Il seguente testo è la traccia, domande e risposte, dell’intervista che il 26 aprile del corrente anno ho avuto con Ottolina RV sul mio libro Classe e partito[1], per Meltemi.
Prima domanda:
In che senso il capitalismo ha un aspetto religioso?
Intanto
bisogna chiedersi cosa è il capitalismo; noi tendiamo a vederlo come
‘natura’, un insieme di modernità e industrializzazione; invece è qualcosa di
nuovo nella lunghissima storia dell’umanità ed è un’insorgenza storicamente
verificatasi al contempo per effetto di mutamenti nel potere (la svolta
geopolitica Cinquecentesca[2]), nelle tecniche
(vele e cannoni[3],
vapore e aratro[4]),
nello spirito (individualismo[5] e illuminismo). Svolte che
nel loro insieme hanno conseguenze nel sociale e in quello che chiamiamo
l’economico, a partire però dalla cultura e dalla stessa antropologia. L’uomo
nella modernità capitalista è diverso da quello che lo precede (o che vive in
aree nelle quali non è presente o dominante). La sua misura è l’illimitatezza
di un desiderio disperato. Nel mondo che il capitalismo conduce a termine (ma
del quale sono ancora presenti tracce, in particolare nella vita quotidiana)
l’uomo non è separato dalle sue creazioni, vive dentro le proprie creazioni, e
queste come la loro produzione (prodotto di quel che il capitalismo chiama
‘lavoro’) non sono separabili dal legame sociale, dai ranghi, dai ruoli, dai
vincoli, dalle responsabilità, dai doveri, dagli amori[6]. Dalla riconoscenza[7].
Ma
le sue radici sono anche più lontane, la logica economica si afferma dentro
il religioso (il denaro che riscatta la morte, il sacrificio come
pagamento, il sacramento ‘opus ex opera operato’, la razionalizzazione ma
cooperativa dell’ora et labora dei benedettini, la finanza francescana[8]). Quel che fa è prendere
il suo posto come ordinatore centrale, trasmutandone/assorbendone i
valori[9].
Il
capitalismo è religioso perché, in sostanza, dà risposte alle stesse domande di
salvezza e si
radica nei tormenti del vivere, celebra dei valori e gli attribuisce culto.
Ne sono traccia le nozioni e pratiche del ‘debito’, ‘merito’, ‘consumo’, il
circuito del ‘valore’ che nasconde i rapporti tra uomini che lo genera,
incarnandosi nella ‘merce’ (questione del feticismo[10]). È una utopia di
società perfetta che nasce da una cultura della colpa e del debito
(il mercato al quale tutti i destini devono conformarsi, la ‘mano
invisibile’ come meccanismo sovrapersonale e trascendentale[11]). Quella che la ‘teologia
della liberazione’[12] chiama una “logica
sacrificale” (perché sacrifica le dimensioni importanti della vita[13]). Che promette a tutti
felicità e piacere, ma tradisce ognuno[14].
Alla
logica del capitalismo si risponde sul piano della trascendenza. Ovvero valorizzando altre
esperienze essenziali: recuperando la logica del ‘dono’ e della gratuità[15], il reciproco
riconoscimento e l’interdipendenza consapevole come unica forma della libertà[16], l’impegno reciproco, gli
esseri umani concreti, l’altro, e non i loro fantasmi astratti, ridotti a forza
lavoro.
Seconda domanda: Lei è d’accordo con Benjamin quando diceva che il
nuovo pensiero socialista si deve liberare del mito della tecnica e del
progresso?
Il
socialismo nasce nell’Ottocento,
un’epoca di accelerazione, eccitamento, piena di dirompenti novità e di immane
espansione della potenza (europea).
Benjamin
vive al termine e nell’epoca della transizione tra le due Guerre. Come Labriola
capisce che ciò che neutralizza il potenziale di liberazione del
socialismo è l’attesa che la salvezza arrivi da sé dallo sviluppo dello
spirito del mondo. E che questo sia connesso con la tecnica e lo
scatenamento delle forze produttive[17].
Il
suo progetto di un libro sul politico nasceva da questa doppia critica:
al capitalismo come religione[18]
e alla storia come progresso[19].
Al suo posto propone una forma di messianesimo ed escatologia tragica.
La storia come lotta e testamento dei vinti, come attualità. Le rivoluzioni
come freno e ‘balzo di tigre’, che non coronano un’evoluzione ma la interrompono[20].
