Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente
rappresenta la seconda, la prima qui.
Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse
forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si
sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta
attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette, come
insegna Said[1],
affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le
diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e
culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati
prodotti intorno a due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale.
Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il
conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati
Uniti e la Cina. E’ utile a tal fine la lettura di un recente intervento in tre
parti di Giacomo Gabellini, alla cui lettura rimando[2]. In
sostanza Giacomo racconta, con l'usuale abbondanza di fonti e particolari, la
storia degli ultimi venti anni durante i quali si è manifestata (dalla
Presidenza Obama) la sempre crescente divaricazione strategica tra l'economia
debitrice e quella creditrice, la prima impegnata a consumare e la seconda a
produrre, rispettivamente americana e cinese. Parte da lontano, dalle ragioni
della rottura di Bretton Woods da parte di Nixon (1971) e della crisi degli
anni Settanta, risolta dalla cosiddetta “globalizzazione” e dalla caduta
dell'Urss; parte essenziale di questo processo, durato un trentennio, è stata
l'estensione alla Cina delle filiere produttive in uno scambio per il quale le
merci a buon mercato contenevano la perdita di capacità d'acquisto interna
americana e il riciclo via finanza dei surplus (da parte di Cina, Giappone e
paesi arabi) consentiva l'indebitamento. Questo meccanismo alla lunga non era e
non è stato sostenibile, gli Usa sono passati da creditori netti nel 1983 a
debitori oggi. Il blocco “geoeconomico” che Gabellini chiama “Chimerica” si è
dunque rotto. La Cina prima ha accumulato riserve in Treasury (titoli
americani) per oltre 1.000 miliardi nel 2005, poi ha ampliato la propria
domanda interna, riequilibrando le esportazioni (e facendo crescere una classe
media interna), poi, dopo la crisi del 2008, ha accelerato la trasformazione
strutturale della propria economia (e società) da fornitrice di prodotti di
base a paese alla frontiera della tecnica. Quindi, nel secondo articolo[3], descrive
le forme del ‘contrattacco’ statunitense per fare fronte alla fine di “Chimerica”.
Fine causata dal fatto piuttosto semplice che i benefici reciproci dello
scambio merci vs credito (ovvero riacquisto dei titoli) nel sistema “socialista
con caratteristiche cinesi” sono stati progressivamente investiti in
infrastrutture (fisiche e sociali) e reddito distribuito (cetomedizzazione),
mentre nel sistema a “capitalismo predatorio” statunitense sono andati in
debito (de-cetomedizzazione) e capitalizzazione del primo 10% (per lo più in
isole fiscali). Il risultato cumulato in ca. quaranta anni è che il tessuto
produttivo e sociale americano si è indebolito e sfilacciato. Di questo è
figlio Trump (e con biografica evidenza Vance). Nella descrizione che fa
Gabellini si parte dall'azione di Obama, che muove i passi consolidati da
Trump, in via dell'isolamento della Cina e del disaccoppiamento dei sistemi
economici, e racconta la lunga storia dei dazi. Il riassunto di Howard Lutnick,
riportato nell'articolo è semplice: «occorre resettare e ridefinire i rapporti
di potere degli Stati Uniti sia nei confronti degli alleati che dei nemici.
L’idea che tutti i Paesi del mondo possano accumulare eccedenze commerciali con
gli Stati Uniti e acquistare con il ricavato i nostri asset da noi non è
sostenibile. Stiamo parlando di quasi 1,2 trilioni di dollari [di passivo, nda]
all’anno ormai». Infatti: «Nel 1980 eravamo un investitore netto. Possedevamo
cioè il più asset del resto del mondo di quanto il resto del mondo ne
possedesse di nostri […]. E ora gli stranieri possiedono 18 trilioni di dollari
di asset in più rispetto a noi. Sono diventati creditori netti».
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| Pechino, 2024 |
Nel terzo articolo[4]
Giacomo Gabellini descrive la risposta della Cina alla mossa di Trump.
L'esibita sicurezza cinese, nel rispondere ad ogni mossa con una contromossa
attentamente calibrata e di grande impatto su filiere produttive e consumi
americani, nasce dalla dimensione ormai autocentrata della propria economia.
Solo il 19% delle esportazioni sul pil (mentre l'Italia è al 33% e la Germania
al 43%), dominio di 60 settori tecnologici chiave su 64, principale mercato per
17 categorie merceologiche su 20, una classe media che nel 2030 è stimata al
livello combinato di quelle europee e statunitensi. In pratica la Cina sta “risucchiando”
i paesi vicini dell'Asia orientale nel proprio sistema economico per via della
forza della propria capacità di acquisto (esattamente come fecero gli Usa nel
secondo dopoguerra). Il volume del commercio nel Rcep[5]
supera quello tra Usa ed Europa di gran lunga e cresce. Per questo le politiche
di reshoring e friedshoring stanno fallendo (e, peraltro, ove riuscissero
sarebbero produttrici di ben poca occupazione). L'analisi di Giacomo qui prende
una direzione interessante. Da una parte i dazi, in questa ottica, si
presentano come una ripresa fiscale mascherata, dall'altra, tutto ciò minaccia
la stabilità del dollaro e la sua egemonia.
Se la Cina ha il “dominio dell'escalation”[6] e
gli Usa stanno sostanzialmente gestendo una ritirata alla Monti-Draghi
(riduzione potere di acquisto della popolazione, contenimento dello squilibrio
finanziario ed economico, deprezzamento della valuta), mentre il "paese di
mezzo" torna nel posto che ha tenuto per millenni, la tentazione del
sistema militare-industriale americano (ed europeo, come si vede) di rovesciare
il tavolo usando l'unico sottosettore in cui sono ancora competitivi (la morte)
è alta.
