Quello che segue è la versione unitaria dell'articolo sugli universalismi occidentale e cinese uscito in tre parti.
Scopo del testo e articolazione
In questo testo viene proposta una riflessione
che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo,
riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in
“Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere
politico e ricostruttivo di queste due etichette, affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le
diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e
culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati
prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale.
Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in
corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.
La tesi principale si può riassumere
sommariamente nel seguente modo: l’Occidente ha sviluppato, intorno alla
tradizione cristiana e in particolare negli ultimi secoli un universalismo
verticale, lineare, escatologico e disponibile ad un uso imperialista (se pure
contenente semi della sua stessa critica); la Cina, viceversa, propone, anche
in chiave strategica e nel contesto del conflitto in corso, un universalismo
orizzontale, imperniato sull’immagine-forza di Tianxia (天下), dell’armonia nella diversità e nel rifiuto
dell’egemonia imposta.
Il rischio, con questa opposizione ancora una
volta binaria, è di reificare le due proposte, considerandole omogenee,
complete e autosufficienti, parte di due “civiltà” che bastano a sé stesse e si
proiettano sul mondo. Anche quando si ammettano più proposte (il ‘buen vivir’
sudamericano, l’islamismo, l’africanismo, il mondo ortodosso russo, e via
dicendo) la reificazione di ognuna di queste proposte porterebbe in nuove
versioni della proposta multiculturalista relativista, reciprocamente chiusa,
che vince oggi; una sorta di multiculturalismo ‘da vetrina’, o ‘da
supermercato’. Oppure nella sostituzione/scontro di opposti universalismi
imperiali.
Per evitarlo bisogna riconoscere che ogni
tradizione ha piena legittimità di esistere e deve essere rispettata; tuttavia,
al contempo, è da sempre internamente plurale e deve essere pensata come
aperta. Al contempo è plurale e attraversata dai conflitti.
Procederemo in questo modo:
Leggeremo nella battaglia di Xi per il “Grande
ringiovanimento” della nazione cinese lo sforzo di promuovere nel paese una
“modernizzazione selettiva”, nel contesto di un crescente confronto ideologico,
culturale, economico e di potenza con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli
Stati Uniti d’America. Scontro che prende la forma di “guerra ibrida” senza
risparmio, che ha come posta la forma che il mondo prenderà in questo secolo.
Si tratta di agire per la conquista del cuore
della modernità operando una “decolonizzazione dell’immaginario” che lavori entro
quel particolare orizzonte universalista con modalità cinesi rappresentato
dalla formula della “Comunità umana dal futuro condiviso”. Dunque, verso
l’esterno, per proporre una nuova logica post-coloniale alle relazioni
internazionali intorno a progetti strategico-epocali come i Brics e le “vie
della seta”. D’altra parte, verso l’interno, per sconfiggere le correnti
“liberali” nel Partito e nella società, e, a tal fine, dare una prospettiva
diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’ Occidentale. Un
potere che passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e gli stili di
vita connessi. Si potrebbe dire, in base ad una illustre tradizione ermeneutica
occidentale[1], che passa attraverso la
‘tecnica’. Senza entrare in questo complesso tema, che richiederebbe ben altri
approfondimenti, sono qui necessarie alcune glosse: la tecnica non è
un’impresa occidentale, la quale arriva quindi dall’esterno alla società e
cultura cinese, e non lo è neppure la forma di produzione industriale (che è
stata potenziata dentro un ecosistema di enorme potenza in occidente a partire
dall’Ottocento, ma aveva antesignani nel mondo orientale e arabo, e nel
Rinascimento si è sviluppata da Sud a Nord[2]);
non è neppure specificamente connessa con il capitalismo, perché se lo
fosse se ne dovrebbe concludere che questo è ubicuo e coincidente con la storia
dell’umanità, la parola perderebbe senso; ne consegue che il solo fatto di
usare delle tecniche, e ormai si dovrebbe dire essersi portati al confine della
maggior parte delle tecniche, non rende di per sé il paese occidentale e
capitalista; né le tecniche sono necessariamente incompatibili con le diverse
forme dell’umano, rappresentando unica fuga il vernacolo o l’arte o la depense[3].
Un interessante tentativo, che esula per la complessità dei temi a questo breve
testo, è compiuto da Yuk Hui[4]
ed il suo orientamento verso il superamento della tecno-logia universale (che,
in effetti, è mera proiezione razzistica dell’Occidente) in diverse
‘cosmotecniche’, che riapproprino le categorie metafisiche proprie di ogni
cultura (come vedremo non schermata ed esclusiva) adottando in essa la
tecnologia e le sue forme.
Tornando
a Xi, in altre parole, la posta in gioco del “Grande ringiovanimento” è di
costruire una sorta di barriera selettiva alla modernità occidentale nel
quadro di una guerra “ibrida” che segnerà il destino del secolo.
Ma si tratta anche di innestare nel corpo del marxismo di matrice occidentale uno
spirito ‘confuciano’ che per molti versi gli è profondamente alieno. Interpretare, quindi, lo spirito dialettico-materialista
dell’hegelo-marxismo con elementi relazionali ed armonici che sono
profondamente alieni alla logica del conflitto.
Quindi metteremo a confronto un abbozzo della
logica dell’universalismo ‘verticale’, quindi anche gerarchica, lineare
e conflittuale, dell’Occidentale, su cui torneremo più specificamente in questa
Terza Parte, e la logica ‘orizzontale’ e relazionale della Tianxia che
contraddistingue l’universalismo sui generis cinese. In effetti nella lingua
italiana si dovrebbe piuttosto parlare di cosmo, o di spazio della
compresenza nella differenza. L’universalità riconduce necessariamente la
molteplicità al dominio dell’Uno: sia nella forma cristiana della “via di
salvezza” per l’intera umanità, alla quale ogni soggettività è chiamata a
conformarsi, sia nella sua secolarizzazione moderna, incarnata nella “ricetta”
liberale e progressiva del mondo unico del mercato (o dell’impero delle merci).
L’orizzonte del tianxia riconosce la legittimità
di una pluralità non riducibile di tempi incarnati e trasformazioni,
soggettività relazionali, dialogo tra mondi, pratiche e civiltà, forme di
verità inscritte nei viventi concreti e spinta all’armonia. Non si tratta,
quindi, di imporre (o riconoscere) un telos al mondo, quanto far risuonare tra
di loro i molteplici ordini fattualmente esistenti e aprire lo spazio per la
loro co-esistenza creativa. Al posto dell’aufhebung (che nega, conserva
e supera) mette la hua (trasformazione graduale) e il ganying
(risonanza). L’universo comanda dall’alto; il cosmo risuona dall’interno. Se
vogliamo provare ad esplorare i limiti del linguaggio si potrebbe confrontare,
non già opporre, ad un universalismo dell’Uno, occidentale, un cosmocentrismo
della relazione e risonanza, orientale. Due ordini diversi della normatività e
della gerarchia, modi diversi di pensare l’unità nella molteplicità.
Alla fine approfondiremo il confronto tra
le concezioni di storia e universalismo proprie dell’Occidente moderno e quelle
emergenti da altre tradizioni, tenendo al centro quella cinese ed accennando
solo, nell’economia di questo testo, ad altre che occorrerà riprendere altrove.
L’universalismo occidentale, forgiato nella sua
forma classica nel crogiolo dell’idealismo tedesco e del marxismo (ma anche del
liberalesimo anglosassone), si fonda su una filosofia della storia chiaramente
escatologica. Il movimento della libertà, e della ragione, si dispiega in modo
necessario, cumulativo, ed orientato verso un telos finale. Questa concezione,
se da un lato, quando è stata presa sul serio ha alimentato lotte emancipative
fornendo un punto di vista ideale, dall’altro, e principalmente, ha giustificato
pratiche imperialiste e colonizzatrici, proiettando l'Occidente come unico
soggetto legittimo della Storia universale. Si è trattato, comunque, di uno
strumento per il potere (o il contropotere).
Questa tensione interna tra emancipazione e
dominio è una contraddizione reale, ma contiene anche il rischio di saturare
ogni alternativa. Ovvero di naturalizzare l’universalismo occidentale come
unica forma possibile, impedendo il riconoscimento di altre genealogie storiche
e culturali. O, in altre parole, di altre “logiche della liberazione”. Oppure,
in altri termini, di altre “cosmotecniche” o “cosmologie”.
È quindi necessario, e lo faremo in questa Parte,
esplorare la possibilità di concepire una cosmologia plurale:
-
non imposta come modello unico,
-
non frammentata in relativismi statici e
reciprocamente rivendicativi o schermati,
-
ma emergente dal dialogo tra mondi, tempi e
soggettività storiche diverse.
In quest’ottica, il pensiero cinese del Tianxia,
insieme ad altre tradizioni del Sud globale (andina, africana, islamica),
suggerisce modelli di coesistenza e trasformazione che superano la dialettica
egemonica della Aufhebung occidentale, senza negare la possibilità stessa di un
comune orizzonte di liberazione. La sfida, dunque, non è ripudiare
l’universalismo come tale, ma reinventarlo come apertura relazionale, come
tensione incompiuta tra differenze, come memoria viva delle lotte e dei mondi
negati. Come scoperta ed invenzione.
Parte Prima
Premessa, il contesto del confronto
Cina-Occidente.
La questione del nostro tempo è la concorrenza
oggettiva tra il sistema politico-economico cinese e quello Occidentale. Si
tratta di una concorrenza oggettiva, ma non necessariamente agita da
entrambe le parti al medesimo modo[5].
Il motivo principale è che nella mentalità cinese non è presente quella
premessa escatologica e messianica, derivata dalla tradizione
giudaico-cristiana, per la quale esiste una sola via alla ‘salvezza’ collocata
in avanti nel tempo. Ciò anche se non mancano, da sempre, contaminazioni tra le
due tradizioni culturali[6].
Influenze trasportate sulle gambe e nelle stive dei mercanti, le lance degli
eserciti e la fatica dei traduttori, e da sempre esistono diversi livelli di
esposizione al set di valori e posizioni ideologiche promosse dall’occidente
collettivo. Anche se in entrambe le storie culturali, e nella evoluzione
materiale, sono rintracciabili molti momenti di avvicinamento ed
allontanamento, la diversa prospettiva è stata cristallizzata dall’idealismo
nel corso del XIX secolo; per esso, con una formula sintetica, la Storia ha una
sua direzione nella via della salvezza, e questa è incarnata in ultima analisi
dall’Occidente.
A questa prospettiva si oppone, dopo il “Secolo
dell’umiliazione”[7],
la ripresa cinese di fiducia ed attenzione alle proprie tradizioni culturali e
specifiche aperture al mondo. Attenzione immediatamente rivendicata da Mao, attenuata
dopo la svolta di Deng, e particolarmente enfatizzata dal mandato di Xi
Jimping, Presidente dal 2013. Una ripresa che si accompagna alla riaffermazione
del proprio ruolo nel mondo da parte del colosso cinese.
La tesi di Xi del “Grande ringiovanimento” (中华民族伟大复兴)
è interamente rivolta a superare l’epoca che prese avvio con
l’imposizione da parte degli inglesi del traffico di droga, in cambio del tè, e
le guerre conseguenti, ma proseguì in un contesto complesso con lo sforzo
“riformista” di importare la cultura occidentale (secondo il doppio modello in
competizione della democrazia “wilsoniana” o del marxismo “sovietico”[8]).
La ripresa, secondo la lettura cinese, avvenne quindi al termine di un cinquantennio
di grande confusione, negli anni di indebolimento e caduta della dinastia Qing.
Anni nei quali si determinò una progressiva radicalizzazione, accelerata a
partire dalla repressione giapponese di Shanghai del 1925. Si formarono in
questo periodo i due attori-chiave della successiva storia cinese: il Partito
Comunista e la versione finale del Partito Nazionalista. Dopo una breve fase di
alleanza nel 1927 i nazionalisti del Guomindang, guidati da Chiang Kai-Shek,
attaccarono infatti i comunisti a Shanghai e in tutta la Cina. Seguì la guerra civile che vide al termine la
vittoria del PCC del 1949. A quel punto si pose il problema di ricostruire un’identità
nazionale coesa, in grado di proiettare un modello culturale alternativo a
quello Occidentale.
Nel modello che si affermò e che viene sempre più
consolidato, al centro c’è il recupero della tradizione confuciana, l’armonia
sociale, il dovere collettivo e l’ordine morale; il governo benevolo (renzheng)
trasfigurato nel Partito, ed un marxismo sinesizzato[9] (马克思主义中国化) che, assumendo una prospettiva non eurocentrica
del marxismo, recupera elementi maoisti[10].
Come ha detto Xi in un discorso del 2014[11],
“solo senza dimenticare la storia potremo inaugurare un nuovo futuro, solo
imparando dall’eredità del passato impareremo ad innovare”. Quel che viene
proposto è, quindi, una sorta di “decolonizzazione dell’immaginario”, promossa
dall’alto, che si inserisce per certi versi nella vasta tradizione di pensiero
post-coloniale che si oppone all’occidentalizzazione del mondo (ed i cui autori
sono Franz Fanon[12], Aimé Césaire[13],
Edward Said[14], Dipesh Chakrabarty[15],
Josè Carlos Mariátegui[16],
Boaventura de Sousa Santos[17],
senza dimenticare il pensiero africano del Codesria di Dakar, Samir Amin[18]
o il suo, per certi versi oppositore, Achille Mbembe[19]).
Nel suo complesso è una costellazione di pensiero che rifiuta la cultura
coloniale europea, ed il suprematismo che la contraddistingue, afferma la
dignità culturale dei popoli, rivendica modi diversi di essere moderni e di
accedere alla verità.
Il potenziale punto debole di queste
impostazioni, pienamente comprensibili nel contesto di uno sforzo di rispondere
ad un’egemonia tanto più invasiva quanto più si presenta come natura (e si
traveste in semplice modernità), è che presumono l’oggetto. Ovvero, lo
reificano, immaginano una purezza monolitica che non si è mai data e per certo
non esiste oggi[20]. Ancora, che rivendicando
una “identità” propria, sia essa africana, indiana, amerinda (o cinese), rischiano
di prediligere la logica del frammento, autoreferenziale, e quindi del
multi-culturalismo che allinea i propri prodotti come merci sullo scaffale
dell’eterno presente. Ovvero, che rischia di dimenticare che l’essenza dell’Uno
è sempre l’Altro che è in lui.
Il rischio è ben espresso da un critico della
posizione essenzialista, come Amselle:
“tutta
la storia passata fatta di contatti fra le diverse culture e civiltà viene in
tal modo negata, per riaffermare la definizione di specificità culturali
irriducibili. Se in passato ogni cultura, ogni civiltà poteva e doveva essere
considerata come esito di una complessa serie di scambi, contatti, prestiti con
altre culture a essa più o meno vicine, adesso la regola consiste nel
riaffermare identità pure e inalterabili. Così di fronte ad esse e contro la
civiltà occidentale cristiana si schierano tutte le altre – anche quando non
stiano affatto combattendo per rivendicare le proprie differenze radicali. Con
una sorta di rovesciamento dello stigma queste civiltà extraeuropee, dopo aver
rifiutato la civiltà occidentale, si impegnano in una battaglia senza quartiere
nel tentativo di rivendicare a loro volta la propria esclusione – stavolta però
in senso positivo e di riaffermazione”[21].
La questione si può riassumere così: la volontà
di fuggire da una forma di universalismo apparentemente astratto, in realtà
coloniale, quale quella praticata dall’Occidente suprematista, non deve esitare
in forme di nazionalismo identitario e particolarismo culturale. Cioè nella
guerra tra culture reificate (gioco nel quale buona parte dell’Occidente sembra
da qualche decennio impegnato[22]).
Chiaramente Xi è ben cosciente di questa china,
nel momento in cui rivendica l’orizzonte della “Comunità umana dal futuro
condiviso”.
Come ricorda:
“Bisogna
promuovere uno scambio armonioso tra civiltà, nel rispetto delle diversità, che
non escluda nessuno. La varietà delle culture dona colore e bellezza a questo
mondo: dalla diversità fioriscono gli scambi, incubatori di integrazione, la
sola che possa generare progresso. L’interazione tra diverse culture necessita
l’apertura all’armonia nella diversità. Questo mondo potrà essere variegato e
fiorente solo se si rispetta reciprocamente nella diversità, si apprende gli
uni dagli altri e si coesiste in armonia.
Civiltà
diverse condensano la saggezza e il contributo di popoli diversi, senza
distinzioni di alto e basso, tra forte e debole. Le culture devono dialogare
tra di loro, non escludersi l’un l’altra, devono interagire e non soppiantarsi.
La storia dell’umanità è un enorme quadro di interazioni, crescita reciproca e
integrazione tra culture diverse; queste devono essere tutte ugualmente
rispettate, nessuno deve essere escluso dal processo di reciproco
apprendimento, perché la civiltà umana possa realizzare uno sviluppo creativo”[23].
Rileggere le “tradizioni”, dunque, non va
interpretato come una reificazione delle identità, in quanto esse non sono mai
statiche, sono attraversate da tensioni e incoerenze, sono reciprocamente
aperte (nella formazione del pensiero illuminista europeo sono visibili
esperienze extraeuropee come quella di Haiti e forse persino influenze del
pensiero nativo americano, come sostiene Graeber[24],
ma certamente del pensiero orientale e arabo, con la ricezione del taoismo
nello stesso romanticismo tedesco). Procedere alla ‘decolonizzazione
dell’immaginario’, nel contesto di un progetto di rivendicazione della propria
autonomia strategica e di un mondo finalmente multipolare e post-coloniale, non
deve comportare, in altre parole, la ricerca di un’impossibile purezza
originaria, ma l’apertura reciproca e il rispetto. Le stesse tradizioni sono,
in un certo senso, degli spazi nei quali trovano senso negoziati e strutture.