Nel
libro c’è una sezione importante che rilegge brevemente le rivoluzioni storiche
come groviglio di contraddizioni e contingente risultato di vittorie e
sconfitte. Di lotte. Che cerca di pensare la storia come lotta e testamento,
praticando un “eingedenken” nel termine di Beniamin, un atto
capace di portare alla luce le potenzialità inespresse che giacciono nel
passato. Un “ricordo del futuro”, che permette l’irruzione nel presente di
potenzialità inevase che attendono redenzione.
Se
la rivoluzione è piuttosto freno di emergenza che accelerazione,
è evento contingente e non necessità, allora va vista come contatto con il
mondo, con il lascito piuttosto che con il progresso. Con quello che c’è,
con la vita concreta, piuttosto che con quello che ci sarà, con l’astrazione ed
il futuro.
Terza domanda:
Perché i concetti di ‘classe’ e ‘partito’ sono entrati in crisi negli ultimi
decenni, e perché, invece, devono tornare attuali? Nel tuo testo ha cercato
però di problematizzare entrambi i concetti per liberarli di alcuni equivoci,
quali?
Partito
viene da ‘parte’,
e implica un progetto, ‘classe’ è singolarità implicata da un diverso
progetto di società. Non esiste in sé, non emerge dalla terra come diceva
Labriola[21],
ma dialetticamente entro le dinamiche politiche e sociali (ovvero anche nella
diversa trascendenza e comunità) di un progetto. Entro la forma di vita del
capitalismo le classi sono ordinate dalla valorizzazione; ovvero dal ruolo dei
soggetti nella riproduzione allargata del capitale. È per questo che le
‘classi’ otto-novecentesche si sono dissolte allo scomparire del progetto e
nelle condizioni del capitalismo ‘maturo’ (fase monopolista, cfr. altro libro “Dipendenza”
e analisi di Sweezy e Baran[22]).
La
classe non esiste in sé, il progetto non può essere regalato dalla Storia e non può essere rimuovere i
vincoli della tradizione e della comunità all’autotrascendenza della tecnica.
Ma deve essere riappropriarsi con un ‘balzo di tigre’ di una diversa ascesi e
diversa trascendenza. Per farlo serve anche un costruttivismo temperato (o un
materialismo ben inteso); non si possono percorrere le strade dell’astrazione e
del desiderio (come vorrebbe la matrice post-moderna). È necessario trovare un
“piede al salto” e immergersi contemporaneamente in un lavoro di
autochiarificazione teorica e nelle contraddizioni aperte[23]. Interrompere la
connessione tra progressismo e messianesimo ma conciliare trascendenza e
materialismo. “Materialismo” è qui inteso in senso generale come
connessione con la materia, con la vita, con la storia (e la tradizione, la
base dell’esistenza). Il nostro compito è recintare e dissodare il podere, con
modesta determinazione, cercare le parole ed il pensiero, avere spinta e
misura[24].
Superare l'impolitico
neoliberale andando oltre la particolare miscela di risentimento,
individualismo edonista frustrato, spinta alla socializzazione destrutturata
che esprimono ceti medi declassati, i quali vedono la propria relazione con il
capitale ordinatore messa in crisi e che si sentono per questo
contemporaneamente sovraistruiti e sottoutilizzati. Secondo il loro particolare
modo di essere impolitici.
Tuttavia, anche se le classi non sono
degli universali, ma delle singolarità, queste per essere ‘rivoluzionarie’ non
possono essere costruite raccogliendo, semplicemente, quel che resta sul
bagnasciuga nel disordine della risacca neoliberale. Andare dietro agli
‘zombie’ non porterà nulla di buono. Siamo ad un nodo cruciale serve un
salto, ma serve trovare piede per farlo, di fronte al rischio dell'armageddon
che ci preme da ogni lato.
Serve il rovesciamento del modo di
produzione che vede il capitale in posizione di essere il principio di
organizzazione sociale. Quello che vogliamo è un modo di produzione sociale che
veda il sapere comune e l’insieme della capacità tecnica e sociale (‘general
intellect’) sganciarsi dalla dipendenza dal capitale e divenire bene
comune per lo sviluppo umano e naturale.
[1]
- Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano, 2023,
[2]
- Si veda “La
fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo”,
Tempofertile, 26 aprile 2024.
