovviamente, materiale. L’obiettivo è semplice e
necessario, si tratta di costringere l’economia dei paesi irragionevolmente ‘chiusi’
a lasciare che il controllo interno degli investimenti sia completamente
abbandonato, che le ragioni di scambio siano scelte ‘dai mercati’ (ovvero che
le materie prime siano vendute al prezzo scelto dall’acquirente e nella moneta
da questo preferita). Tutto qui. Naturalmente anche che le migliori
risorse intellettuali continuino ad andare nelle università occidentali, a
lavorare per le imprese occidentali, e le più semplici ed abbondanti emigrino a
servizio. Per questo è necessario anche spezzare lo spirito, mostrare che
devono essere felici di apprendere dal faro dell’umanità come si sta al mondo. Felici
e ammirati di apprendere la Democrazia, la Giustizia, il Bene e la Vera Vita
dai maestri.
Ecco
cosa sta oggi accadendo. Per questo, e più volte, arriva dal
Cremlino l’avvertimento che un mondo senza Russia non varrà la pena esistere, e
che se costretti lo distruggeranno. E’ sicuramente enfatico, ma quel che l’Occidente
collettivo vuole è effettivamente la loro morte. Morte come nazione e come
civiltà, e occupazione come area economica, servitù per i suoi abitanti. Non ci
può essere sovranità senza indipendenza economica e, d’altro canto o di converso, non ci può
essere stabile processo di accumulazione senza controllare gli spazi diseguali.
Quel
che accade al margine della Russia è quindi l’assedio necessario, dal
punto di vista Americano, per controllare il grande spazio russo: per minacciarlo
e costringerlo ad aprirsi, imporgli la scelta dei clienti e delle destinazioni
dei suoi prodotti (e quindi il prezzo); restringere e dominare la sua valuta ed
i suoi imprenditori; alla fine farlo precipitare nella crisi economica, sociale
e politica. Eliminarlo come Grande Potenza.
Lo
stesso accadrà, sta già accadendo, alla Cina.
Come
la Russia ha risposto militarmente a questa sfida esistenziale, in modo sicuramente
cinico e forse imprudente, lo sappiamo. Come ha risposto sul piano della lotta
monetaria (grande parte della sfida) lo abbiamo anche visto nell’estensione
degli accordi “merci verso rubli”, per ora vincenti[14]. Nel lungo periodo questa
controffensiva ha la potenzialità di mettere all’angolo il dollaro e con esso il dominio americano.
Ma
nel medio periodo l’economia russa ha un problema di contrazione degli sbocchi
commerciali esteri. Cosa che va a colpire un paese apparentemente sano, costantemente
in surplus commerciale (con 45 miliardi di esportazioni storiche e 24 di
importazioni), con investimenti all’estero positivi (per 12 miliardi) e
scarsissimo debito estero (0,4 miliardi), un PIL di 1.400 miliardi, un tasso di
occupazione del 71% e di disoccupazione del 4%. Ma anche un paese di enormi
differenze geografiche, gigantesco e con zone poverissime, un reddito pro
capite medio molto basso ed una popolazione di 145 milioni di persone, quindi sostanzialmente
spopolato nella parte asiatica, nella quale vive solo il 23% della popolazione
pur essendo l’area più grande.
Come
abbiamo visto[15],
la Banca Centrale Russa ha dichiarato che il paese dovrà attraversare una fase
di grandi cambiamenti strutturali per ridurre ulteriormente la dipendenza dall’Occidente
e consentire la disconnessione. In un recente articolo di Anastasia Bashkatova[16] la trasformazione
strutturale a cui chiama la Banca Centrale è descritta come il passaggio da
un modello trainato dalle esportazioni (quello, appunto, della “Grande Moderazione”
degli ultimi trenta anni) ad uno in cui è la domanda interna a stabilizzare
il paese. Si tratta ovviamente di un enorme compito per il quale saranno
necessari anni. Si dovrà: ristrutturare il mercato del lavoro; modificare i
settori trainanti; attuare quella che in Cina è stata chiamata una “doppia
circolazione”. La Banca Centrale ha avvertito che questo dovrà comportare una
netta ridistribuzione tra industrie e professioni, oltre che tra aree
economiche geografiche. Molti impiegati di alto livello nelle multinazionali
estere perderanno il lavoro e dovranno ricollocarsi, mentre presumibilmente ci
sarà più lavoro ai livelli meno sofisticati. Malgrado ciò, perché sia possibile
ristrutturare l’economia, il monte complessivo dei salari dovrà aumentare,
per far crescere la domanda interna.