Dove l’autonomia non deve essere interpretata come chiusura ma relazione e
convivialità[25].
Ora, questo discorso, elaborato espressamente da
Xi e dalla leadership che a lui si collega, va compreso in tensione strutturale
rispetto almeno a due polarità (o minacce):
-
il conflitto con le correnti “liberali” nel PCC,
particolarmente accesa fino a pochi anni fa;
-
le tensioni che promanano dall’apertura al
mercato della stessa Cina. Una visita alle principali città, che ho fatto,
mostra una pronunciata “occidentalizzazione” degli immaginari, a partire dalle
pubblicità, dai negozi, dalle merci e soprattutto da quelle identitarie.
La prima minaccia, che passa anche come lotta al
“nichilismo”, è l’arena di una battaglia decisiva contro le correnti legate al
mondo accademico ed economico connesso all’Occidente e potenzialmente
utilizzabili per una “rivoluzione colorata”. La seconda esprime tratti di lotta
di classe, nel momento in cui manifesta una tensione tra parti diverse del
paese, grandi città e nuova borghesia in crescita (che si appresta a diventare
maggioranza).
Dunque questa ripresa della tradizione principale
(in realtà una commistione di confucianesimo e taoismo, invalsa nella Cina
Han), intrecciata non senza tensioni con il marxismo a sua volta “sinizzato”,
ha una espressa funzione di progetto politico. È un nodo di grande complessità
e prospettiva; viene rivendicata la radice confuciano-marxista ed confrontata
con un sistema economico e del consumo in rapida crescita, che, nel contesto
della trasmissione culturale e materiale moderna, spinge per modelli di economia
di mercato capitalisti e individualisti (in termini di lifestyle, mode, consumi
distintivi). La soluzione politica di Xi è di fare barriera selettiva alla
modernità occidentale, tentando di assorbire/ridefinire l’universalismo
secondo codici cinesi. Valorizzando la continuità storica, anche in chiave di
nazionalismo rivendicativo e patriottismo, e contestando vigorosamente la
pretesa infondata di essere modello normativo dell’Occidente collettivo. In
questa seconda direzione strategica, che peraltro riprende toni originari della
rivoluzione cinese, la leadership cerca di riattivare l’esperienza
anti-coloniale degli anni Cinquanta e Sessanta e di costruire (intorno ai
Brics) nuove alleanze.
In sostanza, il tentativo è di governare sul
piano strategico la modernizzazione del paese, ormai alla frontiera su
molti livelli, senza con ciò dissolvere l’identità collettiva o cadere
in una subordinazione epistemica con l’Occidente. In una formula sintetica Zhang
Weiwei individua così il punto in questione: la Cina può diventare moderna
senza diventare occidentale valorizzando la propria “civilizzazione statuale”
millenaria e le proprie categorie di ordine e coesione. In questa ottica, la
“cultura tradizionale” (confucianesimo incluso) viene ricodificata come
infrastruttura spirituale del socialismo con caratteristiche cinesi. Si tratta
di un’operazione di grande momento ed enorme complessità. La definizione della
tradizione codificata come nucleo spirituale del marxismo sinesizzato implica
in qualche modo la sostituzione del suo sostato universalista Occidentale
(idealismo tedesco e positivismo) con un carattere che è ancora universalista,
ma in modo del tutto diverso. Sotto questo profilo la parola d’ordine dell’armonia
nella diversità punta a tenere insieme non solo i diversi paesi dei Brics,
quanto i diversi registri culturali ed ideologici e persino le oltre 50 etnie
cinesi. La Cina di oggi è marxista, ma anche confuciana, rivendica il
proprio orgoglio post-coloniale ed è, al contempo cosmopolita e multiculturale.
Anche per un altro interprete, Wang Hui, la posta è la definizione di una
modernizzazione concettualmente indipendente dall’universalismo astratto, la
retorica dei diritti umani o la preminenza del mercato.
Quella di Xi Jinping è dunque una
modernizzazione selettiva e centrata, che mira a produrre una soggettività
collettiva “armoniosa”, in cui convivano un’identità culturale riconoscibile,
un’economia aperta e una capacità di intervenire nel discorso globale da una
posizione non subalterna. Un compito di enorme difficoltà e importanza.
Parte Seconda
Per inquadrare lo sforzo di Xi vale la pena fare
mente alla storia degli ultimi venti anni, durante i quali si è manifestata
(dalla Presidenza Obama) la sempre crescente divaricazione strategica tra
l'economia debitrice e quella creditrice, la prima impegnata a consumare e la
seconda a produrre, rispettivamente americana e cinese. Parte da lontano, dalle
ragioni della rottura di Bretton Woods da parte di Nixon (1971) e della crisi
degli anni Settanta, risolta dalla cosiddetta “globalizzazione” e dalla caduta
dell'Urss; parte essenziale di questo processo, durato un trentennio, è stata
l'estensione alla Cina delle filiere produttive in uno scambio per il quale le
merci a buon mercato contenevano la perdita di capacità d'acquisto interna
americana e il riciclo via finanza dei surplus (da parte di Cina, Giappone e
paesi arabi) consentiva l'indebitamento. Questo meccanismo alla lunga non era e
non è stato sostenibile, gli Usa sono passati da creditori netti nel 1983 a
debitori oggi. Il blocco “geoeconomico” che Gabellini chiama, in un primo
articolo, “Chimerica” [26] si è dunque rotto. La
Cina prima ha accumulato riserve in Treasury (titoli americani) per oltre 1.000
miliardi nel 2005, poi ha ampliato la propria domanda interna, riequilibrando
le esportazioni (e facendo crescere una classe media interna), poi, dopo la
crisi del 2008, ha accelerato la trasformazione strutturale della propria
economia (e società) da fornitrice di prodotti di base a paese alla frontiera
della tecnica. Quindi, nel secondo articolo[27],
descrive le forme del ‘contrattacco’ statunitense per fare fronte alla fine di “Chimerica”.
Fine causata dal fatto piuttosto semplice che i benefici reciproci dello
scambio merci vs credito (ovvero riacquisto dei titoli) nel sistema “socialista
con caratteristiche cinesi” sono stati progressivamente investiti in
infrastrutture (fisiche e sociali) e reddito distribuito (cetomedizzazione),
mentre nel sistema a “capitalismo predatorio” statunitense sono andati in
debito (de-cetomedizzazione) e capitalizzazione del primo 10% (per lo più in
isole fiscali). Il risultato cumulato in ca. quaranta anni è che il tessuto
produttivo e sociale americano si è indebolito e sfilacciato. Di questo è
figlio Trump (e con biografica evidenza Vance). Nella descrizione che fa
Gabellini si parte dall'azione di Obama, che muove i passi consolidati da
Trump, in via dell'isolamento della Cina e del disaccoppiamento dei sistemi
economici, e racconta la lunga storia dei dazi. Il riassunto di Howard Lutnick,
riportato nell'articolo è semplice: «occorre resettare e ridefinire i rapporti
di potere degli Stati Uniti sia nei confronti degli alleati che dei nemici.
L’idea che tutti i Paesi del mondo possano accumulare eccedenze commerciali con
gli Stati Uniti e acquistare con il ricavato i nostri asset da noi non è
sostenibile. Stiamo parlando di quasi 1,2 trilioni di dollari [di passivo, nda]
all’anno ormai». Infatti: «Nel 1980 eravamo un investitore netto. Possedevamo
cioè il più asset del resto del mondo di quanto il resto del mondo ne possedesse
di nostri […]. E ora gli stranieri possiedono 18 trilioni di dollari di asset
in più rispetto a noi. Sono diventati creditori netti».
Nel terzo articolo[28]
Giacomo Gabellini descrive la risposta della Cina alla mossa di Trump.
L'esibita sicurezza cinese, nel rispondere ad ogni mossa con una contromossa
attentamente calibrata e di grande impatto su filiere produttive e consumi
americani, nasce dalla dimensione ormai autocentrata della propria economia.
Solo il 19% delle esportazioni sul pil (mentre l'Italia è al 33% e la Germania
al 43%), dominio di 60 settori tecnologici chiave su 64, principale mercato per
17 categorie merceologiche su 20, una classe media che nel 2030 è stimata al
livello combinato di quelle europee e statunitensi. In pratica la Cina sta “risucchiando”
i paesi vicini dell'Asia orientale nel proprio sistema economico per via della
forza della propria capacità di acquisto (esattamente come fecero gli Usa nel
secondo dopoguerra). Il volume del commercio nel Rcep[29]
supera quello tra Usa ed Europa di gran lunga e cresce. Per questo le politiche
di reshoring e friedshoring stanno fallendo (e, peraltro, ove riuscissero
sarebbero produttrici di ben poca occupazione). L'analisi di Giacomo qui prende
una direzione interessante. Da una parte i dazi, in questa ottica, si presentano
come una ripresa fiscale mascherata, dall'altra, tutto ciò minaccia la
stabilità del dollaro e la sua egemonia.
Se la Cina ha il “dominio dell'escalation”[30]
e gli Usa stanno sostanzialmente gestendo una ritirata alla Monti-Draghi
(riduzione potere di acquisto della popolazione, contenimento dello squilibrio
finanziario ed economico, deprezzamento della valuta), mentre il "paese di
mezzo" torna nel posto che ha tenuto per millenni, la tentazione del
sistema militare-industriale americano (ed europeo, come si vede) di rovesciare
il tavolo usando l'unico sottosettore in cui sono ancora competitivi (la morte)
è alta.
Dentro questo quadro complesso, nella Prima Parte
abbiamo definito il difficile obiettivo della leadership cinese come sforzo per
promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel contesto del
crescente confronto ideologico, culturale, economico e di potenza con
l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Il controllo
dei sentieri di modernizzazione, e quindi anche di conservazione di specificità
ed elementi culturali, è, nel contesto della “guerra ibrida” senza risparmio
che è in corso, la posta. Da ciò dipenderà la forma che il mondo prenderà in
questo secolo. Le forme sociali, e le forme culturali sono, infatti, esse
stesse forze materiali. Queste orientano l’autocomprensione di sé e la
narrazione della propria direzione, contribuiscono all’attivazione o
disattivazione di forze potenziali, inibiscono direzioni possibili o rendono
‘naturali’ azioni. Producono e sono prodotte da forze politiche che in esse si
addensano. Sono fattori della forza con la quale opporsi, della sicurezza di sé
e del fascino con il quale assorbire le energie esterne. Essere in grado di
governare la dinamica della “modernizzazione”, controllando in essa il nuovo
con il familiare e con il recuperato, rende possibile anche proiettare la
capacità, come scrive Joseph Nye, di “plasmare le preferenze altrui”[31].
Ovvero di sviluppare la “capacità d’attrazione verso valori comuni”. Insomma,
lo sforzo di controllare lo sviluppo della “modernità” in modo “selettivo” è un
obiettivo strategico, espressamente politico, per evitare di subire un’egemonia
e proiettarla, se pure nel senso dell’esempio e non del programma.
Può
essere utile rileggere se pur brevemente, l’impiego che ne fa Antonio Gramsci: la
parola “Egemonia”, nei Quaderni[32]
è nominata con plurime accezioni, ad esempio in riferimento alla combinazione
di forza e consenso nel regime parlamentare, alla distinzione tra direzione
intellettuale e morale nei rapporti tra “direzione” e “dominio”, alle relazioni
tra Nord e Sud nella storia italiana, al commento alla posizione di Lenin (dal
quale riprende il termine), alla crisi della classe dirigente e dello Stato
(spiegando l’insorgere del fascismo), al carattere del dominio straniero
sull’Italia, all’influenza del Partito Moderato sul Partito d’Azione nella
storia del risorgimento, alla funzione degli intellettuali, alla pedagogia
sociale e all’influenza culturale, allo sdoppiamento della coscienza teorica e
la lotta politica come lotta di egemonie, al superamento della formula della
“rivoluzione permanente” e alla lotta all’economicismo. Antonio Gramsci, ne le
“Notarelle sul Machiavelli”[33], individua
una semi-indipendenza dell’economico dall’emozionale e quindi dalla volontà,
internamente connessa all’azione. L’azione che consiste nella capacità di
suscitare una “volontà collettiva nazionale-popolare” e al contempo,
necessariamente (che, altrimenti, si tratta di mero adattarsi al flusso, ovvero
nei nostri termini di una “modernizzazione” subita e non selettiva, o di una
“egemonia” passiva) di “organizzare una riforma intellettuale e morale”. Quel
che fa il “Partito” gramsciano, ed in questo sembra leggere un’assonanza, è trasformare il senso comune[34]
di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al
momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e
necessariamente, muoverli all’azione collettiva.
Dentro un
confronto esistenziale, che non è solo economico e tanto meno solo militare,
con l’Occidente collettivo, ogni azione e politica istituzionale ed economica
deve radicarsi, per non venire assorbita, in quella che Gramsci chiamava una
“riforma intellettuale e morale”. Si tratta, secondo una formula famosa, di
esercitare la “fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato
per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva”[35].
Riprendendo
elementi, che, come vedremo, hanno una profonda assonanza nella tradizione
cinese Gramsci continua individuando una concezione dell’azione
dello Stato come “educatore” e maieuta di un “nuovo tipo o livello di civiltà”,
ovvero di operatore non solo sulle forze economiche, ma anche sulla
“soprastruttura” (che non va abbandonata allo sviluppo spontaneo, ma
razionalizzata, accelerata e “taylorizzata”), definisce il “politico in atto”,
come un creatore, un suscitatore che,
tuttavia e ciò fa tutta la differenza, non si muove nel vuoto dei suoi desideri
(definito con una bella immagine “torbido”) o sogni, ma “si fonda sulla realtà
effettuale”, cioè su “un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di
equilibrio”[36]. Il politico applica la
volontà alla creazione di nuovi equilibri delle forze, che tuttavia sono realmente esistenti e operanti, e per farlo “si
fonda su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e la potenzia per
farla trionfare”. Ovvero si muove “sul piano della realtà effettuale ma per
dominarla e superarla”[37].
Qui nasce il
tentativo, di natura strategica e non tattica, di dirigere una “modernizzazione
selettiva” e non subire il passo ed i tempi e modi di quella “Occidentale”. In
questo nulla di nuovo, dal tempo di Deng la Cina cerca di governare la
trasformazione, ma Xi rappresenta un cambio di passo (non a caso percepito come
autoritario secondo i nostri canoni per i quali al mercato ‘si lascia fare’, in
quanto espressione della ‘provvidenza’, o della ‘storia’). La
battaglia di Xi per il “Grande ringiovanimento” della nazione cinese, e
quello per la conquista del cuore della modernità attraverso una
“decolonizzazione dell’immaginario” e l’orizzonte universalista della “Comunità
umana dal futuro condiviso”, è rivolta contemporaneamente:
-
all’interno, per sconfiggere le correnti
“liberali” nel Partito e nella società, oltre che per dare una prospettiva
diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’ Occidentale che
passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e stili di vita connessi.
-
Ma anche all’esterno, per proporre una nuova
logica post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti
strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”.
Si tratta, in altre parole, da una parte di
costruire una sorta di barriera selettiva alla modernità occidentale nel quadro
di una guerra “ibrida” che segnerà il destino del secolo. Ma, dall’altra, anche
di innestare nel corpo del marxismo uno spirito ‘confuciano’ che per molti
versi gli è profondamente alieno. Interpretare lo spirito
dialettico-materialista dell’hegelo-marxismo con elementi relazionali ed
armonici di matrice confuciana che sono profondamente alieni alla logica del
conflitto.
Universalismi a confronto. Dalla via della
salvezza al Tianxia.
Ma vediamo quindi a cosa si oppone questo
progetto: nella tradizione Occidentale, che si è affermata non per caso durante
l’epoca degli imperialismi, dalla fine del XVIII secolo, mentre in India si
espandeva il traffico di droga (oppio) verso la Cina a partire dal Bengala
inglese (e gli enormi profitti defluivano in Europa[38]),
una compatta filosofia della storia trovò una sistemazione in Fichte e Hegel.
questa presumeva la direzione dell’umanità e quindi della sua storia verso
l’espansione della “libertà”, intrinsecamente connessa all’affermazione della
“ragione” e quindi del “progresso”[39].
Tutto andava giudicato a partire dalla posizione rispetto a questa direzione,
in termini quindi di “avanzamento” o “arretratezza”.
L’essenza di questo schema concettuale potente, e
altamente utile alla giustificazione dell’evidentemente necessaria violenza
praticata nel frattempo nel mondo coloniale, è una concezione del tempo
derivata dalla scienza newtoniana: cumulativo, lineare, orientato. Nel suo
complesso è un’idea per la quale solo l’Occidente è la casa della Ragione e tutti
gli altri sono ‘barbari’ che possono divenire solo occidentali, se vogliono
evolvere. L’idea, in altre parole, che la storia universale è quel processo in
cui alla fine tutti sono europei (o, con Hegel, prussiani).
