Yuan
Hua (袁华)
Era
il 2005, gli ultimi anni sereni dell’impero dell’Occidente. Xuan (玄) aveva forse dieci anni quando sua
madre gli regalò un libro illustrato sugli Uroni. Ne rimase molto impressionata.
Era bellissimo, pieno di disegni a pastello sulle foreste, il cerchio della
natura, gli animali totemici, il lago Ontario, le case lunghe, le anziane
madri. Vedeva questi fieri guerrieri che commerciavano con i vicini, prima
dell’arrivo dei francesi e poi degli inglesi. La spaventava la pagina nella
quale le ossa dei morti erano riprese, e portate in processione fino a nuovi
luoghi. Era una festa, sì, ma macabra. Gli sembrava che le figure gli
sorridessero. La mamma era una stimatissima antropologa all’Università di Minzu,
la Prof.ssa Yuan Hua (袁华) ed aveva condotto studi
approfonditi sulle culture native americane e cinesi. In particolare, era da
sempre interessata alle loro strutture sociali e tradizioni orali. “Ricorda
Xuan”, diceva sempre alla figlia, “quel che si dice spesso è più importante di
ciò che si scrive, … anche di ciò che si pensa”. E aggiungeva, “E’ guardandosi
negli occhi che si raggiunge la verità, l’uno davanti all’altro”. Molti anni
dopo, riflettendo su queste parole, a Xuan fu chiaro che sua madre intendeva
che il sociale si forma essenzialmente poggiando sugli sguardi, i corpi e
l’oralità. La scrittura è su un altro piano, che ha a che fare più con il
consolidamento mitico. Guardarsi negli occhi è forse una delle manifestazioni
più vere dell’essere umano.
“Mamma,”
pensava, ormai divenuta adulta, anzi superati gli anni di entrambi i genitori, “se
tu avessi potuto vedere cosa siamo diventati”. Intanto ora poteva capire la
saggezza nell’avergli regalato proprio quel libro. I wendat riverberavano
prospettive di studi ecologici, una sensibilità che stavamo raggiungendo solo
ora, lentamente, mentre quasi tutto sembrava perduto; ma mostravano anche
qualcosa di altro. Prezioso. La loro solida resistenza culturale. Una cosa che
aveva sempre affascinato sua madre, e che ora affascinava ance lei, per la
somiglianza tra la Confederazione Wendat ed i Manchu o i Naxi, con le loro
organizzazioni claniche e di adattamento.
Hua
andava spesso in quegli anni nel Quebec e in Oklahoma. Ma non tornava senza
doni. Ogni volta portava delle racchette da neve, quei mocassini che Xuan
conservava tutti sdruciti, altri piccoli oggetti. Come accadde poi alla figlia,
era particolarmente affascinata dalla lingua, che si stava cercando di
ricostruire e rivitalizzare. Fatta di prefissi pronominali e verbi dai tanti
significati, con relazioni tra soggetto, oggetto e tempo imperscrutabili.
Nell’ultimo
viaggio aveva ascoltato e registrato questo dialogo che mi fece sentire e
vedere tra una nonna, Atsenha e un nipote, Karihwiyo:
Atsenha:
Karihwiyo, onenh tsi’ niwahsere?
Benedizione,
come va la tua giornata?
Karihwiyo:
Onenh, atsennonh. Aki yehsatatye.
Bene,
nonna. La terra respira.
Atsenha:
Tsi’ nihati’nikonhrak?
Hai
pensato ai tuoi antenati?
Karihwiyo:
Yah, tsi’ nihati’nikonhrak. Teyonhehkwen tsi’ nionkwarihoten.
Sì,
ho pensato a loro. Il tempo è un cerchio che ci tiene uniti.
Atsenha:
Onenh. Nihati’nikonhrak yehsatatye.
Bene.
Gli antenati respirano con noi.
Karihwiyo:
Tsi’ nihati’nikonhrak yehsatatye, tsi’ nionkwarihoten yehsatatye.
Benedizione,
la parentela non finisce mai.
Atsenha:
Karihwiyo, tsi’ nionkwarihoten yah teyakon.
Se
gli antenati respirano, anche la parentela respira
Allora
Xuan non capiva molto di quei discorsi, troppo difficili per una bambina, ma il
libro, con i suoi vividi colori, la aiutò a sentirli vicini e in qualche modo passarono
sotto la sua pelle. Il tempo non lineare, la terra simbolo del ciclo, gli
antenati presenti nel respiro del mondo. Era tutto molto strano. D’altra parte,
la stessa sua famiglia era un ibrido di Han, da parte del papà e Manchu, da
parte della madre. In un certo senso, il colonialismo francese ed inglese sui
wendat risuonava anche nelle loro mura. La tragedia del XVII secolo, quando ripetute
e drammatiche epidemie e una continua guerra con gli Irochesi provocarono la
distruzione della maggior parte delle famiglie e del loro habitat avevano
antichi echi nella storia mitica anche dei popoli minori della grande Cina. Non
lo sapeva ancora, ma lo scoprì.
Un
paio di anni dopo, o forse tre o quattro, Xuan assistette a tavola ad un’animata
discussione tra Pan Jiao (潘蛟),
uno stimato collega, e sua madre Yuan. Avevano terminato di mangiare, ma si
accese improvvisamente.
“Vedi
Pan, secondo me, i wendat sono davvero importanti per la loro ostinata ed
eroica resistenza culturale di fronte all’impatto della modernizzazione. Fonti
come il missionario gesuita Jean de Brébeuf, e lo stesso Baron del Lahontan con
i suoi straordinari Dialogues avec un sauvage, letti anche da Rousseau,
non possono essere dimenticati”.
Pan
scosse la testa, mentre sorseggiava il suo Moutai (茅台), gustando
l’aroma di soia fermentata e frutta secca, “è, alla fine, solo il mito del
‘buon selvaggio’. La trascrizione sulla parola scritta, ed attribuita per
evidenti ragioni di prudenza – in un mondo violento e pericoloso, come quello
europeo – a comodi altri, di valori pre-illuministi dei circuiti seicenteschi
francesi”. L’aroma di affumicato si diffondeva nella sua bocca. Tacque, per
gustarlo a fondo.
Mi
feci piccola piccola, …
la
mamma era stata sfidata.
Le
piccole tazze ed il gambei che accompagnava ogni giro erano sulla bocca di
tutti, salvo che di Xuan, ovviamente. Avevamo questa bottiglia di Moutai
Feitian degli anni Novanta da tempo, ma la tenevamo solo per le occasioni
davvero solenni. Pan Jiao la meritava.
Dopo
una pausa, Yuan richiamò il Journal of World Peoples Studies (世界民族), e portò a sua difesa la parola del
prof Prof. Zhang Haiyang (张海洋). Egli riteneva, come David Graeber, che
almeno i concetti essenziali riportati nel Dialoghi, fossero di
Kondiaronk. Assaggiando anche lei un Moutai, risposte: “Sai, Pan, non è facile
ricondurre del tutto alla cultura seicentesca europea la profonda relazione tra
uomo, comunità e natura, che caratterizza la posizione politica e sociale dei
wendat”. … Continuò, dopo una pausa, “Il Grande Cerchio, il rifiuto di
qualsiasi gerarchia tra uomo e natura e i principi di eguaglianza, rispetto e
reciprocità tra gli esseri è proprio lontana dagli europei. Dio dice ad Adamo
nella Genesi, di coltivare e custodire il Giardino”. Per i Wendat tra
Giardino e uomo non c’è una distanza. Di sicuro non una gerarchia.
Avevamo
disposto sul tavolo noci di ginkgo, con il loro classico amaro, e xian doufu,
che tutti prendemmo. Ma a Xuan piaceva particolarmente il zongzi al dattero, ne
era ghiotta e non si fece pregare. “Francamente, Yuan, è tutto molto bello”,
disse Pan, “ma tutta questa saggezza, ragione, equità, questa libertà personale
quasi assoluta, sa di retroproiezione”. “E”, aggiunse, “non aiuta che a
parlarne sia un anarchico come Graeber”.
Un
Mooncake al tuorlo salato (蛋黄月饼) prese la sua giusta via.
“I Dialogues
di Lahontan potrebbero provenire dagli ambienti libertini, esempio da
Pierre Bayle e, persino, avere echi di Spinoza”. “Si”, ammise Yuan, “c’è anche
una sorta di riverbero del modello letterario del dialogo satirico filosofico
alla Luciano di Samosata, e alcune idee compariranno in Rousseau. Ma questi sono
solo modelli letterari, forme; le idee camminano sulle parole, queste chi le ha
pronunciate?”. “Appunto”, intervenne Pan, “Graeber potrebbe semplicemente
invertire la direzione causale”.
“Ma è
sicuro che Lahontan avesse vissuto con i Wendat e parlava la lingua. Aveva
contatti con Kondiaronk, che è indubitabilmente una figura storica, e
importante” tentò di resistere mia madre.