Il
modello neoliberale funziona all’esatto opposto.
Tiene compressa la domanda interna, per proteggere i profitti industriali, e
ricerca la necessaria capacità di spesa per garantire il realizzo delle merci
in capitale all’estero in una lotta spietata a somma zero. In questo consiste la
sua “libertà”.
La
scommessa russa è quindi di poter ritransitare nel modello opposto, ovviamente
insieme alla Cina ed a numerosi partner. Un modello che stabilizza il proprio
ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale facendo essenzialmente
leva sul mercato interno, salari alti e stabili, una classe media in ascesa.
Ovviamente ne fanno parte un certo controllo dei flussi di capitali e l’indisponibilità
a farsi controllare dall’esterno. Qui soccorre la tradizione del paese, ovvero
la capacità coltivata nell’epoca sovietica di garantire un “ampio filtraggio
dei progetti, tenendo conto delle nuove circostanze”, in modo da garantire alla
fine un aumento della produttività totale dei fattori, l’acquisizione di nuove
conoscenze, tecnologie, e lo sviluppo del capitale umano.
Per
il Direttore del Centro di Meccanica Sociale, Mikhail Churakov, bisogna quindi creare le infrastrutture di base, garantire partecipazione, chiudere il divario
tra le metropoli e le aree rurali interne, garantire un efficace sistema di
controllo e comando, sostenere l’innovazione scientifica.
Insomma,
tornare alla programmazione economica, se non alla pianificazione.
[1] - Si veda, ad esempio, il post “Lawrence
Mishel, ‘Lo scostamento tra la crescita della produttività e dei redditi
mediani”, Tempofertile, 23 novembre 2013; “Conflitti
distributivi e lavoro: passato e futuro”, Tempofertile, 21 settembre 2015; “Mc
Kinsey & Company, ‘Più poveri dei genitori? Redditi piatti o in caduta
nelle economie avanzate”, Tempofertile, 20 luglio 2016.
[2] - Giovanni Arrighi, “Adam Smith
a Pechino”, Feltrinelli, 2007, p. 165.
[3] - Questa sintesi fa riferimento a
quanto scritto in Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
Meltemi 2020, pp. 394 e seg. Un sintesi in questo post, “Dipendenza”,
Tempofertile, 4 novembre 2020.
[4] - Si veda il post, “Compromessi
sociali, la ‘Grande Moderazione’”, Tempofertile, 8 maggio 2015.
[5] - Uno dei più rilevanti fu Pier
Paolo Pasolini, del quale si possono vedere gli “Scritti
corsari”, Garzanti, Milano 1975, e le “Lettere luterane”,
Garzanti, Milano 1976, ma anche C. Lasch, “La
ribellione delle élite”, Feltrinelli, Milano 1995.
[6] - Per una lettura molto interessante che fa uso di questo
concetto si veda O. Romano, “La
libertà verticale. Come affrontare il declino di un modello sociale”, Meltemi,
Milano 2019.
[7] - Si veda il post “Gig
Economy o Sharing Economy? Della generalizzazione del Modello piattaforma”,
Tempofertile, 16 febbraio 2016; “Benedetto
Vecchi, ‘Il capitalismo delle piattaforme”, Tempofertile, 20 gennaio 2018
[8] - Si veda questo post, “Amazon
e il suo monopolio”, Tempofertile, 22 ottobre 2017
[9] - Ovvero, parafrasando la
sintetica definizione di Hirschman, al problema di come una cosa non conduce
all’altra (es. un investimento in una centrale elettrica ed un porto non
conduce ad uno sviluppo industriale e quindi ad un innalzamento del tenore di
vita generale).