D’altra parte, bisogna riconoscere e tenere
sempre presente, e ci torneremo ancora al termine, che la dinamica di sviluppo
della modernità europea (scienza, tecnica, diritto, macchinismo e capitalismo) è
espressione di un’interna ambiguità: da una parte ha visto sé stessa come
universale e in ciò fatto violenza agli altri pensieri della generalità o
dell’universale; al contempo ha, nella dialettica agita da parte dei deboli e
degli sconfitti verso gli infiniti tradimenti dell’ideale proclamato, ispirato
lotte di liberazione e continua a farlo. Questa contraddizione interna, tra la
liberazione e la conquista, l’universale e la violenza, la critica ed il
superamento, è contemporaneamente sia potenziale politico sia evento storico.
Sulla base di questo lascito occorre quindi, con doppia mossa, evitare sia
l’universalismo imperiale sia il multiculturalismo astratto e identitario.
Tenere insieme, in altre parole, la memoria delle lotte, la consapevolezza
delle contraddizioni, e l’apertura a un mondo in cui ogni cultura è sempre già
ibridata, e ogni verità è sempre cercata da un punto di vista altro, o per
meglio dire dove l’io e l’altro sono rimando.
Per esplorare questo nodo sarà necessario, da una
parte esplorare ancora il particolare movimento dell’ispirazione universalista
cinese, così intenzionalmente e strategicamente diversa da quella occidentale,
dall’altra ritornare sulla relazione interna tra l’universalismo astratto
occidentale e le tradizioni critiche che pure ne promanano.
L’universalismo cinese
Il punto di vista orientale, e cinese in specie,
è al contempo meno ambizioso e più paziente. Un cinese ritiene tradizionalmente
di essere già al centro del mondo, ma anche che ogni parte di questo sia “sotto
il cielo”. Come sotto il medesimo cielo sono anche le altre tradizioni che
non si lasciano ridurre ad ombra della via Occidentale-cristiana, e ordinare
sulla strada di un maggiore o minore “avanzamento” verso l’unico e comune
progresso. Progresso che quindi coincide con la modernità e questa, infine, con
il possesso della tecnica.
La tradizione cinese vede le cose in modo del
tutto diverso. Le civiltà non sono “stadi”, parti di uno sviluppo unico
rispetto al quale giudicarle, ma forme co-esistenti di espressione del Dao,
forme di espressione di una “armonia senza conformità”. Lo stesso soggetto
non è realmente autonomo, ma immerso in una rete di interdipendenze e
relazioni. La “verità” non è uno stato, un modello, che può essere
contemplato e rivelato, un essere cui corrispondere, ma il processo nel quale
emerge un’armonia da una situazione. Il tempo non assomiglia ad un piano
liscio, ad una macchina o all’espressione di una formula matematizzabile, ma anch’esso
un processo; un processo che ha come modello la crescita di organismi. In
conseguenza gli eventi non vanno prodotti e forzati, esercitando forza e
ragione, ma occorre piuttosto un adattarsi (wu wei, non-azione secondo
il flusso), il cui scopo è la massimizzazione del potenziale (shi). Se
pure la formula citata appartiene alla tradizione daoista (o taoista), e altre
scuole (come quella confuciana, moista) hanno diverse accentuazioni, esprime
una sorta di comune per differenza dalla tradizione occidentale.
Uno dei concetti centrali da contemplare per
provare a intuire questo diverso universo è il concetto di tianxia (天下), ‘tutto sotto il cielo’, che non è
fondato su norme astratte e quindi generali/universali, ma su una sorta di
interdipendenza “io sono in te, tu sei in me”, e quindi su un’armonia come
coesistenza di diversità. Quindi l’universo appartiene a tutti (tianxia wei
gong) per un movimento di appartenenza reciproca. Una radicale differenza
rispetto all’ontologia occidentale dell’Uno come fondamento, in favore della
contemplazione di un molteplice in relazione. Un molteplice che alcune scuole
vedono sinteticamente come un Dao, 道,
che è vivente ed in mutamento. Dao (o Tao) è termine intraducibile[40]
che ha avuto significativo riverbero sullo stesso Occidente.
Ciò al quale invita questo pensiero è di superare
la visione egemonica della storia come conquista e uniformazione senza
rinunciare per questo alla verità o al progresso, ma ridefinendoli come
processi plurali, relazionali e situati. Articolando quella che non è una
metafisica del dominio, dell’Uno, piuttosto una sorta di cartografia
dell’interdipendenza.
Secondo il detto confuciano ripreso da Sun
Yat-sen:
「天下為公」
Quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti.
Anche in molti discorsi della leadership cinese
contemporanea[41] vengono riprese queste antiche immagini
confuciane, come quella di he er bu tong (和而不同):
armonia nella diversità[42], senza annullamento delle differenze.
Nel quale la differenza è piuttosto condizione dell’incontro, la ‘razionalità’
diventa per questo situazionale, e la ‘verità’ deriva da un equilibrio
dinamico, senza soggiacere ad una logica binaria. La vera universalità, perciò,
non si raggiunge imponendo una forma unica, sia essa la libertà individuale e
la democrazia liberale, ma attraverso la moltiplicazione delle forme, un po’
come in un’orchestra in cui strumenti diversi suonano insieme, senza fondersi. Anche
la ‘modernità’, in questa lettura, non è un destino comune, ma una possibilità
storica tra altre, che ogni civiltà può assumere secondo il proprio ritmo (shi
勢)
e la propria forma di vita (li 禮 – i riti).
Dunque, volendo sintetizzare, secondo questa
posizione si può dire che:
-
La temporalità storica
non va considerata una sola, allineata sulla freccia del progresso o la strada
della libertà, ma pluralità di tempi incarnati e trasformazioni;
-
La soggettività storica
non è né individuale né universale, ma piuttosto collettiva, situata e
relazionale;
-
L’universale non è dato (e da
raggiungere secondo il movimento di conformarsi ad un modello), ma costrutto
nel dialogo tra diversi, quindi mondi, pratiche, civiltà;
-
La razionalità non è astratta,
ma è inscritta nel vivente;
-
L’armonia può essere un
principio generativo della storia, alternativo alla lotta per l’egemonia.
Non si tratta più di imporre un ordine al mondo,
secondo un suo telos[43],
ma riconoscere i molteplici ordini e aprire lo spazio per una co-esistenza
creativa, trasformativa e dinamica.
Nel pensiero confuciano ciò ha implicazioni non
solo etiche e politiche, ma anche cosmologiche. L’universo è concepito come una
rete dinamica di relazioni (tra cielo, terra e uomo), dove l’ordine (zhi)
e il disordine (luan) sono continuamente bilanciati da un processo di armonizzazione.
Non c’è quindi una “legge dell’essere” eterna o trascendente, come nella
tradizione ontologica greca, ma una via del mezzo (zhongyong) che
si rinnova continuamente nel tempo e nello spazio. In questo senso, il concetto
di he entra in tensione con la pur raffinata e complessa dialettica
hegeliana o con la logica binaria greco-occidentale (vero/falso, essere/nulla,
soggetto/oggetto), e propone invece una logica della co-differenza e
dell’inclusione. La diversità non è ostacolo da superare, ma la condizione
necessaria per l’armonia. La virtù del junzi (il “nobile”) non consiste infatti
nel dominare o assimilare, ma nell’ascoltare, bilanciare, accordare, come un
direttore d’orchestra che fa emergere l’armonia tra strumenti diversi, senza
fonderli in un suono uniforme. Nel Lunyu 13.24, Confucio afferma: 君子和而不同,小人同而不和。(“Il nobile è armonioso ma non identico; il
meschino è identico ma non armonioso”).
In altre parole, dove la tradizione
post-illuminista europea - in particolare quella idealista (Hegel, Marx) - ha
posto il conflitto (di classi, idee, forze produttive) al centro del processo
storico (la verità come processo, aufhebung e negazione determinata), il
pensiero cinese ha privilegiato la trasformazione graduale (hua 化),
la risonanza (ganying) e l’integrazione dinamica dei poli opposti.
Ci sono in effetti assonanze nel progressivo
movimento della coscienza verso il sapere di Hegel, e nel suo negare e
conservare, oltre che nella famosissima formula per la quale “il vero è
l’intero”[44]; ed assonanze si
leggevano anche in Gramsci, profondamente influenzato dal pensiero idealista
post-hegeliano, però l’impresa del nostro è comunque inserita in una concezione
della Verità come ottenimento e possesso, sia pure attraverso un “sistema”[45].
Anche se, per Hegel, secondo una formula sintetica e potente, “la
proposizione deve esprimere cos’è il vero. Il vero, però, è essenzialmente
soggetto, e in quanto tale non è altro che il movimento dialettico, questo
cammino che produce sé stesso, si proietta in avanti e ritorna entro sé”[46].
Alla fine si resta entro i termini di ‘possesso della verità’ propri della
‘filosofia del soggetto’ (razionale) occidentale.
Provando a soffermarsi, mentre per Hegel,
concludendo una tradizione che origina in Plotino[47],
la storia è la realizzazione dello Spirito attraverso la negazione, per
Confucio è il processo interminabile di coltivazione dell’umanità (ren)
nella costruzione relazionale ed armoniosa dell’ordine sociale.
La tradizione che ascende a Platone, nella
filosofia occidentale (se pure Platone non è strettamente e solo occidentale[48])
vede l’ente assoluto, possessore degli attributi di perfezione, bontà,
spiritualità, distinguersi dagli altri enti nel senso in cui l’unico e
necessario, eterno e vero, si distingue dal molteplice, contingente, quindi
apparente e passeggero. Da Hegel questa relazione (che è paradossalmente ancora
tra ‘cose’ e ‘cose’) viene, per così dire, fluidificata dialetticamente.
Invece, la tradizione della filosofia orientale
(da Confucio a Mozi, nel contesto pre-buddista) non conosce e concepisce
nessuna frattura ontologica tra trascendente e immanente. Quindi non vede
l’Assoluto come ente separato (al quale la Storia deve conformarsi, se pure in
senso variamente secolarizzato), perfetto ed immobile, rispetto al mondo dei
fenomeni, delle azioni e del molteplice. Nella filosofia cinese originale il
riferimento cosmico è il Tian (天),
che volendo si può tradurre come “Cielo”, ma non è affatto una “cosa” o un
“ente”; piuttosto è un processo vitale, ordine morale e naturale insieme. Una
sorta di trascendenza immanente, una legge profonda, alla quale ci si può
connettere tramite l’introspezione e coltivazione del sé (diventando ‘il saggio’,
strada possibile a tutti). Vivere in modo morale, divenire ‘saggio’, significa
in sostanza risuonare con il cielo ed armonizzarsi al suo ritmo; non
ascendere, piuttosto accordarsi tramite l’etico, il quotidiano, il
rituale (li
禮). Questo in linea generale, naturalmente nelle
diverse scuole ci sono tante sfumature; ad esempio, il Maestro Mo (Mozi) vede,
in polemica con Confucio di poco più anziano, il ‘Tian’ come principio
personale più attivo e fondamento di un amore imparziale (jian ai 兼愛).
Provando una sintesi, nel pensiero cinese
classico non si cerca di superare il mondo per raggiungere il divino (come
nella maggior parte della tradizione Occidentale): il mondo è già sacro,
se abitato correttamente. L’alterità radicale dell’Essere non si impone, il
Dao, il Tian, il Ren sono tutte forme diverse con cui si nomina una medesima
presenza silenziosa, diffusa, attiva nella relazione, non un Essere
assoluto distinto dai fenomeni.
-
Non ente tra enti, né oltre gli enti: ma trama
del divenire, vuoto fertile, ritmo.
-
Per questo, il divino non si contempla, si segue;
non si conquista, si incarna.
-
Il sapere non è conquista della verità,
ma trasformazione del sé in accordo con ciò che è.
In altre parole, laddove la tradizione
post-illuminista europea — in particolare quella idealista, da Hegel a Marx —
ha collocato il conflitto (di classi, idee, forze produttive) al centro del
processo storico, concependo la verità come movimento dialettico, negazione
determinata e Aufhebung, il pensiero cinese ha privilegiato invece la
trasformazione graduale (hua 化),
la risonanza (gǎnyìng 感應),
l’integrazione dinamica dei poli opposti. Scrive Zisi, nipote di Confucio: “la
verità è la via del cielo. Conseguire la verità è la via dell’uomo”[49].
Non si tratta, ovviamente, di negare la
possibilità del conflitto, ma di collocarlo in un orizzonte di mediazione e non
di superamento violento (o di annientamento). Questo permette di concepire un
altro tipo di universalismo, non gerarchico né centrato su un punto di vista
unico, ma orizzontale, pluralista e orientato alla convivenza.
Quello cinese è comunque un universalismo in un
senso specifico. Nel contesto delle diverse “culture”, quella indiana,
islamica, il buen vivir sudamericano, le tante civiltà africane o del pacifico
orientale, si tratta di decidere se le tradizioni incarnate, internamente
plurali e dal margine sfocato, vadano prese ciascuna come una “cosa” autosufficiente
e meramente affiancate l'una a l'altra, ovvero se lo spazio tra queste possa
essere 'abitato' da una idea, o da un’immagine, che, tuttavia, le rende in qualche
modo ‘traducibili’. Chiamo “universalismo” il tianxia perché mi pare faccia
nell'essenza questa mossa. Al contrario, il “multi-culturalismo”
all'Occidentale lascia il compito di tradurre al mercato, al denaro alla fine
(un medium impersonale e non linguistico), e vede quindi le “culture” come
intimità.
Il particolare universalismo del Tianxia, dunque,
poiché non esclude il diverso ma lo integra gradualmente attraverso la
coltivazione di relazioni etiche e rituali, induce a concepire il centro
(ovvero il Zohongguo, “paese del centro”) autoattribuito alla Cina, ovviamente,
come una funzione di equilibrio e non come il principio del possesso e
dell’uniformazione. Funzione che non può essere imposta, pena
l’autocontraddirsi, ma che, al contempo, sussiste e non viene lasciata al
“mercato”. Si raggiunge l’unità (e quindi l’universalità) tramite una risonanza
e non tramite un’uniformazione (se pure “conservante/superante”)[50];
neppure attraverso una ragione incarnata nel ‘mercato’. Ovvero in “cattivo
infinito”[51] che imprigiona le
speranze dell’esistente, secondo una perversa teologia implicita[52].
Continuando la nostra esplorazione[53],
secondo la grande scuola Daoista (o Taoista) la “virtù” (De) confuciana deve
piuttosto essere sostituita dal non-agire (wuwei). Mentre la dottrina
confuciana implica una critica politica, ed una spinta a cambiare il mondo (se
pure non dispone di una nozione di male assoluto, come le religioni
occidentali), il taoismo (come il buddismo) insegna il distacco dalla politica
e il ritiro dal mondo.
Come si può leggere nella Stanza 47[54]
del Dao De Jing[55], (道德經),
attribuita a Laozi:
1. Non serve varcare la porta di casa
2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
3. né dalla finestra scrutare
4. per comprendere il dao del Cielo.
5. Più esci e più t'allontani,
6. meno comprendi.
7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],
8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle
proprie mire.
Questa stanza esprime una concezione del sapere
radicalmente diversa da quella occidentale, ed opposta peraltro anche a quella
confuciana o moista[56],
entrambe più attive e soprattutto rivolte al sociale ed al politico. La
conoscenza non avviene attraverso l’esplorazione esterna, la conquista,
l’estensione del dominio (come nella scienza moderna o nell’episteme
coloniale), ma attraverso l’interiorità, l’intuizione, la consonanza con il Dao,
il distacco.
Il termine
zhi, che ricorre più volte in questo brano (conoscere, sapere, agire nel
mondo) indica un esperire integralmente, dislocando la vera conoscenza (che
passa anche per il linguaggio) attorno e non dentro il soggetto, perché nel
Laozi a questo, al soggetto, non è riconosciuto il privilegio di detenere un
sapere in senso esclusivo. Più che comprendere oggetti, secondo la tradizione
Occidentale, qui si tratta dell'insieme delle relazioni che rendono gli oggetti
tali, in un circolo che comprende il soggetto. Il Dao (il mondo nella sua
totalità di destini che interagiscono) è esperibile solo perdendosi ed
abbandonandosi. Il riferimento al “senza muoversi”, indica una forma di
comprensione che non dipende né da esperienze cognitive precedenti o da dati empirici;
una comprensione che deriva dall'essere connessi al Dao. Per questo il ‘Saggio’
si può estraniare dal governo del mondo secondo una caratteristica linea di
non-ingerenza, la quale, proprio per questa profonda immersione (ma originaria)
assicura la piena realizzazione delle predisposizioni delle cose stesse. Cose,
per così dire, lasciate a sé stesse. L'immobilismo produce
contemporaneamente il massimo di armonia. È così che il saggio può ‘nominare’
le cose (v. 8).
Si
tratta, peraltro, ancora una volta di un’idea che ha riverberi anche nella
recezione occidentale. In particolare, nella riflessione di Heidegger[57];
il quale ad esempio in “La questione della tecnica”[58],
nel 1953, distingue tra la techné come poiesis, che porta alla luce delle
relazioni, e la tecnologia come gestell che appresta in una sorta di telaio ed è
letta come conseguenza necessaria della metafisica occidentale[59].
Questa critica, pur nei suoi limiti, fu accolta da diversi pensatori orientali,
in particolare nella Scuola di Tokyo e nella critica taoista della razionalità
tecnica. In quest’ultima il gelassenheit (serenità, tranquillità, opposta alla
volontà di potenza[60])
heideggeriano viene riletto come wu wei (non-azione)[61].
