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venerdì 12 gennaio 2024

I soggetti non emergono dalla terra

 

Da Alessandro Visalli, Classe e Partito, Meltemi 2023[1]

 

I soggetti non emergono dalla terra

 

In un agile libricino del 2019, Tagliare i rami secchi[2], Carlo Formenti e Onofrio Romano, hanno prodotto un agile e perspicace riassunto delle tesi ‘datate, incomplete, contraddittorie’ della lunga tradizione marxista. Tra queste emerge il bersaglio delle “Tesi sulla filosofia della Storia[3] di Benjamin: la rivoluzione, e quindi il suo ‘agente’ la ‘classe’, interpretata come immanenza nell’evoluzione della Storia, e la natura cristologica dello stesso ‘proletariato’. Per come lo riassume, ad un certo punto, Onofrio Romano:

 

Non è un caso che l’anti-filosofo di Treviri non prefiguri mai una società comunista, non si cimenti a immaginare, vale a dire, il funzionamento ordinario della società liberata. Non si tratta di mera diffidenza nei confronti dell’atteggiamento eccessivamente prefigurativo dei socialisti utopisti. È una scelta che rinviene all’idea generale di trasformazione, come evento immanente allo sviluppo capitalistico, rispetto al quale ogni velleità di direzione politica dei processi è considerata un’ingenuità. È quindi inutile partorire disegni della società futura sulla base dei propri desideri. La società fa da sé. Occorre solo prenderne atto[4].

 

Questa idea, profondamente radicata nella tradizione marxista e ripresa dal grande idealismo tedesco[5], poi funziona dentro la ‘grande committenza’ del socialismo novecentesco[6], nel senso antevisto da Antonio Labriola e da Rosa Luxemburg, come ottima scusa per non agire e affaccendarsi nella cucina, affidando il futuro alla ‘provvidenza’ laica dei destini progressivi della classe. Il filosofo cassinese, nel rifiutare nettamente le idealistiche distinzioni di vero e falso in sé, o giusto ed ingiusto, ricondotte ad una totalità che dispone di leggi immanenti nel divenire, rifiuta anche di interpretarle in senso deterministico o evoluzionistico. Per attivare il potenziale della formazione e trasformazione della società, ricorda, servono condizioni specifiche e contemporaneamente è indispensabile la forza di intendere che esse sono mutabili. Ma anche la capacità di intravvedere con quali mezzi, ed in quale senso, esse possono essere mutate. Ciò che impedisce a Labriola di cadere nel determinismo è la consapevole lettura hegeliana della storia come produzione e riproduzione della vita reale nella sua interezza. Ciò che è in questione è, infatti, il senso che si attribuisce al termine ‘potenziale’, se come potentia[7] o come sola possibilità che viene attivata da altre condizioni del pari necessarie. Quindi non determinata da una sua sezione, pur importante, come quella dell’economico. Tra i diversi fattori vi è sempre azione e reazione reciproca. Né si può credere che la storia sia una sorta di favoletta morale diretta (inevitabilmente) al ‘progresso’, perché, al contrario, questo per il cassinese è sempre relativo e condizionato dalle antitesi di classe. Ma anche quelle tra città e campagna (dunque geografiche), tra le diverse posizioni nel modo di produzione, di ricchezza e potere, etc. con una formula sintetica tipica del suo scrivere: “la relatività del progresso è per noi, dunque, la conseguenza inevitabile delle antitesi di classe[8]. Se è così anche le idee “non cascano dal cielo” e le classi sociali “non emergono dalla terra”.

