L’autorevole interprete di Karl Marx e studioso marxista Roberto
Fineschi ha scritto il 24 maggio su Facebook[1] il
seguente post, che riporto integralmente:
Osservazioni
in calce a dibattiti recenti su eurocentrismo, “occidente globale”, “giardini e
giungle” (riprendendo alcuni passaggi da un articolo[2] su Orientamenti
politici e materialismo storico).
Eurocentrismo?
Anticapitalismo?
1. Nel
gran parlare che si fa sul cosiddetto eurocentrismo regna a mio parere una
discreta confusione nelle definizioni. In particolare quando, poi, si riferisce
la questione a Marx.
Se con
tale termine si intende considerare la storia del mondo universo in funzione
delle prospettive ed esigenze europee, va da sé che si tratta di un pregiudizio
da estirpare. Se però si entra più nel dettaglio, la questione diventa molto
più scivolosa e in certi casi decisamente reazionaria.
La
storia del mondo è diventata eurocentrica con lo sviluppo del modo di
produzione capitalistico, nel senso che esso ha imposto dominio, regole, forme
di sviluppo a una dinamica che prima aveva più elementi indipendenti non uniti
a sistema se non per contatti marginali, mentre il capitalismo è diventata la
variabile dominante che ha funzionalizzato a sé l’intero mondo. In questo senso
eurocentrismo non è un mero pregiudizio intellettuale, è un processo reale di
dominio e sfruttamento legato al modo di produzione capitalistico.
Tuttavia,
il modo di produzione capitalistico è stato sin dall’inizio un processo
contraddittorio che ha prodotto allo stesso tempo contenuti potenzialmente
positivi pervertiti in forma reazionaria per la sua stessa interna dialettica.
Quindi, insieme allo sfruttamento, produce anche la libertà potenziale che
include produttività del lavoro, sapere razionale e scientifico, dignità
universale dell’essere umano, ecc. Essere contro questi aspetti non è
semplicemente insensato, è reazionario.
Ora, nel
generico anti-eurocentrismo (e lo stesso nel generico anti-capitalismo) questo
fondamentale distinguo tra contenuto materiale e forma sociale spesso non viene
fatto e quindi si finisce per voler gettare il bambino con l’acqua sporca,
ovvero non solo gli aspetti perversi della forma capitalistica, ma anche le
potenzialità emancipative che il suo contenuto rende possibili. Si ricade, in
breve, nel rozzo anticapitalismo romantico che pervade tante posizioni anche a
sinistra in cui si invoca o il primitivismo, o un “altro” che non abbia niente
a che fare con il capitalismo tout court (come se mai potesse esistere).
Lo
stesso genericismo si applica a diversi discorsi su Marx che non sarebbe
eurocentrico. Dipende da che cosa si intende. Se si intende per es. che la
cultura nata con l’illuminismo e fiorita con l’idealismo tedesco, ecc. è
superiore alle altre culture esistite al momento nella geografia e nella storia
umana (c’è quindi una scala di merito e di giudizio), non c’è alcun dubbio
sull’eurocentrismo di Marx (in quanto favorevole a emancipazione e progresso).
Se si intende che il mondo debba essere piegato alla valorizzazione del
capitale occidentale, certo Marx non era eurocentrico. Se non si specifica che
cosa si intende si fa un gran pasticcio sia con Marx che con la realtà.
2.
Questo è fondamentale nella prassi politica e nella sua interpretazione. Per
es. valorizzare l’universalismo occidentale e le istituzioni rappresentative -
che includono per es. la parità di diritti uomo-donna, le elezioni e le libertà
borghesi in genere - in maniera strumentale per imporre in realtà il
capitalismo, o meglio ancora il controllo imperiale è evidentemente un uso
ideologico del progressismo illuminista che, ovviamente, non ha niente a che
vedere con l’effettiva generalizzazione di quei diritti, ma viene semplicemente
usato come scusa per imporre in maniera violenta la dipendenza da quel sistema
economico che in occidente quei diritti ha prodotto; oppure il razzismo a
livello locale facendo leva sulla “inciviltà” dei migranti.
