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giovedì 24 luglio 2025

La ricerca di Xuan 玄

 2005, Pechino, Cina

 

 

Yuan Hua (袁华)

 

La stanza della casa, alla periferia di Pechino, era il santuario di sua madre, la Prof.ssa Yuan Hua (袁华). Il profumo, Xuan lo ricordava ancora se chiudeva gli occhi. Quando lo risentiva si ritrovava nel tempo, a dieci anni, seduta a terra sul pavimento di legno, nel profumo di carta e di tè oolong, mentre la pioggia ticchettava sui vetri. Vedeva la mamma avvicinarsi alla scrivania piena di libri, mappe, matite rotte, bicchieri vuoti. Lo ricordava come se fosse oggi, indelebile. Prese un libro. Era color ocra, alzò lo sguardo.

Occhi color nocciola, insolitamente chiari. Sorrideva, “guarda questo, Xuan”.

La bambina prese il libro, come si riceve un dono importante, lentamente e quasi vergognandosi. I libri della mamma erano oggetti straordinari. Recavano le parole del mondo.

Girò le pagine.

Una foresta di alti alberi, uomini che portavano ossa umane. Ma non sembravano cattivi. Era un atto di amore, Xuan lo intuì immediatamente. Una specie di festa, ma che strana, mai pensata una simile. Quelle ossa erano state persone, pensò dalla sua piccola esperienza, forse anche la nonna è ora così.

Loro, i Wendat nella foresta, le avevano amate. Ora le portavano via. Chiese alla madre, ma senza parlare, tra loro non era necessario. La guardò in silenzio. Hua, la accarezzò guardandola.

“Loro celebrano la vita, non la morte, non la temono, non sono andati via. L’amore che c’era tra di loro e gli antenati è ancora presente. Loro, i parenti sono sempre presenti”.

“Come la nonna?” rispose Xuan.

“Sì, come la nonna”, disse Hua. “Respira con noi, nella terra, e nel cielo”, fece un largo gesto circolare. Continuò, “noi parliamo, vedi? Qui, nella nostra casa, e loro lo fanno qui”, mostrò un’altra pagina. Una lunga casa, piena di persone che si riunivano intorno al fuoco. Un grande fuoco. Bambini vicino, le facce illuminate dalle fiamme, pieni di meraviglia per le ombre che si inseguivano sulle pareti. Giovani guerrieri in piedi e, seduta, una donna anziana. Lei era il centro.

“Chi è questa nonna?” chiese Xuan, indicando la figura e girando la testa verso la mamma, che era quasi dietro di lei. “Una donna molto saggia, che aiuta gli altri, sta con i parenti e nel cerchio della vita. Parla. Bisogna saper parlare, anche più che saper pensare”.

Yuan Hua pensò ai suoi studenti, come diceva “E’ guardandosi negli occhi che si raggiunge la verità, l’uno davanti all’altro, quando alla parola segue lo sguardo e al gesto la parola”.

 

Molti anni dopo, all’ombra dei suoi settanta anni, Xuan ebbe chiaro che sua madre capiva il sociale come sguardi, corpi e oralità. Non come logos, neppure come mythos, poi in fondo il medesimo. “Gli umani si guardano negli occhi”, una delle sue frasi che risuonavano ancora nella sua memoria.

’Mamma’, pensava, superati ormai di molto i suoi anni, ’se tu avessi potuto vedere cosa siamo diventati’. Chiamò Lìng Xuan (), la cara figlia, che allora, nel 2070, aveva ormai quaranta anni e due meravigliosi ragazzi, “dobbiamo ritrovare l’armonia, l’he er bu tong, che abbiamo perso”.

 

Tornata con la memoria a dieci anni, si vedeva mentre girava pagina con le sue piccole dita. Un uomo era in piedi, il volto dipinto era illuminato di rosso e giallo da un grande fuoco, mentre scintille erano ovunque. Teneva alta una lancia con due piume. C’erano altri uomini.

Allora Xuan chiese alla madre, “è arrabbiato?”. “Sì”, rispose Yuan Hua, “ma è anche fiero, sta parlando al popolo. Dice cose vere. L’uomo bianco non ha nulla, ha perduto tutto”, fece una pausa, “noi abbiamo perduto tutto”. Continuò, “loro, invece, avevano tutto, senza avere quasi niente, perché i Wendat erano nel mondo, loro parente”,

“Perché, mamma?”, chiese Xuan. La mamma l’accarezzò.

Anni dopo capiva la saggezza nell’avergli regalato proprio quel libro. Hua si avvicinò al libro e lo spostò verso la luce, prese Xuan e la mise in braccio, la strinse.

Poi disse solo, “perché noi siamo. Sempre con gli altri. Con tutti gli altri. Con il mondo che ci è parente”.

Xuan alzò lo sguardo interrogativo, Hua proseguì, “solo per questo bisogna combattere, e loro lo fanno”.

Mostrò la pagina successiva, una grande battaglia. “Noi lo abbiamo fatto. I nostri antenati Manchu lo hanno fatto.”

 

Yuan Hua andava spesso in quegli anni nel Québec e in Oklahoma. Ma non tornava mai senza doni. Ogni volta portava delle racchette da neve, oppure quei mocassini che Xuan conservava ancora, tutti sdruciti, altri piccoli oggetti. Come accadde poi alla figlia, era particolarmente affascinata dalla lingua, che si stava cercando di ricostruire e rivitalizzare. Fatta di prefissi pronominali e verbi dai tanti significati, con relazioni imperscrutabili tra soggetto, oggetto e tempo.

Nell’ultimo viaggio aveva ascoltato e registrato questo dialogo che fece sentire e vedere tra una nonna, Atsenha e un nipote, Karihwiyo:

 

Atsenha: Karihwiyo, onenh tsi’ niwahsere?

Karihwiyo: Onenh, atsennonh. Aki yehsatatye.

Atsenha: Tsi’ nihati’nikonhrak?

Karihwiyo: Yah, tsi’ nihati’nikonhrak. Teyonhehkwen tsi’ nionkwarihoten.

Atsenha: Onenh. Nihati’nikonhrak yehsatatye.

Karihwiyo: Tsi’ nihati’nikonhrak yehsatatye, tsi’ nionkwarihoten yehsatatye.

Atsenha: Karihwiyo, tsi’ nionkwarihoten yah teyakon.

 

Atsenha: Benedizione, come va la tua giornata?

Karihwiyo: Bene, nonna. La terra respira.

Atsenha: Hai pensato ai tuoi antenati?

Karihwiyo: Sì, ho pensato a loro. Il tempo è un cerchio che ci tiene uniti.

Atsenha: Bene. Gli antenati respirano con noi.

Karihwiyo: Benedizione, la parentela non finisce mai.

Atsenha: Se gli antenati respirano, anche la parentela respira

 

A dieci anni Xuan non capiva molto. Capiva il libro. Il pesante, dolce, misterioso libro.