 


Figura 1 - Danilo Bucchi

 

Sfondo di tutte queste posizioni, inclusa quella della Rosa Luxemburg, è la parabola della grande socialdemocrazia tedesca, che nel 1890 al Congresso di Halle cerca di unificare un programma (anzi, due). Il leader all’epoca indiscusso, August Bebel, cerca di motivare le masse dichiarando che la rivoluzione è immancabile e naturale. Anche il ‘catechismo’ proposto da Kautsky, nel 1893, afferma che il “Programma di massima”, redatto dallo stesso dirigente, illustra le leggi necessarie dell’evoluzione sociale e quindi la “inevitabile ed inesorabile vittoria finale del proletariato”. Leggi, peraltro, per l’autore costruite sulle tracce della migliore cultura scientifica del tempo, ovvero dell’evoluzionismo di Darwin e delle filosofie di Spencer e Haeckel[9]. Sarà questa la posizione contro la quale la Luxemburg pronuncia il suo “that is the question[10]:

 

o Bernstein ha ragione per quanto riguarda il corso dello sviluppo capitalistico, e allora la trasformazione socialista della società si muta in un’utopia, oppure il socialismo non è un’utopia e allora la teoria dei ‘mezzi di adattamento’ non deve essere valida”.

 

È per questa via che il marxismo ha di fatto incorporato una vera e propria religione della crescita e si è, al contempo, comodamente accontentato del mito della “classe rivoluzionaria” che avrebbe risolto tutto. È quello che Romano chiama “il pensiero magico della liberazione” che solleva della fatica e del rischio di scendere sul terreno e combattere[11]. Una religione di origine gnostica, suppone Formenti, ovvero nella quale l’uomo, portatore di scintille divine disperse, ha la missione di ricostituirne l’unità[12], portando quindi, con il comunismo, ad una società senza conflitti, unitaria e paradiso in terra. Il rovesciamento, quindi, della promessa escatologica.

È su questo punto che posizioni difficili, e non completamente risolte, come quella di Labriola nel Bernsteindebatte, sono preziose. L’agire sociale è collocato in qualche modo, rigettando il determinismo del ‘materialismo storico’ ingenuo, ma anche la soluzione che getta il bambino con l’acqua sporca dell’ex segretario di Engels, al punto di congiunzione della volontà e della necessità. Punto che evita di feticizzare la seconda, ma anche la prima. Nelle lezioni, pubblicate qualche anno fa[13], su Fra Dolcino Antonio Labriola vede, ad esempio, la mobilitazione della plebe agricola nell’Italia del XIII secolo non già come un momento dell’evoluzione storica necessaria verso il socialismo (come Kautsky[14]), quanto il “resultato di un complesso di condizioni generali” e quindi nel necessario rinvio ad una “storia totale”. Sia un movimento di plebe, sia un movimento specificamente cristiano ed apocalittico, ma anche come ghibellinismo ritardatario e come reazione, infine come incidente nella lotta tra chiesa e stato. Ma anche, sia detto per inciso, il capo di una setta che ricorre all’idea nuova di ‘previsione storica’ innestata da Gioacchino da Fiore. Come scrive Savorelli, nel suo commento al “Fra Dolcino”,

 

la vicenda di Dolcino e delle sette ‘comuniste’ medioevali non è collocata all’interno di un discorso sullo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di classe, ma in un luogo (la lettera IX) dove si discute bensì di religione e di storia del cristianesimo: di quei delicati e complessi ideologici ‘di secondo grado’, assai più difficili da spiegare delle istituzioni politiche e giuridiche[15].

 

La questione è che la sollevazione di Dolcino non è da leggere, per Labriola, sovrascrivendovi le vicende eterne del Capitale, (ovvero, con le sue parole, “la categoria dell’eterno Capitale”), quanto piuttosto lo sviluppo diseguale e il portato di dinamiche ideologiche interne alla storia specifica della chiesa (oltre che all’immersione di questa nel sistema di relazioni di potere del tempo). La vicenda di Dolcino è parte, in connessione con la profezia millenaristica di Gioacchino e con il lato ‘spirituale’ del movimento francescano, di un evangelismo radicale a tinta politica tipico del basso medioevo nel quale lo scontro tra la proto-borghesia comunale e il sistema feudale è asprissimo.

