La centralità militare, tecnologica e
della formazione del capitale[1] nell'Occidente collettivo
ha avuto un inizio con l'aggiramento spagnolo del blocco turco e la distruzione
delle americhe e sta giungendo dopo cinque secoli a fine. La dipendenza ed
assorbimento dei capitali periferici, e l'intero sistema morale, ideologico e
sociale che vi è stato costruito sopra (la stessa coppia Occidente/Oriente che
lo organizza) è presentata davanti agli occhi del mondo e rigettata ogni giorno
di più. Il Re è ormai nudo, per questo ruggisce di rabbia come si vede a Kiev
come a Gaza.
Utilizzerò Dussel[2] per cominciare il cammino
in un labirinto con molti ingressi ma nessuna uscita. Una protesta di noi figli
verso la vecchia madre[3], necessaria per farci
adulti. Di noi moderni verso il retaggio che ci ha fatti e che scopriamo, ogni
giorno di più, grondante e polveroso ad un tempo. Inoltre, figlie degli antichi
padri, sia anche chiaro, di quel Cortez la cui lucida armatura
nascondeva un cervello senza cuore. Ma il dominio dell’Occidente è entrambe le
cose allo stesso tempo: il volto aggrottato di un Padre autoritario, pronto a
punire, e il dolce sorriso astuto di una Madre possessiva che trattiene nel suo
grembo della quale non si può mai essere degni. Noi figli e figlie dobbiamo
finalmente vederlo, se vogliamo liberarci e contribuire, finalmente, a
rilasciare gli ostaggi. D’altra parte, questi ormai sono capaci di farlo da sé.
Resta solo di augurare buona vita al nuovo mondo multipolare.
Se, però, qualunque cosa noi proveremo il
Mondo alla fine farà da sé, e noi non siamo i maestri di nessuno per dire come
deve fare, ci resta il compito di capire, vagliare e superare il nostro
retaggio. Da noi e per noi.
La modernità ha molti avvii[4], ma quasi tutti sono
connessi con un ciclopico evento geopolitico: l’aggiramento della centralità (e
del blocco) mediterraneo. Quel mare abitato da cretesi e fenici, sbocco di
egiziani e delle grandi civiltà persiane, frequentato dai greci e conteso da
Cartagine e Roma, testimone del turbine arabo e poi del dominio della Sublime
Porta, quindi di veneziani e genovesi. Un mare periferico, si intenda, sbocco
occidentale del grande centro geopolitico dato dal mondo di lingua Farsi
(dall’Afganistan agli Emirati Arabi passando, ovviamente, per la Persia), e poi
indiano e cinese (da Occidente ad Oriente). Troppe sono le nostre dimenticanze
selettive, dalle relazioni del mondo greco classico con i maestri egiziani, e
di questi con le civiltà ancora più antiche con le quali dialogavano e
combattevano, alla centralità di Bisanzio, poi dell’impero-mondo mongolo, la
non irrilevante presenza africana, l’impero del Ghana, poi del Mali e, dal 1468
del Songhai, ad esempio.
Fino all’aggiramento prodotto dai
sovrani spagnoli e portoghesi l’Europa germanica e latina aveva due blocchi in
successione a separarli dai luoghi più ricchi del mondo (l’India e la Cina): il
mondo arabo e turco, e il retrostante mondo persiano. Restava solo la
possibilità di aggirarlo verso Est, o verso Sud. Dal secolo XIV fu aperta quindi
la via verso Occidente.
Da allora l’Europa si può pensare come
centro.
Gruzinski, in un meraviglioso libro[5], racconta questa storia
molto da vicino. Scopriamo che l’universo dei mexica venne trascritto[6] in quello dominante per
opera delle sue stesse élite, ma assorbendone le categorie di spazio e tempo che
ne costituiscono l’essenza[7]. Insieme a queste, e
all’uso strategico-militare (e diplomatico) delle stesse nuove storiografie,
già con l’abile Cortez, i popoli amerindi furono sospinti a considerare il loro
passato pre-ispanico come colpa ed arretratezza. Assorbendo, (naturalmente per
il superiore bene delle loro anime immortali), religione, valori, istituzioni,
gerarchie, e, forse più di tutto ciò che con esse è portato: forme di
organizzazione del lavoro ed il concetto dell’umano come strumento.