Qui però
bisogna stare molto attenti a non far scattare il cortocircuito per cui non ci
si oppone all’uso strumentale di quei valori, ma ai valori stessi. Ci si trova
quindi a difendere comportamenti sociali tradizionalisti, in certi casi
barbarici, che mai sarebbero tollerati qui in Europa se praticati da europei,
in quanto immediatamente identificati con le forze più reazionarie; essi
sarebbero tuttavia da accettare se compiuti da non europei perché considerati
propri di altre culture. Guardando al concreto senza farsi abbagliare dalle
fraseologie astratte, purtroppo i begli ideali della “tolleranza”, una volta
che si arriva a confrontarsi su scelte precise, non possono che lasciare il
posto a decisioni autoescludentesi, come per es. essere favorevoli o meno ai
pari diritti fra uomini e donne. Come si è lottato in passato per la fine del
patriarcato maschilista di matrice cattolica e si è considerato un successo il
suo (parziale ahimè) superamento, non si capisce perché si dovrebbe accettare
ad es. quello di matrice islamica o di qualunque altra matrice. L’eguaglianza
di diritti tra uomo e donne è un principio che nasce contraddittoriamente in
seno al capitalismo con l’illuminismo, come la dignità universale dell’essere
umano. Vogliamo essere contro? Nazisti e fascisti ci hanno già provato, ma non
so se sono prospettive auspicabili.
Insomma,
questo tipo di multiculturalismo astratto rischia di diventare il cavallo di
Troia di un regresso culturale che si accetta perché, di nuovo, lo si ritiene
anticapitalista in quanto contrario allo “occidente imperialista”; si mescola
nello stesso calderone - e quindi si fraintende - la giusta lotta contro lo
sfruttamento capitalistico e quella assurda contro la cultura progressista che
lo stesso capitalismo, contraddittoriamente, ha prodotto. Esso finisce per fare
il paio con l’identitarismo locale che, di fronte alle tradizioni altrui,
difende spada alla mano le proprie. Questo comune atteggiamento
anti-universalista porta acqua al fascismo.
3.
Quello menzionato è uno dei tanti temi propri del multiculturalismo astratto,
del relativismo assoluto di valori e via dicendo; questo atteggiamento,
presentandosi apparentemente come progressista, o “di sinistra”, diventa in
realtà un’ideologia reazionaria tutte le volte che *esclude a priori* la
possibilità di cambiare tradizioni e orientamenti una volta che si portino
buone e ragionevoli argomentazioni per farlo. Se, insomma, il
multiculturalismo, che di per sé è ovviamente una cosa positiva, diventa la
scusa per non cambiare in virtù della semplice appartenenza a una certa
tradizione di un certo comportamento, perché “intrinsecamente” legato a un
certo contesto culturale e storico, si cade nell’identitarismo a prescindere,
che è di nuovo l’anticamera del fascismo.
Le varie
“identità” infatti, se si ritengono legittimate a pretendere di non cambiare in
virtù di se stesse, non possono dialogare per trovare alcuna sintesi e il
prevalere dell’una o dell’altra viene delegato, in ultima istanza, alla forza.
In antitesi a ciò, contro il “relativismo etico” si genera consenso alla
promozione della “nostra” tradizione che non avrebbe altra legittimità se non
quella di essere storicamente vincente da questa parte del mondo. Il tentativo
di far prevalere questa tradizione contro lo “attacco straniero” ovviamente è
legittimato meramente in virtù della sua esistenza qui per molto tempo, non su
argomentazioni razionali o convincimenti dimostrativi. È insomma l’imposizione
di una di queste posizioni tradizionali in forza della sua, per adesso,
posizione di dominio. Va da sé che il contenuto di questa tradizione “nostrana”
rifiuta, guarda caso, l’universalismo razionalista e si rivolge in realtà a una
“nostra” tradizione che è quella pre-borghese, vale a dire indirizzata contro
gli aspetti sovrastrutturali progressisti del modo di produzione capitalistico,
ma non contro il capitalismo stesso. È, di nuovo, il retroterra del fascismo.
4. Per
concludere, metafore di lotta come “occidente globale”, oppure il “giardino”,
ecc. rischiano di prestare involontariamente il fianco proprio a questo
sbagliatissimo modo di pensare. Spostando la contraddizione su di una dinamica
interno/esterno c’è il rischio da una parte che si occulti il carattere della
contraddizione anche all’interno dell’occidente e del giardino stessi;
dall’altra, di conseguenza, di considerare questo “occidente” e questo
“giardino” come un monolite coeso e individuarlo come il soggetto contro cui si
deve lottare, mentre all’interno di esso ci sono non solo le suddette
contraddizioni ma anche potenzialità trasformative positive cui non ha senso
rinunciare. Insomma, c’è il rischio di farsi egemonizzare inconsapevolmente
dall’ideologia del capitale.
