Comincia ad affacciarsi uno schema[1]. Il lungo ciclo, più che trentennale,
nel quale in modo sostanzialmente sincrono con l’accelerazione del mondo
unipolare negli anni Novanta e poi zero, intorno ad eventi altamente spettacolarizzati
come il Protocollo di Kyoto (1997) e le successive COP, nel contesto delle
denunce sempre più forti del IPPC circa l’incipiente cambiamento climatico,
l’insorgenza della portante emozionale della lotta per un mondo più pulito ed
equilibrato sembra essere sempre più sfidata da quella per un mondo più
‘democratico’, ovvero controllato dai Giusti. Si tratta, ovviamente, di due
mobilitazioni dell’ansia, nelle quali la struttura è la medesima: il normale
corso del mondo è minacciato da una crisi, da un avversario, che mette a repentaglio
tutto, bisogna produrre una mobilitazione straordinaria prima che sia troppo
tardi. Nessuno può volere altrimenti. Sembra, insomma, quasi che sia necessario
un asse di orientamento per tenere in piedi il mondo nell’epoca del tramonto di
tutti valori. Che una trascendenza si debba ogni volta imporre per colmare il
vuoto nel quale cade, e da tempo, l’Occidente.
Perché serve un nuovo schema? Cercandone
le radici bisogna riferirsi al movimento di fondo del nostro tempo: il
tramonto dell’egemonia tecnica, economica e politico-militare dell'Occidente[2].
Questo movimento, di portata storica, che arriva a conclusione di un ciclo di
mezzo millennio, ha infatti conseguenze in ogni direzione, e talvolta inattese.
Di una conseguenza inattesa vogliamo ora parlare, ma prima bisogna focalizzare qualche
sfondo.
Una delle dimensioni della sconfitta (o
del fallimento) è in direzione della pretesa, nutrita appunto da cinque
secoli, di guidare la modernizzazione e le sue costanti transizioni. Può
sembrare, a chi si sia formato nelle scuole dell’obbligo occidentali, con la
loro specifica e intenzionale miopia, che in sostanza Occidente e modernità
siano sinonimi, che la tecnica sia una conseguenza della rivoluzione
scientifica e questa sia solo effetto del lavoro di alcuni geniali campioni
(Galileo, Cartesio, Newton), tutti europei. Che quindi il potere e la ricchezza
che l’Occidente ha conquistato sia un merito ed un diritto, che, anzi
(supremo capolavoro) sia un regalo al mondo. Può derivarne che ci sia un
quid (la tradizione greca? Quella latina? Il protestantesimo?) che è solo e
proprio dell’Occidente che lo fa capace di dirigere il treno dell’umanità, una
sorta di codice genetico (se pure culturale). Che, quindi, nessuno mai potrà
eguagliarlo.
Lo spettacolo del presente contraddice
questa pretesa.
Proviamo
a prendere ancora un poco di distanza e guardare dall’alto il punto in cui
siamo: il mondo è intrappolato nelle conseguenze di un modo di essere e
funzionare (preferisco questa formula alla più nota “modo di produzione”, che
enfatizza troppo la produzione, con il suo portato di riduzionismo[3]) che sacrifica
buona parte dell’umanità, e la stessa natura, alla creazione di valore astratto
ed alla sua accumulazione come fonte del potere.
Guardando
la cosa a partire dall’esteriorità (ovvero dal piano fenomenico) abbiamo una
violenta polarizzazione sociale nei ‘centri’ tradizionali, dinamizzati da
flussi di segni di valore che tendono ad essere accumulati da ristrettissime
élite, e che lasciano i più in condizioni di subalternità e degrado. Ed abbiamo
un, anche più violento, sfruttamento della debolezza nelle ‘periferie’
interconnesse del “sistema mondo”[4]. Ciò significa che nel
“centro” prevalgono le condizioni economiche del “sottoconsumo”[5], mentre nelle “periferie”,
o nei ‘centri’ sfidanti, prevale la “sovrapproduzione”[6]. Dove, naturalmente, i
termini “centro” e “periferia” non vanno pensati secondo il modello dei centri
concentrici, ma sono intrecciati e spesso coesistono nel medesimo luogo. Il
mondo è un luogo di squilibri.