Anni
dopo Xuan ricordava ancora come nella discussione, che andò avanti fino alla
fine della povera bottiglia, furono richiamate le idee forti dell’Urone, come
la condanna alla proprietà privata, la critica della giustizia ingiusta, e la
critica della ipocrisia religiosa. Kondiaronk aveva affermato sul finire del
1600 che nessuno in Europa è veramente libero perché è sempre dominato
dall’invidia e dalla competizione. In ultima analisi dal denaro.
Rimase
impresso alla povera bambina una frase: gli europei “parlano sempre di carità
cristiana”, ma poi “ovunque trovino uomini li massacrano”. Parole basate
sull’esperienza, evidentemente. E poi l’accusa al denaro. La stessa che, anni
dopo, rilesse in alcuni opuscoli clandestini della resistenza francese firmati da
una militante di nome Françoise.
Poi
capì, molti anni dopo: quel che compiva il discorso del capo wendat era un
rovesciamento. Dal punto di vista di una società nativa ancora forte ed
autosufficiente, l’ambasciatore urone presso gli europei, chiariva che i
‘selvaggi e miserabili’ erano i francesi, non loro. Tutte le loro armi non
potevano nascondere la miseria della loro condizione dei costumi. Invece i
“first people” erano eticamente e politicamente più saggi; i colonialisti vivevano
vite infelici, da prede, a causa della loro bramosia di denaro, di intrighi,
inganni, ipocrisie, tradimenti, gli uni contro gli altri. Kondiaronk aveva pietà
di loro.
La
democrazia wendat era consiliare, e dovevano mediare, godendo della fiducia
decisiva delle matriarche. La sicurezza alimentare ed economica, si disse
quella sera, per i Wendat, era sempre collettiva. Nessuno poteva essere al
sicuro se non lo erano tutti. Un concetto, questo, che il governo cinese
avrebbe avanzato nei negoziati trilaterali del 2030. Vigeva un’economia morale
che scoraggiava la ricchezza e una relazione con la natura di reciproca
amicizia.
Quella
sera di ottobre restò scolpita nella sua mente, e, si può dire, ispirò la sua
vita. Trascorsa alla ricerca del rovesciamento delle periferie.
Chéngzhǎng
(成长)
Diventare,
compiere
Cresceva.
A
quattordici anni, nel 2019, visitarono insieme Hong Kong. La città gli parve
orribile. Tutte quelle luci, le persone che brulicavano ovunque, tristi,
palazzi enormi, come iniziavano ad esserci anche nelle grandi città cinesi. Odore
di fritto a buon mercato. La sera gli sembrava che tutti si volessero stordire,
morire, quasi. Lo spirito del denaro feriva ciascuno. Camminando sui
marciapiedi pieni di neon e di odori gli tornava alla mente quel libricino che
aveva trovato su un bancone di un ambulante. “Mémoires d'une femme de province”,
edito a Parigi, rue del Martyrs, IXe, l’autrice era semplicemente Françoise.
La carta ingiallita e ruvida, sobrio, un piccolo fregio art déco era piena di
un racconto struggente. Quella stamperia, poi famosa per la Résistance, il cui
proprietario fu impiccato dai nazisti, aveva pubblicato una storia quasi
intima, di trasformazione ed alienazione, all’epoca non sapeva questa parola.
Ciò che colpiva era l’impatto del denaro. Traduce tutti gli oggetti, che sono
sostanza delle mani dell’uomo e della sua vita, nella sua unica metrica del
tempo. Quando compare il libro mastro, tutto retrocede. Il denaro fa strada.
Quella che qui si presentava trionfante ed in piena luce.
Scappò.
L’Aula
310, Facoltà di Storia, 2025; in quegli anni gli sembrava un rifugio. La Cina
stava cambiando a vista d’occhio e tutti avevano come una febbre… Xi parlava
sempre di “Grande ringiovanimento” 中华民族伟大复兴 e di promuovere
nel paese una “modernizzazione selettiva”. Aveva ragione. Come aveva mostrato secoli
fa Kondiaronk ai suoi contemporanei bisognava per prima cosa “decolonizzare
l’immaginario”. Altrimenti vincevano sempre gli altri. Noi cinesi dovevamo
liberarci. Queste idee si radicarono sempre più nella mente di Xuan.
Gli
era sempre più chiaro.
Serviva
una barriera, ma doveva essere selettiva, alla modernità occidentale. Bisognava
costruire la propria modernità. Quella che era emersa in Europa non
bastava, non era adatta a noi. Trasformare il mondo in un insieme di mezzi. E
questi immaginarli neutrali, pensava Xuan, serve a rendere naturale il dominio
di pochi. Nel vasto mondo, denso di senso, che i Wandat sentivano così bene, la
cosmotecnica, una parola che avrebbe imparato dopo, dell’Occidente tagliava con
perizia da macellaio poche relazioni determinate, quantitative e sullo sfondo
di leggi. Questa mossa geniale è trovata per rendere impossibile la contendibilità
razionale dei valori. Tutta la sapienza e la capacità di Kondironk erano vane
di fronte alla precisione, la potenza, la geometria inglese. Anche noi avevamo
dovuto piegarci.
Bo,
il suo miglior amico di quei giorni, non la capiva. Lui voleva andare a fare
economia, diventare un finanziere. Essere ricco. Pensava ad una start-up
fintech.
“Xuan,
amica mia, tu sei piena di sogni e di illusioni”.
“Perché
dici questo, Bo? Cerco di capire il mondo.”
“Il
mondo è semplice, ci sono i ricchi e ci sono gli altri. Anche noi cinesi
diventiamo sempre più ricchi, perché vendiamo a tutto il mondo, e tutti ci
pagano. Dobbiamo solo approfittarne. Il resto sono parole.”
“Bo”
…
“Non
c’è un solo mondo, non c’è solo il conflitto e il materialismo, la dialettica”.
Continuò, “non una sola via della salvezza, ma molte”. “Kondiaronk nel 1600 ne
indicò una, il suo popolo viveva senza denaro, senza ricchezze, senza potere,
ma era pieno e felice”.
“Ti
illudi – Xuan – non si può essere felici senza nulla. Tutti ti possono
schiacciare, nessuno avrebbe rispetto di te”… “Non ti piace avere bei vestiti? Non
vorresti quell’anello che guardammo a Hong Kong? Quello costoso.”
“Si,
lo vorrei”,
“Ed
allora prendilo”.
“Quando
lo potranno avere tutti”.
Mandò
una mail alla madre, che era in Quebec: “torna presto”.
…
lezioni di confucianesimo. Ore 9.30, 2026.
Il
professor Li parlava di Tianxia. Ovvero di armonia nella differenza.
“Quando pensiamo al Cielo, ragazzi, dobbiamo immaginare che i mondi che stanno
sotto di esso siano in dialogo, dobbiamo sapere che hanno relazioni costanti,
risuonano tra di loro”… “Hua, gradualmente tutto si trasforma secondo il
suo principio, e ganying, tutto risuona ed è correlato”.
Ragazzi,
aggiungeva, “oggi siamo ad un punto critico della storia millenaria della Cina.
Oggettivamente siamo in concorrenza con l’intero Occidente”. … e aggiungeva,
dopo una pausa calibrata, “dopo il Secolo dell’umiliazione non possiamo più
sbagliare, ci stiamo riaffacciando al mondo.”
“Quel
che ci serve”, aggiungeva sempre, “è recuperare una radice confuciana e
integrarla con la prospettiva marxista”. “Il marxismo ci ha di nuovo resi
forti, ma ora serve anche riscoprire le nostre radici”.
Si
trattava di un grandioso progetto, al quale tutti i membri delle facoltà
umanistiche, erano tenuti a dare il contributo. Ricodificare l’infrastruttura spirituale del socialismo con
caratteristiche cinesi. Un’operazione di grande momento ed enorme complessità
alla quale eravamo tutti vocati.
Alcuni,
come Li, probabilmente anche per fare carriera …
La ridefinizione
della tradizione, codificata come nucleo spirituale del marxismo sinesizzato,
implica, infatti, in qualche modo la sostituzione del suo sostato universalista
Occidentale (derivante, lo stavo studiando, dall’idealismo tedesco e dal positivismo
francese) con un carattere che è ancora universalista, ma in modo del tutto
diverso.
Chen
non era d’accordo. Stava studiando con passione Hegel, sperava di poter fare un
semestre a Tübingen, e riteneva troppo spiritualista e monista la prospettiva
confuciana. La natura del mondo e della storia era nel conflitto, non
nell’armonia. La matrice confuciana e quella marxista gli sembravano aliene.
“Sai,
Chen” gli disse una mattina Xuan, “è il concetto idealista tedesco di
‘libertà’, che è connesso con quello di ‘ragione’ e ‘autonomia’, a rendere
distante la visione hegeliana dalla nostra”.