Il
soggetto della devastazione mondiale non è l’occidente né il giardino, ma la
dinamica di riproduzione in forma capitalistica; l’obiettivo è la
trasformazione di quel sistema di riproduzione sociale e l’avversario di classe
è chi gestisce quel processo e chi si oppone al suo cambiamento.
PS. Il
giardino e la giungla è il titolo degli atti del Forum della Rete dei
comunisti. Proprio il volume, al quale io stesso ho partecipato, mostra in
maniera chiara come la metafora non regga e come le contraddizioni siano
fortissime all'interno del giardino stesso.
Pure gli
amici di OttolinaTv, che utilizzano spesso l'espressione "Occidente
globale", secondo me mostrano ogni giorno con chiarezza che questo
Occidente in realtà ha drammatiche contraddizioni al suo interno.
Dal mio
punto di vista, proprio perché in entrambi i casi la sostanza è ottima,
varrebbe la pena trovare uno slogan meno ambiguo. Perché tante volte lo slogan
ha più efficacia della sostanza.
Commentare un articolo, certo un poco tranchant come si conviene
allo strumento adoperato, ma denso, come questo è un compito difficile e forse
troppo ambizioso. Ho amicizia e simpatia per Roberto, con il quale ho purtroppo
avuto occasione di parlare solo una volta ma mi pare di condividere
l’essenziale. Tuttavia il tema è di straordinaria importanza, anche nel
prendere la misura di alcuni fenomeni sociali e prepolitici che coinvolgono le
aree di discussione pubblica e non poche piccole formazioni contemporanee. Questo
è un obiettivo, prendere le misure, che mi vede interessato e sul quale sono tornato
nel mio libro Classe e partito[3],
come in altri interventi[4].
D’altra parte, la discussione sull’eurocentrismo è
probabilmente una delle portanti orientative dell’area critica[5]
che emerge dopo quelle dell’europeismo (scettico, o anti-euro) negli anni
2012-18, della tempesta migratoria e il populismo negli anni 2016-2020, o la
critica alla scienza ed alle politiche securitarie anti-liberali negli anni del
Covid (2020-22). Questo nuovo ‘tema orientativo’ emerge ora, come sempre
confusamente ed ambiguamente, negli anni della guerra (chiamo così la
fase di ristrutturazione capitalista e del potere Occidentale che segue al
trauma della disconnessione delle supply chain durante l’epidemia e viene
inaugurata dalla guerra ucraina). I suoi elementi distintivi sono: la mobilitazione
totale (pratica già vista nel Covid) di tipo culturale-ideologico venata di
suprematismo razzista e del completo rigetto dell’altro; le pratiche
liberticide giustificate dallo stato di eccezione (anche queste già viste); la rimobilitazione
di dibattiti storici, anche spuri o mal compresi, dalla fase delle lotte di
liberazione nazionale e, ancora più remoti, la riattivazione di motivi
romantici.
Il tema è dunque importante, e comprenderne le implicazioni,
separando il grano dal loglio[6] è
indispensabile. Altrimenti ci si trova normalmente in compagnie che mai si
sarebbero immaginate. La meccanica di formazione del politico contemporanea,
infatti, sembra poter essere descritta come messianismo apocalittico e
distruttivo, radicalmente scettica e nichilista, ma del tutto inconsapevole. Lo
spazio di quella che ho prima chiamato area critica è, nella sua
portante interna, figlio della disperazione e della crisi (e questo è normale),
ma anche della caduta delle tradizioni critiche e delle relative comunità. Si
tratta di uno spazio privo di strutture e quindi colonizzabile, espressione
inconsapevole dell’individualismo contemporaneo e dell’elitismo ad esso
connaturato (nel quale ognuno si sente incoraggiato a identificarsi come unico,
illuminato, portatore di una visione irriproducibile e incriticabile). Lo
spazio della politica è, insomma, impolitico. Quelle che tendono a formarsi
nelle condizioni di una contemporaneità di disorientamento e disgregazione
delle identità politiche e sociali tradizionali e consolidate sono ‘bande di
fratelli’ armate contro tutto il mondo. Questo atteggiamento sembra scalarsi a
tutti i livelli ed esprime il bisogno di trascendenza, ma anche il vuoto.
Il vuoto, qui il punto, rischia di essere disponibile ad assorbire
ogni linea interpretativa e tradizione che si presenti come ‘dissenziente’. In
questo senso il timore di Fineschi appare fondato; molte componenti dell’area
critica assorbono lo
sforzo egemonico pluridecennale della ‘nuova destra’ del Grece e del suo leader
Alain de Benoiste[7],
con il suo gramscismo demarxistizzato che viene proposto a partire dalla fine
degli anni Sessanta[8].