 

La proposta, storicamente situata e comprensibile, dell’identificazione nel ‘proletariato’ dell’unica ‘classe’ i cui interessi storici esigono lo smascheramento della struttura fondamentale della società va quindi compresa nel contesto dialettico di una teoria che: da una parte si inserisce nell’evoluzione di una totalità storico-sociale della seconda metà dell’Ottocento; dall’altra non separa mai i ‘giudizi di fatto’ da ‘giudizi di valore’ e la ‘scienza’ dall’etica, ovvero dal progetto della liberazione. Chi intendesse il contenuto ‘scientifico’ dell’opera di Marx, e delle sue singole affermazioni, come separato dall’azione politica cui era ed è diretta, tradirebbe in sostanza l’intero senso della costruzione. Peraltro, il “mito del Salvatore supremo”, rintracciabile in tutta la letteratura politologica, da Machiavelli a Voltaire, Rousseau, fino ad Hegel, è proprio dell’impasse in cui la coscienza alienata della borghesia si trova nel momento in cui proprietà privata e libera concorrenza riducono il sociale ad un insieme di ‘atomi egoistici’. Come scrive Lowy:

 

all’alienazione economica del mercato capitalistico corrisponde un’alienazione politica che si manifesta nel mito del Salvatore supremo e nella costituzione dello Stato liberale[16].

 

È questo “messianismo borghese” che transita, inavvertito, nell’idea di autoemancipazione operaia, così radicato nella tradizione socialista, ma già presente a partire dalla Rivoluzione francese. Il nucleo originario di questa idea in Marx è ricondotto da Lowy al tempo della Rheinische Zeitung, 1842-44, quando, nel famoso articolo sui furti di legname dirà che l’anima dell’interesse privato è:

 

meschina, arida, insipida [geistlos, letteralmente ‘senza spirito’) ed egoista, essa è sempre vile, poiché il suo cuore, la sua anima, è riposta in un oggetto esterno, che può sempre essere strappato e danneggiato[17].

 

Il concetto è molto semplice e chiaro, e risuona di motivi pelagiani: il proprietario privato è sempre vile ed egoista, perché ha. Solo coloro che non hanno ‘nulla da perdere’ sono capaci di coraggio, di energia rivoluzionaria e di identificazione nell’interesse generale. Un concetto esposto di lì a pochi anni nella Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel[18]. Un’opera non per caso scritta nell’anno in cui avviene la rottura dei giovani hegeliani con lo Stato prussiano e la ritirata del liberalismo borghese che sembrava essere disposto alla lotta contro l’autocrazia. Esiste qui una curiosa logica: la vecchia idea dell’autoemancipazione proletaria, proposta a suo tempo dai sanculotti, ricompare trasfigurata nella dichiarazione della necessità interna alle cose di abolire la separazione tra il sociale ed il politico, ovvero tra universale e particolare. E questo rivolgimento lo può compiere solo una classe che non sia ‘particolare’ nella società civile, ma sia universale. Ovvero non abbia alcun privilegio da difendere e nessuna classe sotto di sé. Una classe che sia esterna alla società borghese e per questo, perdendo tutto, possa riacquistare tutto. Scriverà nell’Ideologia tedesca:

 

Una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista, la quale naturalmente si può formare anche tra le altre classi in virtù della considerazione della posizione di questa classe[19].

 

Dunque, l’idea fondamentale, dalla quale Marx non si scosterà se non molto parzialmente negli ultimi dialoghi con i populisti russi, è che, come dice Onofrio Romano, il soggetto rivoluzionario sta dentro lo stesso regime capitalista[20]. La macchina produttrice del capitalismo, in effetti, produce il suo antagonista (o, con immagine marxiana “i suoi seppellitori”). Già Labriola nel 1902 inizia a vedere che non succede. In realtà la classe lavoratrice è una delle meno “esterne alla società”, ed è ben lungi da non avere nulla sotto di sé (neppure in senso economico, dato che di peggio dall’essere sfruttati è il non esserlo). Ma, soprattutto, questa nozione ha il corollario, ampiamente contraddetto dagli eventi, che la transizione al socialismo sarebbe stata una conseguenza non voluta dello sviluppo capitalistico e, quindi, sarebbe avvenuta nei luoghi più avanzati di questo. Questa idea ha grande storia e avrà grande seguito, continua ad essere presente in molta parte del radicalismo contemporaneo, ad esempio nella variamente confusa corrente “accelerazionista”[21]. E contiene un’immagine ingenua dello sviluppo tecnologico e, per questa via, dei fattori produttivi. Di qui all’esaltazione della funzione ‘civilizzatrice’ del capitale il passo è breve. Ognuna di queste dimensioni coinvolge, a cercare singole citazioni, gli stessi autori aurorali del marxismo. Che, del resto vivono e si muovono nel contesto di un secolo di furore ed entusiasmo macchinico come l’Ottocento. Tuttavia, un fatto semplice non può essere aggirato: le conoscenze scientifiche e tecnologiche sviluppate nell’ambito delle formazioni sociali capitalistiche, non sfuggono alla sovradeterminazione da parte dei rapporti di classe. La tecnologia non è neutrale e capace di diversi funzionamenti a seconda di chi la maneggia. Al contrario essa va sempre concepita nella sua complessiva immersione nelle sfere dell’economia, della politica e dei conflitti sociali.