Non capiva quei discorsi, troppo difficili per una bambina, ma il libro sì. Il tempo non lineare, la terra simbolo del ciclo, gli antenati presenti nel respiro del mondo. Era tutto molto strano. D’altra parte, la stessa sua famiglia era un ibrido di Han, da parte del papà e Manchu, da parte della madre. In un certo senso, il colonialismo francese ed inglese sui Wendat risuonava anche nelle loro mura.

Trecento anni. I deboli vengono schiacciati.

Molti anni dopo Xuan lo raccontò ad An Xuan () e Lian Xuan () i suoi nipotini. “I popoli piccoli sono oppressi, è capitato ai Wendat, è capitato in Cina”. Tutti furono distrutti, “Da cosa?” chiese Lian, che allora aveva circa dieci anni. “Da malattie, da uomini cattivi, dalla solitudine”, rispose.

 

Un paio di anni dopo, o forse tre o quattro, Xuan assistette a tavola ad un’animata discussione tra Pan Jiao (潘蛟), uno stimato collega, e sua madre Yuan Hua. Avevano terminato di mangiare, ma si accese improvvisamente. Non era per caso, la Xuan adulta ci era passata tante volte. Jiao e Hua avevano presentato progetti alternativi e la direzione dell’università doveva scegliere. “Saggezza indigena” o “Sociologia dei gruppi”? Una bottiglia di ottimo Moutai come arena.

“Vedi Pan, secondo me, i Wendat sono davvero importanti per la loro ostinata ed eroica resistenza culturale di fronte all’impatto della modernizzazione”, disse sua madre, “fonti come il missionario gesuita Jean de Brébeuf, e lo stesso Baron de Lahontan con i suoi straordinari Dialogues avec un sauvage, letti anche da Rousseau, non possono essere dimenticati”.

Pan scosse la testa, mentre sorseggiava il Moutai (茅台), gustando l’aroma di soia fermentata e frutta secca. “È, alla fine, il mito del ’buon selvaggio’: la trascrizione, sulla parola scritta, di valori pre-illuministi dei circuiti francesi seicenteschi”, proseguì. “Parole attribuite per evidenti ragioni di prudenza – in un mondo violento e pericoloso, come quello europeo – a comodi altri”. Tacque per assaporare l’affumicato.

Xuan si fece piccola piccola, …

la mamma era stata sfidata, stava combattendo. La piccola Xuan, la grande e l’anziana, erano tutte per lei. Strette a lei.

Le piccole tazze ed il ganbei che accompagnava ogni giro passavano di mano in mano. Avevamo questa bottiglia di Moutai Feitian degli anni Novanta da tempo, ma la tenevamo solo per le occasioni davvero solenni. Pan Jiao la meritava.

Dopo una pausa, Hua richiamò il Journal of World Peoples Studies (世界民族), e portò a sua difesa la parola del prof. Zhang Haiyang (张海洋). Egli riteneva, come David Graeber, che almeno i concetti essenziali riportati nel Dialoghi, fossero di Kondiaronk. Assaggiando anche lei un Moutai, risposte: “Sai, Pan, non è facile ricondurre del tutto alla cultura europea seicentesca la profonda relazione tra uomo, comunità e natura, che caratterizza la posizione politica e sociale dei Wendat”. … Continuò, dopo una pausa, “Il Grande Cerchio, il rifiuto di qualsiasi gerarchia tra uomo e natura e i principi di eguaglianza, rispetto e reciprocità tra gli esseri sono proprio lontani dagli europei. Dio dice a Adamo nella Genesi, di coltivare e custodire il Giardino”. Per i Wendat tra Giardino e uomo non c’è una distanza. Di sicuro non una gerarchia.

Avevamo disposto sul tavolo noci di ginkgo, con il loro classico amaro, e xian doufu, che tutti prendemmo. Ma a Xuan piaceva particolarmente il zongzi al dattero, ne era ghiotta e non si fece pregare. “Francamente, Hua, è tutto molto bello”, disse Pan, “ma tutta questa saggezza, ragione, equità, questa libertà personale quasi assoluta, sa di retroproiezione”. “E”, aggiunse, “non aiuta che a parlarne sia un anarchico come Graeber”.

Un Mooncake al tuorlo salato (蛋黄月饼) prese la sua giusta via.

“I Dialogues di Lahontan potrebbero provenire dagli ambienti libertini, esempio da Pierre Bayle e, persino, avere echi di Spinoza”. “Si”, ammise Hua, “c’è anche una sorta di riverbero del modello letterario del dialogo satirico filosofico alla Luciano di Samosata, e alcune idee compariranno in Rousseau. Ma questi sono solo modelli letterari, forme; le idee camminano sulle parole, queste chi le ha pronunciate?”. “Appunto”, intervenne Pan, “Graeber potrebbe semplicemente invertire la direzione causale”.

“Ma è sicuro che Lahontan avesse vissuto con i Wendat e che ne parlava la lingua. Aveva contatti con Kondiaronk, che è indubitabilmente una figura storica, e una persona importante”, tentò di resistere mia madre.

 

Anni dopo Xuan, nella grande casa in cui abitava da molto tempo, quando la battaglia era conclusa e il silenzio allungava le sue lunghe dita, raccontava ad An () Xuan, Lian () Xuan e Tao () Xuan, i suoi nipotini, la storia di questa discussione. Era una delle preferite.

“Quando finì la povera bottiglia, Kondiaronk era nuovamente tra di noi”. “Il grande Urone che comprese il nostro mondo e ci mise di fronte al suo fallimento”.

I bambini erano seduti a terra, nella grande stanza dai mille colori, che si adattava agli umori di tutti. “Quale fallimento, nonna?”.

Rispose, evocando nella stanza la Grande Casa Wendat, tutti ora erano davanti al grande fuoco, ne sentivano il calore, erano illuminati dalla sua luce,

“la proprietà privata - perché noi abbiamo tutto”,

“l’ingiustizia - perché uccide il parente in noi”,

“la falsa religione - perché nasconde la verità”,

 

“Cosa è la verità?”, chiese dall’alto dei suoi undici anni, Lian. Xuan tacque, chiuse gli occhi e fece passare dieci secondi.  I bambini, senza accorgersene, trattenevano il respiro. La stanza si fece in lieve penombra.

“Guardarci, e vederci, per quello che siamo.”

“Uno e molti, tutto e ciascuno”.

“Kondiaronk vide il denaro”, aggiunse, “ne capì il sordo potere, l’orrore”.

Era rimasta impressa alla povera bambina una frase, che tramandò: gli europei “parlano sempre di carità cristiana”, ma poi “ovunque trovino uomini li massacrano”. E con essa l’accusa al denaro.

Xuan, anni dopo, l’avrebbe riletta in alcuni opuscoli clandestini della resistenza francese firmati da una militante di nome Françoise. Opuscoli che ora erano nella IA familiare.

Xuan raccontava il rovesciamento del capo Wendat. Dal punto di vista di una società nativa ancora forte ed autosufficiente, l’ambasciatore presso gli europei, chiariva che i ’selvaggi e miserabili’ erano i francesi, non loro.