Dentro questo quadro complesso, nella Prima
Parte abbiamo definito il difficile obiettivo della leadership cinese come
sforzo per promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel
contesto del crescente confronto ideologico, culturale, economico e di potenza
con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Il controllo
dei sentieri di modernizzazione, e quindi anche di conservazione di specificità
ed elementi culturali, è, nel contesto della “guerra ibrida” senza risparmio
che è in corso, la posta. Da ciò dipenderà la forma che il mondo prenderà in
questo secolo. Le forme sociali, e le forme culturali sono, infatti, esse stesse
forze materiali. Queste orientano l’autocomprensione di sé e la narrazione
della propria direzione, contribuiscono all’attivazione o disattivazione di
forze potenziali, inibiscono direzioni possibili o rendono ‘naturali’ azioni. Producono
e sono prodotte da forze politiche che in esse si addensano. Sono fattori della
forza con la quale opporsi, della sicurezza di sé e del fascino con il quale
assorbire le energie esterne. Essere in grado di governare la dinamica della “modernizzazione”,
controllando in essa il nuovo con il familiare e con il recuperato, rende
possibile anche proiettare la capacità, come scrive Joseph Nye, di “plasmare le
preferenze altrui”[7].
Ovvero di sviluppare la “capacità d’attrazione verso valori comuni”. Insomma,
lo sforzo di controllare lo sviluppo della “modernità” in modo “selettivo” è un
obiettivo strategico, espressamente politico, per evitare di subire un’egemonia
e proiettarla, se pure nel senso dell’esempio e non del programma.
Può essere
utile rileggere se pur
brevemente, l’impiego che ne fa Antonio Gramsci: la parola “Egemonia”, nei Quaderni[8]
è nominata con plurime accezioni, ad esempio in riferimento alla combinazione
di forza e consenso nel regime parlamentare, alla distinzione tra direzione
intellettuale e morale nei rapporti tra “direzione” e “dominio”, alle relazioni
tra Nord e Sud nella storia italiana, al commento alla posizione di Lenin (dal
quale riprende il termine), alla crisi della classe dirigente e dello Stato
(spiegando l’insorgere del fascismo), al carattere del dominio straniero
sull’Italia, all’influenza del Partito Moderato sul Partito d’Azione nella
storia del risorgimento, alla funzione degli intellettuali, alla pedagogia
sociale e all’influenza culturale, allo sdoppiamento della coscienza teorica e
la lotta politica come lotta di egemonie, al superamento della formula della
“rivoluzione permanente” e alla lotta all’economicismo. Antonio Gramsci, ne le “Notarelle
sul Machiavelli”[9], individua una
semi-indipendenza dell’economico dall’emozionale e quindi dalla volontà,
internamente connessa all’azione. L’azione che consiste nella capacità di
suscitare una “volontà collettiva nazionale-popolare” e al contempo,
necessariamente (che, altrimenti, si tratta di mero adattarsi al flusso, ovvero
nei nostri termini di una “modernizzazione” subita e non selettiva, o di una “egemonia”
passiva) di “organizzare una riforma intellettuale e morale”. Quel che fa il “Partito”
gramsciano, ed in questo sembra leggere un’assonanza, è trasformare il senso comune[10]
di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al
momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e
necessariamente, muoverli all’azione collettiva.
Dentro un confronto esistenziale,
che non è solo economico e tanto meno solo militare, con l’Occidente collettivo,
ogni azione e politica istituzionale ed economica deve radicarsi, per non
venire assorbita, in quella che Gramsci chiamava una “riforma intellettuale e
morale”. Si tratta, secondo una formula famosa, di esercitare la “fantasia
concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e
organizzarne la volontà collettiva”[11].
Riprendendo elementi, che, come
vedremo, hanno una profonda assonanza nella tradizione cinese Gramsci continua
individuando una concezione dell’azione dello Stato come “educatore” e maieuta di un “nuovo
tipo o livello di civiltà”, ovvero di operatore non solo sulle forze
economiche, ma anche sulla “soprastruttura” (che non va abbandonata allo
sviluppo spontaneo, ma razionalizzata, accelerata e “taylorizzata”), definisce
il “politico in atto”, come un creatore,
un suscitatore che, tuttavia e ciò fa tutta la differenza, non si muove nel
vuoto dei suoi desideri (definito con una bella immagine “torbido”) o sogni, ma
“si fonda sulla realtà effettuale”, cioè su “un rapporto di forze in continuo
movimento e mutamento di equilibrio”[12].
Il politico applica la volontà alla creazione di nuovi equilibri delle forze, che tuttavia sono realmente esistenti e
operanti, e per farlo “si fonda su quella determinata forza che si ritiene progressiva,
e la potenzia per farla trionfare”. Ovvero si muove “sul piano della realtà
effettuale ma per dominarla e superarla”[13].
Qui nasce il tentativo, di natura
strategica e non tattica, di dirigere una “modernizzazione selettiva” e non
subire il passo ed i tempi e modi di quella “Occidentale”. In questo nulla di
nuovo, dal tempo di Deng la Cina cerca di governare la trasformazione, ma Xi
rappresenta un cambio di passo (non a caso percepito come autoritario secondo i
nostri canoni per i quali al mercato ‘si lascia fare’, in quanto espressione
della ‘provvidenza’, o della ‘storia’). La battaglia di Xi per il “Grande
ringiovanimento” della nazione cinese, e quello per la conquista del cuore
della modernità attraverso una “decolonizzazione dell’immaginario” e
l’orizzonte universalista della “Comunità umana dal futuro condiviso”, è
rivolta contemporaneamente:
-
all’interno, per sconfiggere le correnti “liberali” nel Partito e
nella società, oltre che per dare una prospettiva diversa della modernizzazione
che contrasti il ‘soft power’ Occidentale che passa attraverso le sue merci
glamour, le immagini e stili di vita connessi.