 

Vediamo, ad esempio, la parabola dello sviluppo tecnologico che abbiamo vissuto da vicino:

-        prima lo sviluppo di sempre più potenti sistemi di calcolo ha fornito un vantaggio competitivo ai grandi utenti (a partire dall’esercito) ed al sistema delle grandi imprese multinazionali, ampliando il divario e consentendo ulteriori incrementi di scala del capitale monopolistico,

-        poi si è esteso capillarmente nel sistema produttivo, conducendo con sé di necessità una via via crescente uniformazione di linguaggi, pratiche organizzative, meccaniche sociali di relazione.

-        Quindi è entrata nella vita quotidiana dello strato borghese e piccolo borghese della società, colonizzandole l’immaginario. Con la nascita della telefonia mobile e la rivoluzione dei cosiddetti “smartphone” (dal 1993, ma poi accelera dal 2007 con l’I-Phone) si è estesa progressivamente a tutti i livelli di reddito.

-        A quel punto, sulla base di un’infrastruttura diffusa di sistemi informatici e reti, è emerso, sotto la costante protezione e sostegno del committente militare, il sistema di comunicazione capillare ed invasivo nel quale viviamo.

 

Tutto questo resta rigorosamente in mano, da sempre, di pochissime grandi aziende multinazionali, ed è in grado di esercitare la più ferrea forma di monopolio (o monopolio/monopsonio), se pure con qualche staffetta. Intel (il primo microprocessore, 1971), Xerox (linguaggio di programmazione), Apple, Microsoft (1975), Commodore (1984), Ibm, ed intanto Arpanet (dal 1973) e Internet, circa un ventennio dopo. Arrivano quindi i motori di ricerca, Netscape e poi Google (1998), i portali di commercio (Amazon nasce nel 1994), ed infine i social (Facebook, 2004; Twitter, 2007). Con il crescere della potenza di immagazzinamento e di trasmissione aumenta l’accentramento, il cloud computing, e il software as service, con l’immane possibilità di gestire big data, sono le evoluzioni più recenti. Ben altro sta arrivando.

 

Nella prima fase di questo potente sviluppo è parso che l’insieme di società concentrate nella “Silicon valley”[22] fossero mosse da uno spirito libertario, antigerarchico, comunitario ed universalista ad un tempo, progressista e modernista. Si parlava di comunità hacker, di open-source, di lavoro “cognitivo” e di superamento dello sfruttamento[23]. Tutto questo ha profonde radici nella narrazione lineare della modernità e della neutralità della tecnica che fa parte integrante e decisiva della tradizione occidentale. Bisognerà tornare da vari angoli su questo punto decisivo.

Al contrario di tante utopie generose (e ‘letali’, come sottolinea Formenti[24]) Ad un ventennio di distanza troviamo che la freccia è caduta dove era stata mirata: un pugno di società potentissime, strettamente connesse con l’alta finanza che le ha prodotte e coltivate (ogni società del gruppo ha in comune di aver avuto per decenni credito illimitato a disposizione per travolgere ogni concorrente possibile, in patria e soprattutto all’estero), controllano il mondo. Almeno tutta quella parte del mondo nella quale vengono fatte operare[25].