“Vedete, bambini, … non dimenticate mai. Tutte le armi non possono nascondere la miseria dei costumi di un popolo”. “A cosa giova se guadagniamo il mondo, ma perdiamo noi stessi?”, aggiunse.

“Kondiaronk aveva pietà di noi”.

“Perché? Abbiamo tutto, guarda nonna, se chiedo una caramella si materializza subito sul tavolo”. Meraviglie del 2070.

 

“No, non abbiamo nulla”. “Erano loro, i ’first people’ ad essere saggi, uniti, intelligenti. Noi siamo infelici.

“Siamo prede gli uni degli altri perché inseguiamo il denaro. Abbiamo una vita di intrighi, inganni, ipocrisie, tradimenti, gli uni contro gli altri”.

Alla fine, era semplicissimo. La sicurezza alimentare ed economica, per i Wendat, era sempre collettiva. Nessuno poteva essere al sicuro se non lo erano tutti. Vigeva un’economia morale che scoraggiava la ricchezza e una relazione con la natura di reciproca amicizia.

Quella sera di ottobre del 2008 restò scolpita nella mente di Xuan, e, si può dire, ispirò la sua vita. Trascorsa alla ricerca del rovesciamento delle periferie. 

 



 

Chéngzhǎng ()

Diventare, compiere

 

Cresceva.

A quattordici anni, nel 2019, visitarono insieme Hong Kong. La città gli parve orribile. Tutte quelle luci, le persone che brulicavano ovunque, tristi, palazzi enormi, come iniziavano ad esserci anche nelle grandi città cinesi. Odore di fritto a buon mercato. La sera gli sembrava che tutti si volessero stordire, morire, quasi. Lo spirito del denaro feriva ciascuno. Camminando sui marciapiedi pieni di neon e di odori gli tornava alla mente quel libricino che aveva trovato su un bancone di un ambulante. “Mémoires d'une femme de province”, edito a Parigi, rue del Martyrs, IXe, l’autrice era semplicemente Françoise. La carta ingiallita e ruvida, sobrio, un piccolo fregio art déco era piena di un racconto struggente. Quella stamperia, poi famosa per la Résistance, il cui proprietario fu impiccato dai nazisti, aveva pubblicato una storia quasi intima, di trasformazione ed alienazione, all’epoca non sapeva questa parola. Ciò che colpiva era l’impatto del denaro. Traduce tutti gli oggetti, che sono sostanza delle mani dell’uomo e della sua vita, nella sua unica metrica del tempo. Quando compare il libro mastro, tutto retrocede. Il denaro fa strada. Quella che qui si presentava trionfante ed in piena luce.

 

Scappò.

L’Aula 310, Facoltà di Storia, 2025; in quegli anni gli sembrava un rifugio. La Cina stava cambiando a vista d’occhio e tutti avevano come una febbre… Xi parlava sempre di “Grande ringiovanimento” 华民族伟大复兴 e di promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”. Aveva ragione. Come aveva mostrato secoli fa Kondiaronk ai suoi contemporanei bisognava per prima cosa “decolonizzare l’immaginario”. Altrimenti vincevano sempre gli altri. Noi cinesi dovevamo liberarci. Queste idee si radicarono sempre più nella mente di Xuan.

Gli era sempre più chiaro.

Serviva una barriera, ma doveva essere selettiva, alla modernità occidentale. Bisognava costruire la propria modernità. Quella che era emersa in Europa non bastava, non era adatta a noi. Trasformare il mondo in un insieme di mezzi. E questi immaginarli neutrali, pensava Xuan, serve a rendere naturale il dominio di pochi. Nel vasto mondo, denso di senso, che i Wandat sentivano così bene, la cosmotecnica, una parola che avrebbe imparato dopo, dell’Occidente tagliava con perizia da macellaio poche relazioni determinate, quantitative e sullo sfondo di leggi. Questa mossa geniale è trovata per rendere impossibile la contendibilità razionale dei valori. Tutta la sapienza e la capacità di Kondironk erano vane di fronte alla precisione, la potenza, la geometria inglese. Anche noi avevamo dovuto piegarci.

Bo, il suo miglior amico di quei giorni, non la capiva. Lui voleva andare a fare economia, diventare un finanziere. Essere ricco. Pensava ad una start-up fintech.

“Xuan, amica mia, tu sei piena di sogni e di illusioni”.

“Perché dici questo, Bo? Cerco di capire il mondo.”

“Il mondo è semplice, ci sono i ricchi e ci sono gli altri. Anche noi cinesi diventiamo sempre più ricchi, perché vendiamo a tutto il mondo, e tutti ci pagano. Dobbiamo solo approfittarne. Il resto sono parole.”

“Bo” …

“Non c’è un solo mondo, non c’è solo il conflitto e il materialismo, la dialettica”. Continuò, “non una sola via della salvezza, ma molte”. “Kondiaronk nel 1600 ne indicò una, il suo popolo viveva senza denaro, senza ricchezze, senza potere, ma era pieno e felice”.

“Ti illudi – Xuan – non si può essere felici senza nulla. Tutti ti possono schiacciare, nessuno avrebbe rispetto di te”… “Non ti piace avere bei vestiti? Non vorresti quell’anello che guardammo a Hong Kong? Quello costoso.”

“Si, lo vorrei”,

“Ed allora prendilo”.

“Quando lo potranno avere tutti”.

 

Mandò una mail alla madre, che era in Quebec: “torna presto”.

 

… lezioni di confucianesimo. Ore 9.30, 2026.

Il professor Li parlava di Tianxia. Ovvero di armonia nella differenza. “Quando pensiamo al Cielo, ragazzi, dobbiamo immaginare che i mondi che stanno sotto di esso siano in dialogo, dobbiamo sapere che hanno relazioni costanti, risuonano tra di loro”… “Hua, gradualmente tutto si trasforma secondo il suo principio, e ganying, tutto risuona ed è correlato”.

Ragazzi, aggiungeva, “oggi siamo ad un punto critico della storia millenaria della Cina. Oggettivamente siamo in concorrenza con l’intero Occidente”. … e aggiungeva, dopo una pausa calibrata, “dopo il Secolo dell’umiliazione non possiamo più sbagliare, ci stiamo riaffacciando al mondo.”

“Quel che ci serve”, aggiungeva sempre, “è recuperare una radice confuciana e integrarla con la prospettiva marxista”. “Il marxismo ci ha di nuovo resi forti, ma ora serve anche riscoprire le nostre radici”.

Si trattava di un grandioso progetto, al quale tutti i membri delle facoltà umanistiche, erano tenuti a dare il contributo. Ricodificare l’infrastruttura spirituale del socialismo con caratteristiche cinesi. Un’operazione di grande momento ed enorme complessità alla quale eravamo tutti vocati.

Alcuni, come Li, probabilmente anche per fare carriera …

La ridefinizione della tradizione, codificata come nucleo spirituale del marxismo sinesizzato, implica, infatti, in qualche modo la sostituzione del suo sostato universalista Occidentale (derivante, lo stavo studiando, dall’idealismo tedesco e dal positivismo francese) con un carattere che è ancora universalista, ma in modo del tutto diverso.