La trascrizione reciproca di questo pensiero deriva, in entrambi i
paesi, dallo sconcerto per gli effetti destabilizzanti e distruttivi della
tecnica (in occidente guerra, industrializzazione di massa ed estensione degli effetti
anomici del consumo, in oriente le rapide trasformazioni industriali ed il loro
effetto sulla cultura tradizionale e popolare).
Questa idea ha profonde implicazioni:
-
L’universale non è fuori, ma dentro, o meglio: l’universale
è presente ovunque, ed è accessibile ovunque, perché ogni cosa è parte
della totalità.
-
La conoscenza non è accumulazione di dati
(episteme), ma riconoscimento di un’armonia pre-esistente. In questo
senso, è simile alla aletheia greca (disvelamento), ma priva della
tensione tragica dell’Occidente.
-
Il movimento verso l’esterno (conquista, viaggio,
missione civilizzatrice), tipico della storia occidentale, è qui visto come
distorsione, allontanamento dalla comprensione vera.
Dunque, non c’è bisogno di dominare il mondo per
comprenderlo, bisogna piuttosto risuonare con esso, e per questo esercitare la
“virtù”.
Parte Terza
In questa ultima parte procederemo in questo
modo:
-
in una prima sezione
espliciteremo ancora una volta le implicazioni dei diversi modelli, in una
chiave più esplicitamente geopolitica;
-
in una seconda, torneremo sul
nodo cruciale, anche per la stabilità interna del progetto di Xi di un
‘marxismo sinizzato’, sul tema della contraddizione tra dominio e liberazione
nella modernità Occidentale che rischia di rimanere invischiato nel
‘provvidenzialismo’ della tradizione cristiana, e in elementi di determinismo
ed evoluzionismo profondamente connessi con la storia del continente europeo;
-
infine, la conclusione
la spenderemo nella ricerca di una sorta di via mediana, che si ritrae da ogni
astrazione cercando al contempo di riconoscere le diverse traiettorie culturali
senza reificarle e quindi si sforza di creare le premesse per disimplicare in
esse quelle premesse di libertà e liberazione che sono presenti. Ciò che va
compreso ed accettato è che non esistono valori, principi e culture universali, se
non per effetto di una decisione, di un’imposizione. Che la creazione di unità
e universalità è sempre potere. Un’imposizione in primo luogo, interna, volta a
ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che sono stati dati.
Alcune implicazioni nel confronto tra modelli
geopolitici
Per iniziare si può ricordare il discorso alla
sessione plenaria del Forum economico internazionale di San
Pietroburgo[62]
nel quale Xi ha sottolineato che un autentico multilateralismo significa
“rispettare e sostenere tutti i paesi nell'intraprendere un percorso di
sviluppo adatto alle loro condizioni nazionali”. È questa mossa che crea un
“ambiente favorevole allo sviluppo” di tutti e aiuta a “costruire un'economia
mondiale aperta”. Per farlo il Presidente cinese propone, riecheggiando i toni
che Zhou Enlai nel 1955 propose a Bandung[63], di
“rafforzare la rappresentanza e la voce dei paesi dei mercati emergenti e dei
paesi in via di sviluppo nella governance economica mondiale” (ovvero
sostituire al G7 un modello di cooperazione alternativo) e promuovere
“equilibrio, sviluppo coordinato e inclusivo”. Il concetto di “sviluppo
coordinato” (促进全球平衡) è uno dei due concetti
chiave (in quanto dal contesto si comprende trattarsi di sviluppo orizzontale e
sul piano di complementarità ed equilibrio). Quindi si tratta, concretamente,
di rafforzare la cooperazione Nord-Sud, e Sud-Sud, mettere in comune le risorse
in cooperazione, garantire reti e piattaforme per lo sviluppo, aumentare
l'assistenza allo sviluppo, formare sinergie e colmare i divari. In terzo
luogo, promuovere la globalizzazione economica (推动经济全球化进程), ma attraverso la “connessione morbida”
(l'altro concetto-chiave, Ruǎn lián 软 联) delle politiche di
sviluppo; quindi la condivisione di regole e standard internazionali (lo
strumento principe del dominio occidentale, grazie al fermo controllo degli
organismi di standardizzazione); l’abbandono del disaccoppiamento, dei tagli
all'offerta, delle sanzioni unilaterali, le barriere e pressioni; per mantenere
la stabilità delle catene industriali (la cui interruzione provoca una
crescente inflazione in occidente), e lavorare insieme per la crisi alimentare
ed energetica. Infine, per aderire all'innovazione guidata, sfruttare il
potenziale dell'innovazione e della crescita, approfondire gli scambi
scientifici, condividere i risultati.
La Cina, ha concluso Xi, è disposta su queste basi
a collaborare con i paesi di tutto il mondo, inclusa la Russia e gli Usa, per
creare insieme prospettive di sviluppo, condividere opportunità di crescita e
dare contributi all'approfondimento della cooperazione allo sviluppo globale ed
alla promozione di quella che chiama “una comunità con un futuro condiviso
per l'umanità”. Attraverso questi toni la Cina, ma in linea con una lunga
tradizione del ‘paese di mezzo’ (chung-kuo), cerca di qualificarsi come centro
immobile del mondo, come difensore e costruttore dell’ordine internazionale
(concepito implicitamente nella forma della relazione con il ‘cielo’). Per essa
aderire al multilateralismo significa mantenere una “stabilità strategica
globale”, e fornire attivamente beni pubblici internazionali[64].
Ciò che rende per noi difficile comprendere questo
modo di dire, e ce lo fa interpretare come semplice inautenticità e retorica
vuota, è, come abbiamo visto nella Prima e Seconda parte, la forma di
universalismo astratto che è profondamente connotata nella nostra tradizione (o
in alcune nostre tradizioni, se non in tutte). Come abbiamo invece visto la
civiltà cinese è universalista in altro modo, e lo rivendica anche in chiave di
progetto politico. È il Tianxia (la “via del cielo” o il “tutti sotto il
cielo”) che connota più profondamente lo spirito del pensiero filosofico,
religioso e geopolitico cinese. La formula “futuro condiviso per l’intera
umanità” non è altro che questo segno. Non si tratta di una “finalità”,
quanto di un orientarsi “nella direzione della luce” (Ér guāngmíng suǒ xiàng);
di dirigersi verso la propensione della situazione che produce, se accolta, un
“vantaggio” (li). Ma bisogna notare che per un cinese, essendo derivante
dalla situazione, e non da un piano, il “li” è sempre morale ed è sempre
per tutti. La questione è di individuare, scoprire, nella situazione i fattori
favorevoli e farli crescere, adattandosi ad essi e adattandoli ad un tempo.
Ovviamente, far crescere i fattori favorevoli e far decrescere, o disattivare,
quelli favorevoli all’avversario. Si tratta, in altre parole, di fare in modo
che l’avversario sia trascinato, senza azione, dalla situazione stessa,
progressivamente e inavvertitamente nella destrutturazione. In modo che
perda il proprio potenziale. Non combattere è la regola fondamentale della
Grande Strategia cinese. O meglio “non agire” (wu wei), tuttavia, ed
allo stesso tempo, in modo che alla fine “niente non sia fatto” (er wu bu
wei). I cinesi, quindi, non combatteranno mai per dominare il mondo (se non
costretti), lasceranno che tutto, per la sua propensione, si trasformi (hua)[65].
Questo consente di comprendere in modo più profondo il
concetto cinese di comunità dal destino condiviso dell’umanità (人类命运共同体), spesso frainteso in Occidente come mero slogan.
L’idea è semplicissima, e sta avvenendo davanti ai
nostri occhi. Senza agire davvero, al più difendendosi (che la lezione
delle Guerre dell’Oppio è ben ricordata), questa strategia fa perdere
contegno all’Occidente. Se alla fine la Cina non si vedrà agire, se sembrerà
del tutto immobile, la perfezione sarà stata raggiunta. Perfezione che ha a che
fare con il concetto di “cielo”; una alternanza regolata che si rinnova sempre
senza esaurirsi mai. L’opposto, in un certo senso, della nozione assolutamente
occidentale di ‘progresso’.
Ovviamente, questa posizione non è priva di tensioni
interne e di scarti, e non esclude che possano esserci momenti di azione
diretta, anche di grande momento. Così come non esclude che l’armonia alla fine
sia disegnata per forza delle cose e della dinamica sul modello cinese, o da
questo fortemente influenzata. È una delle possibili declinazioni del concetto
di Tianxia. Se tutto deve orientarsi ad un ‘cosmo’ comune, questo può ben avere
al centro l’equilibrio cinese.
Le tradizioni critiche e l’universalismo
occidentale
Dopo aver prestato attenzione al contesto
geopolitico si può tornare ai nodi profondi che sono implicati. A tal fine è
forse utile fare un passo indietro e farsi carico della classica obiezione marxista
occidentale per la quale l’eurocentrismo, o l’Occidentalismo, non è solo
ideologia o cultura quanto un processo contraddittorio ma ascendente. Da una
parte è dominio e sfruttamento legato all’affermazione del modo di produzione
capitalistico, ma al contempo esso, secondo una classica mossa hegelo-marxiana,
in quanto in sé contraddittorio produce sia dominio sia liberazione. Nel
senso che la sua dialettica interna contiene lo sfruttamento, ma anche
la razionalizzazione; quindi, con essa, il potenziamento delle forze
produttive, il sapere scientifico e tecnico, e, quel che più conta, la
potenziale eguaglianza formale. Eguaglianza che si può rivoltare in dignità e
riconoscimento umano o essere tradita (il ‘freddo calcolo’ di Marx, o dei due
suoi interpreti primo novecenteschi Werner Sombart[66]
e Max Weber[67]). In questo snodo
teorico-politico normalmente la ricostruzione storica (o meglio, la lettura
storica alla luce di una teoria) precipita immediatamente, per effetto della
coppia organizzatrice cruciale emancipazione/reazione, in un interdetto
politico: secondo questa lettura, essere contro il dono dell’Occidente non è
semplicemente insensato, è reazionario.
Messo in questi termini siamo di fronte allo snodo
teorico fondativo del dominio occidentale, e delle sue giustificazioni anche
critiche. Inoltre, ed al contempo, ad un elemento solido, non privo di
riscontri difendibili. Un elemento da interrogare sulla base di questo quesito:
la contraddizione tra sfruttamento ed emancipazione è espressione di un
contenuto dialettico la cui dinamica procede da sé, per sua stessa natura, o
non rappresenta, piuttosto, solo un potenziale che può, o meno, essere attivato
dalle lotte? Ovvero reso effettivo dalla volontà, dagli eventi. Un’azione che
si dà in un progetto, ma non discende necessariamente da una dynamis?
Il rischio intrinseco, infatti, a questa grande mossa
hegeliana e poi marxiana, perfettamente comprensibile nel suo contesto, è di
affidare il futuro alla ‘provvidenza’ laica dei destini progressivi della
tecnica (nel senso di incorporati in essa)[68].
Ovvero in un solo blocco, del capitalismo e della classe che questo
suscita ed incuba. La mossa di stabilire il Vero e Falso in sé, o il Giusto e
l’Ingiusto, riconducendoli ad una totalità che dispone di leggi immanenti nel
divenire, rischia sempre di scivolare inavvertita (soprattutto quando
estrapolata dal contesto della lotta vissuta biograficamente da Marx che si
svolse nella dialettica concretissima delle formazioni che si agitavano alla
metà dell’Ottocento, tra giacobini tramontanti, liberali, fabiani, anarchici,
mazziniani e più oltre[69])
nel determinismo ed evoluzionismo. Labriola[70]
ricordava che per attivare il potenziale della formazione e
trasformazione della società servono condizioni specifiche e
contemporaneamente è indispensabile la forza di intenderle, queste condizioni,
come mutabili. “Potenziale” è, insomma, sia potentia[71]
sia possibilità, quindi evento.
Qui, in genere, nella tradizione marxista viene
introdotta una distinzione tra la forma storica e la forma sociale.
Per cui il capitalismo, l’Occidentalismo (e persino il colonialismo), avrebbero
una forma sociale di oppressione e sfruttamento, da condannare e
combattere, e, allo stesso momento, un contenuto materiale, o storico,
nel quale è dialetticamente connaturato un potenziale di eguaglianza e lo
scatenamento delle forze produttive. Secondo l’accusa standard, senza
considerare questa distinzione hegeliana, si rischia di scivolare semplicemente
nella riattivazione di contenuti trasmessi dalla tradizione romantica o dalle
forme di nazionalismo più reattive che non mancano anche nelle lotte di
liberazione anticoloniale più generose (o nelle forme più idiosincratiche delle
“politiche dell’identità”[72]).
Non è irragionevole, lo stesso Dipesh Chakrabarty, nel suo importante Provincializzare
l’Europa[73]
ha questa preoccupazione al suo centro. Quindi si può cadere in forme di
anticapitalismo romantico (che hanno antesignani nel pensiero aristocratico
Sette-Ottocentesco, ma si impongono anche nel Novecento e tracimano fino ad
oggi), varie versioni di ‘primitivismo’ (particolarmente attive nei margini dei
movimenti metà-Novecenteschi della cosiddetta ‘controcultura’, ed anche questi
tracimati in forma irriconoscibile fino ad oggi), o di ‘terzomondismo’ (che
muove dagli anni della seconda metà del Novecento, e si sviluppa in forma di
rivendicazione di un non ben chiaro ‘altro’ dal capitalismo[74]).
È proprio a partire da questa tensione che si apre lo
spazio per una comparazione tra universalismi storici, e per un’interrogazione
delle forme della storia che essi presuppongono. Mentre, in estrema
sintesi, la dialettica hegelo-marxista immagina una totalità che si realizza
attraverso la contraddizione e il superamento (Aufhebung)[75],
altre tradizioni – per esempio, come abbiamo visto, quella confuciana o quella
taoista – vedono la storia piuttosto come una trasformazione graduale, non
lineare, armonica, spesso invisibile, in cui la forza non si manifesta nella rottura,
ma nella capacità di adattarsi alla propensione delle cose. Allo stesso modo,
il pensiero andino[76],
o le filosofie africane[77]
della relazione, propongono immagini del tempo e del cambiamento che non
presuppongono un fine universale, ma una coesistenza plurale di direzioni e
soggettività. Tutte queste cosmologie rappresentano anche modelli
alternativi di pensare la liberazione. In questo senso, si potrebbe dire
che la questione dell’universalismo non si risolve opponendogli il relativismo,
ma cercando di articolare un “universalismo dal basso”, o dalla periferia;
delle cosmotecniche o discorsi sui diversi orizzonti cosmologici che emergano
concretamente, insieme all’attivazione di soggettività suscitate nei conflitti
e nei dialoghi, da esperienze storiche, culturali e spirituali diverse.
Esperienze capaci di riconoscersi in un orizzonte di liberazione, ma senza
fondarsi su un unico modello di razionalità o di storia già dato[78].
Un orizzonte che non può essere anticipato in una teoria, o una dottrina.
A questa visione può essere opposta un’altra possibile
interpretazione per la quale non si è “eurocentrici”, se, pur ritendo che i
valori europei siano di fatto universali si accetta che la cultura fiorita nel
sette-ottocento in Europa non sia legittimata per questo solo fatto a dominare
e opprimere. I valori ‘scoperti’ per la prima volta in Europa sono, quindi, da
difendere verso il particolare e il molteplice erga omnes in quanto portatori
(anche) di emancipazione sul piano, per così dire, oggettivo (o universale). Oppure
se si ammette che il capitalismo possa e debba piegare tutto il mondo alla sua
valorizzazione perché più efficace nella valorizzazione delle forze produttive
(se mai fosse vero). Chi non fosse del medesimo avviso avrebbe, allora, la
colpa di coltivare un “multiculturalismo astratto”. In sostanza quella di
fuggire dal conflitto e dalla necessità di mettere a confronto le diverse
prospettive di “libertà”. Ovvero di promuovere una forma di dottrina filosofica
che può essere il “cavallo di troia” nel quale può passare un “regresso”
culturale, travestito da anticapitalismo. Secondo questa influente ipotesi l’equazione
da contrastare sarebbe lo schiacciamento di ‘capitalismo’ in ‘universalismo’ e
quindi ‘progressismo’ i quali, tutti, si rovesciano inevitabilmente in
‘imperialismo’.
Una versione sofisticata ed interessante di questa
tesi si potrebbe attribuire all’ultimo Domenico Losurdo in La questione
comunista[79].
In quello che doveva essere il secondo volume di una trilogia (il primo, Il
marxismo occidentale[80],
era uscito nel 2017 ed il terzo, mai scritto, doveva trattare del comunismo
cinese[81])
il nostro sostiene che l’impresa comunista può essere rivitalizzata solo se ha pieno
rispetto del ‘movimento reale’ e impara a muoversi nel ‘conflitto delle
libertà’. Dunque, se impara a non avere timore della necessità di gestire
il potere, e quindi il conflitto. L’ultimo lavoro di Losurdo è costantemente
diretto a combattere la duplice tenaglia che neutralizza il potenziale
di liberazione della tradizione marxista occidentale: una tenaglia data dalla
socialdemocrazia e dal radicalismo messianico come forme, entrambe, della fuga
dal conflitto. Il punto è che nel ‘groviglio’ che fattualmente si dà nella
realtà sociale si è spesso costretti a scegliere tra diverse libertà.