Arrivano ormai, operando anche qui su commissione politica, a silenziare senza alcuna mediazione e senza dover dare conto anche il presidente degli Stati Uniti pro tempore. Ma, più diffusamente e ordinariamente, anche milioni di persone che possono ormai essere staccate da quella enorme ed indispensabile infrastruttura di comunicazione che li fa esistere socialmente. Questa è la forma di dipendenza che è stata coltivata, al fine di sfruttarla commercialmente e politicamente. Questo il potere che ne deriva. La vicenda emersa alla piena luce non riguarda affatto un politico ripugnante, e tutto sommato (anche se qui la cosa si fa davvero delicata) neppure solo i suoi milioni di supporter, riguarda tutti noi. Perché mostra come i monopoli tecnologici che decenni di attenta pressione imperialista statunitense ha creato risponde esattamente al suo scopo: controllare automaticamente qualunque processo sociale, senza bisogno di espliciti ed imbarazzanti ordini politici. E farlo da pochissime stanze evidentemente ben coordinate. C’è da dare ragione alle teorie del complotto.

Peccato che non sia affatto un ‘complotto’, ma semplicemente un ‘progetto’. Contemporaneamente pianificato e organizzato nell’arco di decenni ed emerso adattivamente dalla struttura degli interessi e dalla dinamica delle forze che operano in quella che Samir Amin chiamava “la triade”[26]. Il controllo del mondo passa per il monopolio della forza, certo, per la disponibilità dei mezzi di pagamento, ovviamente, ma anche e sempre più per il controllo dell’informazione, per la possibilità di scegliere cosa esiste, cosa non deve esistere. Per il potere, immane, di scegliere il vero. Come scrive Carlo Formenti in un suo post:

 

L’atto di forza di re Zuckerberg e degli altri monarchi della Rete è un atto politico, perché questi monarchi privati, che apparentemente non rispondono a nessun’altra regola di quelle che loro stessi si danno, sono tutti, guarda caso, americani. Il loro potere è cresciuto all’ombra del potere imperiale statunitense, che ne ha accompagnato la crescita con gli enormi investimenti pubblici che ne hanno reso possibili i successi, tutelandone i diritti di proprietà, proteggendoli contro i tentativi degli altri Stati di imporre limiti in materia di privacy e fisco alla loro libera attività, ecc. La convergenza di interessi fra potere politico dello Stato americano e potere delle Internet Company è sempre stata fortissima, perché il primo ha sempre considerato il secondo come un’arma strategica per mantenere il suo vantaggio competitivo nei confronti degli altri Stati capitalisti. E, guarda caso, quando si è trattato di passare informazioni sensibili sulla concorrenza internazionale (ma anche sugli stessi cittadini americani dopo l’11 settembre) alle varie agenzie dello Stato Usa, i cyber monarchi si sono dimostrati assai meno reticenti di quando le richieste arrivavano dall’altra sponda dell’Atlantico”.[27]

 

Ecco la questione politica.

Ci sono due dimensioni da affrontare simultaneamente:

-        l’apparente supremazia delle forme di regolazione privata (iperconcentrata e totalmente irresponsabile) su quella pubblica (condotta, ovvero, secondo leggi note e in arene politiche visibili);

-        l’effettivo ruolo di braccio operativo del dominio americano sul mondo di queste tecnostrutture. Si potrebbe dire: la regolazione privatizzata nel braccio dell’impero.

 

Saranno invece autori influenti come Antonio Negri, André Gorz, ed altri post operaisti a inferire, all’avvio di questa parabola, dal contesto generale dell’opera e da frammenti indigeriti come il famoso passo dei Grundisse del “Frammento delle macchine”, la possibilità e necessità di una transizione diretta al comunismo, autogestita, come scrive ancora Formenti, “da una forza lavoro (i ‘lavoratori della conoscenza’) dotata della consapevolezza politica e delle competenze necessarie per emanciparsi dal controllo del capitale senza dover ricorrere a mediazioni politiche esterne”[28]. Si è trattato di un singolare equivoco, per esempio, ma non ultimo, lo sviluppo tecnologico, mosso da ciclopici investimenti diretti ed indiretti: struttura le condizioni della qualificazione (o della distruzione di altre competenze) delle attività esistenti; sposta la domanda dei consumatori su sempre nuovi oggetti distintivi, attivando nuovi desideri e creandone la domanda; integra la forza lavoro globale, aumentando enormemente l’offerta di lavoro e alterando la relativa dinamica negoziale; consente outsorcing sempre più capillari, che aggregano e disaggregano le unità produttive anche su lunghe distanze o su tempi diversi. Non per caso l’introduzione di nuove tecnologie entro le dinamiche di lavoro (non solo di fabbrica) è sempre stata contemporaneamente figlia e genitrice di lotte accanite[29]. Ma non bisogna solo pensare alle macchine di produzione, l’impatto delle tecnologie sull’organizzazione sociale e la determinazione dell’ambiente di vita va dagli algoritmi che determinano sempre più i percorsi professionali, le assunzioni o i licenziamenti, o i prestiti, a servizi come Uber, e il resto della “Gig Economy”[30].