Chen non era d’accordo. Stava studiando con passione Hegel, sperava di poter fare un semestre a Tübingen, e riteneva troppo spiritualista e monista la prospettiva confuciana. La natura del mondo e della storia era nel conflitto, non nell’armonia. La matrice confuciana e quella marxista gli sembravano aliene.

“Sai, Chen” gli disse una mattina Xuan, “è il concetto idealista tedesco di ‘libertà’, che è connesso con quello di ‘ragione’ e ‘autonomia’, a rendere distante la visione hegeliana dalla nostra”.

“E’ vero”, rispose,

“Ma proprio questo è il punto. Nella nozione di conflitto e superamento è presente la possibilità di rivoluzionare sempre il mondo, di criticarlo dall’interno, … è presente un potenziale di liberazione, che, se si torna a Confucio ed alla tradizione imperiale Han, si perde”.

La citazione all’egemonia Han era un colpo basso, dato con precisione chirurgica. Chen sapeva che lacerava la genealogia di Xuan.

“Ma la nozione di ‘libertà’, nell’accezione occidentale, include la svalutazione di ogni altra cosmologia, già Kondiaronk disvelò cosa si racchiudeva in essa. Se si pensa alla ‘ragione’ al singolare, ed al ‘progresso’ come linea di dispiegamento di un destino già presente sulla linea orizzontale del tempo, si perdono tutte le altre temporalità e forme di vita. Che finiscono per essere considerate come, semplicemente ‘non ancora’, o incomplete”. Ricordi quando Hegel scrive “ciò che è universalmente valido esercita anche universalmente la propria validità”?

Confucio non era solo Han. E del resto gli Han non erano solo Confucio, pensò Xuan. Suo padre, ad esempio, era Han, ma molto più taoista che confuciano.

Il colpo era stato restituito. Chen vacillò. Sapeva che lo schema concettuale era servito per coprire la violenza praticata nel mondo, e per bombardare il Palazzo di inverno nella Seconda guerra dell’oppio. Ma era anche alla radice della potente scienza e tecnica occidentale. Quella che era intorno a tutti e tutto. Non era forse questa stessa facoltà, con i monitor touch e i luccicanti programmi di apprendimento che vi passavano sopra, un’espressione ultima della scienza newtoniana?

Lo disse.

Inoltre, se pure la modernità europea ha visto sé stessa come universale, ed ha giustificato con ciò la sua violenza, d’altro lato ha ispirato le lotte di liberazione. E continua a farlo.

Xuan si oppose con energia all’idea, profondamente razzistica, che solo l’Occidente avesse la tecnica, il pensiero razionale, e la scienza. Era stata più veloce, è vero. Molto più potente e determinata, certo. Ma le immense città Atzeche, le straordinarie opere idrauliche delle piane cinesi, l’immane quantità di carbone impiegato e acciaio creato nell’epoca Qin, contraddicevano il mito europeo creato nel XIX secolo.

E, comunque, rispose: “Bisogna evitare sia l’imperialismo dell’Uno, sia il multiculturalismo da supermercato. L’io e l’altro sono rimando”. Aggiunse, “Questo, tu, che studi Hegel, lo puoi capire, devi sono uscire dal suo Mito Bianco”. Il mito degli Stadi, del percorso unico verso la Salvezza, rappresentata dal pieno dispiegarsi dello Spirito (ovvero della “libertà”). Come sai la “libertà” di Hegel “non è quella di Kant. Non è intesa come indipendenza da ogni vincolo, ma capacità”.
Chen annuì e completò “capacità, attraverso il legame con qualcosa o con qualcuno, di ritrovarsi e di essere sé stessi nell’altro”.

“Potremmo sperimentarlo questa notte”.

Xuan arrossì leggermente, ma fece finta di non aver colto e andò avanti.

“Sai, Chen”, aggiunse con fervore, “tutte le civiltà sono forme co-esistenti del Dao, espressione di armonia, ma senza conformità”. Questo andava oltre Hegel, anche il migliore.

Chen rispose, “sicuramente le civiltà coesistono, ma bisogna avere un punto di vista per valutarle. Si cade nel relativismo, altrimenti”.

“No Chen”, … “tu pensi questo perché in fondo immagini il soggetto come individuo separato, ma non lo è”. Continuò, “non può esserlo. E’ sempre costituito da interdipendenze e relazioni. Si può dire che il soggetto sia solo queste relazioni, queste interdipendenze. Anche la ‘verità’, il problema di Newton e di tanti, non è un essere, un modello, uno stato persino, quanto un processo che emerge da una situazione. Un equilibrio. Ed il ‘tempo’, come vedevano i wendat, non è il piano liscio immaginato geometricamente dalla scienza inglese del Seicento. Piuttosto, una crescita, un circolo, una parentela”.

Chen rimase in silenzio. Queste idee andavano troppo oltre.

Allora Xuan riprese, “a questo tempo pieno, fatto dal mondo concreto, bisogna adattarsi, wu wei, non-agire secondo il flusso, come direbbe mio padre. Per onorare il potenziale, lo shi.”

“Per questo”, aggiunse, “cerchiamo di riprendere il Tianxia della tradizione confuciana”.

“Come vedi”, sorrise, “abbiamo una molteplicità dentro di noi. Incarnata”.

 

Ormai la comprensione della parola d’ordine dell’armonia nella diversità, per Xuan, era cambiata. Andava dallo sforzo di tenere insieme non solo i diversi paesi dei Brics, una necessità vitale nello scontro ibrido in corso, quanto i diversi registri culturali e ideologici, e persino le oltre 50 etnie cinesi. Era un obiettivo, quest’ultimo, che sentiva sotto la pelle, dato che era per metà Manchu e metà Han.

Il progetto che si stava costruendo era, insomma, marxista, confuciano, post-coloniale e al contempo, multiculturale e cosmopolita con caratteristiche cinesi.

Da quando Xuan, nel 2028, si era iscritta alla facoltà di filosofia questo gli era divenuto chiaro. Doveva costruire un discorso indipendente. Dall’universalismo astratto, la retorica dei diritti umani, per raggiungere veramente l’uomo e la donna come sono, incarnati. E, infine, contrastare la preminenza del mercato come ordinatore sociale.

 

Bo e Xuan discutevano spesso in quel tempo. Una sera, sotto la stata di Confucio e le insegne al neon di uno Starbucks nel quale avevano appena preso un caffè, tornarono sul tema della ricchezza.

“Come sta andando l’idea della Start-up, Bo?” chiese Xuan.

“Cerco finanziatori”, ma, del resto mi sono appena laureato. “Ho incontrato dei ragazzi della scuola di matematica, stiamo buttando giù qualche idea”.

“Di che si tratta?”

“Essenzialmente vorremmo codificare una comprensione del linguaggio in un software autonomo”. “Bisogna che il progresso tecnico sia liberazione”.