Un simile assorbimento egemonico, se inconsapevole e non mediato da una serrata
critica, rischia di portare con sé senza avvedersene l’elitismo organico,
l’antiegualitarismo aristocratico, il differenzialismo separatista, il
populismo qualunquista, il radicalismo etno-identitario e le comunità di
destino nelle quali l’ordine è dato da una tradizione ipostatizzata, infine l’antimodernismo
e antiscientismo propri del decennale sforzo egemonico descritto. Ovvero di
assorbire i valori dell’egemonia delle controculture disponibili, limitandosi
ad un rovesciamento reattivo.
Questo rischio va compreso ed evitato, ma senza ricadere in tutti
i vecchi tic fallimentari di una specifica tradizione della sinistra (anche
radicale e “rivoluzionaria”) che, in Occidente, ha mostrato tutta la sua
incapacità di comprendere il tempo e di relazionarsi ad esso.
Veniamo al testo di Fineschi. Da buon specialista di Marx riconduce
subito la discussione ai termini classici. Il suo testo è letteralmente
organizzato dall’opposizione, di puro sentore ottocentesco (ma non per questo
necessariamente superata), progresso/reazione, o emancipazione/reazione.
Parte con una distinzione tra piano storico-fattuale (la ‘storia del mondo’) e ideologico.
Nel primo il mondo diventa dominato dall’Europa (e quindi eurocentrico) in
sostanza per effetto dello sviluppo del modo di produzione capitalistico[9].
Questo, come dice Fineschi, “ha imposto dominio, regole, forme di sviluppo a
una dinamica che prima aveva più elementi indipendenti non uniti se non per
contatti marginali”[10].
L’eurocentrismo, in questa accezione, non è ideologia o cultura, ma un
“processo reale di dominio e sfruttamento legato al modo di produzione
capitalistico”. In questa accentuazione si legge la polemica classica tra
idealismo (chi produce una interpretazione che individua nella cultura il
fattore decisivo che muove anche il ‘materiale’) e materialismo, ovvero l’interpretazione
opposta.
Qui si aggancia una mossa classicamente hegelo-marxiana, intrisa
di teoria, per la quale il ‘modo di produzione capitalistico’ è, come del resto
ogni cosa, in sé contraddittorio e produce quindi sia dominio sia liberazione.
Nel senso che la sua dialettica interna contiene lo sfruttamento, ma anche la
razionalizzazione (il ‘freddo calcolo’ di Marx, o dei due interpreti primo
novecenteschi Sombart e Weber), quindi, con essa, il potenziamento delle forze
produttive, il sapere scientifico e tecnico, e, quel che più conta, la
potenziale eguaglianza formale che si può rivoltare in dignità e riconoscimento
umano. Qui l’autore spende la parola chiave della tradizione occidentale, ovvero
della tradizione cristiana e poi illuminista: “universale”. La frase
completa è: “Quindi, insieme allo sfruttamento, produce anche la
libertà potenziale che include produttività del lavoro, sapere razionale e
scientifico, dignità universale dell’essere umano, ecc.”.
In questo snodo teorico-politico la ricostruzione storica (o
meglio, la lettura storica alla luce di una teoria) precipita immediatamente,
per effetto della coppia organizzatrice cruciale emancipazione/reazione in
un interdetto politico: “essere contro questi aspetti non è semplicemente
insensato, è reazionario”.
C’è una questione da sollevare in questo snodo teorico
fondativo: se la contraddizione tra sfruttamento ed emancipazione sia un
contenuto dialettico la cui dinamica procede da sé, per sua stessa natura, o
non, piuttosto, solo un potenziale che può, o meno, essere attivato dalle
lotte. Ovvero reso effettivo dalla volontà. Una dynamis o un’azione che si dà
in un progetto. Il rischio intrinseco, infatti, a questa grande mossa hegeliana
e poi marxiana, perfettamente comprensibile nel suo contesto, è di affidare il
futuro alla ‘provvidenza’ laica dei destini progressivi della tecnica (nel
senso di incorporati in essa). Ovvero in un solo blocco, del capitalismo e
della classe che questo suscita ed incuba. La mossa di stabilire il Vero e Falso
in sé, o il Giusto e l’Ingiusto, riconducendoli ad una totalità che dispone di
leggi immanenti nel divenire, rischia sempre di scivolare inavvertita
(soprattutto quando estrapolata dal contesto della lotta che, nella dialettica
concretissima delle formazioni che si agitavano alla metà dell’Ottocento, tra
giacobini tramontanti, liberali, fabiani, anarchici, mazziniani e più oltre)
nel determinismo ed evoluzionismo. Labriola ricordava che per attivare il
potenziale della formazione e trasformazione della società servono condizioni
specifiche e contemporaneamente è indispensabile la forza di intenderle,
queste condizioni, come mutabili. “Potenziale” è, insomma, sia potentia[11] sia
possibilità, quindi evento.