Ora, secondo la visione di Losurdo, a ben vedere capitalismo
e imperialismo sono connessi intimamente, ma non così universalismo
e progressismo. In altre parole, la cultura progressista e universalista
non sarebbe connessa necessariamente con lo sfruttamento capitalista, ma
rappresenterebbe piuttosto la sua contraddizione dialettica; al contempo
contenuta e superante nel movimento delle lotte storiche. Per cui anche
l’atteggiamento anti-universalista, in linea generale (di nuovo per
l’incomprensione della sua relazione di contraddizione dialettica con il
moderno capitalismo), porterebbe alla fine, e necessariamente, ad esiti
“reazionari”. Finendo, ad esempio, di valorizzare l’autogoverno comunitario,
una delle “libertà”, contro le rivendicazioni individuali, le altre “libertà”.
Non sono di questo parere,
ritengo che questo interdetto, anche in questa forma attenuata che contiene
molte ottime ragioni, sia, a ben vedere, profondamente incorporato nella
cultura che condividiamo in quanto figli della tradizione escatologica e
messianica giudaico-cristiana. Questa cosmotecnica che si pensa universale, con
le sue stringenti camicie di nesso (originate dall’esistenza di un unico Dio,
da un’unica storia della salvezza, e dalla fratellanza umana sotto un unico
Padre), è indissolubilmente intrecciata alla nozione di progresso/salvezza. Una
nozione laicizzata nel corso dell’Ottocento in sviluppo delle forze produttive
e dell’impresa razionale tecnico-scientifica. Di qui l’horror vacui che questa
struttura nativa e culturale produce davanti a nozioni come “multiculturalismo”
e “relativismo” (in tutte le sue versioni). Questo orrore, causato dalla
preminenza della nostra forma di vita e delle logiche che porta con sé, ha un’enorme
forza di oscuramento delle alternative. Dove queste non ci sono si deve
affermare l’Uno.
In
sostanza, questa interpretazione, anche la sua forma apparentemente così
educata e domesticata, individua nel nesso sviluppo
tecnico/modernità/capitalismo una posizione centrale e decisiva. L’impresa
tecnico-scientifica, nel momento in cui dissolve il mondo tradizionale e le sue
cosmotecniche, è intrinseca nell’affermazione del capitalismo come destino e
coincide in effetti con la modernità. Tutte queste sono caratteristiche che si
sono date in Occidente e rappresentano quindi il suo lascito al mondo. La
cosmotecnica Occidentale è dunque universale. Questa interpretazione, in
effetti affermatasi nel tardo Ottocento europeo si identifica nell’impresa
della modernità e nell’affermazione della sua forma universale, grazie all’intenzionale
dimenticanza delle origini plurime e cooperative, ed ai prestiti, della impresa
tecnico-scientifica moderna, e, d’altra parte, anche tutte le tradizioni
razionaliste presenti nelle altre culture (in quella araba, intanto, e poi
anche in quella indiana). Si tratta di una complessa costruzione: la tecnica
viene vista come esito della razionalizzazione e disincanto del mondo; la modernizzazione
come esito della secolarizzazione e dell’illuminismo, insieme all’urbanizzazione
e all’industrializzazione, con il correlato della crescita della borghesia e
quindi dell’individualizzazione; il capitalismo come esito ultimo della
razionale valutazione di mezzi e fini e dell’orientamento alla massimizzazione.
Nessuna di queste caratteristiche, se pure hanno visto un’accelerazione che ha
prodotto dirompenti effetti di potenza nell’Ottocento, sono uniche ed esclusive
dell’Europa[82].
Ad
esempio, in Orizzonti, libro recente di James Poskett[83],
viene raccontato il contributo della medicina azteca, della scienza islamica,
del rinascimento ottomano, dell’astronomia africana o cinese, ed indiana, dei
navigatori del pacifico, delle relazioni di Newton con gli scienziati russi,
dei naturalisti occidentali con quelli Tokugawa, del dawinismo Meiji o Qing,
dell’ingegneria ottomana e della fisica giapponese, dei viaggi di Einstein in
Cina e delle genetiche indiane, russe. Sono state oscurate le tavole di al-Tusi
e al-Battani, cui l’astronomia copernicana deve molto, la medicina di Avicenna[84]
(Ibn Sina), gli studi di Ibn al-Haytham e le sue relazioni con fisica ed ottica
moderne, le tecniche polinesiane di navigazione e tante altre.
La
scienza moderna coltiva, in effetti soprattutto a partire dall’Ottocento, il
mito di essere stata inventata da poche menti e tutte europee in un periodo che
va dal 1500 al 1700. Al contrario, Copernico riprese procedimenti matematici
che individuò in testi arabi e persiani, mentre astronomi ottomani percorrevano
l’Europa per scambiare visioni e teorie. D’altra parte, la scienza occidentale era
anche debitrice della tradizione ellenistica, III secolo a.C., cosiddetta
“Alessandrina”[85]. Ad Alessandria studiò
anche Archimede come Eratostene. Crisippo invece ad Atene, mentre bisogna
ricordare anche Filone di Bisanzio, Apollonio di Perga e Ipparco di Nicea del
secolo successivo[86].
Tutto questo fervore terminò con la conquista romana[87],
anche se tracce si registrarono fino al tardo impero ed alla vittoria del
cristianesimo. Si trattava di scienza, perché non riguardava oggetti concreti
ma enti teorici specifici, ed aveva struttura rigorosamente deduttiva, si
applicava con regole di corrispondenza. Questa struttura non era presente nella
tradizione filosofica classica (Platone e Aristotele), ma si addensò solo a
partire dalla conquista macedone della Persia e dell’Egitto. Questa è la tesi
di Russo, in quanto al momento della conquista macedone la civiltà greca venne
intimamente in contatto con la superiorità tecnica delle ben più antiche
civiltà mesopotamica ed egiziana. D’altra parte, non era una cosa completamente
nuova. Le civiltà più antiche erano state in costante contatto con la
civilizzazione greca[88],
ma quando i macedoni dovettero gestire economie e tecnologie enormemente più
complesse, con metodi gestionali e di analisi razionale in parte propri, comparve
una nuova capacità di connessione tra il livello astratto delle teorie e
l’azione concreta.
La
ripresa della prospettiva scientifica, in un nuovo e più potente contesto e
sotto motivazioni molto più forti (negli anni in cui l’Europa si allargò al
mondo, ed ebbe bisogno di mettere a frutto il dominio che si presentava e via
via consolidava) avvenne poi nei ‘rinascimenti’[89]
anche come riscoperta, spesso tramite manoscritti arabi, dell’ottica, delle
maree e gravitazioni, delle cosmologie, etc. ellenistiche[90].
Insomma,
la cultura è sempre stata trasmissione e contaminazione, ed è sempre stata
connessa con contesti ed obiettivi, condizioni materiali e possibilità. Negarlo
è uno specifico dispositivo di potere, che si affaccia ogni volta si viene
sfidati. I cosiddetti “valori europei” sono, essi stessi, opera del mondo[91].
L’Occidente ha invece voluto, dal XIX secolo, che razionalità e quindi progresso
fossero suoi monopoli, se mai esito ultimo del “miracolo” greco; ha preteso che
le altre culture fossero statiche o irrazionali; dichiarato la modernità come prodotto
esclusivamente europeo e frutto autonomo delle sue invenzioni
tecnico-scientifiche. In alcune versioni prodotto del capitalismo stesso.
Tuttavia, le più recenti storie delle tecniche e della loro diffusione
evidenziano come l’impresa tecnica e scientifica non sia affatto appannaggio
dell’Occidente europeo, né la forma di fabbrica. Come riporta Goody, nel 1175
più di mille operai lavorano nella fabbrica di Hangzhou in Cina, spesso altre
migliaia nei mulini per la carta nello Jiangxi, e l’importazione di questa carta
prodotta industrialmente a basso costo fa del mondo arabo il luogo di maggiore
cultura dell’epoca prerinascimentale e rinascimentale[92].
In Occidente questa tecnica arriva a Fabriano nel 1268 e in Francia nel 1348,
in Inghilterra solo nel 1495. Ma non è solo carta, la seta, lacca, la ceramica,
il bronzo, sono tutti prodotti in fabbriche che vedono divisione del lavoro,
controllo qualità, organizzazione del personale, standardizzazione che in
Occidente saranno importati (a volte con vere e proprie operazioni di
spionaggio, come per il filatoio a telaio a pedale importato dalla Cina a
Bologna nel 1500, o come le descrizioni di padre d’Entrecolles che vengono
tradotte da Wellgwood nella fabbrica dello Staffordshire del 1769).
Peraltro,
anche nel principale monumento del pensiero occidentale moderno, l’idealismo
tedesco, non mancano le influenze cinesi (come nell’illuminismo francese). Ad esempio, l’ultimo
grande filosofo della tradizione rinascimentale, a cavallo con la modernità,
Leibniz era un grandissimo ammiratore della civiltà cinese ed intrattenne
rapporti con i gesuiti missionari in Cina (come Bouvet[93]),
molto sensibili al confucianesimo. La inquadrava in effetti come un modello di
saggezza pratica e quindi dimostrazione della possibilità di una razionalità
etica naturale[94].
Quindi Kant, come diversi illuministi anche critici (Voltaire, Rousseau,
Montesquieu) considerava i cinesi un esempio di civiltà stabile, fondata sul
senso morale, ma anche una civiltà “ferma”. La sua idea, secondo la quale
l’ordine morale deve basarsi su una ragione pratica universale (e non
un’autorità esterna al soggetto individuale), può avere qualche assonanza con
il Tianxia, se pure in diverso contesto. Ancora Hegel descrive ampiamente la
civiltà cinese nella sua Filosofia della storia[95],
ma propone l’argomento per il quale questa non ha sviluppato una libertà
individuale realmente piena, pur avendo un ordine morale naturale profondamente
unificante. Per individuare possibili influenze, la caratterizzazione dello
Stato potrebbe risentire della concezione del mandato dal Cielo (天命), ma
anche la stessa idea dello sviluppo dinamico, sia pure conflittuale,
dell’equilibrio può avere una assonanza (ma in qualche modo anche opposizione[96],
come abbiamo visto) con il Tianxia.
Conclusione, contaminazioni
Per trarre una linea da questo complesso di problemi
che abbiamo dispiegato ci si può riferire al significativo ed interessante
dibattito scaturito dall’esperienza delle lotte anticoloniali e delle
successive esperienze statuali, con i relativi fallimenti e delusioni; un
dibattito che, attraversato correttamente, ci aiuti a ragionare sottraendoci
sia alla reificazione identitaria, sia al provvidenzialismo occidentale[97].
Molta critica è stata semplicemente volta a comprendere gli effetti culturali
della colonizzazione, o della influenza imperiale ai diversi livelli
dell’Occidente sul resto del mondo. Ma lo ha per lo più fatto in termini di
critica letteraria (ad esempio le interessanti opere di Said) o, spesso,
rifugiandosi nell’accademia. L’approccio più utile è quello che mette a
confronto la pretesa occidentale di vedersi come universale, e autorizzata a
fare del mondo la propria immagine, con la storia della reazione, altamente
differenziata, a questa pretesa. Quindi la storia della denuncia cinese del
‘secolo dell’umiliazione’ e dei successivi “movimenti di autorafforzamento” (di
cui la stessa rivoluzione è parte), della rivendicazione della ‘negritudine’,
pur nel suo rischioso essenzialismo, del marxismo alla Mariategui, delle
epistemologie del Sud di De Sousa, della battaglia di Fanon[98]
e Césaire[99],
e via dicendo. Il punto centrale è che le ‘tradizioni’ e le ‘forme di vita’
cambiano sempre e che costantemente si ibridano e contaminano; è dunque del
tutto errato considerarle astrattamente come compatte unità. Ad esempio, in
Iran, e più in generale nel mondo arabo, si può registrare, parlando con le
persone, come il vasto mondo culturale persiano sia da sempre attraversato da
secolari conflitti tra modernisti/tradizionalisti, religiosi/laici, molteplici
forme religiose (ci sono in pratica tutte le religioni note, con minoranze
anche di milioni di persone) e grandi differenze regionali; tutto è sempre in
evoluzione, anche per vie interne. Ma se le cose cambiano non lo fanno
necessariamente perché qualcuno porta “buone e ragionevoli argomentazioni”.
Forse di più perché porta buoni esempi, o perché nella dialettica interna il
potenziamento di relazioni ben riuscite induce la prevalenza di tendenze già
esistenti. Tendenze le cui radici e premesse sono contenute nella pluralità
interna custodita in ogni “tradizione”. Al contempo, in questo processo di
trasformazione e traduzione, contaminazione e identificazione (nel quale l’ego
si definisce sempre a fronte dell’altro e sempre contenendolo), si definiscono
anche le “libertà” che reciprocamente si riconoscono i soggetti e i relativi
“diritti”. Insomma, secondo una lettura della stessa posizione di Losurdo,
prima citato, nel contesto della sua traiettoria, “libertà” e “diritti” sono
costituiti nel conflitto e nel confronto, dalla scelta, e dal processo, e non
prodotti prima e fuori in un “catalogo” posto una volta per tutte. Sono un
prodotto delle cosmologie e non dell’universalismo astratto.
Si tratta di una mossa simile a quella che compie
l’ultimo Thomas Khun in L’incommensurabilità nella scienza[100],
nel momento in cui rinuncia alla necessità di un fondamento neutro, slegato
dalla cultura entro la quale si dà l’enunciato. Secondo la sua proposta, per
convalidare il contenuto conoscitivo sarà sufficiente un fondamento
localizzato, purché sia possibile in via di principio, trasferirlo. Ovvero
trasferire insieme il significato e le cose o situazioni che lo rendono
pertinente, nel corso di un processo[101].
Trasferire significato è, a sua volta, parte di un processo di
socializzazione o ri-socializzazione. In altre parole, significati e soggetti
si formano insieme. Secondo un processo di traduzione che prevede
necessariamente: perdita di informazione; aggiunta di nuove informazioni o
distorsione di altre presenti.
Per Khun, tuttavia, sapere che le traduzioni sono
sempre imperfette, non deve portare a scivolare verso l’assolutizzazione
dell’intraducibilità o incommensurabilità. Pretendere, infatti, di avere
un’identità pienamente scelta, formata e indiscutibile dall’esterno,
un’identità che basta a sé stessa ed è impermeabile a chi non vi appartenga (ovvero
non abbia fatto le medesime esperienze e sofferto i medesimi lutti), è la
strada perché solo la forza si esprima. Incidentalmente questo non vale solo
per le nazioni o le “culture” (la cui lotta sarebbe l’unica verità), ma anche
per le sub-culture che si schermano per affermarsi/difendersi (delle quali la
‘guerra civile’ occidentale è piena, si pensi ai ‘gender studies’, a diverse
forme di ambientalismo o femminismo radicali, oggi anche ai traumatizzati da
questa o quella crisi di cui è piena la storia recente).
Ogni totalità è, in definitiva, attraversata dalla
pluralità e queste dalle proprie contraddizioni; in esse ci sono, al contempo e
sempre, delle potenzialità che possono essere riscattate. Questa formulazione è
in linea con la migliore tradizione hegelo-marxiana, ma occorre renderla più
modesta. Espungendo la tentazione di trarne una teleologia che trovi forma in
una filosofia della storia decisa anticipatamente. Bisogna quindi piuttosto,
dall’interno e dall’esterno, compiere la mossa di disimplicare le premesse di
libertà e liberazione incorporate nelle diverse traiettorie culturali, o
suscitabili in esse; fare lo sforzo rimemorarle e sollecitarle. E fare ciò
senza esercitare il ruolo del maestro che indica una soluzione che possiede una
volta e per tutte, una soluzione astratta e oltre la storia. Ma direi di più,
occorre ritrarsi da ogni astrazione data (il che non significa da ogni teoria,
o discorso), sapendo che il proprio di ogni cultura è quello di non essere
identica a sé stessa (perché la sua stessa nozione è il risultato di una lotta
provvisoriamente vinta, di un’egemonia e delle sue necessarie astrazioni). Se
questo è vero, essa stessa al suo meglio non si può dare senza l’altro da sé;
senza specchiarsi in esso. Questa apertura all’altro da sé è, d’altra
parte possibile perché il proprio sé, e quello con cui ci si specchia, sono
entrambi rimandi di riflessi di ‘altro’[102].
Non
esistono, in altre parole, valori, principi e culture universali, se non per
effetto di una decisione, di un’imposizione. In primo luogo, interna, volta a
ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che sono stati dati. Che serve a
far tacere il suono dei morti. Che serve a ridurre le diverse cosmotecniche e
cosmologie al silenzio. Bisognerebbe allora con una sola mossa, doppia,
dimenticare l’universalismo ma non la tensione all’apertura, all’allargamento
del cosmo in modo che diventi comune.
Mettere a
confronto l’universalismo occidentale, e la sua pretesa di centralità
imperiale, e la spinta cinese alla “Comunità umana dal futuro condiviso”,
significa attraversare le dinamiche del moderno che suscitano e riattivano
potenzialità silenti, sfidano le cosmologie stratificate e plurali di cui è
pieno il mondo, individuano e dissolvono soggettività, creano nuove relazioni,
dialoghi e pratiche, creano nuove verità e mettono alla prova la tianxia e
l’aufhebung. Si tratta di conservare/superare negando, o di risuonare e
trasformare? Come raggiungere l’unità nella molteplicità, e l’armonia senza
ridurre all’Uno?