A
connettere e rendere anche possibile la disgiunzione di una sovracapacità
produttiva con un sottoconsumo è la finanza. Ovvero la traduzione dei rapporti
sociali di dominazione dall’una come dall’altra parte in valore astratto che è
scambiato su piattaforme estese all’intero pianeta e virtualmente prive di
attriti[7]. Più specificamente, sono
gli effetti della costante riduzione dei tassi di interesse che hanno
sostenuto, tramite l’espansione del debito e dei beni capitali come immobili e
titoli, i consumi senza dover passare per il reddito a partire dagli anni
Ottanta. In un contesto di riduzione degli investimenti in capitale fisso
produttivo, determinato dalla competizione di modi di accumulare meno rischiosi
sulla base del livello di concentrazione già raggiunto negli anni Sessanta e
Settanta, questo ambiente economico ha determinato durante tutta la fase che si
incuba negli anni Ottanta, per prendere struttura e velocità negli anni
Novanta, la strana coesistenza di quota salari bassa e domanda alta. Tuttavia,
la prima ha comportato una vasta sottoutilizzazione delle risorse umane e
materiali. In questo senso abbiamo avuto ed abbiamo un mondo intrappolato in
un’immane distruzione di energia umana e naturale, che la furia compulsiva di
accumulazione di pochi mette sulla strada della sua distruzione. Due fattori
cruciali rendevano possibile questo strano meccanismo: il continuo aumento del
debito a fronte di una politica di erogazione di denaro espansiva; la
centralità del dollaro che impediva ai tassi di interesse e al debito di
diventare insostenibili. Chiaramente non funziona più.
Sul
piano tecnico lo schema generale della soluzione dovrebbe essere di rimettere
in attività nei “centri”, creando buon lavoro e risolvendo il sottoconsumo, e
avviare una necessaria distruzione controllata della sovracapacità[8] nelle “periferie”;
trovando, al contempo un impiego utile alla sovracapitalizzazione che ingolfa
le piazze finanziarie di tutto il mondo e che alimenta un disperato gioco alla
prossima ‘bolla’[9].
Tutto questo, dal punto di vista dell’egemone occidentale sfidato, richiede di
passare da una fase di ‘piccoli governi’ neoliberali al “Grande Governo”.
Il
problema è che, nelle condizioni sociopolitiche e socioeconomiche
dell’Occidente, dominato dalla concentrazione del capitale in poche e ben
sorvegliate mani, alcune decine di migliaia di imprese giganti e pochi centri
finanziari, con qualche centinaio di grandi famiglie con patrimoni quasi
illimitati, non si può fare. La ragione è semplice: l’ultimo Rapporto
Oxfam[10] mostra che le prime 150
multinazionali hanno profitti per 1.800 miliardi di dollari, simili al Pil di
una delle più grandi potenze industriali, l’Italia, e che questi profitti all’80%
sono andati agli azionisti e non sono reinvestiti, mentre il monte salari di
800 milioni di persone è sceso di 1.500 miliardi, o che i miliardari nel mondo
(spesso azionisti delle sopradette società) hanno aumentato negli ultimi soli
tre anni il loro patrimonio di 3.300 miliardi di dollari. Le multinazionali che
stanno ‘vincendo’ sono 14 compagnie petrolifere e del gas, che hanno triplicato
i profitti fino a circa 200 miliardi di dollari, due marchi del lusso, con 10
miliardi, 22 società finanziarie che hanno registrato incrementi di un terzo e
pari a 36 miliardi, e 11 società farmaceutiche che hanno prodotto profitti per
43 miliardi. Considerando i profitti globali aziendali, un terzo è incassato da
una società su centomila (0,001%), l’1% più ricco della popolazione mondiale
(80 milioni di persone) possiede il 60% della ricchezza finanziaria, mentre la
sola Apple ha un valore superiore al Pil della Francia. I primi cinque hanno un
valore superiore al Pil di tutte le economie africane, dell’America Latina e
dei Caraibi, messe insieme. I primi tre gestori di fondi, BlackRock, State
Street e Vanguard, insieme, hanno asset pari ad un quinto del totale mondiale, 20.000
miliardi di dollari.
Giovanni
Arrighi, nel corso del suo lavoro, ha messo a punto uno schema interpretativo
potente che vede lo sviluppo del sistema di produzione ed organizzazione
‘capitalista’ come una successione di ‘cicli’ per successiva espansione ed
incorporazione in una dialettica tra “attori territoriali” e “attori
economici”. Oppure, se si vuole utilizzare un linguaggio diverso, tra una “logica di potenza” ed una “logica capitalista”. Ancora in altre
parole, il sistema capitalistico è visto come una successione di cicli di accumulazione (ogni volta
composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale
finanziaria) e da cicli di egemonia
nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di
espansione produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il
vantaggio monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta
concorrenza, allora i capitali generati vengono trattenuti in forma liquida, e
non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase
di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova
gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che
determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove. Consentendo
l’avvio di un ciclo di investimenti produttivi, l’incremento di efficienza e la
distribuzione dei surplus accumulati.