A questo punto dell’argomentazione compare un altro
termine decisivo, “generico”. C’è, infatti, un modo ‘generico’ di
avanzare un termine e ce ne è uno specifico. Il ‘generico anti-eurocentrismo’
(come il ‘generico anti-capitalismo’) manca quindi di distinguere tra contenuto
materiale di una forma storica e sua forma sociale, per cui il capitalismo
avrebbe una forma sociale di oppressione e sfruttamento (quella che Marx
denunciava) ma anche un contenuto materiale nel quale la contraddizione
dialettica tra il suo potenziale di eguaglianza e di scatenamento delle forze
produttive, da una parte, e la loro funzionalizzazione al dominio di classe,
dall’altra, sono connaturati. Giustamente Fineschi ricorda che senza fare
questa distinzione (hegeliana) si rischia di scivolare nella riattivazione di
contenuti trasmessi dalla tradizione romantica o dalle forme di nazionalismo
più reattive che non mancano anche nelle lotte di liberazione più generose (e
non solo in senso proprio, la politica delle identità è piena di mosse reattive
che, se pur psicologicamente ed umanamente comprensibili, finiscono per
produrre disumanizzazioni simmetriche). Quindi si trovano forme di
anticapitalismo romantico (che hanno antesignani nel pensiero aristocratico
Sette-Ottocentesco, ma si impongono anche nel Novecento e tracimano fino ad
oggi), varie versioni di ‘primitivismo’ (particolarmente attive nei margini dei
movimenti metà-Novecenteschi della cosiddetta ‘controcultura’, ed anche questi
tracimati in forma irriconoscibile fino ad oggi), o di ‘terzomondismo’ (che
muove dagli anni della seconda metà del Novecento, e tracima in forma di
rivendicazione di un non ben chiaro ‘altro’ dal capitalismo che fa di tutt’erba
un fascio). C’è del vero in questo rischio, e l’avvertimento è sicuramente
opportuno.
Questo approccio, ricorda Fineschi, si riverbera anche
su Marx che visto in chiave ‘generica’ non sarebbe eurocentrico. Ma il nostro,
e qui la sua autorità scientifica impedisce di glossare, è sicuramente
‘eurocentrico’ nel senso di ritenere che la cultura nata con l’illuminismo e
poi fiorita con l’idealismo tedesco (ovvero Kant., Fichte, Hegel) è
superiore alle altre culture esistite, in quanto portatrici dei valori
universali di emancipazione e progresso (tecnico-scientifico). D’altra parte,
qui aggiungo io, Karl Marx nasce a Treviri nel 1818 ed è testimone nella sua
vita, interamente trascorsa in Europa, di movimenti gloriosi di liberazione,
nella lotta tra la permanenza aristocratica dell’ancien regime (per gli effetti
del Congresso di Vienna, poco prima della sua nascita, e la restaurazione in
Francia, poi il bonapartismo di Napoleone III e così via) e delle lotte
‘liberali’ e poi primo-socialiste. Lo stesso Marx, per Fineschi, non è, però,
‘eurocentrico’ nel senso di ritenere che l’Europa, solo perché portatrice
(anche) di emancipazione sia per questo legittimata a dominare ed opprimere. O
che il capitalismo, che vede come forma nata dal contesto della dialettica della
liberazione (o dallo sviluppo della storia, se pure delle lotte), debba piegare
tutto il mondo alla sua valorizzazione.
Ora, cosa ne deriva per Fineschi? Che
ritenere fermi, o ‘valorizzare’, l’universalismo occidentale e le sue
istituzioni rappresentative (che, a parere del nostro, “includono per es. la
parità di diritti uomo-donna, le elezioni e le libertà borghesi in genere”) non
significa necessariamente imporre il capitalismo o il controllo imperiale.
Farlo è ideologia, è parte di quella “mobilitazione totale” di guerra in cui
siamo immersi. Ma reagire a questa mobilitazione, come è giusto, non deve
arrivare a rigettare anche i valori europei (pur combattendone giustamente
l’uso strumentale).