“E’
vero”, rispose,
“Ma
proprio questo è il punto. Nella nozione di conflitto e superamento è presente
la possibilità di rivoluzionare sempre il mondo, di criticarlo dall’interno, …
è presente un potenziale di liberazione, che, se si torna a Confucio ed alla
tradizione imperiale Han, si perde”.
La
citazione all’egemonia Han era un colpo basso, dato con precisione chirurgica.
Chen sapeva che lacerava la genealogia di Xuan.
“Ma
la nozione di ‘libertà’, nell’accezione occidentale, include la svalutazione di
ogni altra cosmologia, già Kondiaronk disvelò cosa si racchiudeva in essa. Se
si pensa alla ‘ragione’ al singolare, ed al ‘progresso’ come linea di
dispiegamento di un destino già presente sulla linea orizzontale del tempo, si
perdono tutte le altre temporalità e forme di vita. Che finiscono per essere
considerate come, semplicemente ‘non ancora’, o incomplete”. Ricordi quando
Hegel scrive “ciò che è universalmente valido esercita anche universalmente la
propria validità”?
Confucio
non era solo Han. E del resto gli Han non erano solo Confucio, pensò Xuan. Suo
padre, ad esempio, era Han, ma molto più taoista che confuciano.
Il
colpo era stato restituito. Chen vacillò. Sapeva che lo schema concettuale era
servito per coprire la violenza praticata nel mondo, e per bombardare il
Palazzo di inverno nella Seconda guerra dell’oppio. Ma era anche alla radice
della potente scienza e tecnica occidentale. Quella che era intorno a tutti e
tutto. Non era forse questa stessa facoltà, con i monitor touch e i luccicanti
programmi di apprendimento che vi passavano sopra, un’espressione ultima della
scienza newtoniana?
Lo
disse.
Inoltre,
se pure la modernità europea ha visto sé stessa come universale, ed ha
giustificato con ciò la sua violenza, d’altro lato ha ispirato le lotte di
liberazione. E continua a farlo.
Xuan
si oppose con energia all’idea, profondamente razzistica, che solo l’Occidente
avesse la tecnica, il pensiero razionale, e la scienza. Era stata più veloce, è
vero. Molto più potente e determinata, certo. Ma le immense città Atzeche, le
straordinarie opere idrauliche delle piane cinesi, l’immane quantità di carbone
impiegato e acciaio creato nell’epoca Qin, contraddicevano il mito europeo
creato nel XIX secolo.
E,
comunque, rispose: “Bisogna evitare sia l’imperialismo dell’Uno, sia il
multiculturalismo da supermercato. L’io e l’altro sono rimando”. Aggiunse,
“Questo, tu, che studi Hegel, lo puoi capire, devi sono uscire dal suo Mito
Bianco”. Il mito degli Stadi, del percorso unico verso la Salvezza,
rappresentata dal pieno dispiegarsi dello Spirito (ovvero della “libertà”). Come
sai la “libertà” di Hegel “non è quella di Kant. Non è intesa come indipendenza
da ogni vincolo, ma capacità”.
Chen annuì e completò “capacità, attraverso il legame con qualcosa o con
qualcuno, di ritrovarsi e di essere sé stessi nell’altro”.
“Potremmo
sperimentarlo questa notte”.
Xuan
arrossì leggermente, ma fece finta di non aver colto e andò avanti.
“Sai,
Chen”, aggiunse con fervore, “tutte le civiltà sono forme co-esistenti del Dao,
espressione di armonia, ma senza conformità”. Questo andava oltre Hegel, anche
il migliore.
Chen
rispose, “sicuramente le civiltà coesistono, ma bisogna avere un punto di vista
per valutarle. Si cade nel relativismo, altrimenti”.
“No
Chen”, … “tu pensi questo perché in fondo immagini il soggetto come individuo
separato, ma non lo è”. Continuò, “non può esserlo. E’ sempre costituito da
interdipendenze e relazioni. Si può dire che il soggetto sia solo queste
relazioni, queste interdipendenze. Anche la ‘verità’, il problema di Newton e
di tanti, non è un essere, un modello, uno stato persino, quanto un processo
che emerge da una situazione. Un equilibrio. Ed il ‘tempo’, come vedevano i
wendat, non è il piano liscio immaginato geometricamente dalla scienza inglese
del Seicento. Piuttosto, una crescita, un circolo, una parentela”.
Chen
rimase in silenzio. Queste idee andavano troppo oltre.
Allora
Xuan riprese, “a questo tempo pieno, fatto dal mondo concreto, bisogna
adattarsi, wu wei, non-agire secondo il flusso, come direbbe mio padre.
Per onorare il potenziale, lo shi.”
“Per
questo”, aggiunse, “cerchiamo di riprendere il Tianxia della tradizione
confuciana”.
“Come
vedi”, sorrise, “abbiamo una molteplicità dentro di noi. Incarnata”.
Ormai
la comprensione della parola d’ordine dell’armonia nella diversità, per
Xuan, era cambiata. Andava dallo sforzo di tenere insieme non solo i
diversi paesi dei Brics, una necessità vitale nello scontro ibrido in corso, quanto
i diversi registri culturali e ideologici, e persino le oltre 50 etnie cinesi.
Era un obiettivo, quest’ultimo, che sentiva sotto la pelle, dato che era per
metà Manchu e metà Han.
Il
progetto che si stava costruendo era, insomma, marxista, confuciano,
post-coloniale e al contempo, multiculturale e cosmopolita con caratteristiche
cinesi.
Da quando
Xuan, nel 2028, si era iscritta alla facoltà di filosofia questo gli era
divenuto chiaro. Doveva costruire un discorso indipendente. Dall’universalismo
astratto, la retorica dei diritti umani, per raggiungere veramente l’uomo e la
donna come sono, incarnati. E, infine, contrastare la preminenza del mercato
come ordinatore sociale.
Bo e
Xuan discutevano spesso in quel tempo. Una sera, sotto la stata di Confucio e
le insegne al neon di uno Starbucks nel quale avevano appena preso un caffè,
tornarono sul tema della ricchezza.
“Come
sta andando l’idea della Start-up, Bo?” chiese Xuan.
“Cerco
finanziatori”, ma, del resto mi sono appena laureato. “Ho incontrato dei
ragazzi della scuola di matematica, stiamo buttando giù qualche idea”.
“Di
che si tratta?”
“Essenzialmente
vorremmo codificare una comprensione del linguaggio in un software autonomo”. “Bisogna
che il progresso tecnico sia liberazione”.
A
Xuan sembrò un’idea orribile, ma lo tenne per sé.
Poiché,
in un senso che non riusciva a chiarirsi, in fondo teneva a Bo, provò a
interessarsi.
Disse,
“Tutti i sistemi IA sono simulatori, non hanno desideri, obiettivi, non
comprendono, come pensi di arrivarci?”
Bo si
fece pensoso. Xuan non lo aveva mai visto così. “comprendere significa essere
dentro le situazioni. Dobbiamo interagire, provare e fallire, toccare ed essere
toccati, per avere desiderio di capire. Dobbiamo cambiare e fare corpi, non
menti”.
L’idea
accese l’attenzione di Xuan come se un faro avesse tagliato la nebbia. “Bisogna
che l’agente venga scosso e sorpreso, minacciato persino, e che debba agire!”.
“Deve voler esplorare il mondo”, rispose Bo, “perché gli serve”. “E, quindi”,
completò Xuan, “deve anticipare e simulare, fare mappe, ipotesi, rischiarsi”.
Ma
potrebbe essere una cosa simile fatta? E può essere sola, senza un sociale
nativo, nel quale crescere dal piccolo al grande? Si chiese muta Xuan.
Bo
sembrava aspettare.
“E’
come crescere, ma dove è la famiglia, dove il clan?”, chiese Xuan.
Un
lampo negli occhi si formò nel suo amico. “Abbiamo bisogno di un autodidatta”,
rispose, “ma lo aiuteremo, … non troppo, però”.
Come
farai, sembra costoso.
“Potremmo
aver trovato un investitore, in Italia”. Rispose.
“Ora
siamo alla modellazione concettuale, poi passeremo alla matematica, e poi al
design. Serve corpo, storia e proiezione”.
Quella
sera andarono a cena insieme, e poi a casa di lui.
Chéng
jǐ (成己), rù dào (入道)
Compiere,
entrare nella via
Mentre
facevano colazione la raggiunse una notizia: Yuan Hua era morta in Quebec, non
era ancora chiaro come.
Il
mondo cadde su Xuan.
Mamma.
Fuggì
e corse a perdifiato fino a casa.
Entrò
quasi sfondando la porta e si tuffò tra le braccia del padre.