Il diventare ‘occidentale’ e ‘moderno’
del mondo è passato, insomma, per armi e cacciatori di schiavi, come per navi e
porti, piantagioni come prime fabbriche e miniere grandi come metropoli, persino
batteri e malattie, ma anche per la pretesa di ‘essere’ e necessariamente di
designare come ‘non essere’ l’altro. Di ridurre tutti gli spazi a vuoto, tutti
i tempi a passato[8].
È passato per la creazione dell’Oriente[9]; la designazione di ogni
universo ‘altro’ a spazio tributario, sia periferico sia esotico. Si possono
leggere in proposito le indignate pagine di Dussel, su Kant e soprattutto
Hegel, in L’occultamento dell’’altro’[10].
Il diventare ‘occidente’ del mondo è proiettare il mito che immagina lo
‘sviluppo’ come modello unico, quello seguito dall’Europa (o meglio, quello fantasticato
per l’Europa, dimenticandone le radici). È porre un “movimento necessario
dell’Essere” che conduce l’umanità fuori dallo “stato di immaturità che è da
imputare a se stesso”[11], e che in Hegel diventa l’automovimento
dello Spirito Assoluto nella Storia che si svolge “da Oriente ad Occidente”[12]. Storia che è in sé lo
“sviluppo dello spirito pensante”, la ragione (ovvero la saggezza di Dio[13]) all’opera. Ciò che Hegel
esprime in modo chiarissimo è che se la “storia è la configurazione dello
spirito in forma di avvenimento”, e questo elemento è ricevuto dal popolo
germanico, allora “di contro al diritto assoluto che egli possiede per essere
il portatore attuale del grado di sviluppo dello Spirito Mondiale, lo spirito
degli altri popoli non ha diritto alcuno”[14].
La “modernità” ha, insomma, una lunga
storia, profonde radici, ma vede la luce quando la periferica Europa si fa
mondo e si confronta da vicino con l’altro da sé[15].
Tuttavia, negandolo come “altro”.
Scrive Dussel:
“la ‘conquista’ è un processo militare,
pratico, violento che comprende dialetticamente l’Altro come parte di ‘Se
Stesso’. L’Altro nella sua distinzione è negato come altro ed è costretto, una
volta sottomesso ed alienato, a far parte della Totalità dominatrice come cosa,
come strumento, come oppresso, come encomendado, come ‘salariato’ nelle future
aziende o come africano schiavo negli stabilimenti di zucchero o di altri
prodotti tropicali”[16].
Quando, terminata la ‘reconquista’ (che
è anche un laboratorio) il mondo spagnolo diviene a sua volta conquistatore e
colonizzatore, e insieme a flussi immensi di merci, oro, argento e schiavi,
porta al continente una nuova coscienza. Quella di aver esteso i confini
dell’essere a tutto il mondo. Ci vorranno altri secoli ed altre conquiste
(tra le quali, capitale, quella dell’India), ma il gesto è posto e sarà
sempre ripetuto. L’io europeo, e quindi Occidentale, viene divinizzato e
trasfigurato nell’intera tradizione della cultura e filosofia, in un “Io”
incondizionato, indeterminato, infinito ed assoluto[17], mentre l’Altro è ridotto
ad essere semplicemente pensato, ridotto a cosa, privato di parola (che, quando
buca il silenzio è invariabilmente inudibile, mostruosa, retrograda,
illiberale, dispotica, in una parola, “Orientale”). Viene trasfigurato anche
nella teologia, quando salvezza e redenzione sono reinterpretati, nel
protestantesimo, come esperienza individuale e “spiritualistica,
interioristica, disincarnata”[18].
Viviamo nel momento terminale di questo
gesto.