-
Ma anche all’esterno, per proporre una nuova logica post-coloniale
alle relazioni internazionali intorno a progetti strategico-epocali come i
Brics e le “vie della seta”.
Si tratta, in altre parole, da una parte di costruire una sorta di
barriera selettiva alla modernità occidentale nel quadro di una guerra “ibrida”
che segnerà il destino del secolo. Ma, dall’altra, anche di innestare nel corpo
del marxismo uno spirito ‘confuciano’ che per molti versi gli è profondamente
alieno. Interpretare lo spirito dialettico-materialista dell’hegelo-marxismo
con elementi relazionali ed armonici di matrice confuciana che sono
profondamente alieni alla logica del conflitto.
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| Città proibita, 2024 |
Universalismi a confronto. Dalla via della salvezza al Tianxia.
Ma vediamo quindi a cosa si oppone questo progetto: nella
tradizione Occidentale, che si è affermata non per caso durante l’epoca degli
imperialismi, dalla fine del XVIII secolo, mentre in India si espandeva il
traffico di droga (oppio) verso la Cina a partire dal Bengala inglese (e gli
enormi profitti defluivano in Europa[14]),
una compatta filosofia della storia trovò una sistemazione in Fichte e Hegel.
questa presumeva la direzione dell’umanità e quindi della sua storia verso
l’espansione della “libertà”, intrinsecamente connessa all’affermazione della
“ragione” e quindi del “progresso”[15].
Tutto andava giudicato a partire dalla posizione rispetto a questa direzione,
in termini quindi di “avanzamento” o “arretratezza”.
L’essenza di questo schema concettuale potente, e altamente utile
alla giustificazione dell’evidentemente necessaria violenza praticata nel
frattempo nel mondo coloniale, è una concezione del tempo derivata dalla
scienza newtoniana: cumulativo, lineare, orientato. Nel suo complesso è un’idea
per la quale solo l’Occidente è la casa della Ragione e tutti gli altri sono
‘barbari’ che possono divenire solo occidentali, se vogliono evolvere. L’idea,
in altre parole, che la storia universale è quel processo in cui alla fine
tutti sono europei (o, con Hegel, prussiani).
D’altra parte, bisogna riconoscere e tenere sempre presente, e ci
torneremo ancora al termine, che la dinamica di sviluppo della modernità
europea (scienza, tecnica, diritto, macchinismo e capitalismo) è espressione di
un’interna ambiguità: da una parte ha visto sé stessa come universale e in ciò
fatto violenza agli altri pensieri della generalità o dell’universale; al
contempo ha, nella dialettica agita da parte dei deboli e degli sconfitti verso
gli infiniti tradimenti dell’ideale proclamato, ispirato lotte di liberazione e
continua a farlo. Questa contraddizione interna, tra la liberazione e la
conquista, l’universale e la violenza, la critica ed il superamento, è contemporaneamente
sia potenziale politico sia evento storico. Sulla base di questo lascito
occorre quindi, con doppia mossa, evitare sia l’universalismo imperiale sia il
multiculturalismo astratto e identitario. Tenere insieme, in altre parole, la
memoria delle lotte, la consapevolezza delle contraddizioni, e l’apertura a un
mondo in cui ogni cultura è sempre già ibridata, e ogni verità è sempre cercata
da un punto di vista altro, o per meglio dire dove l’io e l’altro sono
rimando.
Per esplorare questo nodo sarà necessario, da una parte esplorare ancora
il particolare movimento dell’ispirazione universalista cinese, così intenzionalmente
e strategicamente diversa da quella occidentale, dall’altra ritornare sulla
relazione interna tra l’universalismo astratto occidentale e le tradizioni
critiche che pure ne promanano.
L’universalismo cinese
Il punto di vista orientale, e cinese in specie, è al contempo
meno ambizioso e più paziente. Un cinese ritiene tradizionalmente di essere già
al centro del mondo, ma anche che ogni parte di questo sia “sotto il cielo”.
Come sotto il medesimo cielo sono anche le altre tradizioni che non si lasciano
ridurre ad ombra della via Occidentale-cristiana, e ordinare sulla strada di un
maggiore o minore “avanzamento” verso l’unico e comune progresso. Progresso che
quindi coincide con la modernità e questa, infine, con il possesso della
tecnica.
La tradizione cinese vede le cose in modo del tutto diverso. Le civiltà
non sono “stadi”, parti di uno sviluppo unico rispetto al quale giudicarle, ma
forme co-esistenti di espressione del Dao, forme di espressione di una
“armonia senza conformità”. Lo stesso soggetto non è realmente autonomo,
ma immerso in una rete di interdipendenze e relazioni. La “verità” non è
uno stato, un modello, che può essere contemplato e rivelato, un essere cui
corrispondere, ma il processo nel quale emerge un’armonia da una situazione. Il
tempo non assomiglia ad un piano liscio, ad una macchina o
all’espressione di una formula matematizzabile, ma anch’esso un processo; un
processo che ha come modello la crescita di organismi. In conseguenza gli
eventi non vanno prodotti e forzati, esercitando forza e ragione, ma occorre
piuttosto un adattarsi (wu wei, non-azione secondo il flusso), il cui
scopo è la massimizzazione del potenziale (shi). Se pure la formula
citata appartiene alla tradizione daoista (o taoista), e altre scuole (come
quella confuciana, moista) hanno diverse accentuazioni, esprime una sorta di comune
per differenza dalla tradizione occidentale.