Arrighi sposa qui, se pure in modo originale, la tesi di Marx
per la quale nel modo di produzione capitalistico (dato che lo scopo è la
produzione di capitale e non lo sviluppo delle forze produttive), il mezzo
entra in conflitto [in particolare nelle fasi “finanziarie”] con il fine
ristretto: la valorizzazione del capitale esistente[11]. Il
capitale entra dunque periodicamente in palese contraddizione con l’espansione
materiale dell’economia-mondo[12], il
capitale “disimpegnato” in ogni fase finanziaria dall’espansione ulteriore di
produzione e commerci, è, perciò, riciclato con profitto superiore in settori
non produttivi (che sono spesso le armi)[13].
A questo elevato livello di astrazione si può concludere che,
nella dinamica che si genera tra la tendenza a ritirare il capitale dagli
investimenti produttivi (di cui a tutta evidenza soffrono i ‘centri’
sovracapitalizzati, determinando sottoccupazione e quindi sottoconsumo), a
causa dell’incremento della concorrenza e la relativa scarsità di occasioni
sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto[14], e la
sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è tuttavia
lo spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono determinati dalla
dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per investimenti e di metterli
a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette alla legge dei rendimenti
decrescenti (relativa e non assoluta). A rendere complesso il quadro, però, non
ci sono solo le diverse arene nelle quali le due scarsità (di occasioni di
investimento e di occasioni di rendita) si contrappongono, ma anche attori ed
organizzazioni non interessate al profitto,
ma, dice Arrighi, a potere o prestigio[15].
In queste “biforcazioni” si creano quindi campi instabili e
turbolenti nei quali “agenti” diversamente orientati concorrono l’uno a
sottrarre capitali ai circuiti produttivi e commerciali per offrirli sui
mercati finanziari, gli altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di
massimizzare il proprio potere.
Si tratta anche di una lotta per l’egemonia.
La questione è che l’egemonia mondiale si ottiene
quando alla capacità di governance delle forze sistemiche si aggiunge
la leadership, che, come dicono Arrighi e Silver in Caos e governo del
mondo[16],
si fonda sulla capacità del gruppo dominante di presentarsi, ed essere
percepito, come portatore di interessi generali[17], questa
capacità porta un potere “addizionale”. Gruppo dominante e gruppi subordinati
in qualche modo concordano che la direzione nella quale il primo dirige le
forze è a vantaggio comune. Il sistema è gestibile, dunque, senza ricorrere
alla pura e semplice forza.
Questa
divagazione mostra la questione in campo.
In definitiva una possibile via di uscita dalla crisi di
sottoconsumo in Occidente e di sovrapproduzione incipiente in Oriente, che li
portano in rotta di collisione, è di avviare una ‘distruzione controllata’ nella seconda area, per sgombrare la
sovracapacità, e una serie di impieghi ‘distrattivi’
(rispetto alla logica ‘capitalista’) nella prima. Salvaguardando, ovviamente, e
anzi trovando impieghi alla sovrabbondanza di capitali, in modo che non
rischino un crollo per carenza di fiducia e quindi illiquidità. Ma un impegno
di questa portata richiede necessariamente la costruzione di un’emergenza
che metta a tacere gli ‘spiriti animali’ che guardano sempre a cortissimo
raggio. Al contempo che mobiliti le coscienze. Qualcosa che sia in grado di
‘dare una direzione’ al mondo, di focalizzarne le emozioni e di promettere la
salvezza.
Richiede
soprattutto la produzione di egemonia, perché bisogna mettere a tacere questi
‘spiriti’, assai concretamente operativi.