A Xuan sembrò un’idea orribile, ma lo tenne per sé.

Poiché, in un senso che non riusciva a chiarirsi, in fondo teneva a Bo, provò a interessarsi.

Disse, “Tutti i sistemi IA sono simulatori, non hanno desideri, obiettivi, non comprendono, come pensi di arrivarci?”

Bo si fece pensoso. Xuan non lo aveva mai visto così. “comprendere significa essere dentro le situazioni. Dobbiamo interagire, provare e fallire, toccare ed essere toccati, per avere desiderio di capire. Dobbiamo cambiare e fare corpi, non menti”.

L’idea accese l’attenzione di Xuan come se un faro avesse tagliato la nebbia. “Bisogna che l’agente venga scosso e sorpreso, minacciato persino, e che debba agire!”. “Deve voler esplorare il mondo”, rispose Bo, “perché gli serve”. “E, quindi”, completò Xuan, “deve anticipare e simulare, fare mappe, ipotesi, rischiarsi”.

Ma potrebbe essere una cosa simile fatta? E può essere sola, senza un sociale nativo, nel quale crescere dal piccolo al grande? Si chiese muta Xuan.

Bo sembrava aspettare.

“E’ come crescere, ma dove è la famiglia, dove il clan?”, chiese Xuan.

Un lampo negli occhi si formò nel suo amico. “Abbiamo bisogno di un autodidatta”, rispose, “ma lo aiuteremo, … non troppo, però”.

Come farai, sembra costoso.

“Potremmo aver trovato un investitore, in Italia”. Rispose.

“Ora siamo alla modellazione concettuale, poi passeremo alla matematica, e poi al design. Serve corpo, storia e proiezione”.

 

Quella sera andarono a cena insieme, e poi a casa di lui.

 


Chéngzhǎng (成长)

Diventare, compiere

 

Cresceva. A quattordici anni, nel 2009, Xuan e Yuan Hua visitarono insieme Hong Kong. La città le parve orribile. Tutte quelle luci, le persone che brulicavano ovunque, tristi, palazzi enormi, come iniziavano ad esserci anche nelle grandi città cinesi. Odore di fritto a buon mercato. La sera gli sembrava che tutti si volessero stordire, morire, quasi. Lo spirito del denaro feriva ciascuno.

“Mamma”, disse stringendole forte la mano, “questa città urla”.

Camminando sui marciapiedi pieni di neon e di odori le tornava alla mente quel libricino che aveva trovato su un bancone di un ambulante. Mémoires d’une femme de province, edito a Parigi, rue des Martyrs, IXe, l’autrice era semplicemente Françoise. Aveva la carta ingiallita e ruvida, era sobrio e con un piccolo fregio art déco. L’opuscolo era un racconto struggente. Nei passaggi più difficili del testo si era fatta aiutare dalla madre. Quella stamperia, poi famosa per la Résistance, il cui proprietario fu impiccato dai nazisti, aveva pubblicato una storia quasi intima, di trasformazione ed alienazione, all’epoca non sapeva questa parola. Ciò che in essa colpiva era l’impatto del denaro. Aveva letto e riletto quella pagina.

“Qui c’è denaro ovunque, trasuda, ogni cosa ne è piena”, aggiunse.

“Sì”, rispose la madre, “questa città-mondo era inglese. Guarda, questo è l’Occidente”.

Yuan Hua, le ricordò, in francese, un passo del libro che avevano letto e commentato insieme, “L’argent traduit tous les objets, qui sont la substance des mains de l’homme et de sa vie, dans la seule métrique du temps”. Xuan ricordava bene queste parole, ma ora cominciava a capirle.

Denaro, … Esso traduce tutti gli oggetti, che sono sostanza delle mani dell’uomo e della sua vita, nella unica metrica del tempo. Quando compare il libro mastro, tutto retrocede. Il denaro fa strada.

Era la stessa metrica che qui, ad Hong Kong, si presentava trionfante ed in piena luce.

Scappò.

 

Molto dopo, l’Aula 310, Facoltà di Storia, 2015; in quegli anni le sembrava un rifugio. La Cina stava cambiando a vista d’occhio e tutti avevano come una febbre… Xi parlava sempre di “Grande ringiovanimento” 中华民族伟大复兴 e di promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”. Aveva ragione. Come aveva mostrato secoli fa Kondiaronk ai suoi contemporanei, bisognava per prima cosa “decolonizzare l’immaginario”.

Le sembrava di sentirlo. La notte il vecchio e saggio Urone era stato spesso un compagno di sogni. ’Xuan, bisogna lottare per il tempo, per la vita, altrimenti vincono sempre gli altri. Sempre il denaro’ le ripeteva. ’Sempre il suo tempo’. Era vero, noi cinesi dovevamo liberarci. Queste idee si radicarono sempre più nella mente di Xuan.

Le era sempre più chiaro.

Serviva una barriera alla modernità occidentale, ma doveva essere selettiva. Kondiaronk usò i fucili, la tecnica conta. Ma bisogna costruire la propria modernità. Quella che era emersa in Europa non bastava, non era adatta a noi. Non si doveva trasformare il mondo in un insieme di mezzi.

Uscire dalle città che urlano.

’Immaginare i mezzi neutrali’, pensava Xuan, ’serve a rendere naturale il dominio di pochi’. Ricordava le lezioni su Marx. Nel vasto mondo, denso di senso, che i Wendat sentivano così bene, la cosmotecnica, una parola che avrebbe imparato dopo, dell’Occidente separava con perizia poche relazioni determinate, quantitative sullo sfondo di leggi. Come un abile macellaio tagliava con precisione i tendini, separava tra di loro i muscoli, rimuoveva le ossa.

Ma non si poteva chiudere la porta. Tutta la sapienza e la capacità di Kondiaronk erano vane di fronte alla precisione, la potenza, la geometria inglese. Anche noi avevamo dovuto piegarci centocinquanta anni fa.

 

Queste precauzioni Bo, il suo miglior amico di quei giorni, non le capiva. Alto e slanciato, sempre pieno di un’energia contagiosa, radiosa, era di ottima famiglia, antiche ascendenze mandarine, era cresciuto in una casa che sembrava una libreria, ma lui era stanco dell’odore di vecchio, voleva andare a fare economia, diventare un finanziere. Essere ricco. Pensava ad una start-up fintech.

“Xuan, amica mia, tu sei piena di sogni e di illusioni”, Bo sorrideva, mentre passeggiavano nei corridoi ampi e pieni di luce della facoltà. Quella ragazza gli piaceva, ma era anche strana.

“Perché dici questo, Bo? Cerco di capire il mondo nel quale viviamo.” Xuan si sentiva sfidata, ma era anche curiosa.

“Il mondo è semplice, ci sono i ricchi e ci sono gli altri. Anche noi cinesi diventiamo sempre più ricchi, perché vendiamo a tutto il mondo, e tutti ci pagano. Dobbiamo solo approfittarne. Il resto sono parole.”