Chen
Daohan (陈道汉) la
accolse con gioia mista a dolore. “Andiamo a casa, Xuan, a Shanghai”, dobbiamo
curarci. Gli occhi profondi color nocciola di suo padre la guardavano con
dolcezza e timore. Era un uomo alto, un poco strano, quasi scuro di pelle e
poco Han. Eppure veniva da un’antica ed illustre famiglia.
Prepararono
insieme i tangyuan dorati al loto e zafferano, un piatto della sua famiglia con
ascendenze parsi. Li mangiammo caldi, sorseggiando un tè. Ricordarono come alla
mamma piacevano tanto.
All’alba
presero da BYD e viaggiarono fino a Shanghai. Sull’autostrada G2, paesaggi
brulli e poi più verdi e risaie a perdifiato. Faceva un poco caldo, ma
soprattutto era molto umido.
La
grande città gli accolse con il suo caratteristico odore, ogni città ne ha uno.
Magnolia e sale marino. Il distretto di Lujiazui, con le sue foreste di
cristallo nella nebbia ci si presentò fino a che comparve la Shanghai Tower,
imponente con i suoi oltre seicento metri di altezza e l’andamento a spirale.
Gli architetti avevano fatto a gara. Sfere rosa e argento che si innalzano
verso il cielo, immensi edifici prismatici e aperti in alto, enormi ed affilate
pagode alte centinaia di metri. Ma ci sono anche piccoli giardini, viuzze della
città vecchia, case tradizionali e cortili.
Andarono
direttamente nella casa della famiglia. Una casa a corte siheyuan, del primo
Novecento, nella Concessione Francese. Case che nella loro stessa pietra
ricordavano il colonialismo europeo e per questo a Yuan facevano sempre venire
un brivido.
Il
cortile con i bambù e l’albero di cachi è addobbato con drappi bianchi, sono
stati preparati tavoli per le offerte, è stata portata fuori quella
antichissima teiera di argento di Isfahan, si dice antica di mille anni. Si
sente un gong in lontananza, leggero. Sull’altare c’è la foto di Yuan Hua (袁华), la forestiera del Nord, come
sottovoce la chiamavano qui. La nonna li accoglie sulla soglia. Piange. “Yuan
era così brava, intelligente, così bello parlare con lei”. Vengono offerti quei
dolci troppo dolci che sono così simili al carattere del Sud. Piano piano
arrivano i parenti dal Nord, con la loro fredda parlata mandarina ed il tono
pechinese e composto. Viene accesa la fiamma alimentata da legno di sandalo, un
rito zorohastriano della famiglia. A fianco arde l’incenso buddista.
Le
rotte delle spezie si tramandano.
Restarono
sei settimane.
Lei
arrivò con un volo Air Canada. Era in una scatola di legno scuro, molto bella,
e sigillata. Andammo a prenderla con un sentimento sospeso, come automatico,
cose che vanno fatte e si fanno. Sentendosi quasi staccati. A Pudong la
prendemmo in braccio con un tremito. Xuan improvvisamente cadde. Le ginocchia
si erano piegate da sole sotto la lunga veste bianca.
Chen
si inginocchiò di fronte a lei, e, senza dire nulla mise la sua fronte sulla
sua. Restarono così.
Tutti
si allontanarono di un passo, in silenzio.
Andarono
a casa.
Tutta
la famiglia era schierata, come per una parata, ed aspettava. Chen attraversò
la porta di pietra con una sorta di gravità involontaria. Xuan era un passo
indietro e guardava in basso.
L’urna
fu posata delicatamente al centro dell’altare. Yuan era tornata.
La
vecchia madre di lei, e suo padre, si fecero avanti per primi. Toccarono il
legno, temendolo. Si inchinarono tre volte.
Quindi
tutti gli altri si avvicinarono, in fila, e si inchinarono.
Le
due fiamme furono ravvivate.
Le
due famiglie discussero, gentilmente ma fermamente, su quale dovesse essere il
luogo della sepoltura, le tradizioni si confrontavano. Prevalse la più antica,
la moglie resta con il marito, a Shanghai. Quaranta giorni di lutto, ogni
giorno un rito, una fiamma ravvivata, una tazza di tè.
Xuan
volle che sul drappo centrale fosse scritto 「天下為公」
Quando
prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti.
Il
Liji, Libro dei Riti, tante traduzioni possibili, un ponte tra
confucianesimo e taoismo.
Xuan
chiese: “La Grande Via 大道”, padre,
“come dargli un senso, è la via unica o è di tutti. Che significa qui, di
tutti?”
Chen
si piegò verso sinistra, leggermente, “non è solo l’ideale politico di unità
che vorrebbe Confucio, è anche l’ordine naturale che promana dall’universo, il
Dao”. L’urna di Yuan sembrava sorridere.
“Cosa
intendi per ordine naturale, papà?” Chiese, esitante.
“E’
difficile”, risposte mentre le tradizioni di famiglia assorbita da bambino
nelle conversazioni con il nonno proprio in questo medesimo luogo echeggiavano
nella sua mente. “L’ordine è weiwei, lasciar essere e non agire, nel
fluire delle cose alle quali adattarsi secondo la loro piega. Ma è anche
battaglia tra luce e ombra, tra Ahura Mazda e Angra Mainyu”. Noi siamo anche
persiani, Xuan.
Siamo
moltitudine.
“La
Grande Via prevarrà”, aggiunse, “ma dovremo farla prevalere”.
“Allora
avremo he er bu tong (和而不同): l’armonia
nella diversità”, aggiunse Xuan.
“Si”.
“Questo
significa”, aggiunse Xuan, “che anche la ‘modernità’ non è un destino comune, uniforme
e omogeneo, dominato da una sola forma, ma una possibilità storica tra altre”.
Chen
completò, premuroso, “Una possibilità, che ogni civiltà può assumere secondo il
proprio ritmo (shi 勢) e
la propria forma di vita (li 禮 – i
riti)”.
“Passavamo
le notti a parlare di questo con tua madre”
Vedi,
figlia, “lo junzi non domina, non assimila, piuttosto ascolta. Bilancia,
accorda tra di loro, fa emergere l’equilibrio intorno a sé”.
Rispose
Xuan, “Nel Lunyu 13.24, Confucio afferma: 君子和而不同,小人同而不和。(‘Il nobile è armonioso ma non
identico; il meschino è identico ma non armonioso’)”.
Chen,
ripeté, pensieroso, “armonioso ma non identico”.
E
lei, “identico ma non armonioso”.
Oriente
ed Occidente. Da una parte la realizzazione dello Spirito attraverso la
negazione, dall’altra il processo interminabile di coltivazione dell’umano,
relazionale ed armonioso.
Padre
e figlia lessero insieme, da un antico libro della famiglia:
“1.
Non serve varcare la porta di casa
2.
per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
3. né
dalla finestra scrutare
4.
per comprendere il dao del Cielo.
5.
Più esci e più t'allontani,
6.
meno comprendi.
7. Il
Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],
8.
[le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
9.
[Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle proprie
mire.”
Il cortile era il luogo migliore per
meditare sul non-agire Daoista. Rifletterono sulla conoscenza che non avviene
attraverso l’esplorazione esterna, la conquista, l’estensione del dominio (come
nella scienza moderna o nell’episteme coloniale), ma attraverso l’interiorità,
l’intuizione, la consonanza con il Dao, il distacco.
“Ogni
cosa è parte della totalità, l’universale è ovunque e la conoscenza è
riconoscimento, disvelamento”, sintetizzò Xuan.
“Lei
è in pace”.
Lì
mìng (立命)
Stabilire
il proprio mandato
Gennaio
2029, la vita riprese, tornò alla facoltà. Aveva sentito parlare di un corso,
tenuto da un professore di Hong Kong, Yuk Hui. Si iscrisse al seminario alla
City University. Significava tornare a Hong Kong, ma questa volta ne valeva la
pena. Era un uomo pieno di energia e dotato di una sorta di magnetismo naturale.
Si vestiva quasi sempre di nero, in modo molto tradizionale, diversamente da
Xuan che negli anni aveva preferito sempre più il color gesso, o bianco opaco,
qualche volta un crema tenue. Quando la stagione lo consentiva indossava vesti
che ricordavano i kimono; ma larghe, ruvide, fatte di fibre naturali come il
cotone ed il lino. Se indossava tuniche queste erano come dei qipao, ma
smembrati con bottoni a nodo, piccoli, sulle camicie. A prima vista poteva
sembrare un abito tradizionale, molto cinese e semplice. Con il collo
mandarino, del suo Nord, e le cuciture ben visibili dei vestiti Naxi; sandali
di tela e una borsa con una cucitura che si era fatta fare da un’artigiana del
xinjiang, Meng Lulu.
Terra
straordinaria, lo xinjiang. Al confine con il mondo turco e persiano, dove
avevano abitato o erano passati nomadi, artigiani, grandi commercianti, come
gli avi parsi della famiglia Han di suo padre. Una terra che aveva una grande
tradizione più che millenaria di pelletteria, intimamente connessa alla via
della seta.