 

La mia glossa è dunque questa: non c’è in sé nulla di specificamente cattivo, o buono, nello sviluppo delle forze produttive, ma usciti dall’entusiasmo macchinico del XIX secolo, come dalla rincorsa del dopoguerra, oggi vediamo bene che esso non è né specificamente né necessariamente associato ad un incremento della socializzazione.

 

Lo schema “sviluppo/tecnica/progresso” non ci può guidare nello scegliere.

 

Il soggetto rivoluzionario, dunque, non ci sarà regalato dal capitalismo. Bisognerà lavorarci. Ci tocca il compito di tastare bene le pietre del guado, una ad una, unendo soccorso e protezione alle esigenze umane di base (lotta concreta per una buona sanità, per un fisco più equo, per salari degni, per servizi decenti), tensione ad unire un “blocco storico”[31] a partire da queste rivendicazioni concrete e lotta per la liberazione nazionale da ogni forma di dipendenza. Parafrasando una nota formula di Mao: l’uomo vuole vivere, la classe vincere, la nazione prosperare.

 



[1] - Estratto, con adattamenti, dal capitolo Sesto, “Agire”, di A. Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, Milano 2023, pp. 267 e seg.

[2] - C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, Derive e Approdi 2019.

[3] - W. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, In Angelus Novus, Einaudi, 1962.

[4] - C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, op. cit., p.25

[5] - Scrive Hegel in “Lezioni sulla filosofia della storia”: “La storia mondiale rappresenta il corso graduale dello sviluppo di quel principio che ha per contenuto la coscienza della libertà. […] il processo appare nell’esistenza come progresso dall’imperfezione verso una perfezione superiore, là dove la prima non va intesa astrattamente soltanto come imperfezione, ma come qualcosa che abbia dentro di sé nel medesimo tempo il suo contrario, la cosiddetta perfezione, racchiusa alla maniera di un seme, di un impulso. Allo stesso modo, almeno stando alla riflessione, la possibilità dimanda a qualcosa che deve realizzarsi e, meglio, è la dynamis aristotelica, che è anche potentia, forza e potenza. Così l’imperfezione, essendo il contrario di sé all’interno di sé stessa, è la contraddizione, la quale esiste sì, ma altrettanto si annulla e si risolve, è l’impulso, lo stimolo interiore della vita spirituale a spezzare la crosta della naturalità, della sensibilità e dell’inesperienza di sé, per giungere alla luce della coscienza, ossia a sé stessa”. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, 2003 (ed. or. 1837), p.51. Corsivi nel testo.

[6] - Concetto che riprendo, con qualche libertà, dalla critica di Costanzo Preve, in Storia e critica del marxismo, La città del sole, 2007.

[7] - Ovvero come capacità, idoneità in sé a conseguire un dato risultato.

[8] - A. Labriola, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, 2019 (ed. or. 1895, 1896, 1897, 1898).

[9] - Ernst Heinrich Philipp August Haeckel, nato a Potsdam nel 1834 e morto a Jena nel 1919 è stato un biologo che aderisce al darwinismo e influenza enormemente la cultura del suo tempo, da Freud a Ersnt Mach, Ferdinand Tonnies, Rudolph Steiner. Alcune controverse teorie, come il ‘poligenismo’ lo mettono nella linea genealogica anche dei razzismi novecenteschi.