Quindi, e qui si va al punto, per l’autore non vanno
difesi i comportamenti che violano questi valori (essi stessi validi in quanto “universali”)
solo perché sono propri di altre culture, ovvero autentici. Qui l’allusione è
chiaramente al mondo islamico, a quello persiano, e via dicendo. L’esempio è ai
pari diritti tra uomini e donne (ma andrebbe bene anche quello alla libertà
sessuale) che, affermati non senza almeno un secolo e mezzo di lotte in
Occidente, non sono violabili altrove per il fatto che sono ‘nostri’. “Non si
capisce perché [le violazioni che non accettiamo da noi] si dovrebbero
accettare” altrove, con la ragione che sono “altre” culture. Qui Roberto, che
tocca un punto davvero lacerante per un occidentale quale io e lui siamo, perde
un poco le staffe e si lascia andare ad una reductio ad hitlerum. Esce,
infatti, con una frase violenta (nel nostro contesto di discussione) come: “Vogliamo
essere contro? Nazisti e fascisti ci hanno già provato, ma non so se sono
prospettive auspicabili”.
Chi avesse dubbi (ed io ne ho) sarebbe, se non
direttamente nazista, almeno affetto da una grave deviazione: il “multiculturalismo
astratto”. Ovvero da una forma che può essere il “cavallo di troia” nel
quale passa un “regresso” culturale, travestito da anticapitalismo. L’equazione
sarebbe ‘capitalismo’ uguale ‘universalismo’ uguale ‘progressismo’ uguale
‘imperialismo’. La cultura progressista non sarebbe, invece, connessa
con lo sfruttamento capitalista, ma rappresenterebbe piuttosto la sua
contraddizione dialettica; al contempo contenuta e superante nel movimento
delle lotte storiche. Per cui anche l’atteggiamento anti-universalista,
in linea generale (di nuovo per l’incomprensione della sua relazione di
contraddizione dialettica con il moderno capitalismo), porterebbe alla fine
“acqua al fascismo”. Questo interdetto è profondamente incorporato nella
cultura che condividiamo in quanto figli della tradizione escatologica e
messianica giudaico-cristiana che, con le sue stringenti camicie di nesso
(originate dall’esistenza di un unico Dio, dalla storia della salvezza, e dalla
fratellanza umana), conduce alle forme logiche universaliste e, con esse, al
fascino centrale della nozione di progresso/salvezza (laicizzata nel corso
dell’Ottocento in sviluppo delle forze produttive e dell’impresa razionale
tecnico-scientifica).
Ovviamente si tratta di una tradizione anche profondamente
incorporata in me. Di qui l’horror vacui che questa struttura nativa e
culturale produce davanti a nozioni come “multiculturalismo” e “relativismo”
(in tutte le sue versioni, anche quella scettica antica). Questo orrore, causato
dalla preminenza della nostra forma di vita e delle logiche che porta con sé, innerva
il testo di Roberto che, pure, è largamente condivisibile nella sua sostanza.
È chiaro, infatti, che le ‘tradizioni’ e le ‘forme di
vita’ cambiano sempre e che costantemente si ibridano e contaminano. Di più, è
del tutto astratto considerarle come unità. I miei viaggi in Iran, e più in
generale nel mondo arabo, mi hanno mostrato, parlando con le persone, che il
vasto mondo culturale persiano è attraversato da secolari conflitti tra
modernisti/tradizionalisti, religiosi/laici, molteplici forme religiose (ci
sono in pratica tutte le religioni note, con minoranze anche di milioni di
persone) e grandi differenze regionali. Ma se le cose cambiano non lo fanno
necessariamente perché qualcuno porta “buone e ragionevoli argomentazioni”.
Forse di più perché porta buoni esempi, o perché nella dialettica interna il
potenziamento di relazioni ben riuscite induce la prevalenza di tendenze già
esistenti. Tendenze le cui radici e premesse sono contenute nella pluralità
interna che ogni “tradizione” ha (un buon esempio è il “razionalismo indiano”
rivendicato da Amartya Sen, insieme alla pluralità delle relative culture[12]). Insomma,
la formula pecca di razionalismo.
Tuttavia, è certamente vero che pretendere di avere un’identità
pienamente scelta, formata e indiscutibile dall’esterno, un’identità che basta
a sé stessa ed è impermeabile a chi non vi appartenga, ovvero non abbia fatto
le medesime esperienze e sofferto i medesimi lutti, è la strada perché sia
impossibile giungere a sintesi e lasciare solo la forza. Incidentalmente questo
non vale solo per le nazioni o le “culture” (la cui lotta sarebbe l’unica
verità), ma anche per le sub-culture che si schermano per affermarsi/difendersi
(delle quali la ‘guerra civile’ occidentale è piena, si pensi ai gender
studies, a diverse forme di ambientalismo o femminismo radicali). Parimenti, è
vero che questa medesima postura si presta ad ogni discorso di potenza.