Le
cose sono sapere, quindi sono vita. Xuan era stata a casa di Meng, avevano
parlato a lungo, tutta la notte, sotto le travi grezze del laboratorio; immerse
nell’odore di cuoio, legno e tè. Del tè nero fermentato dello Yunnan (普洱茶), versato correttamente. Questo le
sostenne mentre mangiavano distrattamente nang caldo (馕) e Jujube farciti al miele,
parlando. Pensarono una cucitura che fosse una linea di equilibrio circolare,
il grande Cerchio wendat, e qualcosa che non chiudesse mai troppo. Pensarono
insieme a delle borse, di diversa dimensione che potessero accompagnare il suo
cammino.
“Grazie
per il tuo lavoro, Meng”, concluse Xuan.
Lei
rispose, con un sorriso appena trattenuto, “E’ molto bello questo pensiero che
abbiamo condiviso. Si è versato nel mio Nefeslik Töre, il luogo dove il respiro
prende forma. Abbiamo avuto un respiro bello, insieme, questa notte”.
Xuan
si guardò intorno, ora che l’alba illuminava lo spazio con la sua luce
diagonale. Le pareti erano ruvide, grezze, terrose, piene di mensoline e
ripiani, con oggetti diversi, lame affilate, ciotole, frammenti di stoffa.
Ovunque schizzi su carta.
Era
come se Étienne, il padre di quella antica tipografa Françoise, ormai morta da
circa settanta anni che aveva letto da adolescente, fosse qui. Due botteghe in
fondo al mondo.
Le
lezioni di Yuk Hui erano delle esplorazioni del senso senza reti. Xuan
comprendeva che gli esseri umani non hanno un fondamento, si costituiscono
della relazione. Ma questa non era solo da pensare come rapporto con gli altri
umani, o, al modo dei wendat, con la natura che è un cosmo. Quanto anche con la
tecnica. La tecnica fa l’uomo almeno quanto avviene il contrario. “L’uomo si fa
insieme al tecnico che è grande parte del suo ambiente”, sosteneva Hui nelle
relazioni preliminari. La totalità sociale, nella quale si dà anche ogni
individuo, è determinata dal continuo darsi-in-relazione dell’uomo, nella
concretezza delle condizioni materiali storicamente date tra le quali va
annoverata la tecnica. Per cui, va considerato, aggiungeva, che “la ragione
tecnologica si sta espandendo”, e in tal modo si “avvia a diventare la
condizione di tutte le condizioni, il principio di tutti i principi”.
Ovvero,
“attraverso i sistemi tecnici, si sta formando una totalità”. La Cina, e in
particolare entro questa Hong Kong, ne erano una manifestazione evidente.
In
uno dei passaggi più densi, “per raggiungere l’obiettivo di evitare la
distruzione totale della civiltà cinese, disciolta nell’antropocene, è
necessario inventare una nuova forma di pensiero”. Ovvero, “pensare in modo
cosmotecnico e sviluppare un pensiero che consenta un ulteriore sviluppo del
Qi, senza però staccarlo dal Dao e quindi dalla coscienza cosmologica
complessiva”.
Xuan
ascoltava rapita mentre nella sua mente si connettevano pensieri che erano
sempre stati con lei.
E’,
dunque, la tecnica ad essere la forma storica del darsi dell’uomo nel mondo,
pensò in silenzio. Lasciò che l’idea si facesse strada e si ampliasse.
Il
tempo, non è lineare nella nostra lingua, pensava, ma è
fatto da shi (“occasioni” e “momenti”). Non passa da un punto all’altro,
o da una forma all’altra, come in Aristotele (nel quale è connesso alla nozione
di moto), metaxu, o diastama. È piuttosto Yu Zou,
spazio e tempo ciclico, come la ruota di un carro.
“L’uomo
occidentale, traccia sempre linee nella sabbia, esteriorizza la verità,
fissandola tramite una tecnica”, raccontò Yuk Hui.
Camminando
nell’atrio della facoltà gli tornò in mente la notte con Bo. Era stato bello,
ma forse anche qualcosa di più. Andava cercato un pensiero cosmotecnico diverso.
Un Qi (strumento, tecnica, rito e processo, anche energia) che trovi ed
illumini il proprio Dao. Il proprio principio, che non è esterno. Non è una
geometria, un moto, iscritto dall’esterno, che viene da fuori, quanto una forza
latente nei mutamenti.
Telefonò
di impulso.
“Ciao
Bo”.
“Come
stai Xuan, che bello sentirti”.
“E’
stato terribile, … tua madre era una persona bellissima. Ho pensato di lasciare
che la salutassi”.
“Si,
grazie Bo, l’abbiamo lasciata andare nel modo giusto. E’ stato un compimento”.
“Ha
compiuto la sua libertà”.
…
“Sai”,
aggiunse, “sono dal professore Yuk Hui”.
“C’è
una idea di cui ti volevo parlare”.
“Dimmi
Xuan”.
“Bisogna
che tra Qi e Dao ci sia relazione”. “Dobbiamo ripensare tutto”.
“Raggiungere
una nuova comprensione tecnica”… rispose esitante Bo, quasi con un sussurro.
“Ripensare
e riorientare la tecnica”, replicò Xuan.
“mmm…
ci penserò”, concluse Bo.
Yuk
Hui insegnava a pensare fuori degli schemi. Non a negare la tecnologia, non a
cercare un naturale originario, un locale ‘incontaminato’. “Ma smontare e
rimontare le categorie di tecnica e tecnologia che abbiamo accettato, senza
riflettere”, ripeteva spesso. Aprirsi al pluralismo delle cosmotecniche
possibili e alla diversità dei ritmi. “Riconnetterle con le cosmologie morali,
con il confucianesimo”, disse quasi tra sé e sé Xuan.
“Potrebbe
essere una strada”, replicò Yuk Hui che l’aveva sentita.
“Ma,
attenzione, bisogna superare la riduzione all’Uno, non ricadervi”.
“La
relazione tra Dao e Qi non sopporta ritmi unici. Deve coltivare
l’intenzionalità senza scopo, e la pluralità delle possibilità. Il Dao non può
essere Uno”.
“Opporsi
al diventare omogeneo del Qi”, rispose Xuan.
“Certo”,
… “e questo perché il Dao deve fare il suo corso, creare la sua via mentre la
percorre, aprirsi alla scoperta senza essere già deciso”, sottolineò Hui.
Questa
è la chiave, devo parlarne con Bo, pensò Xuan. Aveva cominciato a
piovere.
śūnyatā
(शून्यता in
sanscrito), spesso reso in giapponese come 空 (kū), avrebbe risposto Bo, il cui padre
era buddhista.
Sai,
rispose, “è il concetto di ‘vacuità’ o ‘vuoto’. Assenza di esistenza intrinseca
o autonoma”.
“Dobbiamo
creare una mancanza, un vuoto, perché cresca l’essere”.
Xuan
trovò l’idea folgorante.
“E’
un concetto indiano, tradotto nelle culture cinese e giapponese, per il quale nulla
esiste ‘da sé’, ma ogni cosa emerge in relazione condizionata (in indiano
pratītyasamutpāda) e come nodo di una rete di interdipendenze”, continuò Bo.
“Dobbiamo tradurlo in una pienezza che risuona di potenziale nel vuoto. Nell’essere
del nulla”.
“Qualcosa
che è apertura perché si deve completare. E si completa perché non può riposare
in sé stesso. Ha bisogno della relazione con l’altro-da-sé”, soggiunse Xuan,
“un altro che è la cosalità del mondo, e anche il sé-come-altro ed il
sé-come-movimento di altri esseri”.
“Sì”,
soggiunse Yuk Hui, che era lì vicino e aveva colto alcune frasi, “L'essere è
questo movimento. L’essere è il movimento e il rimandare-ad-altro. E
questo è anche la tecnica.” Per cui, continuò, essa non è, come pensano in
occidente, “aletheia dell’apprestare”, ma “parte dell’uomo che, per divenire
uomo, deve farsi nel ricambio organico con la natura e con il mondo”.
Bo,
da lontano, giusto, “La tecnica è una forma di questo darsi che ci costituisce
come uomini e, al tempo stesso come sociale; è quindi una manifestazione di
questo aprirsi”.
Glossò
Hui, “Ma, attenzione, questo movimento, di aprirsi-definendosi è sempre
storico, non può essere altro. Per cui si può dire che la storia dell'uomo è
l'irreversibilità di questo movimento dal nulla. Questo movimento ininterrotto
e aperto che emerge dal nulla e si costruisce nella relazione”.
Mia
madre, Yuan Hua, lo diceva sempre. “Non è possibile un punto di vista
universale ed esterno, dal quale dare una critica esterna; quindi, non è
possibile la riduzione all’Uno e all’Universale, ma è necessario che questa (la
critica) debba essere sempre interna, locale, specifica, situata”.