Allora nel periodo 2000-20 la quadra, come fu negli anni Cinquanta
la Guerra Fredda, veniva dalla ‘distruzione
del pianeta’. In questo modo i capitali potevano forzatamente essere
impiegati in investimenti guidati dallo Stato, ma salvaguardanti l'iniziativa
privata. In conseguenza, secondo questa influente e autorafforzante idea, nella
parte diffusa della ‘manutenzione territoriale’ e della ‘economia circolare’ si
potevano impiegare i ‘superflui’, combattendo il sottoconsumo occidentale, e la
capacità produttiva si poteva riconvertire riducendo la sovracapacità e la
sovrapproduzione. Una quadra perfetta per quello che Minsky chiamava “Keynesismo privatizzato”[18]. Quindi,
la riconversione ecologica e slogan come “Non
c’è più tempo”, svolgevano sotto il profilo strutturale e socioeconomico
questa funzione strutturale vista dal
punto di vista delle élite.
In questo contesto, fino a questi ultimi
anni, l'Unione Europea (lo sconfitto dentro il fallito, ed una delle più
blindate roccaforti delle citate élite) ha sognato, come usualmente gli capita di
porsi come guida di questa transizione ad un mondo pacifico e fondato su
tecnologie smart e rinnovabili. Due pilastri reggevano questo sogno (o delirio,
se preferite): la spinta interna a creare un grande mercato, che avviasse un
ciclo di investimenti autosostenuto, e la dotazione di finanza attivata dalle
opportunità. Entrambe le cose ci sono state, ma in misura episodica, incerta e
insufficiente. Al contempo, però, i competitori sistemici (in particolare la
Cindia) hanno seguito il medesimo piano, ma, al contrario della Ue lo hanno
fatto davvero. Hanno creato un enorme mercato, i relativi campioni
industriali, ed hanno mobilitato a tale scopo ciclopici investimenti pubblici e
quindi anche privati.
Hanno vinto, come si riconosce ormai ovunque.
La differenza, infatti, tra la carenza
di azione e capitali, endemica in un sistema a trazione capitalista e
monopolistico incapace di decidere (non ultimo per l'eccesso di
concentrazione dei capitali e quindi per la cattura del sistema di decisione
pubblico), e la loro disponibilità nei tempi necessari del sistema “Orientale”,
è talmente vistosa che ormai tutti si rendono conto di non riuscire a competere
(nelle tecnologie per le rinnovabili elettriche, negli accumuli, ora anche
nell'automotive in cui ci rifugiamo nei dazi). Il confronto tra le
disfunzionali società rette dalla valorizzazione privata, miope ed a cortissimo
raggio, in quanto dominata dal cosiddetto ‘capitale fittizio’ (o finanziario,
largamente astratto), verso le società comunitarie, capaci di direzione e
capitalizzazione adeguata, porta al cambio di fase che si intravede.
Una rappresentazione plastica di questa
situazione può essere ritrovata in questa immagine.
Figura 1- Le reti elettriche nel
mondo, 2024
Le reti elettriche di trasmissione in
alta ed altissima tensione, mappate in questo sito[19], identificano la maggiore
intensità di attività reali che ormai la Cina e l’India hanno raggiunto
rispetto ad Europa ed Usa. Si noti, non è questione di popolazione, l’Africa è
quasi assente, ma di attività energivore e di case moderne.
Per questo dalla fase in cui la
soluzione era cercata attraverso uno sviluppo forzato degli investimenti (gara
che abbiamo perso), si passa ad un’altra forma di “distruzione controllata” che
è, contemporaneamente, anche una forma di missione e di scopo: alla guerra.
C’è però, una differenza.
Nel momento in cui l'Occidente
collettivo va alla guerra servono diversi capitali, al posto di quelli
della New Economy, bisogna ri-creare le condizioni della rivalsa del Grande
Capitale Industriale (GCI) di tipo tradizionale (Oil & Gas e Nucleare &
Militare, OGNM) verso il capitale distribuito e finanziarizzato egemone
nell'avvio di millennio. Il GCI, allora, chiede e ottiene protezione. Anche
questo significa passare da una fase “capitalista” ad una “territorialista”.
Questo conflitto tra capitali (la
forma standard del modo di produzione capitalista) ha una rilevante conseguenza
che si inizia a vedere: un allentamento delle retoriche della transizione e
della modernizzazione smart e un relativo indebolimento delle relative
politiche di spinta. L'emergere di controforze solo apparentemente volte alla
mitigazione degli effetti della transizione sulla vita quotidiana (OGNM ha
ottime agenzie di stampa e marketing, capaci di vendere tutto a tutti) ma in
realtà dirette alla conservazione degli assetti di potere esistenti ed al
loro rafforzamento. Rivolte alla sostituzione di una mobilitazione con un’altra.