Uno dei concetti centrali da contemplare per provare a intuire
questo diverso universo è il concetto di tianxia (天下), ‘tutto
sotto il cielo’, che non è fondato su norme astratte e quindi
generali/universali, ma su una sorta di interdipendenza “io sono in te, tu sei
in me”, e quindi su un’armonia come coesistenza di diversità. Quindi l’universo
appartiene a tutti (tianxia wei gong) per un movimento di appartenenza
reciproca. Una radicale differenza rispetto all’ontologia occidentale dell’Uno
come fondamento, in favore della contemplazione di un molteplice in relazione. Un
molteplice che alcune scuole vedono sinteticamente come un Dao, 道, che è vivente ed in mutamento. Dao (o Tao) è termine
intraducibile[16] che ha avuto
significativo riverbero sullo stesso Occidente.
Ciò al quale invita questo pensiero è di superare la visione
egemonica della storia come conquista e uniformazione senza rinunciare per
questo alla verità o al progresso, ma ridefinendoli come processi plurali,
relazionali e situati. Articolando quella che non è una metafisica del dominio,
dell’Uno, piuttosto una sorta di cartografia dell’interdipendenza.
Secondo il detto confuciano ripreso da Sun Yat-sen:
「天下為公」
Quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti.
Anche in molti discorsi della leadership cinese contemporanea[17] vengono riprese queste antiche immagini
confuciane, come quella di he er bu tong (和而不同): armonia nella diversità[18], senza annullamento delle differenze.
Nel quale la differenza è piuttosto condizione dell’incontro, la ‘razionalità’
diventa per questo situazionale, e la ‘verità’ deriva da un equilibrio
dinamico, senza soggiacere ad una logica binaria. La vera universalità, perciò,
non si raggiunge imponendo una forma unica, sia essa la libertà individuale e
la democrazia liberale, ma attraverso la moltiplicazione delle forme, un po’
come in un’orchestra in cui strumenti diversi suonano insieme, senza fondersi. Anche
la ‘modernità’, in questa lettura, non è un destino comune, ma una possibilità
storica tra altre, che ogni civiltà può assumere secondo il proprio ritmo (shi
勢) e la propria forma di vita (li 禮 – i riti).
Dunque, volendo sintetizzare, secondo questa posizione si può dire
che:
-
La temporalità storica non va considerata una sola, allineata sulla freccia del
progresso o la strada della libertà, ma pluralità di tempi incarnati e
trasformazioni;
-
La soggettività storica non è né individuale né universale, ma piuttosto collettiva,
situata e relazionale;
-
L’universale non è dato (e da raggiungere secondo il movimento di conformarsi
ad un modello), ma costrutto nel dialogo tra diversi, quindi mondi, pratiche,
civiltà;
-
La razionalità non è astratta, ma è inscritta nel vivente;
-
L’armonia può essere un principio generativo della storia, alternativo alla
lotta per l’egemonia.
Non si tratta più di imporre un ordine al mondo, secondo un suo
telos[19], ma riconoscere
i molteplici ordini e aprire lo spazio per una co-esistenza creativa,
trasformativa e dinamica.
Nel pensiero confuciano ciò ha implicazioni non solo etiche e
politiche, ma anche cosmologiche. L’universo è concepito come una rete dinamica
di relazioni (tra cielo, terra e uomo), dove l’ordine (zhi) e il
disordine (luan) sono continuamente bilanciati da un processo di armonizzazione.
Non c’è quindi una “legge dell’essere” eterna o trascendente, come nella
tradizione ontologica greca, ma una via del mezzo (zhongyong) che
si rinnova continuamente nel tempo e nello spazio. In questo senso, il concetto
di he entra in tensione con la pur raffinata e complessa dialettica
hegeliana o con la logica binaria greco-occidentale (vero/falso, essere/nulla,
soggetto/oggetto), e propone invece una logica della co-differenza e
dell’inclusione. La diversità non è ostacolo da superare, ma la condizione
necessaria per l’armonia. La virtù del junzi (il “nobile”) non consiste infatti
nel dominare o assimilare, ma nell’ascoltare, bilanciare, accordare, come un
direttore d’orchestra che fa emergere l’armonia tra strumenti diversi, senza
fonderli in un suono uniforme. Nel Lunyu 13.24, Confucio afferma: 君子和而不同,小人同而不和。(“Il nobile è armonioso ma non identico; il meschino è identico
ma non armonioso”).
In altre parole, dove la tradizione post-illuminista europea - in
particolare quella idealista (Hegel, Marx) - ha posto il conflitto (di classi,
idee, forze produttive) al centro del processo storico (la verità come
processo, aufhebung e negazione determinata), il pensiero cinese ha
privilegiato la trasformazione graduale (hua 化), la risonanza (ganying) e l’integrazione dinamica dei
poli opposti.
Ci sono in effetti assonanze nel progressivo movimento della
coscienza verso il sapere di Hegel, e nel suo negare e conservare, oltre che nella
famosissima formula per la quale “il vero è l’intero”[20];
ed assonanze si leggevano anche in Gramsci, profondamente influenzato dal
pensiero idealista post-hegeliano, però l’impresa del nostro è comunque
inserita in una concezione della Verità come ottenimento e possesso, sia pure
attraverso un “sistema”[21].
Anche se, per Hegel, secondo una formula sintetica e potente, “la
proposizione deve esprimere cos’è il vero. Il vero, però, è essenzialmente
soggetto, e in quanto tale non è altro che il movimento dialettico, questo
cammino che produce sé stesso, si proietta in avanti e ritorna entro sé”[22]. Alla
fine si resta entro i termini di ‘possesso della verità’ propri della
‘filosofia del soggetto’ (razionale) occidentale.