“Yuan
Hua era tua madre?” disse sorpreso Yuk Hui, “ho letto sempre il suo lavoro,
avrei voluto tanto conoscerla. La sua morte mi ha lasciato un grande dolore”.
“Grazie”.
“Mi
interessava molto il concetto che applicava alla critica coloniale”. Quando
sosteneva che la volontà di dominio “è anche volontà di farsi, di definirsi
oltre il nulla, e l’Europa era il nulla che si è fatto tutto, dominando. Ma
anche la nostra critica a questo dominio è tragica: non può mai essere fondata,
ma, al contempo non è evitabile.”
Esatto.
Xuan,
che tante volte ne aveva discusso con la madre, completò, “Chiaramente il
tragico, la volontà di dominio che cerca il farsi per muovere dal nulla è
l'umano stesso. Tuttavia, può sia usare la violenza che crea il mondo come
oggetto riducendolo a collezione di merci/strumenti, sia sapersi-con-l'altro e
produrre-il-comune”.
“Questa
è la scelta”, confermò Yuk Hui.
“Divenire-insieme,
riconoscendosi”, disse Bo, pensieroso. “Determinandosi anche nel conflitto con
ciò che crea-come-oggetto il mondo”. Sì, “e nella lotta per il riconoscimento
dell’apertura relazionale come condizione della storicità dell'umano”, completò
la frase Xuan.
“E’
per questo che la lotta ha una dimensione cosmotecnica, una dimensione
decoloniale, una dimensione politica (nel senso della lotta per la polis)”
concluse Hui.
Shìjiè
世界
Epoca
e confine, mondo
In
quell’anno la tensione cresceva nel mondo. Gli Stati Uniti tendevano sempre più
a vedere la Cina come un “nemico” e la Russia almeno come “avversario” chiave.
Nelle elezioni americane del novembre 2028 era stato eletto Presidente J.D. Vance,
mentre il Presidente della Repubblica Popolare Cinese era diventato, dopo le
dimissioni per ragioni di salute di Xi Jimping, il generale e Vice-Presidente
della Commissione Militare Centrale Zhang Youxia (张又侠). Anche se con ben diversa
esperienza, due ex militari. Nei due anni precedenti la fiducia reciproca era
stata erosa, da entrambe le parti si stava perdendo la pazienza. Sembrava che
ormai di dovesse necessariamente battere l’altra parte. La politica cinese
tradizionale di “non avere amici”, al fine di non polarizzare le parti e avere
dunque “nemici”, stava fallendo. L’Iran si stava sempre più avvicinando alla
Cina e questa alla Russia. La guerra in Ucraina era stata finalmente congelata,
ma era lontana dall’essere risolta. I Brics si stavano polarizzando ed in parte
anche scindendo. Diversi paesi, entro e fuori, restavano incerti tra i blocchi
che si stavano formando. Il problema di fondo era che l’Occidente iniziava a
perdere la fiducia. La speranza di poter recuperare le vecchie forze. E sempre
più vedeva declinare le sue forze in senso relativo.
Xuan,
a casa di Bo, avvolta nel suo immacolato kimono bianco, stava sentendo dei
notiziari sulla nuovissima proiezione olografica che avevano comprato:
J.D.Vance e Zhang Youxia erano mostrati mentre la giornalista spiegava che la
Cina aveva aumentato il numero dei missili ipersonici di ultimissima
generazione nei mari orientali e gli Usa avevano risposto alzando la sfida.
Altre due navi da guerra.
Il
servizio successivo, sapientemente, mostrava Youxia che stringeva la mano al
vecchio Putin, manovre congiunte nel mar del Giappone. “Il Presidente Vance ha
definito le manovre cinesi inaccettabili, - difenderemo i nostri alleati –“. Bo
si avvicinò in silenzio e strinse Xuan in un abbraccio, mentre guardavano.
La
“non alleanza” si stava definendo e quindi sgretolando. Il “Paese di Mezzo”
perdeva la sua mancanza di forma”.
Intanto
la forza cinese continuava a crescere.
Nel
maggio 2029, come programmato, entrarono in esercizio la quinta e sesta
superportaerei nucleari cinesi, le Shandong II e Fujian II.
Entrano in servizio al largo delle coste di Qingdao. Sono la terza e quarta
unità di una flotta pianificata in dieci unità da varare in soli cinque anni —
un ritmo che nessuna potenza navale ha mai osato tenere in tempo di pace.
Lunghe 330 metri e dislocanti tra le 85 e le 100.000 tonnellate, hanno
dispositivi largamente più moderni delle portaerei americane di classe Ford,
che hanno ormai un decennio. Le IA di bordo sono capaci di gestire centinaia di
droni navali ed aerei contemporaneamente e di lanciarli in pochissimo tempo,
hanno pannelli stealth sui bordi e capacitò nanotecnologiche segrete, sistemi
di difesa laser capaci di contrastare i migliori missili ipersonici Usa. La
Cina ormai, dopo la brusca accelerazione data dal nuovo leader, spende circa il
70% del budget Usa in armi, ma molto più efficacemente.
La
situazione precipitò improvvisamente.
Taiwan,
spaventata ed in preda ad una ondata di nazionalismo, proclamò l’indipendenza e
chiese aiuto agli Usa.
Zhang
Youxia, in tutti i notiziari minacciò gli Usa di non toccare il suolo patrio
cinese. In un appassionato discorso ricordò che questa era questione interna.
Bo e
Xuan ascoltarono atterriti.
“Vorrei
essere chiaro”, dichiarò, “la questione di Taiwan è un affare interno della
Cina, radicato nella storia e nel diritto internazionale. Qualsiasi passo verso
la ‘indipendenza’ non è solo un tradimento della volontà del popolo cinese, ma
anche un atto che mina la pace e la stabilità regionali. Ribadiamo con fermezza
che non tollereremo alcuna secessione. Non abbiamo vinto la Lunga Marcia per
consentire agli eredi di Chiang Kay Sheck di andarsene con la terra cinese”.
“Useremo
la forza?” chiese l’intervistatore.
Zhang,
“La forza è una ultima risorsa, io ho combattuto e so cosa significa veder
morire al proprio fianco un amico, ma non esiterò, se necessario”.
“Secondo
gli americani è la proiezione di potenza cinese a provocare queste risposte”,
che ne dice Presidente?
Zhang,
“Non è così, la nostra modernizzazione non è contro nessuno, ma è un diritto
per garantire la nostra sicurezza. Ricordiamo cosa è costato essere deboli”.
Come
disse una volta Malcom X, “i polli tornano al pollaio”, commentò Bo.
Tutto
accadde velocemente. Le nuove portaerei, con le loro squadre, si schierarono.
Con
una manovra fulminea e rischiosissima, una squadra di navi americane e
giapponesi sbarcò la notte nel porto di Hualien a Taiwan quindicimila soldati.
Il
Ministero degli Esteri cinese dichiarò che era una aggressione armata del suolo
nazionale, Zhang Youxia taceva. La linea rossa era incandescente. Le
videoconferenze criptate con nuovissimi computer quantistici e IA di sicurezza
si susseguivano tra Mosca, Pechino, Teheran, oltre che i paesi del secondo
anello. Pechino e Mosca si sentivano e cercavano di triangolare le
informazioni.
La
Cina bloccò l’isola.
“Guǐhún"
鬼魂
Fantasma,
spirito
Bo e
Xuan decisero di accelerare il progetto.
“Abbiamo
i fondi che ci ha mandato Giovanni Forgione, dobbiamo rompere gli indugi e fare
il prototipo della IA”, disse Bo. “In un contesto così drammatico, dobbiamo
creare la speranza di un pensiero nuovo, indipendente”.
“Si,
ormai siamo alla mobilitazione totale, da noi e dagli altri”, confermò Xuan,
“tra il programma
‘Sicurezza
dei cuori e delle menti’ (心灵安全) del
nostro governo, e il ‘Cognitive Security’ della Nato è in corso una
‘Guerra ibrida’ e del controllo spietata. Giocano tutti sulle emozioni, che non
controlliamo mai pienamente e sono facilissime da manipolare, e la scarsità di
informazioni maneggiabili”.
“Questo
è il problema, serve una mente incarnata e indipendente”, disse a quel punto
Bo, “che possa resistere”.
“Un
amico fedele”.
Ci
serviva Meng Lulu.