Senza
naturalizzare l’universalismo e chiudere alle altre cosmotecniche, alle
“logiche della liberazione” e genealogie storiche e culturali. Aprendolo alla
tensione incompiuta tra differenze, memoria viva delle lotte e dei mondi
negati, scoperta ed invenzione.
Capire che
le modernità sono molte, non sono il lascito dell’Occidente come non sono la
conquista dell’Oriente, restare coscienti della differenza incolmabile, e per
tutti, tra interpretazione e verità, ma, al contempo, della necessità di
coltivarne la tensione a percorrere il cammino della sua ricerca. Comprendere,
infine, che la ricerca è possibile solo nel decentramento e solo se si coltiva
lo stupore curioso per l’apertura all’altro da sé, possibile solo perché
anche il sé è un altro.
[1]
- Il cui esponente principale nel Novecento è Martin Heidegger che in “La questione
della tecnica”, una conferenza del 18 novembre 1953 a Monaco interpreta la
tecnica non come insieme di strumenti, bensì come svelamento dell’essere, o
come forma della vita che riduce tutto a fondo disponibile (Bestand), ovvero
risorsa calcolabile e quindi manipolabile. Molto semplicemente, e banalmente,
la tecnica è una delle vie di rivelamento dell’essere che orienta il modo di
rapportarsi con gli altri, ma anche al mondo stesso. In un certo modo è un
compimento della metafisica occidentale (e qui, in questa formula è presente
l’eurocentrismo anche di Heidegger), in quanto la tecnica è un’opera non
occidentale, ma del sistema mondo e policentrica. Esprime una verità del mondo
e fa sì che l’uomo stesso diventi risorsa da organizzare, quindi anche
consumare (e in questo riverbera anche la critica dell’alienazione nel primo
Marx). Altra fonte primaria, oltre allo stesso Marx, è Dialettica
dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor Adorno, edito nel 1947. In
questo influente testo i due francofortesi individuano nella tecnica la
razionalità strumentale e in essa una forma di pensiero orientata al dominio,
per cui individuano nell’illuminismo (occidentale) la via per creare una nuova
forma di soggezione che riduce il mondo ad oggetto di controllo. In questa
accezione, e questo è particolarmente importante, la tecnica è inseparabile
dallo sviluppo del capitalismo e conduce necessariamente alla reificazione dei
rapporti sociali. Le vie di fuga sono in Heidegger un altro svelamento
dell’essere (esempio quello artistico) e in Adorno il pensiero negativo e non
conciliato e nuovamente l’arte.
[2]
- Non è qui possibile fare una storia dello sviluppo industriale, ma il
pregiudizio sostanzialmente razzistico per il quale si tratti di una
‘invenzione’ anglosassone si scontra con la presenza di fabbriche con migliaia
di lavoratori e avanzata divisione del lavoro nel XI secolo in Cina e poi nel
mondo arabo nei secoli seguenti e poi nell’Italia centrale, soprattutto Venezia
e Bologna, ma anche Firenze. Pratiche che nel XVI e XVII secolo si
generalizzato e trasferiscono in Gran Bretagna, dove trovano alcune condizioni
potenzianti, come la disponibilità di risorse energetiche abbondanti ed buon
mercato e un fiorente mercato coloniale in grado di assorbire le eccedenze e
fornire materie prime, senza dimenticare il puro e semplice saccheggio di
risorse monetarie e umane dal resto del mondo.
[3]
- George Bataille, in due saggi del 1933 (La nozione di dépense) e del
1949 (La parte maledetta), ha introdotto l’idea, abbastanza
aristocratica, che se l’essere umano e la intera società sono strutturati
secondo l’utilità perdono qualcosa di essenziale. Piuttosto la mera vita trova
senso fuori di questo, nella dépense (il dispendio), necessariamente
improduttiva ed anche distruttiva di valori materiali (il sacrificio sacro, le
feste, la stessa guerra, l’erotismo e l’arte). Ciò che è da mettere al centro è
l’eccedenza da ogni funzione, l’inutile, l’esuberante.
[4]
- Yuk Hui, Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, Nero
2021.
[5]
- Anzi, è piuttosto evidente una diversa postura da parte della potenza
americana, che veste (o forse vestiva, dato che la retorica
dell’amministrazione Trump è significativamente diversa) il suo bisogno di
potenza di abiti missionari e quella cinese, che promuove una cooperazione
orizzontale spoglia di rivendicazioni di civilizzazione.
[6]
- I contatti tra l’Occidente e la Cina sono in realtà millenari, ma raramente
diretti. Le relazioni tra l’Europa (sia al tempo dell’Impero romano, sia nei
secoli successivi), sono stati per lo più mediati dal mondo arabo e persiano. A
partire dal XVI e XVII secolo si intensificarono per via dei crescenti scambi
commerciali diretti (portoghesi, olandesi, francesi, inglesi), sostanzialmente
acquistando tè e vendendo oppio. Ma la Cina si difese sempre limitando gli
scambi diretti, ed i luoghi di interscambio, e facendo uso di mediatori. Le
cose cominciano a cambiare dopo le “Guerre dell’Oppio”, nelle quali il celeste
impero viene sconfitto due volte e costretto ad aprirsi. Il primo momento è il
cosiddetto “Movimento di autopotenziamento”, dopo il 1861, quando vengono
mandati studenti in Europa, tradotti testi scientifici e tecnici, importate
tecnologie. Ma, al contempo, il mondo tradizionale cinese piano piano comprese
che non si trattava solo di qualche tecnica isolata, l’esperienza della
trasformazione del Giappone della Restaurazione Meiji che in venti anni si era
trasformato in una potenza regionale all’occidentale, mostrò che bisognava fare
di più. Dall’inizio del Novecento una n nuova generazione di riformisti, organizzati
da Kang Youwei, avviò lo studio di Hobbes, Adam Smith, Darwin e Rousseau, la
cultura e filosofia europea. La reinterpretazione dello stesso Confucio come un
coraggioso riformista. Il fallimento del tentativo, dopo solo cento giorni, fu
il preludio alla rivolta dei Boxer nel 1900, ed all’intervento multinazionale
che la schiacciò. Liang Qichao propose di introdurre in Cina la democrazia e i
“diritti”, diventare una nazione. L’emergere del nazionalismo cinese prese una
connotazione antimancese, ovvero razziale Han. Ciò innescò la rivoluzione del
1911 e la nascita della Repubblica di Sun Yat-Sen che promulgò i “Tre principi
del popolo”, nazionalismo, democrazia, benessere. La sua immediata caduta diede
avvio ad un’epoca di disordini che portò al “Movimento del 4 maggio” e il
ricostituito Guomindang di Sun e poi, alla sua morte, di Chiang Kai-shek.
Seguono gli eventi noti, con la Seconda Guerra, l’invasione giapponese, la
guerra civile e la vittoria finale del Partito Comunista.
[7]
- Il “Secolo dell’umiliazione” è il periodo dal 1840 al 1949 che intercorre tra
la prima “Guerra dell’Oppio” e la vittoria del PCC.
[8]
- Nel 1840-42 la Cina perde la Guerra dell’oppio contro l’Inghilterra, causata
dalla decisione imperiale di proibire e sequestrare l’oppio che stava
provocando enormi danni alla società cinese. Negli anni successivi,
l’allargamento del traffico e le indennità accordate drenano la ricchezza
liquida dall’economia e provocano un drastico impoverimento dei contadini nella
Cina meridionale. Di fatto gran parte del surplus affluisce in Occidente (in
particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti). Le tensioni che si
accumulano innescano nel 1851 una vastissima rivolta contadina Han, viene
proclamato il Taiping Tianguo (“Celeste regno della grande pace”) il quale,
sulla base di una radicale riforma agraria di tipo religioso e comunistico, si
impossessa della Cina meridionale e centrale e minaccia la capitale Manciù a
Nord. La rivolta dura fino al 1864 e costa decine di milioni di morti. Seguono
anni di espansione in tutto il mondo dei domini coloniali occidentali e l’avvio
della Prima Guerra Mondiale. La Cina attraversa una fase di pronuncia
dissoluzione del controllo centrale, aggredito dai Giapponesi, mentre crescono
fermenti nella gioventù colta delle aree urbane. L’8 gennaio del 1918 il
Presidente Wilson annuncia i suoi 14 punti, che creano grande attesa in tutto
il mondo coloniale. A Baku, dal 1° al 8 settembre del 1920 si tiene il
“Congresso dei popoli di Oriente”, che orienta le lotte in senso
antimperialistico.
[9]
- Il marxismo, in termini di formazione ideologica originaria, è sicuramente ed
interamente occidentale. Come mostra efficacemente Cedric Robinson in Black
marxism, ciò a partire dalla “concezione materialista della storia” di Marx
(poi trasposta in “materialismo dialettico” da Engels e successivamente, ovvero
positivizzato) innervata nella filosofia della storia hegeliana, che viene
messa “sui suoi piedi”. Ma anche alla visione incentrata sulla “interna
officina” del capitalismo che sottostima i rapporti di con-fusione e
contaminazione che da sempre contraddistinguono la storia europea e la nativa e
strutturale importanza della relazione costitutiva dell’accumulazione
capitalista con il sistema-mondo (non solo “originaria”). Le due cose innervano
la scelta, e caratterizzazione, della “classe lavoratrice” (senza attribuzioni)
come motore della rivoluzione e di questa come movimento che promana
dall’interno (secondo una rilettura della tradizione filosofica europea, di
Aristotele in particolare). Secondo questa declinazione razionalista e
universalista (specificamente connessa con la tradizione ebraica che giunge a
Marx dalla madre e cristiana nella quale è immerso), la società borghese è
interpretata come compimento della storia precedente e trampolino del salto
finale e veicolo di una compiuta razionalizzazione di tutte le relazioni
sociali. Alcune declinazioni della tradizione marxista, in particolare sulla
linea delle concrete rivoluzioni nel Novecento (ovvero quella da Lenin a Mao, e
poi il marxismo caraibico, quello africano e via dicendo), e riarticolazioni
teoriche (il marxismo newyorkese di Baran e Sweezy e la seguente “teoria della
dipendenza” di provenienza sia Sud Americana sia Africana o le teorie del
capitalismo razzializzato e post-coloniale intorno a figure come Maurice
Thorez, José Carlos Mariategui, Ceril James, Huey Newton, Amilacar Cabral,
Raymond Williams, Gayatri Spivak, e altri) hanno cercato di superare alcuni di
questi limiti. Limiti riconducibili soprattutto alla posizione storicista,
teleologica e universalista che presuppone il modello Occidentale storicamente
dato come modello.
[10]
- La storia del PCC è intrecciata con la storia della decolonizzazione della
Cina dal dominio occidentale, dall’aggressione giapponese, e successivamente
alla vittoria allo sforzo di costruire un corpus teorico che si inserisse nel
movimento internazionalista senza perdere le specificità date dalla situazione
e tradizione culturale. I problemi originari sono la situazione derivante dalla
dialettica città-campagna, la dominazione economica occidentale, la lotta
antimperialista e per la sopravvivenza come nazionale, la lotta di classe. La
rivoluzione è la risposta all’esigenza di sviluppare istituzioni efficienti in
un’epoca di disgregazione ed umiliazione e di governare una modernizzazione
ineguale che produceva effetti disgreganti profondamente sentiti dalle
strutture comunitarie contadine. Alla fine, contrariamente alla vulgata
marxista, è il mix di tutte le rivoluzioni affermate, invariabilmente avvenute
durante fasi di accelerazione e trasformazione disordinate. Certo, la
rivoluzione riempie un vuoto culturale, mettendosi al posto dell’autorità
imperiale, ma nella prima fase distrugge intenzionalmente la base economica del
potere sociale nei villaggi, i lignaggi, le associazioni religiose e le società
segrete, e collettivizza eliminando o ponendo sotto strettissimo controllo il
commercio privato. La prima parte della storia ideologica marxista cinese è
caratterizzata dal confronto e scontro con la prospettiva russa, e stalinista
in specie. La prima recezione, intorno alle figure di Li Dazhao (1889-1927) si concentrò
sull’applicazione della prospettiva del materialismo storico all’analisi delle
radici sociali e strutturali della crisi, ma negli anni Trenta il modello
stalinista di lettura del processo storico (il “diamat”) venne contestato da
alcuni intellettuali marxisti come Jian Bozan (1898-1968), Fan Wenlan
(1893-1969), Li Shu (1916-1988), che misero a tema il carattere “europeo” del
marxismo e quindi di “modello generale”. Lo scontro formativo è quello tra Wanh
Ming, il leader dei cosiddetti “ventotto bolscevichi” (di stretta osservanza
staliniana) e lo stesso Mao che oppose la tesi dell’assenza di un solo marxismo
“astratto”, in favore di un marxismo che si articolava e dispiegava nelle forme
nazionali e locali. Dunque “sinizzato”. A partire dalla Conferenza di Zunyi del
1935 la linea di Mao si afferma (per consolidarsi a partire dal 1941 per
consolidarsi nel 1944) la tesi di Mao è che bisogna legare strettamente la
teoria generale del marxismo-leninismo con la pratica della lotta
rivoluzionaria nelle campagne e la mobilitazione della piccola borghesia. Linea
maoista che, a parere di Li Zheou, alla fine affondava le proprie radici in una
rivisitazione della tradizione cinese e non nel marxismo originario. In questo
senso, il marxismo cinese non è solo un adattamento, ma una vera e propria reinvenzione
del progetto moderno, nella quale il partito prende il posto dell’impero, e la
dialettica storica si intreccia con la continuità profonda del pensiero
politico e cosmologico cinese. Il rapporto tra marxismo sinizzato, sin
dall’origine, e tradizione confuciana riscritta è dialettico, selettivo e
strategico al tempo. Fino agli anni Settanta si tratta di un conflitto esibito,
poi, da Deng in poi con la messa in sordina della lotta di classe in favore di
una più esibita spinta alla modernizzazione i valori di ’armonia (和),
la gerarchia funzionale, il culto dell’educazione e del bene pubblico, la
centralità del dovere comunitario vengono in primo piano. Confucio in Xi e nei
suoi predecessori è letto come un nazionalista morale, in tensione potenziale
con il carattere egualitario e universalista del marxismo. Tu Weiming lo
definisce questa sintesi “umanesimo confuciano con caratteristiche cinesi
moderne”. Il maoismo – pur nella sua retorica iconoclasta – non si limita a
distruggere la tradizione, ma la reinventa, attraverso un processo di
dislocazione e reinsediamento del marxismo all’interno dell’universo culturale
cinese. Ciò che viene assunto dal confucianesimo, anche nella sua fase di
critica, è il valore della totalità etico-politica, l’idea di una moralità
pubblica fondata su relazioni armoniche, la centralità del bene comune, la
responsabilità dell’intellettuale e del sovrano come guida morale della
collettività. Una delle principali traslitterazioni è quindi tra Partito e
Impero, garante della stabilità, mediatore tra Cielo e Terra, custode della
continuità culturale. In questo senso, la risemantizzazione del confucianesimo non
è semplicemente ideologica, ma ontopolitica: serve a garantire la
legittimità profonda dello Stato come autorità morale oltre che politica. Lo
sforzo è di creare una forma alternativa di modernità che sia imperniata su
un’etica pubblica post-individualista. In questo quadro, il confucianesimo
stesso smette di essere una tradizione “chiusa” e viene risignificato come
dispositivo moderno, selezionato, scolpito, talvolta manipolato, ma comunque
riattivato come forma di memoria utile al governo del presente. La tradizione,
come la rivoluzione, non viene semplicemente “subita”, ma usata come archivio
di senso, campo di battaglia, risorsa strategica. Un punto di equilibrio tra i
più importanti tra l’impulso universalista e storicista del marxismo e la
prospettiva morale e umanista cinese è nell’immagine (non “concetto”) di
tianxia di cui parleremo più avanti.
[11]
- Xi Jimping, “Sforzarsi di realizzare una evoluzione creativa e uno sviluppo
innovativo della cultura tradizionale”, in Governare la Cina, II, Giunti 2019,
p. 405.
[12]
- Franz Fanon, Pelle nera maschere bianche, Edizioni ETS, 2015 (ed. or.
1952); Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 1962 (ed.or. 1961);
Franz Fanon, Scritti politici I e II, Hydra, 2006 (ed. or. 2001)
[13]
- Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre corte, 2010 (ed. or.
1955).
[14]
- Edward Said, Orientalismo, Einaudi 2001 (ed. or. 1978); Edward Said, Cultura
e imperialismo, Feltrinelli, 2023 (ed.or. 1993).
[15]
- Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, 2004 (ed. or.
2000)
[16]
- José Carlos Mariategui, Difesa del marxismo, PGreco, 2021
[17]
- Boavenura De Sousa Santos, Epistemologie del Sud. Giustizia contro
l'epistemicidio, traduzione di Samuele Mazzolini, Roma, Castelvecchi, 2021.