Provando a soffermarsi, mentre per Hegel, concludendo una
tradizione che origina in Plotino[23],
la storia è la realizzazione dello Spirito attraverso la negazione, per
Confucio è il processo interminabile di coltivazione dell’umanità (ren)
nella costruzione relazionale ed armoniosa dell’ordine sociale.
La tradizione che ascende a Platone, nella filosofia occidentale
(se pure Platone non è strettamente e solo occidentale[24])
vede l’ente assoluto, possessore degli attributi di perfezione, bontà,
spiritualità, distinguersi dagli altri enti nel senso in cui l’unico e
necessario, eterno e vero, si distingue dal molteplice, contingente, quindi
apparente e passeggero. Da Hegel questa relazione (che è paradossalmente ancora
tra ‘cose’ e ‘cose’) viene, per così dire, fluidificata dialetticamente.
Invece, la tradizione della filosofia orientale (da Confucio a
Mozi, nel contesto pre-buddista) non conosce e concepisce nessuna frattura
ontologica tra trascendente e immanente. Quindi non vede l’Assoluto come ente
separato (al quale la Storia deve conformarsi, se pure in senso variamente
secolarizzato), perfetto ed immobile, rispetto al mondo dei fenomeni, delle
azioni e del molteplice. Nella filosofia cinese originale il riferimento
cosmico è il Tian (天), che volendo si può tradurre come “Cielo”, ma non è affatto una
“cosa” o un “ente”; piuttosto è un processo vitale, ordine morale e naturale
insieme. Una sorta di trascendenza immanente, una legge profonda, alla quale ci
si può connettere tramite l’introspezione e coltivazione del sé (diventando ‘il
saggio’, strada possibile a tutti). Vivere in modo morale, divenire ‘saggio’,
significa in sostanza risuonare con il cielo ed armonizzarsi al suo
ritmo; non ascendere, piuttosto accordarsi tramite l’etico, il
quotidiano, il rituale (li 禮). Questo in linea generale, naturalmente nelle diverse scuole ci
sono tante sfumature; ad esempio, il Maestro Mo (Mozi) vede, in polemica con
Confucio di poco più anziano, il ‘Tian’ come principio personale più attivo e
fondamento di un amore imparziale (jian ai 兼愛).
Provando una sintesi, nel pensiero cinese classico non si cerca di
superare il mondo per raggiungere il divino (come nella maggior parte della
tradizione Occidentale): il mondo è già sacro, se abitato correttamente.
L’alterità radicale dell’Essere non si impone, il Dao, il Tian, il Ren sono tutte
forme diverse con cui si nomina una medesima presenza silenziosa,
diffusa, attiva nella relazione, non un Essere assoluto distinto dai fenomeni.
-
Non ente tra enti, né oltre gli enti: ma trama del divenire,
vuoto fertile, ritmo.
-
Per questo, il divino non si contempla, si segue; non si
conquista, si incarna.
-
Il sapere non è conquista della verità, ma
trasformazione del sé in accordo con ciò che è.
In altre parole, laddove la tradizione post-illuminista europea —
in particolare quella idealista, da Hegel a Marx — ha collocato il conflitto
(di classi, idee, forze produttive) al centro del processo storico, concependo
la verità come movimento dialettico, negazione determinata e Aufhebung,
il pensiero cinese ha privilegiato invece la trasformazione graduale (hua
化), la risonanza (gǎnyìng 感應),
l’integrazione dinamica dei poli opposti. Scrive Zisi, nipote di Confucio: “la
verità è la via del cielo. Conseguire la verità è la via dell’uomo”[25].
Non si tratta, ovviamente, di negare la possibilità del conflitto,
ma di collocarlo in un orizzonte di mediazione e non di superamento violento (o
di annientamento). Questo permette di concepire un altro tipo di universalismo,
non gerarchico né centrato su un punto di vista unico, ma orizzontale,
pluralista e orientato alla convivenza.
Quello cinese è comunque un universalismo in un senso specifico. Nel
contesto delle diverse “culture”, quella indiana, islamica, il buen vivir
sudamericano, le tante civiltà africane o del pacifico orientale, si tratta di
decidere se le tradizioni incarnate, internamente plurali e dal margine
sfocato, vadano prese ciascuna come una “cosa” autosufficiente e meramente affiancate
l'una a l'altra, ovvero se lo spazio tra queste possa essere 'abitato' da una
idea, o da un’immagine, che, tuttavia, le rende in qualche modo ‘traducibili’.
Chiamo “universalismo” il tianxia perché mi pare faccia nell'essenza questa
mossa. Al contrario, il “multi-culturalismo” all'Occidentale lascia il compito
di tradurre al mercato, al denaro alla fine (un medium impersonale e non
linguistico), e vede quindi le “culture” come intimità.
Il particolare universalismo del Tianxia, dunque, poiché non
esclude il diverso ma lo integra gradualmente attraverso la coltivazione di
relazioni etiche e rituali, induce a concepire il centro (ovvero il Zohongguo,
“paese del centro”) autoattribuito alla Cina, ovviamente, come una funzione
di equilibrio e non come il principio del possesso e dell’uniformazione.
Funzione che non può essere imposta, pena l’autocontraddirsi, ma che, al
contempo, sussiste e non viene lasciata al “mercato”. Si raggiunge l’unità (e
quindi l’universalità) tramite una risonanza e non tramite un’uniformazione (se
pure “conservante/superante”)[26];
neppure attraverso una ragione incarnata nel ‘mercato’. Ovvero in “cattivo
infinito”[27]
che imprigiona le speranze dell’esistente, secondo una perversa teologia
implicita[28].