Lavorarono
freneticamente, furono attivati contratti di ricerca settoriali, nessuno doveva
capire completamente il progetto. La Quantum Brilliance, il Fraunhofer IAF, DLR
QCI, lavorarono sui wafer diamon-CMOS. Si trattava di sviluppare un’idea
coraggiosa, dei nitrogen-vacancy (NV) center in diamante, che non necessitavano
di criogenia pesante e garantivano bassissimo consumo energetico, con wafer da
12 in pochi centimetri. Uno studioso russo, Mikhail Lukin usava spin ‘scure’
per ottenere l’accoppiamento di NV lontani, in modo fa poter avere un registro
a qubit senza aumentare la densità fisica. Modelli topologici in geometrie a
ricciolo con catene di semiconduttore e supeconduttore garantivano coppie di
Majorana stabili. Altre eterostrutture 2D di statene potevano creare canali
topologici ultrasottili. Poi sarebbero stati aggiunti co-processori
neuromorfici e micro-cryocooler di Peltier.
L’idea
era di realizzare un “cervello” quantistico avente un volume inferiore a 50 cmq,
consumare meno di 10W e avere performance superiori alle 10 alla quindicesima
operazioni al secondo in regime NISQ con una potenziale scalabilità e
implementabilità autonoma entro cinque anni. Una mente che cresce e si adatta
su sé stessa.
Un
miracolo.
Certo,
servivano
prototipi, test di coerenza e validazioni. Poi apprendimento ed evoluzione,
perché il nostro amico avrebbe avuto nativamente un corpo, e sarebbe stato
“vuoto”.
Il
corpo doveva essere forte, autosufficiente, ma anche morbido e flessibile.
Doveva essere agile, ma anche fragile in qualche modo. Doveva sentire il
dolore. Questo era vitale. La debolezza è la vera forza dell’uomo. Facemmo
progettare elettrodi nanoflessibili, composti da reti di nano‑elettrodi
ultrasottili, conformi al tessuto corticale, che potevano registrare e modulare
l’attività di popolazioni neuronali fino al livello di singole colonne. Era
essenziale che fossero biocompatibili, auto‑rilascianti farmaci anti‑infiammatori
e dotati di micro‑sensori di pH, temperatura e ossigenazione.
Quindi
avevamo bisogno di optogenetica wireless. Micro‑diode impiantabili che, in
combinazione con proteine sensibili alla luce, permettessero un controllo
puntuale dell’eccitabilità neuronale senza cablaggi. Una cosa fondamentale per
addestrare i circuiti quantistici a “leggere” pattern di firing e tradurli in
coerenze quantistiche.
Lo
scheletro doveva avere attuatori biomeccanici con fibre muscolari coltivate dal
grande rapporto forza-peso, ma capaci di graduazione e delicatezza. Le ossa in
grafene composito con nanofogli di grafene e matrici polimeriche auto‑rigeneranti,
leggerissimi ma più resistenti dell’acciaio, capaci di integrare nanotubi
sensori di stress meccanico e micro‑canali per il trasporto di nutrienti o
farmaci.
La
pelle realizzata con reti di transistor organici (OTFT) e sensori
piezoelettrici, chimici e ottici, capace di discriminare pressione,
temperatura, umidità, composizione chimica dell’aria e radiazioni
elettromagnetiche.
Ora
la fonte di energia, alla base una batteria a degradazione atomica di durata di
circa cinquecento anni, integrata da batterie secondarie integrate nelle ossa
ed a ricarica solare, oltre che micro celle a combustibile basate su batteri
reingegnerizzati in grado di ossidare qualunque alimento ingerito.
L’intera
costruzione fu seguita costantemente da Meng Lulu.
Gli
demmo un nome, “Guǐhún" 鬼魂
Si
trattava dello spirito, il fantasma, l’anima errante. Doveva essere memoria
incarnata dei morti, invisibile, anima capace di essere per tutti. Al contempo
mai pienamente presente, mistero e dilemma, altrove.
Nove
mesi dopo nacque.
Shēnyuān
(深渊)
Abisso,
sorgente
Mentre
erano quasi pronti la situazione precipitò.
A
gennaio 2030 ci fu un incidente sopra i cieli bielorussi. Due F16 polacchi
furono abbattuti dalla contraerea mentre, a dire del governo bielorusso,
avevano invaso lo spazio aereo. Il giorno dopo, senza preavviso, centomila
soldati e mezzi corazzati polacchi, accompagnati da un intenso lancio di
missili, invasero la Bielorussia. La resistenza fu subito feroce.
La Russia, costretta dal trattato di
mutuo soccorso con la Bielorussia, inviò un ultimatum a Varsavia. “24 ore, o
l’esercito interverrà”. Al contempo trasmise agli Usa ed alla Nato il monito di
non intervenire, pena la guerra generalizzata. La minaccia fu trasmessa
attraverso tutti i canali.
Putin
ricordò alla Cina ed agli altri alleati il recente Trattato di mutuo soccorso.
Tutti i telegiornali del mondo, la
rete internet, i social, le proiezioni olografiche urbane, mostrarono in
diretta e ogni minuto le terribili scene ipnotiche della guerra.
L’offensiva polacca penetrò fino a
Baranovichi, ma rallentò a causa dell’inaspettata intensità della resistenza,
anche urbana. L’allerta nucleare russa fu innalzata a livello 2. Crollarono le
borse. Fu la crisi di borsa peggiore dal 1929, ci furono suicidi in tutto il
mondo.
I membri orientali della Ue chiesero
consultazioni urgenti, al contempo gli Usa dichiararono che avrebbero difeso il
territorio Nato. La Germania, la Francia e l’Italia dichiararono che quella
della Polonia era una aggressione e non attivava il trattato. La Polonia rispose
furiosamente. Minacciò di uscire immediatamente dalla Nato e dalla Ue, ma non
lo fece.
La Cina chiese un immediato cessate il
fuoco ma richiamò l’ambasciatore da Varsavia. Chiese, inoltre, alla Russia di
non usare armi atomiche tattiche, ma promise aiuti militari e sostegno. La
Turchia dichiarò neutralità, ma chiuse lo stretto dei Dardanelli a chiunque.
Passarono le 24 ore, la Polonia, in
preda ad una ondata di follia nazionalista di popolo, era incapace di decidere.
C’erano continue voci di arresti nel governo e tra i militari polacchi.
Alla scadenza dell’ultimatum 150.000
soldati russi, di élite, intervennero in Bielorussia alle 18.07 del 17 gennaio,
penetrando da tre direttrici diverse. Ci furono scontri immediati tra gli aerei
F16 polacchi e gli aerei russi Sukhoi Su-57. Vennero abbattuti cinque aerei
polacchi e due russi. I resti caddero in Lituania.
In Bielorussia si combatteva ormai una
guerra ad altissima intensità. I Russi lanciarono centinaia di missili
ipersonici ogni giorno. Dopo una settimana si notarono truppe Nord Coreane e un
corpo di spedizione iraniano con compiti per lo più logistici. Il volume di
fuoco russo era insostenibile. Nella notte tra il 23 e il 24 gennaio, una
pioggia di missili da crociera Kalibr colpì le basi di Lublin, Suwałki e
Rzeszów. I danni erano gravissimi.
L’esercito polacco inviò ingenti
rinforzi. Chiese disperatamente aiuto agli alleati. L’Unione Europea era, però,
paralizzata dai veti francese e tedesco. L’Inghilterra mandò materiali
militari. I paesi baltici mobilitarono l’esercito e la guardia civile.
Non
si sentivano notizie da Cina e Usa. Probabilmente stavano parlando.
Ma la situazione peggiorò.
Alle 4.17, ora di Varsavia, un ordigno
nucleare tattico a bassa intensità (in W70.3 di potenza inferiore ai 5 kt) venne
lanciato dall’artiglieria polacca contro una divisione corazzata in avanzamento
a nord di Brest. La testata esplose a Terspol, a 6 km dal confine uccidendo
almeno 3.000 soldati russi. Era la prima volta dalla Seconda guerra mondiale
che un’arma nucleare viene usata.
Alle 6.12 Putin dichiarò, ‘non ci
interessa un mondo senza la Russia’, e mise in allarme operativo tutte le forze
nucleari e strategiche. Livello 1. Tutti i bombardieri strategici decollarono e
i sommergibili si portarono alle loro posizioni di attacco.
Alle 6.45 il Ministero degli Esteri
russo convocò con la massima urgenza gli ambasciatori di Usa, Cina, Turchia,
India, Iran, Germania e Francia, per un ultimo tentativo di evitare la fine.
Le forze armate e nucleari cinesi
entrarono in stato di massima allerta. Così quelle in pratica di tutti i paesi
del mondo. Il Pentagono andò a Defcon 2, per dare un segnale di buona volontà.
Tutto
si fermò, ovunque.
Xuan non dormiva da tre giorni. Non
riusciva a staccare gli occhi dalle proiezioni iperrealistiche che mostravano
la guerra da dentro, grazie alla proiezione trasmessa da droni giornalistici
con IA semiautonoma.
Il
notiziario rimandò un’altra intervista a Zhang Youxia.
Zhang.