La conclusione del pezzo di Fineschi è perfettamente
condivisibile: si possono usare formule sintetiche come “Occidente globale”,
come anche “Centro/periferia”, ma queste sono metafore e non bisogna farsene
catturare. Ogni totalità è attraversata dalla pluralità e queste dalle
contraddizioni, in esse ci sono delle potenzialità e queste possono essere
riscattate. Bisogna compiere la mossa di disimplicare le premesse di libertà e
liberazione incorporate nelle diverse traiettorie culturali, fare lo sforzo rimemorarle.
Ma direi di più, per sfuggire al rischio segnalato dall’autore occorre
ritrarsi da ogni astrazione (il che non significa da ogni teoria), sapendo che il
proprio di ogni cultura è quello di non essere identica a sé stessa (perché la
sua stessa nozione è il risultato di una lotta provvisoriamente vinta, di una
egemonia e delle sue necessarie astrazioni). Se questo è vero, essa stessa al
suo meglio non si può dare senza l’altro da sé; senza specchiarsi in esso.
Questa apertura all’altro da sé è, d’altra parte possibile perché il proprio
sé, e quello con cui ci si specchia, sono entrambi rimandi di riflessi
di ‘altro’[13].
La ricerca vana di una mai presente purezza è, a fronte di ciò, solo un
situarsi che nasconde una hybris. Ma tra le parole che fanno problema, con le
quali chiude il testo, inserirei anche quella “universalismo”, se pure
“storico” e sul cammino di un “apprendimento”. Il termine “storico” fa problema;
in quanto nella mente occidentale è influenzato inevitabilmente dalla freccia
del tempo, riletta nella tradizione escatologica ebraica e cristiana come
cammino della salvezza e del compimento[14].
Varrebbe lasciarlo, insieme a quello ‘universalismo’. Non esistono valori,
principi e culture universali, se non per effetto di una decisione, di un’imposizione.
In primo luogo interna, volta a ridurre la pluralità e la storia dei conflitti
che sono stati dati. A far tacere il suono dei morti.
Bisognerebbe allora con una sola mossa, doppia, dimenticare l’universalismo
ma non la tensione all’apertura, per riattivare la voce dei morti (come
proponeva Benjamin[15]) e
riprendere la lotta. Ma una lotta nella quale si ha coscienza che, se è vero
che il proprio modo di pensare è solo uno dei molti possibili che si danno e
che si sono dati (e che si daranno), proprio per questo occorre leggerlo come
plurale e provvisorio, effetto di dominazioni e di liberazioni. Restare quindi cosciente
della differenza incolmabile, per tutti, tra interpretazione e verità, ma
cercarla. Comprendere, infine, che la ricerca è possibile solo nel
decentramento e se si coltiva lo stupore curioso per l’apertura all’altro da
sé, possibile solo perché anche il sé è un altro. Un altro da
scoprire.
[1]
- Poi ripreso in Sinistra in rete, “Osservazioni
in calce a dibattiti recenti su eurocentrismo, ‘occidente globale’, ‘ giardini
e giungle
’, 30 maggio 2024.
[2]
- Roberto Fineschi, “Orientamenti
politici e materialismo storico”, in La città Futura, 11 gennaio 2020.
[3]
- Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi 2022.
[4]
- Ad esempio in Alessandro Visalli, “A
partire da Gershom Scholem, ‘Il nichilismo come fenomeno religioso’, la
questione dell’elitismo e del messianismo politico”, Tempofertile, 18
febbraio 2024.
[5]
- Chiamo con questa formula evocativa tutta quella galassia di nuclei di
discussione, campi tematici e organizzazioni, ma anche individui più o meno
isolati che sono alla ricerca di un posizionamento aggregante, muovendo dal
comune di non sentirsi rappresentati e integrati (fisicamente, economicamente o
emotivamente e intellettualmente) dallo stato delle cose presenti.
[6]
- O, secondo il motto evangelico, il grano dalle zizzanie (Matteo 13, 24-30) o,
in Dante, appunto, “il grano dal loglio” (Purgatorio ii; 124; Paradiso XII,
119).