Continuando la nostra esplorazione[29],
secondo la grande scuola Daoista (o Taoista) la “virtù” (De) confuciana deve
piuttosto essere sostituita dal non-agire (wuwei). Mentre la dottrina
confuciana implica una critica politica, ed una spinta a cambiare il mondo (se
pure non dispone di una nozione di male assoluto, come le religioni
occidentali), il taoismo (come il buddismo) insegna il distacco dalla politica
e il ritiro dal mondo.
Come si può leggere nella Stanza 47[30] del Dao De
Jing[31],
(道德經), attribuita a Laozi:
1. Non serve varcare la porta di casa
2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
3. né dalla finestra scrutare
4. per comprendere il dao del Cielo.
5. Più esci e più t'allontani,
6. meno comprendi.
7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],
8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle
proprie mire.
Questa stanza esprime una concezione del sapere radicalmente
diversa da quella occidentale, ed opposta peraltro anche a quella confuciana o
moista[32],
entrambe più attive e soprattutto rivolte al sociale ed al politico. La
conoscenza non avviene attraverso l’esplorazione esterna, la conquista,
l’estensione del dominio (come nella scienza moderna o nell’episteme
coloniale), ma attraverso l’interiorità, l’intuizione, la consonanza con il Dao,
il distacco.
Il termine
zhi, che ricorre più volte in questo brano (conoscere, sapere, agire nel
mondo) indica un esperire integralmente, dislocando la vera conoscenza (che
passa anche per il linguaggio) attorno e non dentro il soggetto, perché nel
Laozi a questo, al soggetto, non è riconosciuto il privilegio di detenere un
sapere in senso esclusivo. Più che comprendere oggetti, secondo la tradizione
Occidentale, qui si tratta dell'insieme delle relazioni che rendono gli oggetti
tali, in un circolo che comprende il soggetto. Il Dao (il mondo nella sua
totalità di destini che interagiscono) è esperibile solo perdendosi ed
abbandonandosi. Il riferimento al “senza muoversi”, indica una forma di
comprensione che non dipende né da esperienze cognitive precedenti o da dati empirici;
una comprensione che deriva dall'essere connessi al Dao. Per questo il ‘Saggio’
si può estraniare dal governo del mondo secondo una caratteristica linea di
non-ingerenza, la quale, proprio per questa profonda immersione (ma originaria)
assicura la piena realizzazione delle predisposizioni delle cose stesse. Cose,
per così dire, lasciate a sé stesse. L'immobilismo produce
contemporaneamente il massimo di armonia. È così che il saggio può ‘nominare’
le cose (v. 8).
Si
tratta, peraltro, ancora una volta di un’idea che ha riverberi anche nella
recezione occidentale. In particolare, nella riflessione di Heidegger[33];
il quale ad esempio in “La questione della tecnica”[34],
nel 1953, distingue tra la techné come poiesis, che porta alla luce delle
relazioni, e la tecnologia come gestell che appresta in una sorta di telaio ed è
letta come conseguenza necessaria della metafisica occidentale[35].
Questa critica, pur nei suoi limiti, fu accolta da diversi pensatori orientali,
in particolare nella Scuola di Tokyo e nella critica taoista della razionalità
tecnica. In quest’ultima il gelassenheit (serenità, tranquillità, opposta alla
volontà di potenza[36])
heideggeriano viene riletto come wu wei (non-azione)[37].
La trascrizione reciproca di questo pensiero deriva, in entrambi i
paesi, dallo sconcerto per gli effetti destabilizzanti e distruttivi della
tecnica (in occidente guerra, industrializzazione di massa ed estensione degli
effetti anomici del consumo, in oriente le rapide trasformazioni industriali ed
il loro effetto sulla cultura tradizionale e popolare).
Questa idea ha profonde implicazioni:
-
L’universale non è fuori, ma dentro, o meglio: l’universale è
presente ovunque, ed è accessibile ovunque, perché ogni cosa è parte della
totalità.
-
La conoscenza non è accumulazione di dati (episteme), ma riconoscimento
di un’armonia pre-esistente. In questo senso, è simile alla aletheia
greca (disvelamento), ma priva della tensione tragica dell’Occidente.
-
Il movimento verso l’esterno (conquista, viaggio, missione
civilizzatrice), tipico della storia occidentale, è qui visto come distorsione,
allontanamento dalla comprensione vera.
Dunque, non c’è bisogno di dominare il mondo per comprenderlo,
bisogna piuttosto risuonare con esso, e per questo esercitare la “virtù”.
[1] - Edward Said, Orientalismo,
Feltrinelli 1999 (ed.or. 1978).
[2] - Giacomo Gabellini, “Il
matrimonio di interessi tra Stati Uniti Cina è saltato”, Krisis, 16 aprile
2025;
[3] - Giacomo Gabellini, “Gli
Stati Uniti al contrattacco: riscrivere la globalizzazione per contenere la
Cina”, Krisis, 23 aprile 2025.
[4] - Giacomo Gabellini, “Sistema
contro sistema: la controffensiva silenziosa della Cina”, Krisis, 30 aprile
2025.
[5] - Accordo di libero scambio, firmato ad Hanoi
il 15 novembre 2020 ed entrato in vigore dal 1 gennaio 2022, che include i
dieci paesi dell’ASEAN e Cina, Giappone e Corea del Sud, Australia, Nuova
Zelanda.
[6] - La condizione nella quale «un contendente
dispone della capacità di intensificare un conflitto in modi che risultano
particolarmente svantaggiosi o costosi per l’avversario».
[7] - Joseph S. Nye, “Soft Power”, Einaudi,
2005 (ed. or. 2004).
[8] - Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere [1948], Einaudi, Torino 1975 (scritti tra il
1929 e il 1935).
[9] - Antonio Gramsci, “Notarelle sul Machiavelli”,
in op.cit.
[10] - Il Partito, questo è essenziale, non
assorbe il senso comune, senza
sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo,
sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia
parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti
esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori,
scale di priorità, metri di giudizio).