“Bo” …

Le parole furono rigurgitate di getto, “Non c’è un solo mondo, non c’è solo il conflitto e il materialismo, la dialettica”. … non lo sapeva dire meglio, per ora, Xuan, tentò di precisarlo “non esiste una sola via della salvezza, ma molte”. Annaspava, la logica fredda di Bo era solida, ma qualcosa dentro di lei stava premendo. Aggiunse, dopo una pausa, “Kondiaronk nel 1600 ne indicò una, il suo popolo viveva senza denaro, senza ricchezze, senza potere, ma era pieno e felice”. Sentiva il suo amico dei sogni che sorrideva.

Erano arrivati,

“Ti illudi – Xuan – non si può essere felici senza nulla. Se non hai nulla tutti ti possono schiacciare, nessuno avrebbe rispetto di te” … “Non ti piace avere bei vestiti? Non vorresti quell’anello che guardammo a Hong Kong? Quello costoso.”

“Si, lo vorrei”,

“Ed allora prendilo”.

Rispose bruscamente, il ’prendilo’ la aveva colpita come uno schiaffo. “Quando lo potranno avere tutti”.

Forse Bo non era così carino, dopotutto.

 

Mandò una mail alla madre, che era in Quebec: “torna presto”.

 

… lezioni di confucianesimo. Ore 9. 30, 2017. La Cina correva, sembrava avere la febbre. Tutti avevano macchine nuove, una gara ad averne sempre l’ultima, con più accessori, più modernità, più spettacolo. Sembrava che ognuno avesse sempre fretta. Xuan non capiva perché, per fare cosa.

L’aula era un luogo paziente. Qui il tempo scorreva bene, era lento, … qui il tempo pensava.

Il professor Li parlava di Tianxia. Ovvero di Armonia nella differenza. “Quando pensiamo al Cielo, ragazzi, dobbiamo immaginare i mondi che stanno sotto di esso in dialogo, dobbiamo sapere che hanno relazioni costanti, risuonano tra di loro” … “Hua, gradualmente tutto si trasforma secondo il suo principio, e ganying, tutto risuona ed è correlato”.

Xuan prendeva appunti sul tablet, ma andava con la mente a Yuan Hua, sua madre. La sua amica.

Ragazzi, aggiungeva, interrompendosi, “oggi siamo ad un punto critico della storia millenaria della Cina. Oggettivamente siamo in concorrenza con l’intero Occidente”. … e aggiungeva, dopo una pausa calibrata, “dopo il Secolo dell’umiliazione non possiamo più sbagliare, ci stiamo riaffacciando al mondo.”

Li vantava ambigue ascendenze da Hai Ling (将领), il governatore militare Qing dai modi davvero spicci che aveva resistito a Zhenjiang agli inglesi di Palmerston. Il suo avo si era suicidato dopo la sconfitta, ora sarebbe andata diversamente. Anche la sua memoria sarebbe stata riscattata, non pazzo dittatore, ma eroe che guidò l’ultima carica.

“Quel che ci serve”, aggiungeva sempre, “è recuperare una radice confuciana e integrarla con la prospettiva marxista”. “Il marxismo ci ha di nuovo resi forti; ma ora serve anche riscoprire le nostre radici”.

Si trattava di un grandioso progetto, al quale tutti i membri delle facoltà umanistiche, erano tenuti a dare il contributo. Ricodificare l’infrastruttura spirituale del socialismo con caratteristiche cinesi. Un’operazione di grande momento ed enorme complessità alla quale eravamo tutti vocati.

Alcuni, come Li, probabilmente anche per fare carriera …

 

Nella loro associazione studentesca, il Circolo dei Due Draghi 双龙会 (Shuānglóng Huì) ne discutevano spesso. Era molto piccola, due stanze, arredate solo con divani e cuscini, tappeti alla giapponese e libri, tanti libri. In un angolo c’era uno schermo dal quale potevano eruttare centinaia di altri testi, immagini, voci. Il circolo si era dato un compito, riflettere sulla ridefinizione della tradizione. L’idea che potesse essere codificata come nucleo spirituale del marxismo sinesizzato, era il centro dello scontro tra due “bande”. Per alcuni implicava la sostituzione del suo sostrato universalista Occidentale (derivante, Xuan la stava studiando in un altro corso, dall’idealismo tedesco e dal positivismo francese) con un carattere ancora universalista, ma in modo del tutto diverso. Per altri era semplicemente una contraddizione, agita politicamente per recuperare elementi di autoritarismo. Xuan e i suoi amici avevano furiose discussioni notturne su questo universalismo.

In una di queste, davanti a una decina di amici semiubriachi, Zhao e Xuan, i due ’capobanda’, si scontrarono.

Zhao Yucheng (赵宇成 / 趙宇成) puntò verso Xuan la sua bottiglia vuota di birra. Si alzò a metà dal divano dove era sprofondato, il suo sguardo sembrava fiammeggiare. “sbagliate tutto!”, dopo una pausa studiata continuò, “la storia non è un giardino zen, è una fornace nella quale tutto si fonde, uno scontro continuo. ”

Qualcuno dal fondo della stanza gridò un "Bravo! " impastato dall’alcol.

Si alzò, “questa idea della ripresa di Confucio è un inganno!”, si fece coraggio, “serve a controllare il popolo. È sempre servito a questo. Abbiamo bisogno della dialettica, del superamento, dell’oltrepassare”.

Stava studiando con passione Hegel, sperava di poter fare un semestre a Tübingen, la matrice confuciana e quella marxista gli sembravano aliene. Xi avrà anche avuto le sue ragioni, ma la cosa non aveva senso.

Xuan lo guardò con calma, centellinando un’aria di sfida che, sapeva, gli avrebbe fatto perdere lucidità.

I suoi amici aspettavano, avevano anche smesso di bere.

L’aria densa di fumo sembrò fermarsi.

“Sai, Yucheng” gli disse lentamente, “non è questione di conflitto o pace, Confucio visse in tempi di guerra”. Attese, “la questione centrale, il problema è la ’libertà’ pensata da Locke o dai prussiani. Assoluta, connessa con un Dio unico, una sola Ragione”.

Yucheng aspettava questa contromossa, ma cercò le parole per qualche istante. Xuan ne approfittò. “E la Ragione con l’Autonomia, è una visione lontanissima da noi”. Volendo questo poteva essere un esile ponticello sul fossato che li separava. Un tentativo.

È vero”, rispose Yucheng, usando il ponte per un assalto,

“ma proprio questo è il punto! Nella nozione di conflitto e superamento è presente la possibilità di rivoluzionare sempre il mondo, di criticarlo dall’interno, … è presente un potenziale di liberazione, che, se si torna a Confucio e quindi necessariamente alla tradizione imperiale Han, si perde”. Ora era al centro della stanza, alto, con la sua blusa scamiciata grigia e i pantaloni neri, nella mano aveva dimenticato di avere ancora la bottiglia, che brandiva come un’ascia.

Stava cercando di sfondare il portone del castello di Xuan.