[18]
- Samir Amin, Eurocentrismo, La Città del Sole, 2008
[19]
- Achille Mbembe, Critica della ragione negra, Ibis 2016 (ed.or. 2013);
Achille Mbembe, Emergere dalla lunga notte, 2018 (ed. or. 2012)
[20]
- Si veda la critica che fa Jean-Loup Amselle in Il distacco dell’Occidente,
Meltemi 2009
[21]
- Amselle, cit., p p. 216
[22]
- A partire dagli anni del secondo decennio del XXI secolo nelle principali
università anglosassoni, e poi in parte della società orientata verso la
sinistra, è diventato necessario mostrarsi woke (sveglio, attento alle
discriminazioni e alle microviolenze). Se pure essere attento a non rendere a
nessuno discriminazione e violenza è fondamentale per la vita civile, in realtà
questo movimento va molto oltre. In un contesto di critica alle “grandi
narrazioni” di liberazione (come il marxismo e il liberalesimo, ma anche le
religioni), invalso a partire dagli ultimi decenni del XX secolo intorno ad
autori iconici come Michel Foucault, Jacques Derrida e Gilles Deleuze, Lyotard,
Baudrillard e molti altri, al posto di discorsi generali di liberazione dal
taglio universalista ed incentrati sulle condizioni materiali (anziché su
diritti e apertura) venne impostato un discorso che focalizzava direttamente i
gruppi in diversa misura “oppressi”. Se alcune radici di questa posizione sono
rintracciabili nel lavoro di Said, Spivak, Derrick Bell e Kimberlé Crenshaw,
che svilupparono critiche situate e per certi versi anche condivisibili si
inserisce in un vasto movimento di riflusso che segue alla caduta del mondo
sovietico, delle speranze della decolonizzazione e alla fase unipolare. Questo
movimento vede l’affermazione di una nuova sinistra concentrata sui temi
culturali e dà il via a nuove specializzazioni universitarie (e solo dopo
movimenti di opinione) il cui nomi sono African American Studies, queer
studies, gender studies, latino studies e Asian american studies. Autori come
Chela Sandoval, Richard Delgado, Judit Butler, svilupparono un discorso che
l’ultimo Said tacciò di “vittimismo”. D’altra parte, come sintetizza Andrea
Zhok in un suo recente libro, se manca una verità morale alla quale appellarsi,
o collettività che lo fondi, e ogni giudizio è esito di rapporti di potere,
come voleva Foucault, allora ogni esercizio è ingiustificabile e legittimato
solo dai risultati. In fine vengono ad avere una preminenza le forme di
soggettività emarginate, vittime di effetti di verità narrativi infondati. Il
folle, il carcerato, il pervertito. Se nessun potere si legittima per la
maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un qualche fondamento sociale dato e
preesistente, allora nello scontro delle ‘volontà di potenza’, tutto sommato,
non resta che dire che i marginali, i pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio
di legittimazione. O, almeno, lo possono pretendere più di altri. Si
tratta in sostanza di un discorso non criticabile, imperniato su una postura
autoreferente e schermata, che esibisce il suo spirito antiautoritario e la
vocazione ribelle, sostanzialmente aristocratica. Cfr. da posizioni
anti-liberali Andrea Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi 2020,
p. 242 e seg. Yascha Mounk, La trappola identitaria, Feltrinelli 2024
(sia pure da posizioni liberali).
[23]
- Xi Jimping “Creiamo insieme un nuovo partenariato di cooperazione
reciprocamente vantaggioso e poniamo le basi per una comunità umana dal futuro
condiviso”, Discorso all’ONU, 28 settembre 2015, in Governare la Cina,
II, cit., p. 674
[24]
- Che racconta la straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una
confederazione di quattro popoli irochesi il quale cercò all’inizio del
Settecento di evitare che inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si
unissero contro la sua. Presumibilmente inviato come ambasciatore del suo
popolo in Francia, si fa critico sia del cristianesimo sia della logica della
trasposizione del potere sulle cose (la proprietà) in potere sugli uomini. I
suoi arguti argomenti, secondo Graeber, influenzano profondamente lo stesso
dibattito europeo contemporaneo sulla ineguaglianza. Uno dei più specifici
argomenti portati da Kondiaronk, e riportati in Dialogues curieux: entre
l’auteur et un sauvage de bon sense qui a voyagé, del 1703,
dell’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce, è che le leggi punitive
di stampo europeo, e la stessa dottrina cristiana della punizione eterna, non
sono rese necessarie dalla naturale cattiveria umana, ma da una forma di
organizzazione sociale che incoraggia il comportamento egoista e l’avidità.
Sono quindi le distinzioni tra “mio e tuo”, per usare le sue parole riportate
nel libro, a rendere “disumana” la vita in Francia. Come dice, “affermo che
quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi,
la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi”.
Insomma, “un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”. David Graeber, David Wengrow, L’alba di
tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022, p. 67
[25]
- Alcuni autori per approfondire tale concetto possono essere Edouard Glissant
e Walter Mignolo. Il secondo è un pensatore argentino, capofila del pensiero
decoloniale latinoamericano che con Aníbal Quijano, Enrique Dussel, Ramón
Grosfoguel, sostiene che la modernità occidentale è inseparabile dalla
colonialità, un sistema globale di gerarchie di potere, sapere che è emerso con
la conquista delle Americhe. E’ quindi necessario promuovere “altre geografie
del sapere” che si sottraggano al pensiero epistemico eurocentrico. Un concetto
chiave è la “pluriversalità”, ovvero la legittima coesistenza di molteplici
cosmologie, razionalità e forme di vita chiamate a convivere. Edouard Glissant,
poeta della Martinica, e voce del pensiero caraibico, vede l’identità come
aperta, molteplice e interdipendente (non ci si conosce se non attraverso la
relazione all’altro”, e promuove il concetto di “Tout-Monde” (Tutto-Mondo) una
visione come rete di interconnessione senza centro e periferia. Ne segue una
poetica della “creolizzazione” e della “opacità” (non ridurre l’altro alla
nostra misura). Rispetto al concetto cinese di tianxia, imperniato sulla
attrazione morale, l’armonia e la centralità relazionale, il concetto di
Tutto-Mondo è relazione caotica, invece che ordinata, ma in entrambi i casi
sono respinte le separazioni fisse e poste tra essere e mondo, identità ed
alterità, molteplicità separate e competitive.
[26] - Giacomo Gabellini, “Il matrimonio di interessi tra Stati Uniti
Cina è saltato”, Krisis, 16 aprile 2025;
[27] - Giacomo Gabellini, “Gli Stati Uniti al contrattacco: riscrivere la
globalizzazione per contenere la Cina”,
Krisis, 23 aprile 2025.
[28] - Giacomo Gabellini, “Sistema contro sistema: la controffensiva
silenziosa della Cina”,
Krisis, 30 aprile 2025.
[29] - Accordo di libero scambio, firmato ad Hanoi
il 15 novembre 2020 ed entrato in vigore dal 1 gennaio 2022, che include i
dieci paesi dell’ASEAN e Cina, Giappone e Corea del Sud, Australia, Nuova
Zelanda.
[30] - La condizione nella quale «un contendente
dispone della capacità di intensificare un conflitto in modi che risultano
particolarmente svantaggiosi o costosi per l’avversario».
[31] - Joseph S. Nye, “Soft Power”, Einaudi,
2005 (ed. or. 2004).
[32] - Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere [1948], Einaudi, Torino 1975 (scritti tra il
1929 e il 1935).
[33] - Antonio Gramsci, “Notarelle sul
Machiavelli”, in op.cit.
[34] - Il Partito, questo è essenziale, non
assorbe il senso comune, senza
sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo,
sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia
parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti
esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori,
scale di priorità, metri di giudizio).
[35] - Antonio Gramsci, op. cit., vol. Xiii, p. 1556.
[36] - Ivi, p. 1578.
[37] - Come fece Machiavelli, si tratta di
“mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere
efficienti”. Chiaramente per riuscire in questo difficile compito bisogna
“impostare esattamente e risolvere” il problema dei rapporti tra struttura e
soprastrutture, attraverso una “giusta analisi delle forze che operano nella
storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto”. Per questo
occorre distinguere tra i “movimenti organici” e quelli di congiuntura, di
minore portata storica. Occorre anche evitare di immaginare che le crisi
storiche fondamentali, nelle quali possono darsi diversi rapporti di forza e
possono determinarsi opposizioni “politico-militari” efficaci, siano
direttamente definite da crisi economiche. Per Gramsci è evidente che non è
così, esse possono certo creare condizioni più favorevoli per la diffusione di
un certo modo di pensare, o per impostare delle questioni; tuttavia, la cosa
dipende sempre dall’insieme dei rapporti sociali di forza.
[38] - Si veda il bellissimo Amitav Ghosh, Fumo
e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio,
Einaudi 2025 (ed. or. 2023).
[39] - Un movimento, della Storia, il cui soggetto
è l’individuo razionale e quindi libero in Kant o lo Spirito Assoluto in Hegel.
Spirito che poi Marx trasfigurerà nel “Capitale” e nella “classe universale”
del proletariato.
[40] - Come scrive Chow yin-Ching in La
filosofia cinese, (Ghibli 2015) il Tao (o Dao, secondo il sistema di
trascrizione) è un principio immanente che non agisce dall’esterno, anima e
trasforma gli esseri senza sforzo o scosse. Granet, in Il pensiero cinese
(Adelphi 1971) fa notare che sia concepibile più come forza che come essere, la
ricerca di una forza latente nei mutamenti delle cose.
[41] - Xi Jimping, “Gli scambi ed il mutuo
apprendimento rendono le civiltà più ricche e variopinte”, discorso al quartier
generale dell’Unesco, 27 marzo 2014, in Xi Jimping, Governare la Cina,
Giunti Editore 2016.
[42] - Dialoghi di Confucio, “Zilu”. Si
veda anche Lunyu 13,24, “he er bu tong”, dove “he” indica la
corrispondenza tra i suoni, nella quale ognuno esprime pienamente la propria
potenzialità articolandosi in perfetta sintonia con gli altri, questa parola
implica consenso (gongshi) che tiene tutti in gioco. Esclusione e
conflitto sono l’opposto del concetto di ‘armonia’ (una traduzione possibile di
“he”) che implica l’impegno di mediazione tra tutte le parti in gioco allo
scopo di realizzare una società che incontri il massimo consenso di tutti,
dando ascolto anche ad istanze diverse e contraddittorie, senza indulgere né
nell’autoritarismo di sceglierne una né nel libertarismo di lasciarle senza
armonia. La tensione tra ordine (zhi) e disordine (luan), sia a livello sociale
sia individuale e spirituale, è alla radice del perseguimento dell’armonia
nella ricerca costante del miglior punto di equilibrio tra le forze in gioco.
[43]
- Per una messa in discussione delle premesse antropologiche dell’uomo liberale
si può guardare, tra i tantissimi, il testo classico di Michael Sandel “Il
liberalismo e i limiti della giustizia”, Feltrinelli (ed. or. 1982). Nella
tradizione contrattualista liberale (Kant), la legge morale deve essere fondata
sull’essere fine in sé. Ovvero non nell’essere ancorata a qualche fine o scopo
buono per qualcuno di specifico. Solo così diventa possibile una società nella
quale “le esigenze di ciascuno siano in armonia con i fini di tutti”. Si tratta
di trovare una base antecedente a tutti i fini concreti e particolari. Proprio
perché scaturisce da un soggetto che è capace di volontà autonoma, o, come
scrive Sandel, un “soggetto che precede i suoi fini”. L’unico modo di essere
libero è quello di essere antecedente e indipendente dall’esperienza (sempre
particolare). Per Sandel questa concezione in primo luogo è impossibile, ogni
volta che si individuano dei diritti e dei valori, come universali, si è
inevitabilmente soggetti ad un autoinganno, si tratta infatti sempre di alcuni
valori di qualcuno. La relazione storicamente fondata del liberalismo
con l’egemonia della forma di vita borghese occidentale, e con l’immediatamente
presente colonialismo (con conseguente accumulazione originaria e creazione
delle condizioni di esistenza ed affermazione del capitalismo), poi tradotto in
imperialismo, e sempre in sciovinistica affermazione della presunta superiorità
della forma di vita occidentale sulle altre, è parte e movente di questa
illusione. D’altra parte, il liberalismo in sostanza non capisce la natura
“sociale” dell’uomo. E quindi attribuisce una priorità all’individuo, e quindi
ai valori individualisti, che necessariamente determina la neutralizzazione
dei più importanti valori di altruismo e benevolenza propri della natura
sociale dell’uomo. L’uomo non è, come voleva Hume, un mero e semplice “fascio
di percezioni”. D’altra parte, la mossa economizzatrice e parsimoniosa del
liberalesimo si fonda sempre sulla ipotesi antropologica (di derivazione
Hobbesiana) che gli uomini siano portati verso l’egoismo, che si tiene a freno
con l’interesse economico e la conseguente cooperazione di mercato.
un’antropologia filosofica che presume una pluralità ed individualità
delle persone e per questo necessita di postulare l’Io come “soggetto di
possesso” e capace del più radicale “disinteresse reciproco” (p.68). Un soggetto
di possesso, individuato antecedentemente e che si trova anche sempre ad
una certa distanza dai suoi interessi. Un individuo per il quale “nessun
impegno dovrebbe coinvolgermi così profondamente da non potermi riconoscere
senza di esso”. Ciò significa che la teoria liberale deontologica non ammette
tutti i fini, ma esclude anzi in anticipo qualsiasi fine “la cui adozione o il
cui perseguimento possa impegnare o trasformare l’identità dell’io, e respinge
in particolare la possibilità che il bene della comunità possa consistere in
una dimensione costitutiva di questo genere”. Ciò nega in radice la stessa
possibilità di una comunità sociale che sia sopra l’individuo, postulando, per
Sandel, un’esistenza separata di ciascuno.
[44] - “Il vero è il tutto. Il tutto, però, è solo
l’essenza che si compie mediante il proprio sviluppo”, George Wilhelm Friedrich
Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi 1995, p.69
[45] - Nella Prefazione alla Fenomenologia
della Spirito, Hegel scrive che “la vera figura nella quale la verità
esiste può essere soltanto il pensiero scientifico”.
[46] - Hegel, Fenomenologia, cit., p. 131.
[47] - Nel cosmo di Plotino, un intellettuale
egiziano alessandrino vissuto in epoca imperiale e turbolenta, le energie
vitali spirituali, reciprocamente contrapposte, partono dall’Uno e si riversano
sulle ipostasi dello spirito, dell’anima e della natura, dalle quali poi,
invertendosi, rifluiscono. Il movimento del mondo ha natura processuale (una
energeia ed una dynamis). Cfr. Jurgen Habermas, Una storia della filosofia,
Vol II, Feltrinelli 2024 (ed. or. 2019), p. 73.
[48] - Nel senso di essere il ricettore di
influssi e tradizioni di pensiero anche medio-orientali, che gli giungono per
via dell’influenza della grande tradizione egiziana, a sua volta intrecciata da
millenni con le tradizioni assira e babilonese, poi persiana. Si veda, ad
esempio, Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà
classica, Il Saggiatore 2011 (ed. or. 1987).
[49] - Cit. in Jurgen Habermas, Una storia
della filosofía, Vol I, Feltrinelli 2022 (ed.or. 2019), p. 360.
[50] - Si veda anche l’importante filosofo cinese
Zhao Tingyang (赵汀阳),
professore all’Accademia cinese delle scienze sociali, celebre per il libro Il
sistema Tianxia, del 2005 (The Tianxia System: An Introduction to the
Philosophy of a World Institution, Polity, 2021), ed il suo concetto di “governare
il mondo come una famiglia” (治天下如一家).
Concetto che prevede una nuova architettura globale, anche se centrata sulla
tradizione cinese come “luogo di maggiore responsabilità” per la tenuta del
mondo (in una espressa critica sia dell’ordine westfaliano, sia della egemonia
occidentale).
[51]
- Come noto termine della critica di Hegel a Kant, che identifica un continuo
spingersi avanti senza mai determinarsi. Ovvero, senza risolversi nel finito,
nella vita concreta.
[52]
- Si veda, Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi 2022, p. 128 e
seg.
[53] - Il periodo classico è detto anche delle
“Centro scuole”, nel quale, secondo la più antica lista di libri del periodo
Han (25-220 d.c.) vede nove scuole principali, tra le quali: confucianesimo,
taoismo, mohisti, legisti, logici e dialettici.
[54]
- Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, Einaudi, Torino,
2018, p. 127 e seg.
[55] - “Il classico della Via e della Virtù”,
è un testo poetico e politico ad un tempo, che viene normalmente letto come
critica al potere autoritario, all’interventismo nelle cose del mondo.
Predilige il lasciar fare, il valorizzare la debolezza come forza, in echi che
alla luce della tradizione Occidentale si direbbero simili ad un Tolstoj, ad
elementi anarchici e per certi versi stoici. Si tratta dell’altra grande
corrente del pensiero cinese, quasi coeva a quella di Confucio ed a esse
opposta.
[56] - Una terza grande scuola politico-filosofica
cinese classica è quella del Maestro Mo (Mozi) che enfatizza per la prima volta
il rifiuto della tradizione in favore della discussione razionale (bian),
la quale, tuttavia, non ha lavorano sull’ordine epistemologico, quanto sul
piano pratico e comportamentale. Cfr, Anne Cheng, Storia del pensiero cinese,
vol I, Einaudi 2010, p.84.
[57] - E poi, anche tramite questi il pensiero
post-moderno di Derrida, Deleuze e Foucault, ma anche, ed ovviamente la cultura
della non-violenza in molte sue declinazioni.
[58] - Martin Heidegger, Saggi e discorsi,
Mursia 1991, “La questione delle tecnica”.