[11] - Antonio Gramsci, op. cit., vol. Xiii, p. 1556.
[12] - Ivi, p. 1578.
[13] - Come fece Machiavelli, si tratta di
“mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere
efficienti”. Chiaramente per riuscire in questo difficile compito bisogna
“impostare esattamente e risolvere” il problema dei rapporti tra struttura e
soprastrutture, attraverso una “giusta analisi delle forze che operano nella
storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto”. Per questo
occorre distinguere tra i “movimenti organici” e quelli di congiuntura, di
minore portata storica. Occorre anche evitare di immaginare che le crisi
storiche fondamentali, nelle quali possono darsi diversi rapporti di forza e
possono determinarsi opposizioni “politico-militari” efficaci, siano
direttamente definite da crisi economiche. Per Gramsci è evidente che non è
così, esse possono certo creare condizioni più favorevoli per la diffusione di
un certo modo di pensare, o per impostare delle questioni; tuttavia, la cosa
dipende sempre dall’insieme dei rapporti sociali di forza.
[14] - Si veda il bellissimo Amitav Ghosh, Fumo
e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio,
Einaudi 2025 (ed. or. 2023).
[15] - Un movimento, della Storia, il cui soggetto
è l’individuo razionale e quindi libero in Kant o lo Spirito Assoluto in Hegel.
Spirito che poi Marx trasfigurerà nel “Capitale” e nella “classe universale”
del proletariato.
[16] - Come scrive Chow yin-Ching in La
filosofia cinese, (Ghibli 2015) il Tao (o Dao, secondo il sistema di
trascrizione) è un principio immanente che non agisce dall’esterno, anima e
trasforma gli esseri senza sforzo o scosse. Granet, in Il pensiero cinese
(Adelphi 1971) fa notare che sia concepibile più come forza che come essere, la
ricerca di una forza latente nei mutamenti delle cose.
[17] - Xi Jimping, “Gli scambi ed il mutuo
apprendimento rendono le civiltà più ricche e variopinte”, discorso al quartier
generale dell’Unesco, 27 marzo 2014, in Xi Jimping, Governare la Cina,
Giunti Editore 2016.
[18] - Dialoghi di Confucio, “Zilu”. Si
veda anche Lunyu 13,24, “he er bu tong”, dove “he” indica la
corrispondenza tra i suoni, nella quale ognuno esprime pienamente la propria
potenzialità articolandosi in perfetta sintonia con gli altri, questa parola
implica consenso (gongshi) che tiene tutti in gioco. Esclusione e
conflitto sono l’opposto del concetto di ‘armonia’ (una traduzione possibile di
“he”) che implica l’impegno di mediazione tra tutte le parti in gioco allo
scopo di realizzare una società che incontri il massimo consenso di tutti,
dando ascolto anche ad istanze diverse e contraddittorie, senza indulgere né
nell’autoritarismo di sceglierne una né nel libertarismo di lasciarle senza
armonia. La tensione tra ordine (zhi) e disordine (luan), sia a livello sociale
sia individuale e spirituale, è alla radice del perseguimento dell’armonia
nella ricerca costante del miglior punto di equilibrio tra le forze in gioco.
[19]
- Per una messa in discussione delle premesse antropologiche dell’uomo liberale
si può guardare, tra i tantissimi, il testo classico di Michael Sandel “Il
liberalismo
e i limiti della giustizia”,
Feltrinelli (ed. or. 1982). Nella tradizione contrattualista liberale (Kant),
la legge morale deve essere fondata sull’essere fine in sé. Ovvero non
nell’essere ancorata a qualche fine o scopo buono per qualcuno di specifico.
Solo così diventa possibile una società nella quale “le esigenze di ciascuno
siano in armonia con i fini di tutti”. Si tratta di trovare una base
antecedente a tutti i fini concreti e particolari. Proprio perché scaturisce da
un soggetto che è capace di volontà autonoma, o, come scrive Sandel, un
“soggetto che precede i suoi fini”. L’unico modo di essere libero è quello di
essere antecedente e indipendente dall’esperienza (sempre particolare). Per
Sandel questa concezione in primo luogo è impossibile, ogni volta che si
individuano dei diritti e dei valori, come universali, si è inevitabilmente
soggetti ad un autoinganno, si tratta infatti sempre di alcuni valori di
qualcuno. La relazione storicamente fondata del liberalismo con
l’egemonia della forma di vita borghese occidentale, e con l’immediatamente
presente colonialismo (con conseguente accumulazione originaria e creazione
delle condizioni di esistenza ed affermazione del capitalismo), poi tradotto in
imperialismo, e sempre in sciovinistica affermazione della presunta superiorità
della forma di vita occidentale sulle altre, è parte e movente di questa
illusione. D’altra parte, il liberalismo in sostanza non capisce la natura
“sociale” dell’uomo. E quindi attribuisce una priorità all’individuo, e quindi
ai valori individualisti, che necessariamente determina la neutralizzazione
dei più importanti valori di altruismo e benevolenza propri della natura
sociale dell’uomo. L’uomo non è, come voleva Hume, un mero e semplice “fascio
di percezioni”. D’altra parte, la mossa economizzatrice e parsimoniosa del
liberalesimo si fonda sempre sulla ipotesi antropologica (di derivazione
Hobbesiana) che gli uomini siano portati verso l’egoismo, che si tiene a freno
con l’interesse economico e la conseguente cooperazione di mercato.
un’antropologia filosofica che presume una pluralità ed individualità
delle persone e per questo necessita di postulare l’Io come “soggetto di
possesso” e capace del più radicale “disinteresse reciproco” (p.68). Un soggetto
di possesso, individuato antecedentemente e che si trova anche sempre ad
una certa distanza dai suoi interessi. Un individuo per il quale “nessun
impegno dovrebbe coinvolgermi così profondamente da non potermi riconoscere
senza di esso”. Ciò significa che la teoria liberale deontologica non ammette
tutti i fini, ma esclude anzi in anticipo qualsiasi fine “la cui adozione o il
cui perseguimento possa impegnare o trasformare l’identità dell’io, e respinge
in particolare la possibilità che il bene della comunità possa consistere in una
dimensione costitutiva di questo genere”. Ciò nega in radice la stessa
possibilità di una comunità sociale che sia sopra l’individuo, postulando, per
Sandel, un’esistenza separata di ciascuno.