Già cinque anni fa, quando si affacciò
il movimento di Greta Thunberg, in un post[20] avevamo scritto che
restavano solo due alternative, o, due modalità di espansione della “logica
territorialista” nelle condizioni concrete di potere ed egemoniche di un
Occidente sempre più disperato e corrotto:
-
gli investimenti
di potenza militari (in espansione e tradizionalmente praticati, quando dal
‘keynesismo privatizzato’ del primo tipo si passa a quello ‘finanziario’[21] e da
questo, infine, terminati tutti gli escamotage, a quello “militare”);
-
la deviazione dei
capitali sulla lotta a qualche ‘nemico esterno’ che giustifichi impieghi
“ineconomici” (ovvero il passaggio dal “keynesismo finanziario”, cioè
l’economia del debito, al “keynesismo ambientale”).
Bisogna essere
chiari: entrambe le forme funzionano proprio
perché sono irrazionali in termini ‘capitalistici’, ovvero non determinano
ritorni sul capitale investito adeguati, e dunque si prestano a distruggere il
capitale in eccesso, facendo rientrare la “fase finanziaria” ormai senza uscita
(per l’Occidente). Chi accusa la seconda forma di transizione forzata di essere
irrazionale, in quanto distrugge capitale, non ne capisce la funzione sistemica
e inconsapevolmente appoggia l’alternativa, la pura e semplice distruzione del
mondo (sperabilmente nemico).
La
cosa non potrebbe essere più seria. proprio perché la posta è il controllo del
mondo, ovvero l’attrazione e la ‘fissazione’ dei capitali mobili, che lo
rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di
efficienza. Scoperto di avere perso siamo quindi passati, semplicemente, dallo schema per il quale si puntava a
cambiare la “piattaforma tecnologica”[22], certi di essere i più
bravi nel gioco della tecnica, a quello in cui, scoperto che non è così (che i
Cinquecento anni di dominio stanno passando), si torna alle care vecchie
armature.
E’ per questo che le tecnologie della
transizione, prima così desiderate, sono sotto attacco. Per questo ora si parla
tanto di nucleare (contando sull’illusione che la tecnologia migliore sia
americana e francese), si attaccano da ogni parte le rinnovabili (senza mai
citare la vera ragione). Nel momento in cui si passa all'economia di guerra
non si può certo comprare dal nemico.
Quale
la nostra agenda in questo tragico bivio? Sono convinto che la ricerca di una
soluzione che non sia subalterna a questa costante ricerca dell’emergenza distrattiva,
ma neppure alla sua semplice negazione oppositiva debba passare per i seguenti
nodi:
-
Ripensare
l’Occidente in una
comprensione multipolare e pluriculturale, che consapevolmente conduce a termine,
nello spirito e nel concetto, la fase del dominio dell’ultimo mezzo millennio.
Pensarsi eguali e non superiori.
-
Immaginare
la modernizzazione come cooperazione
e non come lotta. Come confronto con l’Altro e la sua via, come pluralità di
sentieri.
-
Accogliere
l’Altro come dono
e non come un medesimo incompleto, superare l’autismo di una cultura incapace
di guardarsi come parte del mondo, ma che si pensa come l’unico e vero mondo.
-
Scegliere
la traiettoria di
uscita dalla trappola della finanziarizzazione che non comporti la distruzione
del mondo. Che utilizzi il Grande Governo per impiegare il capitale
sovrabbondante (e per lo più nominale o ‘fittizio’), sottraendolo al controllo
di pochi, per nuovi cicli di investimento e distribuzione.
-
Non
farsi arruolare
dai grandi giochi del capitale. Dal continuo gioco degli specchi, per il quale
il nemico del GCI, viene venduto come il nostro.
-
Unire
le periferie.
-
Porre
la questione di “cosa” e “perché” produrre.
-
Per
quale uomo e quale vita.
[1]
- Se dico ‘comincia ad affacciarsi’ intendo proprio che gli eventi degli ultimi
anni sembrano materializzare lo spostamento emozionale dalla
ricostruzione/rigenerazione che informa il periodo terminale degli anni
Novanta, sincrono con l’ascesa dei nuovi competitori (ma quando non erano
percepiti come minaccia, quanto come opportunità per riavviare o potenziare un
ciclo economico e di modernizzazione), alla sconfitta/distruzione di un nemico
esistenziale che è, contemporaneamente, anche un barbaro.
[2]
- Si veda “La
fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo”,
Tempofertile 26 aprile 2024.
[3]
- Se pure non attribuibile al testo di Marx, quanto alla sua ricezione.