[3] - Carlo Cipolla, Vele e cannoni, Il
Mulino, 2011
[4]
- Macchinismo e potenziamento dell’agricoltura come due elementi,
reciprocamente intrecciati della meccanica di crescita della cosiddetta “Rivoluzione
industriale”, la quale è stata uno dei motori della crescita, ma quantificabile
si noti a circa l’1% annuo, del Settecento e poi dell’Ottocento. Due brevi
considerazioni andrebbero, però, fatte: la condizione abilitante di questa
trasformazione è l’apertura dei mercati mondiali e da disponibilità di forza
lavoro e di materie prime sottoprezzo nelle colonie. Queste condizioni
abilitanti precedono la cosiddetta “Rivoluzione” (in realtà una lenta
evoluzione) di circa due secoli.
[5]
- Max Weber è l’autore classico della interpretazione che vede il capitalismo,
termine introdotto da Sombart, che vede l’individualismo come elemento centrale.
M. Weber, L’etica protestante e lo
spirito del capitalismo [1904], Rizzoli, Milano 1991. Cfr. Alessandro
Visalli, Classe e partito, cit., p. 44
[6]
- Si deve fare qui riferimento ad una vasta letteratura antropologica, ad esempio
M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo
dello scambio nelle società arcaiche [1925], Einaudi, torino 1965 e K.
Polanyi, La grande trasformazione. Le
origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, torino 1974.
[7]
- Si deve riconoscenza a chi dona i frutti impagabili della propria vita. ‘Merce’
e ‘lavoro’ sono entrambe costruzioni, e necessarie, della forma di vita
capitalista. Cfr. Classe e partito, cit., p. 47
[8]
- Si veda Classe e partito, p. 108
[9]
- Si veda Classe e partito, p. 111
[10]
- Tema sul quale insiste E. Dussel, Le
metafore teologiche di Marx [1993], Inschibboleth Edizioni, Roma 2018
[11]
- Si veda Classe e partito, p. 117
[12]
- La “teologia della
liberazione” prende le mosse dal Concilio Vaticano II, e trae ispirazione,
calandola nella condizione concreta dello sfruttamento nei paesi della
periferia, dal tentativo di Giovanni XXIII di aggiornare il pensiero della
chiesa nel mondo moderno intorno al senso della giustizia e dell’amore. Si
sviluppa da questo impulso negli anni Sessanta, mettendosi in connessione con
la “teoria della dipendenza”, neomarxista. Dall’altra parte, nell’insegnamento
di Gustavo Gutierrez, il cui testo capitale è Teologia della liberazione. Prospettive, del 1971, la salvezza
viene calata dentro la condizione concreta di povertà e miseria dei poveri e
quindi tradotta in un appello di giustizia. Come scrive nel suo libro: “Da una
prospettiva di fede ciò che, in ultima analisi, spinge i cristiani a partecipare
alla liberazione dei popoli oppressi e delle classi sociali sfruttate, è il
convincimento della totale incompatibilità delle esigenze evangeliche con una
società ingiusta e alienante” (p. 124). Seguono questa linea i fratelli Boff,
Jon Sobrino, Enrique Dussel, e Hugo Assmann. Di L. Boff si veda, ad esempio, Gesù Cristo liberatore, Cittadella
Editrice, Assisi 1990.
[13]
- Che sono connesse con la socialità e l’inserimento consapevole e denso nella
comunità e non nella immane collezione di “merci” (le quali sono reificate,
insieme ai loro produttori). Cfr. A. Honneth, Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento [2005], Meltemi,
Milano 2019.
[14]
- Tradisce perché promette la felicità attraverso l’individuale raccolta di
merci, e aliena al contempo l’uomo produttore. Cfr. Classe e partito, p.
328
[15]
- Cfr. Classe e partito, p. 120
[16]
- Cfr. Classe e partito, p.105
[17]
- Cfr. Classe e partito, p. 246
[18]
- Cfr. Classe e partito, p. 44
[19]
- Cfr. Classe e partito, p. 39
[20]
- Cfr. Classe e partito, p. 33
[21]
- Cfr. Classe e partito, p. 289
[22]
- Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano, 2020
[23]
- Cfr. Classe e partito, p. 350
[24]
- Cfr. Classe e partito, p. 238
Nessun commento:
Posta un commento