[10] - Per una ipotesi contraria si
veda R. Solow, Technical
Change and the Aggregate Production Function, in
“Review of Economics and Statistics”,
vol. 39, n. 3, 1957, pp. 312-320. Secondo la sua analisi iniziale nel lungo periodo la crescita non
dipende dai macchinari, ma dalla tecnologia. Calcolando la crescita per
lavoratore negli Stati Uniti, la stima di Solow era che ben sette ottavi
dipendeva dalla tecnologia. La focalizzazione sulla produttività del lavoro,
dalla quale deriva la dotazione di beni e servizi pro-capite che viene fatta
coincidere con la crescita, conduce a rendere evidente che la mera crescita del
numero di macchine per lavoratore va soggetta rapidamente ai rendimenti
decrescenti (non posso mettere le mani su più di una macchina alla volta). Ne
derivava, nei risultati proposti, che il reddito da impianti e macchine è parte
minore del Pil (circa un terzo), dato che resiste grosso modo dagli anni Cinquanta
a tutti gli ottanta. A causa del rendimento decrescente, il mero aumento dei
macchinari non era la strada della crescita (è la “sorpresa di Solow”),
e quindi il risparmio non sostiene la crescita. Ciò che lo fa è il
progresso tecnico. Ciò perché, semplicemente, il cambiamento tecnologico
permette di ottenere un livello di produzione superiore utilizzando la stessa
quantità di lavoro. La ricerca di direzioni causali semplici e modellabili
matematicamente, una delle specialità di Solow, lo portò, allora, anche nel suo
influente libro successivo a concluderne che il progresso tecnico aveva luogo per
ragioni non economiche,
dato che dipendeva dall’avanzamento delle conoscenze scientifiche (cfr. R.
Solow, Growth Theory: An Exposition, Oxford University Press, 1987).
[11] - Ad esempio, secondo il punto di
vista di Myrdal, in parte fondato su una importante ricerca sul campo sulla
discriminazione nel sud degli Stati Uniti (si veda G. Myrdal, Il valore
nella teoria sociale, Einaudi, 1966 (ed. or. 1958), al contrario dei modelli ottimisti dell’economia (ad
esempio alle conseguenze di quello di Solow), il gioco delle forze di mercato
lasciato a sé stesso porta alla continua crescita delle ineguaglianze. Come
scrive: “Se le cose fossero lasciate al libero gioco delle forze di mercato
senza interventi di politica economica, la produzione industriale, il
commercio, le banche, le assicurazioni, la navigazione, quasi tutte queste
attività economiche che in un’economia in sviluppo tendono a dare una
remunerazione superiore alla media – e inoltre la scienza, l’arte, la
letteratura, l’istruzione, l’alta cultura in genere – verrebbero ad addensarsi
in certe località e regioni, lasciando il resto del paese più o meno stagnante”
(G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli
1959 (ed. or. 1957).
[12] - Si veda anche il post, “Immanuel
Wallerstein, ‘Dopo il liberalismo’”, Tempofertile 11 maggio 2022
[13] - Si definiscono “ragioni di
scambio” il rapporto tra l'indice dei prezzi all'esportazione di un paese e quello dei prezzi all'importazione. Dal punto di vista dell'intero paese, rappresenta
l'ammontare di esportazioni richiesto per ottenere una
unità di importazione. Dunque il prezzo tra due beni (o di un bene
e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro
internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza
che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non
tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus di vino, essendosi
specializzato solo in tale produzione di esportazione, poniamo di Porto, e
l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il prodotto è la Gran
Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai grossisti anglosassoni,
detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se è di poco superiore al
suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i magazzini e non avere la
moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato dai commercianti esteri,
in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da Trattati e, se del caso,
cannoniere), e sul limite della loro capacità di spesa. L’effetto è che un
paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui campi di battaglia),
progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare nelle formule
semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di David Ricardo.
L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale, che il ‘libero
scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le parole di Keen “una fallacia fondata su una fantasia”. Questa
teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che quando la
concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il capitale in
essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari quantità di
capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma,
questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior parte della teoria
economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo
piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi
di ruggine”.
[14] - Si veda “Chi
ha ucciso il cervo? Della guerra tra moneta e merci”, Tempofertile 25
aprile 2022.
[15] - Si veda “Circa
il rapporto della Banca di Russia alla Duma: disconnessioni e fine del sistema-mondo
occidentale”, Tempofertile, 22 aprile 2022
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