Come leggere la crisi terminale che vediamo
con le lenti della teoria dei sistemi-mondo[19]? Poniamo alcuni termini,
in forma di enunciati-chiave:
1. Ad alto livello di astrazione nel tempo
si sono succeduti cicli di accumulazione e di egemonia, spesso intervallati da
crisi. In questo processo, ad un certo tempo e nel corso di diverse successioni
egemoniche, si è formata la centralità nella vita di quello che chiamiamo il modo
di produzione capitalista,
2. ‘Capitalismo’ non è sinonimo di ‘industrialismo’,
neppure di ‘modernità’, è quella forma sociale nella quale si genera l’automovimento
del ‘capitale’,
3. ‘capitale’ non significa ricchezza,
questa c’è sempre stata, è piuttosto il movimento che determina il sacrificio
della vita al valore astratto, al valore per il valore, automatico, impersonale,
silenzioso e totalitario,
4. Nel ‘capitalismo’ tutto è feticcio di
questo movimento, informato dal suo spirito dietro le spalle, prigioniero della
sua logica, del suo simbolismo,
5. Il capitalismo è una suprema esperienza
religiosa, nella quale l’intera esistenza diviene pregna di senso e esterna a sé
stessa ad un tempo, nella quale viene sacrificata,
6. Al contempo, il capitalismo genera
sempre una dialettica spaziale che è internamente connessa con le differenze e
le relative lotte, attraverso il movimento e il potere della trasformazione
della ‘vita’ in ‘valore’, esso è anche connessione ed eccedenza, ricerca
costante di nuovi sbocchi per sfuggire alla riduzione dei margini, ovvero della
valorizzazione,
7. connessione ed eccedenza, implicano
interdipendenze strutturate e gerarchiche, implicano dipendenze,
8. è quindi la geopolitica del
capitalismo, per il movimento interno della sua stessa logica, a creare costantemente
e necessariamente economie subalterne e sistemi incompleti (attraversati da
alleanze di classe estese internazionalmente e subalternità locale), è questa a
creare costantemente colonialismo (esterno ed interno) e imperialismo,
9. la ricerca di soluzioni spaziali ai
problemi generati nel tempo del ciclo di valorizzazione è il motore della
competizione a scala globale che è costantemente sull’orlo della violenza,
10. lo scontro tra aree centrali e
dipendenze coloniali e semi coloniali non è morale, o di ‘civiltà’, è una
necessità di sistema.
Questo è il senso più profondo della
formula di Rosa Luxemburg, ‘Socialismo o barbarie!’[20].
[1]
- Per prevenire un’obiezione, non si intende qui che la forma di organizzazione
sociale e funzionamento economico che prende il nome di ‘capitalismo’ (o,
marxianamente, ‘modo di produzione capitalista’) sia nato come Minerva già
armato di elmo, corazza e lancia dalla testa di Giove direttamente quando
Colombo, Amerigo Vespucci e i capitani conquistatori hanno sottomesso i grandi
imperi atzeco e inca. Quel che si genera nel torno di anni tra la ‘scoperta’
dell’America e l’istituirsi di una economia atlantica coloniale è, piuttosto,
una accumulazione originaria per “spoliazione” e una potente economia di
sfruttamento che drena verso l’Occidente, facendolo tale, le risorse di una
parte del mondo che nutriva all’epoca quasi un quinto dell’umanità. E’ la partenza
della modernità.
[2]
- Enrique Dussel, Filosofia della liberazione, Queriniana, Brescia 1992
(ed. or. 1977).
[3]
- Il pensiero dell’Occidente è gerarchico ed escludente, ma in modo
particolare. Il movimento è quello della madre possessiva, che dichiara
il Bene per tutti e lamenta che il suo amore non è compreso e mette in essere
un dispositivo che funziona sulla colpa e la vergogna, sul controllo interiore.