[20] - “Il vero è il tutto. Il tutto, però, è solo
l’essenza che si compie mediante il proprio sviluppo”, George Wilhelm Friedrich
Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi 1995, p.69
[21] - Nella Prefazione alla Fenomenologia
della Spirito, Hegel scrive che “la vera figura nella quale la verità
esiste può essere soltanto il pensiero scientifico”.
[22] - Hegel, Fenomenologia, cit., p. 131.
[23] - Nel cosmo di Plotino, un intellettuale
egiziano alessandrino vissuto in epoca imperiale e turbolenta, le energie
vitali spirituali, reciprocamente contrapposte, partono dall’Uno e si riversano
sulle ipostasi dello spirito, dell’anima e della natura, dalle quali poi,
invertendosi, rifluiscono. Il movimento del mondo ha natura processuale (una
energeia ed una dynamis). Cfr. Jurgen Habermas, Una storia della filosofia,
Vol II, Feltrinelli 2024 (ed. or. 2019), p. 73.
[24] - Nel senso di essere il ricettore di
influssi e tradizioni di pensiero anche medio-orientali, che gli giungono per
via dell’influenza della grande tradizione egiziana, a sua volta intrecciata da
millenni con le tradizioni assira e babilonese, poi persiana. Si veda, ad
esempio, Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà
classica, Il Saggiatore 2011 (ed. or. 1987).
[25] - Cit. in Jurgen Habermas, Una storia
della filosofía, Vol I, Feltrinelli 2022 (ed.or. 2019), p. 360.
[26] - Si veda anche l’importante filosofo cinese
Zhao Tingyang (赵汀阳),
professore all’Accademia cinese delle scienze sociali, celebre per il libro Il
sistema Tianxia, del 2005 (The Tianxia System: An Introduction to the
Philosophy of a World Institution, Polity, 2021), ed il suo concetto di “governare
il mondo come una famiglia” (治天下如一家).
Concetto che prevede una nuova architettura globale, anche se centrata sulla
tradizione cinese come “luogo di maggiore responsabilità” per la tenuta del
mondo (in una espressa critica sia dell’ordine westfaliano, sia della egemonia
occidentale).
[27]
- Come noto termine della critica di Hegel a Kant, che identifica un continuo
spingersi avanti senza mai determinarsi. Ovvero, senza risolversi nel finito,
nella vita concreta.
[28]
- Si veda, Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi 2022, p. 128 e
seg.
[29] - Il periodo classico è detto anche delle
“Centro scuole”, nel quale, secondo la più antica lista di libri del periodo
Han (25-220 d.c.) vede nove scuole principali, tra le quali: confucianesimo,
taoismo, mohisti, legisti, logici e dialettici.
[30]
- Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, Einaudi, Torino,
2018, p. 127 e seg.
[31] - “Il classico della Via e della Virtù”,
è un testo poetico e politico ad un tempo, che viene normalmente letto come
critica al potere autoritario, all’interventismo nelle cose del mondo.
Predilige il lasciar fare, il valorizzare la debolezza come forza, in echi che
alla luce della tradizione Occidentale si direbbero simili ad un Tolstoj, ad
elementi anarchici e per certi versi stoici. Si tratta dell’altra grande
corrente del pensiero cinese, quasi coeva a quella di Confucio ed a esse
opposta.
[32] - Una terza grande scuola politico-filosofica
cinese classica è quella del Maestro Mo (Mozi) che enfatizza per la prima volta
il rifiuto della tradizione in favore della discussione razionale (bian),
la quale, tuttavia, non ha lavorano sull’ordine epistemologico, quanto sul
piano pratico e comportamentale. Cfr, Anne Cheng, Storia del pensiero cinese,
vol I, Einaudi 2010, p.84.
[33] - E poi, anche tramite questi il pensiero
post-moderno di Derrida, Deleuze e Foucault, ma anche, ed ovviamente la cultura
della non-violenza in molte sue declinazioni.
[34] - Martin Heidegger, Saggi e discorsi,
Mursia 1991, “La questione delle tecnica”.
[35] - Per Heidegger l’essenza della
tecnologia moderna non è a sua volta tecnologica, ma filosofica, nel senso che
consiste nell’imporre una trasformazione della relazione tra uomo e mondo per
la quale ogni essere è ricondotto ad essere ‘fondo’ o ‘riserva’, ovvero è
ridotto ad oggetto che può essere misurato, calcolato e sfruttato. Questa linea
di riflessione, che può essere compresa come riferita alla tecnica nella
modernità (in quanto la tecnologia è antica come l’uomo, ma questi ha vissuto
per quasi tutto il suo tempo in un mondo ‘incantato’ al quale sarebbe temerario
proiettare le nostre categorie e comprensioni) è stata pensata come propria
dell’Occidente. Conseguenza necessaria della metafisica occidentale.
[36] - Martin Heidegger, L’abbandono, Il
melangolo, Genova, 1983
[37] - Yuk Hui, Cosmotecnica. La questione
della tecnologia in Cina, Nero 2021



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