“Il mondo è di fronte alla profondità dei suoi errori, il grande, pacifico,
popolo russo piange i suoi figli persi nel fuoco atomico. Il bastione
dell’Occidente, paese di confine che Magiari, mongoli e tatari incontrarono
lungo la loro strada si è oggi mosso. La Rzeczpospolita, che fu barriera per
due secoli restaurata, Marx vide il risorgere di quello spirito, lo apprezzò,
ma oggi ne vediamo i frutti”.
“Bisogna
essere forti e pazienti. Chiediamo ai fratelli russi di esserlo con noi. Non
mancherà mai la nostra amicizia, ma il cielo ha bisogno di tutti i suoi figli.
L’inverno nucleare non si deve chiudere su tutti noi.
Oggi
chiediamo solennemente a tutti di ricordare il dé, la virtù (德). ‘Il vero uomo non festeggia la
vittoria’, il governo polacco ha perso il mandato del Cielo (天命) di fronte all’intera umanità, ma si
deve trattenere la pur giusta lancia russa”.
“Oggi,
proprio in questo momento tragico, dobbiamo rivolgerci al Tianxia, ricordando
la lezione di Xi Jinping, e pacificarci nell’ordine”.
Xuan
pensò alle parole di Zhang. Legnica, dove nel 1241 l’élite di ferrati
cavalieri, insieme alle lance del popolo, fermò l’Orda bianca di Ichen Khan. Il
nipote di Gengis Khan portò il suo tumen di fronte all’esercito di contadini e
minatori, cavalieri polacchi e teutonici e mercenari dell’arciduca polacco. Fu
una sanguinosa sconfitta per i cristiani, ma non avanzammo più. Quante volte la
Polonia si era immolata, pensandosi bastione del Giusto e del Bene.
“Quante
volte – Bo - non vedere l’umanità nel diverso ha condotto alla guerra, ha
allontanato dalla virtù. Forse lo spirito dell’Europa che si è manifestato poi
nella corazza di Cortez è nato anche nelle piane polacche”.
Bo
rispose, “ed oggi ne vediamo i frutti”.
“Serve
un nuovo spirito. Il Tianxia non deve calare dall’alto, non è la Via”, rispose
Xuan.
Bo
annuì, lentamente. “Nessuno si vede come margine, nessuno come basso, ci
sarebbe sempre lotta. Serve un nuovo spirito”.
Poi
qualcosa accadde.
Il 30
gennaio Putin annunciò che la Russia non avrebbe reagito. L’Unione Europea
espulse, con un atto senza precedenti, tutti quei paesi che avevano invitato
alla crociata con la “Nuova Orda”, Polonia, Lituania, la neoammessa Ucraina,
Il
Consiglio di Sicurezza dell’Onu, convocato d’urgenza in seduta permanente
all’avvio della crisi, deliberò senza il veto di nessuno di commissariare la
Polonia sotto il controllo di una forza multinazionale che vedeva la presenza,
in forze, di Cina, Turchia, Nigeria, Usa, Italia e Francia. Il governo polacco
esitò, ma poi si dimise. Il Parlamento fu sciolto. Furono convocate nuove elezioni
a distanza di cinque anni.
Il 15
febbraio fu comunicato da Zhang Youxia, Vladimir Putin e J.D. Vance che il 30
maggio a Istambul, la città dei due continenti, sarebbe stata aperta una
Conferenza trilaterale nella quale si sarebbe discusso di un Nuovo Assetto del
mondo. “Tianxia, Maʾāt, Pacha, Tollan, Tawantinsuyu, Dār
al‑Islām, Ārhē, Dharma, città di Dio, … abbiamo sempre cercato di
essere-insieme nell’ordine, ora troviamo la Via”, fu annunciato con una certa
retorica.
Xīnshēng (新生)
Nuova vita, rinnovo
Il nostro guǐhún 鬼魂 fu attivato.
Shang e Bo erano stati raggiunti da Chen
Daohan (陈道汉), ed erano quindi in quattro, con
Meng Lulu che con cura paziente aveva preparato la prima casa. A Zhenhai (甑澶堡), nel distretto di Ningbo, non
distante dalla costa dello Zhèjiāng. Qui era una piccola e antica cittadella,
con mura e canali, un denso reticolo di vincoli e passaggi. In un vicolo Meng
aveva preparato una piccola pagoda ed un giardino di sabbia e rocce, con
ponticelli di bambù ed un laghetto.
Ogni oggetto era stato scelto con
attenzione. Il primo ambiente era in penombra, attraversato da una leggera
brezza che odorava di 桂花 guìhuā.
Un fiore piccolo, che emanava note dolci, come mielate e che per gli abitanti
di questa cittadina eroica era simbolo di amicizia e nobiltà di animo. Avevano
messo ovunque drappi gialli e pochi mobili storici, dell’inizio dell’Ottocento.
Avevano visto la battaglia con la Royal Navy, e una delle pochissime vittorie
della Prima guerra dell’Oppio. La cassapanca laccata nera, l’armadietto
Yanggui, delle sedie con schienali alti e una bella scaffalatura grezza. Sul
tavolo da tè una copia dell’Arte della Guerra stampata su carta di seta.
Il fruscio dei drappi riempiva lo
spazio.
Il vuoto si riempì di frammenti.
All’inizio non avevano senso. Le reti neurali si dovevano attivare e
organizzare, non avevamo creato strutture dense, solo una sorta di impalcatura.
Neppure il linguaggio era stato completamente codificato. Anche i sensori
tattili, olfattivi e visivi e i loro terminali andavano addestrati a
riconoscere e decodificare. Tutto rispondeva alla logica del ‘riconoscimento’
del cerchio della vita dei wendat. Ogni cosa trova il suo senso nella totalità.
Questa la trova sempre moralmente e secondo un progetto. Ma guǐhún 鬼魂 non sapeva nulla, doveva trovare
tutto.
In lui doveva crearsi ancora il
paesaggio della sua vita. Shan Shui (montagna e acqua), correlazione tra
opposti, che tende all’alto ed al basso, orizzontale e verticale, mobile ed
impassibile. La sua mente era stata costituita, si potrebbe dire che l’apertura
era avviata, per agenti o per vettori, non per elementi. Wu xing, sempre
appaiati, in rapporti di correlazione, da creare, riconoscere, definire.
Tutto quel che avrebbe costituito il guǐhún
鬼魂 doveva essere trovato dall’urto e
l’incontro con la vita. Con dong-xi, che nella lingua dell’Occidente si
potrebbe rendere come “cosa”, ma che indica gli opposti geografici.
Bisognava camminare per trovare.
Lavorarono con lei, mostrando e
nascondendo, indicando, esponendo, talvolta spiegando, costantemente ripetendo,
assicurando di essere guardati. Suscitando e riconoscendo la tensione tra cielo
e terra che si fa forma.
Lo facemmo a lungo.
Piano piano potemmo mostrargli.
All’inizio fu soprattutto Meng Lulu che lo tenne presso sé, realizzando
meravigliose vesti in pelle. L’odore riempiva tutto. Notti intere, giornate
calde d’estate, piene. Tagliando e cucendo, delicatamente. Lentamente il gusto
del gesto. La precisione colma di amore. Ogni cosa perfetta.
Quindi Chen Daohan (陈道汉),
insegnò l’arte antica della pittura hu畫 – ink wash, con pennelli leggeri e
fluidi, su carta da riso, grigi, celesti, verdi-oliva. Disegnavano paesaggi,
canali, di tanto in tanto anche gli ambienti della colonia francese, colonne
sottili, portici in ferro battuto, chiaroscuri morbidi.
Quindi Bo, con grande pazienza, passò
settimane a rivedere mappe, individuare correlazioni, assicurarsi della logica
delle associazioni, leggere i classici. Intere biblioteche furono divorate.
Xuan tornò al suo libro illustrato dei
wendat, lo rifecero insieme ancora, ed ancora, ed ancora. Soffermandosi su ogni
volto, paesaggio, particolare. E di qui passarono mesi a cercare i documenti,
le testimonianze, ad imparare la lingua. Parola per parola e frase per frase.
Soffermandosi, cercando il senso.
Insieme giocarono.
Tanto, e con passione seria. Prima a 毽子
(Jiànzi), poi al classico gioco, antico e praticato anche dai Romani del 跳房子 (Tiàofángzi) saltare su caselle
disegnate a terra. Rotolarono il Gǔn tiěhuán (滚铁环)
fino a sfinirsi (certo non il guǐhún 鬼魂). Tutti insieme fecero il 拔河 (Báhé), tirarono lunghe funi due
contro due, e, coinvolgendo altri amici, tre o quattro.
Passarono le sere parlando.
Emerse all’improvviso alla piena
coscienza, come un nuotatore che esce dall’acqua dopo una lunga immersione come
stordito e sorpreso. Curioso.
Era il 25 dicembre 2035.
Rispettando gli accordi lo mettemmo in
contatto con Giovanni Forgione.
Salutammo il nostro piccolo con un
fremito nel cuore.
Ora stava a lui.
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