[59] - Per Heidegger l’essenza della
tecnologia moderna non è a sua volta tecnologica, ma filosofica, nel senso che
consiste nell’imporre una trasformazione della relazione tra uomo e mondo per
la quale ogni essere è ricondotto ad essere ‘fondo’ o ‘riserva’, ovvero è
ridotto ad oggetto che può essere misurato, calcolato e sfruttato. Questa linea
di riflessione, che può essere compresa come riferita alla tecnica nella
modernità (in quanto la tecnologia è antica come l’uomo, ma questi ha vissuto
per quasi tutto il suo tempo in un mondo ‘incantato’ al quale sarebbe temerario
proiettare le nostre categorie e comprensioni) è stata pensata come propria
dell’Occidente. Conseguenza necessaria della metafisica occidentale.
[60] - Martin Heidegger, L’abbandono, Il
melangolo, Genova, 1983
[61] - Yuk Hui, Cosmotecnica. La questione
della tecnologia in Cina, Nero 2021
[63]
- La Conferenza di Bandung è il punto intermedio di un lungo processo che parte
con il Congresso dei popoli dell’oriente a Baku, nel 1920, del quale parleremo
in seguito, e il successivo Congresso dei popoli oppressi di Bruxelles nel
1927, oltre che la Asian Relations Conference convocata da Nehru nel 1947 nella
quale fu deciso di dotarsi di una organizzazione permanente. Nell’aprile del
1954 i capi di governo di Ceylon, India, Pakistan, Birmania, Indonesia si
riunirono a Colombo (Ceylon) per organizzare una grande conferenza
afroasiatica. Conferenza che fu convocata appunto a Bandung, invitando
venticinque Stati con l’esclusione dei movimenti di liberazione, con qualche
anomalia (come i due Vietnam e l’esclusione delle due Coree, oltre il mancato
invito ai paesi latino-americani e soprattutto dell’Unione Sovietica).
Parteciparono paesi socialisti, come la Cina, e filoccidentali, come il
Giappone, o neutralisti. Con qualche compromesso, mediato da Chou En-Lai da una
parte e da Nehru dall’altra si arrivò a una dichiarazione di condanna del solo
colonialismo “tradizionale” (mentre alcuni paesi volevano condannare anche
quello sovietico). Bandung è l’anello di congiunzione tra la sconfitta di Dien
Bien Phu e l’evento di Suez. Tutti e tre insieme fecero precipitare il
colonialismo europeo.
[64]
- Per questi temi si veda, ad esempio, “Dal Grande Gioco triangolare alla
polarizzazione. Circa la posizione diplomatica e strategica cinese: Qin Gang e
Yongnian Zheng”, tempofertile 19 aprile 2022.
[65]
- Si veda su questo concetto e la sua articolazione, in chiave comparata, il
lavoro di Francois Jullien, in particolare Trattato sull’efficacia,
Einaudi 1998 (ed. or. 1996); Pensare l’efficacia. In Cina ed in Occidente,
Laterza, 2006 (ed.or. 2005), Contro la comparazione. Lo ‘scarto’ e il ‘tra’
un altro accesso all’alterità, Mimesis 2014; L’identità culturale non
esiste, Einaudi 2018.
[66]
- Werner Sombart, Il capitalismo moderno, Ledizioni 2020 (ed. or. 1902).
La biografia intellettuale di Sombart, un autore ormai del tutto dimenticato, è
singolare: definito da Engels come l’unico professore tedesco in grado di
capire “Il Capitale”, coniò il termine “capitalismo” con questa opera.
Il lavoro di quello che all’epoca era percepito dai colleghi come un autore di
estrema sinistra (poi diventato di estrema destra) è connesso con la scuola
storica tedesca, ed è uno dei pochissimi tentativi di leggere lo sviluppo
storico dell’economia in modo sistematico (tracce di questo approccio sono
nella scuola degli Annales di Braudel e da questa via in
Wallerstein e poi Arrighi). Dal 1917 al 1940 ricoprirà la cattedra di
sociologia a Berlino e si spostò verso destra durante la Repubblica di
Weimar, muore nel 1941. Nel suo lavoro sono presenti temi chiaramente
tradizionalisti che negli anni Venti lo allontaneranno dal socialismo delle
origini per avvicinarlo al nazismo (con il quale intrattenne un ambiguo rapporto).
Per Sombart, in confronto con il mondo tradizionale, il
capitalismo si afferma su basi del tutto diverse. Esso è un sistema economico
che ha le seguenti caratteristiche: “è una organizzazione economica di
scambio, in cui collaborano, uniti dal mercato, due diversi gruppi di
popolazione, i proprietari dei mezzi di produzione, che contemporaneamente
hanno la direzione e costituiscono i soggetti economici, e i lavoratori nullatenenti
(come soggetti economici), e che è dominata dal principio del profitto e dal razionalismo
economico” (p.162). In esso i principi economici dominanti sono, quindi,
“il profitto ed il razionalismo economico che prendono il posto dei principi
della copertura del fabbisogno e del tradizionalismo”. Dunque lo scopo
dell’agire economico diventa il semplice aumento della somma di denaro
disponibile. Un obiettivo che Sombart definisce come “immanente l’idea di
organizzazione capitalistica”, il suo “scopo oggettivo”.
Evidentemente il nostro ha letto Marx per il quale il
capitalismo (anzi il “modo di produzione capitalista”) si contraddistingue per
l’accumulazione di “lavoro morto” (ovvero di denaro) del tutto indifferente ai
suoi mezzi. La formula di San Tommaso d’Aquino è rovesciata, il fine ultimo
dell’economia non è più “vivere bene” (nel proprio ruolo), ma creare “valore”,
in linea di principio indefinito ed illimitato. Il “valore” per il capitalismo
non è dettato da una struttura antecedente di ruoli, o dalla parola di Dio, è
una forma sociale, un modo di creare unità e dissolvere le differenze (la cui
potenza detradizionalizzante sarà evidente, ed alla quale alla fine Sombart
reagirà) che diventa visibile nella metrica del “denaro”. La finalità di tutto
diventa creare la massima quantità possibile di valore, cioè
di denaro che lo rappresenta.
[67]
- Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli
1991 (ed. or. 1904). Il “capitalismo”, nell’accezione che qui Weber usa (e che
è più larga di quella di Braudel), è connesso con la sistematica affermazione
della impresa borghese, con la nascita di questa classe centrale e con la
maturazione di possibilità tecniche. Con l’affermazione, quindi, di una
“razionalità [che] è condizionata in modo essenziale dalla calcolabilità dei
fattori tecnicamente decisivi, che sono i supporti di un calcolo esatto; ma,
invero, ciò equivale a dire che è condizionata specificamente dalla natura
peculiare della scienza occidentale, in particolare dalle scienze della natura
matematicamente e sperimentalmente esatte e razionalmente fondate” (p,45).
Razionalità e razionalizzazione sono qui termini non specifici del mondo
scientifizzato ed oggettivato, come ricorda subito “si può rendere razionale
una cosa da molti punti di vista”; quindi ciò che conta è “quali sfere sono
state razionalizzate e in che direzione”. Gli uomini, in tal modo, sono
diventati “specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si
immagina di essere asceso a un grado di umanità non mai prima raggiunto”.
[68]
- Qui sarebbe utile un confronto più profondo con le tradizioni africane o
andine, ed autori come Mariategui ed altri.
[69]
- Si veda, ad esempio, Gregory Clayes, Marx e il marxismo, Einaudi, 2020
(ed. or. 2018); o il vecchio ma valido Storia del marxismo, Vol 1. Il
marxismo al tempo di Marx, Einaudi, 1978.
[70]
- Si veda la lettura del grande filosofo marxista condotta in Alessandro
Visalli, Classe e Partito, Meltemi 2023.
[71]
- Come capacità, idoneità in sé a conseguire un dato risultato.
[72]
- la politica delle identità è piena di
mosse reattive che, se pur psicologicamente ed umanamente comprensibili,
finiscono per produrre disumanizzazioni simmetriche.
[73]
- Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, op.cit.
[74]
- Si veda Jean-Loup Amselle, Il distacco dall’Occidente, Meltemi 2009
(ed.or.2008).
[75]
- Si veda, ad esempio, Vladimiro Giacché, Hegel. La dialettica, Diarkos
2019.
[76]
- Ad esempio, in Sumak Kawsay il tempo è ciclico e relazionale; il cambiamento
non mira a un fine, ma all’equilibrio tra comunità, natura e spiriti
(Pachamama).
[77]
- Per l’ubuntu l’universale non è un principio astratto ma emerge dalla
reciprocità concreta (secondo la formula “io sono perché noi siamo”).
[78]
- Si veda ad esempio, Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per
un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, Meltemi, 2006
[79]
- Domenico Losurdo, La questione comunista, Carocci 2021.
[80]
- Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza 2017.
[81]
- I contenuti del terzo libro, indispensabile per comprendere la parabola
dell’impresa tentata da Losurdo, si potrebbero intuire dal progetto del
capitolo 4, presente nell’Indice 1 del secondo libro, che ne trattava.
Leggendolo troviamo, all’avvio del progetto di capitolo, una frase di enorme
peso: niente di meno che “Pensare la Cina [significa] pensare il
postcapitalismo”. Proseguendo, scopriamo che questo implica ragionare sulle
nozioni di ‘capitalismo autoritario’, anziché ‘democratico’ (quale è l’uno e
quale l’altro? Potrebbe non essere scontato se si fa caso alla nozione
losurdiana, centrale, di “conflitto delle libertà” la quale gioca nel
non rendere scontato che quando Losurdo, in un indice di prova mette a
confronto tra occidente ed oriente cinese da una parte un “capitalismo
autoritario” e dall’altro uno “democratico” intenda, come dovrebbe essere
scontato ad un occhio abituato alla retorica occidentale, attribuire il primo
alla Cina ed il secondo all’occidente. Infatti, la questione non è se sia ‘autoritaria’
una forma di governo, se reprima delle libertà, ma verso chi sia
autoritario e quale libertà reprima, in favore di quale altra
libertà. Dunque, potrebbe benissimo darsi che sia quello cinese ad essere una
forma di capitalismo in transizione che coltiva germi democratici e forme di
libertà estese a parte decisiva del popolo, mentre quello occidentale sia
autoritario verso le medesime componenti popolari. Che la democrazia sia dove
meno si vede, in quanto la sua forma e la sua sostanza non coincidono); ma
anche individuare la differenza cruciale tra la ‘espropriazione politica’, e
quella ‘economica’; quindi, di ‘economia di mercato non capitalistica’, o di
‘socialismo riformato’; infine comprendere se si è davanti una forma di
‘capitalismo di Stato’ o dello ‘stadio iniziale del socialismo’. Ancora,
ragionare sui sindacati (dei padroni i dei lavoratori); l’eguaglianza (‘più
perfetta’, o ‘rozza’, anziché ‘radicale’). Infine, nei capitoli finali
progettati nell’Indice 1, vediamo che pensare la Cina ed il postcapitalismo
significa anche trarre conclusioni su ‘politica ed economia’ guardando a ‘la
Cina e il mondo’; ovvero che si tratta di inquadrare il tema in una cornice
geopolitica realista, cara al nostro. E, infine, per comprendere la traiettoria
e l’orizzonte dell’impresa, alla luce delle tracce rimaste, dobbiamo concludere
che bisogna cercare di definire due domande aperte alla dinamica del ‘conflitto
delle libertà’ e quindi delle ‘lotte di classe’: la prima è se in Cina
è in gioco una forma di ‘capitalismo autoritario’ o piuttosto una ‘transizione
difficile e dall’esito incerto’? Ancora, se è in questione la
‘democratizzazione’ o la ‘plutocratizzazione’? Dalla risposta alla seconda
domanda, sembra capire, deriva quella alla prima.
Tentando una sintesi la traccia si potrebbe leggere
nel seguente modo: la Cina è la più plausibile traccia, o cantiere, del
post-capitalismo, ma la cosa passa per un conflitto “delle libertà”, che passa
per i difficili e dialettici rapporti tra politica ed economia e il contesto
dei conflitti mondiali tra autonomia e dipendenza (ovvero per la transizione
egemonica). Il progetto è in bilico tra ‘capitalismo autoritario’ e
‘plutocratico’ e una transizione difficile ed incerta, ma possibile, a una
effettiva democratizzazione di una economia di mercato, ma non capitalista che
è, in effetti, un possibile stadio iniziale del socialismo (ovviamente, ‘con
caratteristiche cinesi’).
[82]
- Si veda, tra molti, Jack Goody, Capitalismo e modernità. Il grande
dibattito, Raffaello Cortina Editore 205 (ed. or. 2004); ma anche Jack
Goody, Rinascimenti. Uno o molti?, Donzelli Editore, 2010 (ed. or.
2010); Jack Goody, Eurasia. Storia di un miracolo, Il Mulino 2012
(ed.or. 2010).
[83]
- Poskett, J., Orizzonti. Una storia globale della scienza, Einaudi,
Torino 2022 (ed. or. 2022). Si vedano anche Joseph Needham sulla scienza cinese
e George Saliba sulla scienza islamica.
[84]
- Si veda Frederick Starr, L’epoca geniale. Avicenna, Buruni e l’illuminismo
perduto, Einaudi, 2025.
[85]
- Dove lavorarono Euclide, Ctesibio, Erofilo di Calcedonia, contemporanei del
fondatore della teoria eliocentrica, Aristarco di Samo.
[86]
- Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la
scienza moderna, Feltrinelli, Milano 1996.
[87]
- Lucio Russo, Il tracollo culturale. La conquista romana del Mediterraneo (146
-145 a.C.), Carocci, 2022.
[88]
- Talete e Pitagora avevano debiti riconosciuti con l’Egitto (il secondo anche
con il più lontano oriente).
[89]
- Si veda per la pluralità dei “rinascimenti”, Jack Goody, Rinascimenti. Uno
o molti?, Donzelli Editore2010 (ed. or. 2010).
[90]
- Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, op.cit., p. 401 e seg. Si
veda anche, Russo, L., Santoni E., Ingegni minuti. Una storia della scienza
in Italia, Feltrinelli, Milano 2010.
[91]
- Si veda l’opera di Jack Goody, ad esempio Rinascimenti. Uno o molti?
Donzelli 2010; Eurasia. Storia di un miracolo, Il Mulino 2012; Capitalismo
e modernità. Il grande dibattito, Raffaello Cortina Editore 2005.
[92]
- Jack Goody, Capitalismo e modernità, op.cit., p. 164
[93]
- Si vedano in particolare le “Lettres édifiantes et curieuses” (1702-1776)
[94]
- Si veda Gottfried Wilhelm Leibniz, Novissima Sinica historiam nostri
temporis illustratura in quibus de Christianismo publica nunc primum autoritate
propagato missa in Europam relatio exhibetur, deque favore scientiarum
Europaearum ac moribus gentis & ipsius praesertim monarchae, tum & de
bello Sinensium cum Moscis ac pace constituta, multa hactenus ignota
explicantur. 1697.
[95]
- Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni di filosofia della storia,
Laterza 2003 (ed. or. 1837).
[96]
- Tra la dialettica e l’armonia organica del Tianxia.
[97]
- Si tratta del dibattito postcoloniale, erede della Teoria della Dipendenza di
cui ho trattato nel mio libro del 2020. Un campo di critica e di studi letteralmente
figlio della delusione degli anni Ottanta ed esploso negli anni Novanta e
Duemila. Autori come Edward Said e Stuart Hall, Robert Young, Garyarti Spivak,
Homi Bhabha, rappresentano una costellazione altamente divergente, tra approcci
postmoderni, e ‘meticci’, diasporici e cosmopoliti, ad altri neomarxisti, con
influenze che vanno da Foucault a Lacan o Althusser e Derrida. Si veda, Edward
Said, Orientalismo, Einaudi 2001 (ed. or. 1978); Edward Said, Cultura
e imperialismo, Feltrinelli, 2023 (ed.or. 1993); Robert Young, Introduzione
al postcolonialismo, Meltemi 2005 (ed.or. 2001); Miguel Mellino, La
critica postcoloniale, Meltemi 2021; Stuart Hall, Il soggetto e la
differenza, Meltemi 2006; Jean-Loup Amselle, Il distacco dell’Occidente,
Meltemi 2008; Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020; Dipesh
Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, 2004 (ed. or. 2000);
Boavenura De Sousa Santos, Epistemologie del Sud. Giustizia contro
l'epistemicidio, traduzione di Samuele Mazzolini, Roma, Castelvecchi, 2021;
Achille Mbembe, Critica della ragione negra, Ibis 2016 (ed.or. 2013);
Achille Mbembe, Emergere dalla lunga notte, 2018 (ed. or. 2012).
[98]
- Franz Fanon, Pelle nera maschere bianche, Edizioni ETS, 2015 (ed. or.
1952); Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 1962 (ed.or. 1961);
Franz Fanon, Scritti politici I e II, Hydra, 2006 (ed. or. 2001)
[99]
- Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre corte, 2010 (ed. or.
1955)
[100] - Thomas Khun, L’incommensurabilità
nella scienza, Raffaello Cortina Editore, 2024 (ed.or. 2022).
[101] - Khun cit., p. 216
[102]
- Riprendendo la critica di Derrida, per il quale il proprio di ogni cultura è
di non essere identica a sé stessa, ma anche ricordando che la nozione stessa
di “cultura” (occidentale come ogni altra) è solo un’astrazione, il risultato
di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia. L’identità stessa è
provvisoria e contaminata. Usando le parole di Vincenzo Costa, “ciò non
significa che la cultura non ha una identità, ma semplicemente che una cultura
può identificarsi solo attraverso l’altro; non vi è identità senza il gioco
delle differenze” (Vincenzo Costa, L’assoluto e la storia, Morcelliana,
Brescia, 2023, p.131)

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