[7] - Si veda, Matteo Luca
Andriola, La Nuova destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de
Benoiste, Paginauno 2019
[8]
- In esso
differenzialismo, etnopluralismo e antiegualitarismo nel Grece, si unisce alla
lotta all’universalismo e si fonda su antropologie come quella di Lorenz e
Gehlen, a tendenze separatiste e comunitarie. Nel suo sviluppo produce idee
largamente presenti nelle aree di opposizione contemporanee, quasi divenute
senso comune, come quella di sostituire nella scelta del politico (ovvero
dell’amico e del nemico) alle diadi ‘destra/sinistra’ quella ‘alto/basso’ di
provenienza medioevale. Ed a partire dagli anni Ottanta avvia un dialogo con
l’antiutilitarismo di Serge Latouche, il comunitarismo di Costanzo Preve, le
critiche di Danilo Zolo. Ma anche con autori come i teorici angloamericani (o
francocanadesi) come Alisdair MacInthyre, Michael Sandel, Charles Taylor e
Christopher Lasch. Tutti pensieri ed autori indispensabili e personalmente
frequentati.
[9]
- Non ho
obiezioni, se si prende per uno ‘sviluppo’, che parte con la conquista
dell’America spagnola e portoghese, si estende in Oriente con i medesimi e gli
olandesi e poi inglesi e, infine, innesca su questa ‘accumulazione primitiva’ –
e le relative strutture ideologiche formate nel XVI secolo – l’industrialismo
che gli fa fare un salto di scala e rappresenta la forma di quello che
normalmente chiamiamo ‘modo di produzione capitalista’.
[10]
- Per restare nel contesto esplorato nel mio Dipendenza, questa
posizione, classicamente marxiana, ricorda il dibattito interno sul finire
degli anni Novanta tra Immanuel Wallerstein, Samir Amin e Giovanni Arrighi, da
una parte se pure con differenze, e Gunder Frank il quale sostenne in Re-Orient
l’interconnessione sostanziale del mondo ben prima dell’insorgere del
capitalismo, e dunque il venir meno della pertinenza di questa chiave
interpretativa. Si tratta, in altre parole, di una posizione ben chiara ma non
indiscutibile. Cfr Visalli, A., Dipendenza, Meltemi 2020.
[11]
- Come capacità, idoneità in sé a conseguire un dato risultato.
[12]
- Si veda Amartya Kumar Sen, “Indian
traditions and western imagination”, 1997; Amartya Sen, La democrazia
degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente,
Mondadori, Milano 2004; Amartya Sen, L’altra India. La tradizione
razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori,
Milano 2005.
[13]
- Riprendendo la critica di Derrida, per il quale il proprio di ogni cultura è
di non essere identica a se stessa, ma anche ricordando che la nozione stessa
di “cultura” (occidentale come ogni altra) è solo un’astrazione, il risultato
di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia. L’identità stessa è
provvisoria e contaminata. Usando le parole di Vincenzo Costa, “ciò non
significa che la cultura non ha una identità, ma semplicemente che una cultura
può identificarsi solo attraverso l’altro; non vi è identità senza il gioco
delle differenze” (Costa, V., L’assoluto e la storia, Morcelliana,
Brescia, 2023, p.131)
[14]
- Si veda Jacob Taubes, Escatologia Occidentale, Quodlibet 2019 (ed. or.
1991).
[15]
- Visalli, A., Classe e partito, op.cit., cap 2.
Molto interessante il suo articolo di risposta alle riflessioni di Fineschi.
RispondiEliminaQuello che mi chiedo è come poter uscire dall'impasse del relativismo culturale? Mi spiego. Ogni società ha le sue idee, visioni, filosofia, cultura ecc. Come si fa a fare un confronto fra due o più società diverse? Se la mettiamo sul piano dei valori e della cultura chi può dire che la società capitalista è superiore, ad esempio, alla società schiavistica antica, a quella feudale o altra? Qual è il criterio che ci deve guidare? Non se ne esce.
Se invece rimaniamo, per dirla in termini marxisti, sul piano della struttura, è evidente che l'attuale società ha sviluppato notevolmente le forze produttive (e anche distruttive) rispetto a qualsiasi altra società. Sviluppo che dà la possibilità, finalmente , se cambiassero i rapporti sociali di produzione, di far sì che la parte di umanità, che ora è sottomessa alla schiavitù salariata, possa diventare finalmente libera e capace di autodeterminare il proprio destino. Questo trasformerebbe, come ci insegna Marx, anche il livello sovrastrutturale ed invererebbe anche quei principi e valori borghesi che, attualmente, sono validi solo sulla carta: eguaglianza tra gli uomini, tra uomo e donna ecc.
La ringrazio per le riflessioni stimolanti.
Saluti
Paolo Ranieri