Il super-io Occidentale è tutt’altro che ‘patriarcale’. Al suo fondo si trova
il ricatto colpevolizzante, il rimprovero di non essere abbastanza ‘moderni’ ed
‘aperti’, l’accusa e la lamentela. Il non-Occidente, qui diciamo l’Oriente,
deve cedere al desiderio della buona madre, in quanto universale e pieno di
amore per l’Umanità. Aderire con tutto se stesso, e farsi simile al modello.
Ricambiare i sacrifici fatti per scoprire il Vero e portare l’Umanità sulla
strada del Progresso. Questo dominio, non diretto e visibile, è molto più
potente e pervasivo, chi ne subisce l’incantesimo deve rivolgere l’insuccesso
verso sé stesso, è stato incapace di diventare moderno, e pensarsi come ingrato
e indegno moralmente. Questa volontà di potenza si percepisce, dal lato di chi
la emette, come forma di esemplare amore universale, e di abnegazione, mentre
dal lato di chi ne subisce l’effetto, come indegnità. Si veda, ad esempio,
Jean-Claude Michéa, L’impero del male minore. Saggio sulla civiltà
liberale, 24 Ore Motta Cultura, Milano 2008 (ed.or. 2007), p. 167.
[4]
- Anche qui occorre precisare, il termine ‘modernità’ è altamente ambiguo e si
configura come oppositivo ad altre epoche del mondo antecedenti. Nella sua
accezione normale implica anche una qualche superiorità, nell’ordine della
successione, rispetto a queste. Ma è anche ambiguo con riferimento al campo nel
quale si definiscono queste epoche, per cui la modernità filosofica si vuole
far risalire fino ai greci, tracciando le radici, e poi alla rivoluzione
rinascimentale e seicentesca; la modernità politica all’epoca delle rivoluzioni
atlantiche, nel Settecento inoltrato; la modernità tecnica e produttiva alla
rivoluzione industriale. Qui si intende modernità nel senso geopolitico,
l’epoca del mondo che inaugura le altre e che pone al centro l’Occidente, fino
a quel momento periferia dei più vitali e ricchi centri storici del mondo (con
il baricentro in Asia e le sue propaggini nel mondo persiano e arabo).
[5]
- Serge Gruzinski, La macchina del tempo. Quando l’Europa ha iniziato a
scrivere la storia del mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018 (ed.
or. 2017).
[6]
- Tesi in particolare del suo libro precedente, Serge Gruzinski, La
colonizzazione dell’imaginario. Società indigene e occidentalizzazione del
Messico spagnolo, Einaudi, Torino, 1997 (ed. or. 1988).
[7]
- Qui si dovrebbe parlare della linea che da Galilei porta a Newton, ma sarà
un’altra volta.
[8]
- E’ la grande mossa terminale di Newton, fondamentalmente teologica.
[9]
- Ovviamente nel senso di Said. Edward Said, Orientalismo. L’immagine
europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999 (ed.or. 1978), e Edward
Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale
dell’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2023 (ed.or. 1993).
[10]
- Enrique Dussel, L’occultamento dell’”altro”. All’origine del mito della
modernità, La piccola editrice, Celleno 1993.
[11]
- Immanuel Kant, Che cosa è l’illuminismo?, Editori Riuniti, Roma 1987
(ed. or., 1784).
[12]
- Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Bari, 2003 (ed.
or. 1837).
[13]
- Ivi, p. 15.
[14]
- Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari, 2003
(ed. or. 1830), p. 524.
[15]
- Per una simile prospettiva si può leggere anche il classicissimo libro di
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’”altro”.
Einaudi, Torino, 1984 (ed.or. 1982).
[16]
- Dussel, L’occultamento dell’Altro. Op.cit., p. 62
[17]
- Enrique Dussel, Storia della Chiesa in America Latina (1492-1992),
Queriniana, Brescia 1992, (ed. or. 1992), p. 31.
[18]
- Ivi.
[19]
- Per questa parte si veda, Alessandro Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione
multipolare, Meltemi 2020.
[20]
- Conclusione dell’opuscolo Juniosbrochure, 1915, scritto da Rosa Luxemburg in
carcere, probabilmente ripresa dal Programma di Erfurt di Karl Kautsky.
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