[4] - Uso questo termine nella
tradizione di ricerca della “Scuola del
sistema mondo”, oggetto del mio libro del 2020, Dipendenza, per
Meltemi.
[5] - Effetto della carenza di
domanda aggregata creata da una distribuzione delle risorse che finisce per
spostarle verso la finanza interconnessa.
[6] - Un eccesso di capacità
produttiva che trova senso solo nella domanda esterna, determinando gli
squilibri produttivi, commerciali e quindi finanziari che stanno squassando il
mondo (da ultimo determinando anche i flussi migratori).
[7] - Sul piano tecnico gli attriti
sono ridotti dalla completa dematerializzazione del capitale, su quello tecnico
dalla infrastruttura, enormemente energivora, della gestione dell’informazione,
su quello normativo dalla deregolazione e dalla uniformazione.
[8]
- La simmetrica soluzione
al sottoconsumo ed alla sovracapacità (ovvero il riequilibrio della
estero-flessione, come dice ad esempio Dani Rodrik) è resa necessaria
dall’equilibrio contabile d’area. Altrimenti l’investimento in un’area non
riassorbirebbe i sottoconsumi, traducendosi in aggravamento della crisi fiscale
e ulteriore estero-flessione e ipertrofia delle “periferie”. Lo schema porterebbe
solo a maggiore finanziarizzazione ed aggravamento della crisi, quindi dello
“stato di consolidamento” (Streeck) nel medio periodo. In altre parole, è un
vincolo di “sistema mondo”.
[9] - Per una delle migliori
analisi di questi fenomeni, in un quadro categoriale keynesiano, si veda
Massimo Amato, Luca Fantacci, Fine
della finanza,
Donzelli 2009.
[10]
- https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2024/01/Rapporto-OXFAM-Disuguaglianza_il-potere-al-servizio-di-pochi_15_1_2024.pdf
[11]
-“Se il modo di produzione capitalistico è
quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la
creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la
contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di
produzione sociali che gli corrispondono”. Karl Marx, Il Capitale,
Editori Riuniti, libro III, p. 350
[12] - Uno dei modi attraverso cui gli agenti economici reagiscono a
questa tendenza è l’espansione del
sistema-mondo allo scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano
presenti opportunità più convenienti. Naturalmente anche in queste espansioni
la legge dei rendimenti decrescenti resta all’opera e, pur contrastata da
possibili guadagni di efficienza, riarticolazioni e ottimizzazioni tecniche,
alla fine determina un “ristagno” (Hicks). Questa fase è caratterizzata da
sovrabbondanza di capitali liberi (“crisi di sovraccumulazione”) ed è
anche, e forse soprattutto, caratterizzata da un inasprimento della lotta
concorrenziale per l’impiego del capitale mobile (e la sua attrazione). In
questa fase i detentori del capitale lottano per allocarlo in usi
“accettabilmente” redditivi, in condizioni di abbondanza del primo e scarsità
dei secondi. D’altro lato gli utilizzatori (che sono spesso gli Stati, che ne
necessitano per i loro usi acuiti dalle tensioni della fase) lottano per
attrarli a condizioni meno onerose.
[13] - Alla base del modello è l’idea (di Adam Smith, prima che di
Marx) che ceteris paribus la continua espansione delle attività produttive, con
il crescere della competizione, debba portare ad un calo del saggio di profitto
e, nella versione dell’ultimo, ad una stagnazione dei salari reali e
conseguente crisi di domanda (che ostacola i rapporti di produzione sociali,
generando la contraddizione essenziale).
[14] - A sua volta determinato per
via di concorrenza.
[15] - Storicamente, nei vari cicli
di accumulazione caratterizzati da una successione di fasi queste “lottavano contro i rendimenti decrescenti prendendo in
prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la
forza i mercati, territori e popolazioni”.
[16]
- Giovanni Arrighi, Beverly Silver, Caos e governo del mondo, Bruno
Mondadori, Torino 2003 (ed. or. 1999).
[17]
- Ivi, p.30
[18] - Vedi Hyman Minsky, Keynes
e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1981 (ed. or. 1975).
[20]
- “Greta
Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”, Tempofertile, 19
marzo 2019.
[21] - Per questo la classica
analisi di Streeck “L’ascesa dello stato di
consolidamento europeo”.
[22]
- Chiamo “Piattaforma
tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di
convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e
reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e
di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si
affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi
pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è sempre connessa con un
assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).
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