La citazione all’egemonia Han era proprio un colpo basso, scelto con precisione chirurgica. Yucheng sapeva che lacerava la genealogia di Xuan. Erano stati una parte dei suoi avi a sfondare quel portone.

’Confucio non era solo Han. E del resto gli Han non erano solo Confucio’, pensò Xuan. Suo padre, ad esempio, era Han, ma molto più taoista che confuciano.

Xuan esitò, era diventata leggermente rossa, respirò, poi ruppe il silenzio. Restando seduta, e con voce ferma, sporgendosi leggermente in avanti, disse “la nozione di ’libertà’, nell’accezione occidentale, include la svalutazione di ogni altra cosmologia”, alzando ancora il tono, con un lieve fremito nella voce, aggiunse “già Kondiaronk disvelò cosa racchiudeva. Se si pensa alla ’Ragione’ al singolare, ed al ’Progresso’ come dispiegamento di un destino già presente sulla linea orizzontale del tempo, si perdono tutte le altre temporalità e forme di vita. Che finiscono per essere considerate come, semplicemente ’non ancora’, o incomplete”.

Fece una pausa.

“Questo è il cuore del colonialismo, contestarlo è liberazione!”, disse in crescendo di tono.

A questo punto, lentamente, restituì il colpo. “Ricordi quando Hegel scrive ’ciò che è universalmente valido esercita anche universalmente la propria validità’”?

Yucheng vacillò. Sapeva che lo schema concettuale tedesco era servito nella pratica per coprire la violenza praticata nel mondo, e per bombardare il Palazzo d’estate nella Seconda guerra dell’oppio. Per uccidere l’avo del professor Li ed i suoi valorosi soldati. Ma era anche alla radice della potente scienza e tecnica occidentale. Quella che era intorno a tutti e tutto. ’Non era forse questa stessa facoltà, con i monitor touch e i luccicanti programmi di apprendimento che vi passavano sopra, un’espressione ultima della scienza newtoniana?’, pensò.

Lo disse.

“Guardati intorno, Xuan, siamo immersi nell’Occidente!”

 

“C’è un solo momento, e luogo, in cui il modo di produzione commerciale e artigianale transita in quello industriale. Ma è un luogo al centro di un impero coloniale intriso di sangue, non è un caso”, rispose Xuan.

Uno dei suoi amici vinse i fumi dell’alcol e dal fondo fumoso della stanza disse, “la Cina era stata sempre più avanzata tecnologicamente e ricca dell’Europa, fino all’Ottocento, quando il commercio dell’oppio e poi le cannoniere inglesi la svuotarono”.

“C’è un punto da comprendere, ’Occidente’, come ’Oriente’ sono proiezioni, narrazioni, e non innocenti, fanno parte di discorsi che puntano al dominio”, aggiunse Xuan, che voleva passare all’offensiva.

“Capisco”, concesse Yucheng. Tang Xibo (唐希博)che era intervenuto prima stava facendo un dottorato in storia comparata dell’industrialismo, non era il caso di sfidarlo, “ma questo, alla fine, può essere detto in termini dialettici. Esiste sicuramente una tensione interna tra omologazione e universalizzazione. Ma questa tensione nasce quando i mondi tradizionali sono dinamizzati dalla spinta della ’modernizzazione’”.

Dopo una pausa, perché il concetto facesse presa, concluse, trionfante “è la classica analisi marxista! differenziazione e gerarchizzazione, sono continuamente ricreate dalla dinamica capitalista. La liberazione nasce in questa dialettica”.

L’affermazione cadde in una stanza orami semivuota, due o tre studenti ascoltavano, altri fumavano e bevevano in disparte, alcuni ormai dormivano. Le luci soffuse aiutavano.

Xuan questo lo capiva, lo aveva sentito mille volte, ma non lo poteva accettare. L’idea che il capitalismo portasse libertà era la ragione dietro il colonialismo dell’Occidente. Il suo alibi.

“Questa è una divinizzazione di quella che è una forma dell’umano, una forma delle tante provincie del mondo”, rispose quasi con rabbia.

Era indignata, più andava avanti e più faticava a nasconderlo. “Marx viveva immerso nel capitalismo trionfante e nell’Europa che si sentiva mondo. Non poteva vederne i confini, a tutti i suoi contemporanei appariva ovvio che l’intera tradizione della cultura, la stessa filosofia, la storia, e tutta la tecnica fossero figlie dell’Io europeo. Un ’Io’ incondizionato, indeterminato, infinito ed assoluto”.

Fece una pausa.

“Ma dopo il Congo di Leopoldo II, Verdun, Auschwitz, Hiroshima, non possiamo vedere così la storia umana!”.

Il silenzio calò nella stanza, anche chi era semiaddormentato sembrò aprire gli occhi. Qualcuno aprì una luce, ora si vedevano.

Questo era davvero un colpo basso, ma era anche vero.

Yucheng taceva, la guardava incerto.

Auschwitz, … Hiroshima, …

Xuan continuò, “E’ la stessa mossa, e necessaria. Se possiedo l’universale tutti gli altri sono universalmente periferici. Nel formarsi del centro si forma necessariamente la periferia, e nel formarsi del Moderno si forma il pre-moderno, l’oscuro, il resistente, ciò che va trascinato alla luce. Questa è la radice del potere, della schiavitù”.

 

Provò ad uscire dall’angolo, “E’ vero, un ottimo punto Xuan, ma se pure la modernità europea vede sé stessa come universale, ed ha giustificato con ciò la sua violenza nel mondo, resta vero che, d’altro lato, ha ispirato le lotte di liberazione. E continua a farlo”.

“Questo è l’argomento più forte”, Xuan ascolta, “attribuire all’uomo in quanto tale delle caratteristiche originarie di eguaglianza e libertà, se può essere usato per asservire, d’altra parte rende disponibile un potenziale di liberazione che può essere riscattato, prendendolo sul serio, da chi ne vuol fare uso”.

 

Anche se quest’ultima affermazione era vera, Xuan si oppose ancora con energia all’idea, profondamente razzistica, che solo l’Occidente avesse, quasi come suo possesso, la tecnica, il pensiero razionale, e la scienza.

Ormai era in piedi e passeggiava nervosamente avanti e indietro.

Rispose ricorrendo ad una frase del corso: “Bisogna evitare sia l’imperialismo dell’Uno, sia il multiculturalismo da supermercato. L’io e l’altro sono rimando”. Aggiunse, però, direttamente, “questo, tu, che studi Hegel, lo puoi capire, devi solo uscire dal suo Mito Bianco”. Il mito degli Stadi, del percorso unico verso la Salvezza, rappresentata dal pieno dispiegarsi dello ’Spirito’ (ovvero della “libertà”)”.

E, poco dopo,

“Come sai, la ’libertà’ di Hegel non è indipendenza da ogni vincolo, ma capacità”. Di nuovo tentò una sortita che era anche una mano tesa,

lo scontro andava avanti da troppo.

Yucheng annuì e completò “capacità, attraverso il legame con qualcosa o con qualcuno, di ritrovarsi e di essere sé stessi nell’altro”. Lo scontro poteva finire, per ora.