[10] - R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione? Newton Compton, Roma, 1978 (ed. or. 1899).

[11] - C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, op. cit., p. 33

[12] - Il riferimento è qui al valentinanesimo, ed al libro di E. Voegelin, Il mito dell’uomo nuovo, Rusconi 1990, cit. in. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, op. cit., p. 40

[13] - A. Labriola, Fra Dolcino, a cura di A. Savorelli, Edizioni della Normale, Pisa, 2014

[14] - K. Kautsky, E. Bernstein, C Hugo, P. Lafargue, F. Mehring, G. Plekanov, Die Geschichte des Sozialismus in Einzeldarstellungen, Band Stuttgard, Verlag, Von I. H. W. Dietz, 1895.

[15] - Alessandro Savorelli, citato in Oreste Trabucco, “Discutendo di Antonio Labriola”, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XCIV, 2, 2015

[16] - M. Lowy, Il giovane Marx, Massari editore 2001, ed or. 1970, p. 37

[17] - K. Marx, “Dibattiti sulla legge contro i furti di legname”, in Rheinische Zeitung, n. 300, 27 ottobre 1842.

[18] - K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, Pgreco 2022 (ed. or. 1843).

[19] - K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti 2018, ed. or. 1848, p. 45

[20] - C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, op. cit., p. 95

[21] - In sostanza una teoria per la quale il superamento del capitalismo si può ottenere accelerando, e non quindi contrastando, i processi che lo caratterizzano. Un’idea espressa anche da Marx, ad esempio nella conferenza sul libero commercio, e che viene ripresa variamente da destra e sinistra, da Bannon a Nick Land, fino a Srnicek. Si veda, ad esempio, A. Williams, N. Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza 2018 (ed. or. 2013).

[22] - Per qualche cenno sulle relazioni della Silicon Valley con il committente pubblico, in particolare militare, americano si veda M. Mazzucato, Lo stato innovatore, Laterza, 2014.

[23] - Si veda su questa narrazione e la sua percezione l’opera di Carlo Formenti, esattamente contemporanea ai fatti. C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di internet, Raffaello Cortina Editore, 2000; C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, 2002; C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea 2011; C. Formenti, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina Editore, 2008; C. Formenti, Se questa è democrazia. Paradossi politico-culturali dell’era digitale, Manni, 2009; C. Formenti, Utopie letali, Jaca Book, 2013.

[24] - Riferimento al testo che riassume, chiude e determina una svolta nella lunga narrazione delle utopie tecnoscientifiche della ‘rete’ condotta da Formenti in C. Formenti, Utopie letali, op.cit.

[25] - È noto che i social non possono essere raggiunti in paesi come l’Iran, che sono schermati e filtrati in Cina e Russia e via dicendo.

[26] - Ovvero l’insieme dei capitalismi americano, europeo e giapponese (con le propaggini del caso), nel quale ovviamente il primo svolge funzione egemonica (e se non possibile di dominio).

[27] - Carlo Formenti, “Quando a dichiarare lo stato di emergenza sono i giganti del web”, Blog Per un Socialismo del secolo XXI, 14 gennaio 2021.

[28] - Ivi, nota p.5 si veda anche C. Formenti, Utopie letali, op.cit., 2013.

[29] - Si può fare l’esempio delle lotte alla Fiat negli anni Settanta, come riportato in “Le lotte operaie negli anni settanta: il lavoro e la questione del potere”, in “Nella fertilità cresce il tempo”, 26 maggio 2017. Oppure della grande battaglia sindacale portuale dei ILWU, negli anni Sessanta e Settanta, per l’introduzione della logistica per container.

[30] - Si veda per un interessante modo di trattare questo tema, C. Formenti, Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti, Volume II, Meltemi 2023, Capitolo Quarto, “Composizione di classe. Appunti per una ricerca”, p. 141 e seg.

[31] - L’esperienza rende ancora più chiaro che il nucleo del potenziale “blocco storico” in grado di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e nell’arena dello Stato poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il variegato e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate dalla forma attuale del modo di produzione capitalista.



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