La guardò.

“Potremmo sperimentarlo questa notte”.

Xuan in fondo era una ragazza interessante, e Yucheng molto sicuro di sé.

 

Xuan arrossì leggermente, ma fece finta di non aver colto e andò avanti. Era il momento di vincere.

“Sai, Yucheng”, aggiunse con fervore, “se siamo d’accordo nel ritrovarsi nell’altro, allora dobbiamo concluderne che tutte le civiltà sono forme co-esistenti del Dao, espressione di armonia, ma senza conformità”. Questo andava oltre Hegel, anche il migliore.

Yucheng, che non aveva perso le speranze di una buona conclusione della serata, rispose, conciliante ma fino ad un certo punto, “sicuramente le civiltà coesistono, ma bisogna avere un punto di vista per valutarle. Si cade nel relativismo, altrimenti”. Sorrise.

“No”, Xuan aveva altre idee… “tu pensi questo perché in fondo non riesci ad uscire dall’immagine del soggetto come individuo separato. Ma non lo è”. Continuò, spostando il tono, “non può esserlo. È sempre costituito da interdipendenze e relazioni. Si può dire che il soggetto sia solo queste relazioni, queste interdipendenze. Anche la ’Verità’, il problema di Newton e di tanti, non è un essere, un modello, uno stato persino, quanto un processo che emerge da una situazione. Un equilibrio. Ed il ’tempo’, come vedevano i Wendat, non è il piano liscio immaginato geometricamente dalla scienza inglese del Seicento. Piuttosto, una crescita, un circolo, una parentela”.

Yucheng rimase in silenzio. Deluso. Queste idee andavano troppo oltre, e poi Xuan non sembrava interessata. Ricordava come la ’Verità’ come processo fosse stata rigettata con sdegno teologico dal Newton interprete delle Scritture, perché avrebbe relativizzato anche quelle. Il vecchio inglese non aveva torto.

Dato che non rispondeva, Xuan riprese, “a questo tempo pieno, fatto dal mondo concreto, bisogna adattarsi, wu wei, non-agire secondo il flusso, come direbbe mio padre. Per onorare il potenziale, lo shi. ”

“Per questo”, aggiunse trionfante, “cerchiamo di riprendere il Tianxia della tradizione confuciana”.

La distanza era stata ristabilita, d’altra parte tutti ormai dormivano.

“Come vedi”, sorrise, “abbiamo una molteplicità dentro di noi. Incarnata”. ’Noi non abbiamo mai avuto una religione del libro’, avrebbe potuto aggiungere.

Youcheng se ne era andato.

 

Ormai la comprensione della parola d’ordine dell’armonia nella diversità, per Xuan, era cambiata. Andava dallo sforzo di tenere insieme non solo i diversi paesi dei Brics, una necessità vitale nello scontro ibrido in corso, quanto i diversi registri culturali e ideologici, e persino le oltre 50 etnie cinesi. Era un obiettivo, quest’ultimo, che sentiva sotto la pelle, dato che era per metà Manchu e metà Han.

Il progetto che si stava costruendo nel paese era, insomma, marxista, confuciano, post-coloniale e al contempo, multiculturale e cosmopolita con caratteristiche cinesi.

Da quando Xuan, nel 2020, si era iscritta alla facoltà di filosofia questo le era divenuto chiaro. Doveva costruire un discorso indipendente. Sia dall’universalismo astratto, come dalla retorica dei diritti umani, per raggiungere veramente l’uomo e la donna come sono, incarnati. E, infine, contrastare la preminenza del mercato come ordinatore sociale.

 

Bo e Xuan discutevano spesso in quel tempo. Una sera, nel 2025, sotto la statua di Confucio e le insegne al neon di uno Starbucks nel quale avevano appena preso un caffè, tornarono sul tema della ricchezza.

“Come sta andando l’idea della Start-up, Bo? ” chiese Xuan.

Lo guardò, il giovane entusiasta ed energico di qualche anno prima si vedeva ancora, ma c’era un velo… una sorta di dubbio, una esitazione,

le piaceva,

il dubbio è pensiero.

“Cerco finanziatori”, ma, del resto mi sono appena laureato. “Ho incontrato dei ragazzi della scuola di matematica, stiamo buttando giù qualche idea”.

“Di che si tratta?”

“Essenzialmente vorremmo codificare una comprensione del linguaggio in un software autonomo”. Aggiunse, “bisogna che il progresso tecnico sia liberazione”.

A Xuan sembrò un’idea orribile, ma lo tenne per sé.

Poiché, in un senso che non riusciva a chiarirsi, in fondo teneva a Bo, provò a interessarsi.

Rispose, con un tranquillo tono colloquiale, “tutti i sistemi IA sono simulatori, non hanno desideri, obiettivi, non comprendono, come pensi di arrivarci?”

Bo si fece pensoso. Xuan non lo aveva mai visto così, sembra lottare. “Comprendere significa essere dentro le situazioni. Dobbiamo interagire, provare e fallire, toccare ed essere toccati, per avere desiderio di capire. Dobbiamo cambiare e fare corpi, non menti”.

L’idea accese subito l’attenzione di Xuan come se un faro avesse tagliato la nebbia. Sentì una sorta di emozione salire da un punto che non sapeva di avere, rispose per nasconderla, “bisogna che l’agente venga scosso e sorpreso, minacciato persino, e che debba agire!”. “Sì, deve voler esplorare il mondo”, replicò Bo, aggiungendo “perché gli serve”. “E, quindi”, completò Xuan, con una sorta di entusiasmo che non sapeva spiegarsi, “deve anticipare e simulare, fare mappe, ipotesi, rischiarsi”.

L’onda emotiva la confondeva, cercò di riprendere il controllo, ’Potrebbe essere fatta una cosa simile? E può essere sola, senza un sociale nativo, nel quale crescere dal piccolo al grande? ’ Si chiese Xuan.

Bo sembrava aspettare. La guardava.

Doveva parlare, chiese, “è come crescere, ma dove è la famiglia, dove il clan?”. Spostò lo sguardo.

Un lampo negli occhi si formò nel suo amico. “Abbiamo bisogno di un autodidatta”, rispose, “ma lo aiuteremo, … non troppo, però”.

“Come farai, sembra costoso”.

“Potremmo aver trovato un investitore, in Italia”. Rispose.

“Ora siamo alla modellazione concettuale, poi passeremo alla matematica, e poi al design. Serve corpo, storia e proiezione”.

 

Quella sera andarono a cena insieme, e poi a casa di lui.

 



Chéng jǐ (成己), rù dào (入道)

Compiere, entrare nella via

 

Mentre facevano colazione la raggiunse una notizia: Yuan Hua era morta in Quebec, non era ancora chiaro come.

Il mondo cadde.

Mamma.

Fuggì e corse a perdifiato fino a casa.

 

Entrò quasi sfondando la porta e si tuffò tra le braccia del padre.

Chen Daohan (陈道汉) la accolse con gioia mista a dolore. “Andiamo a casa, Xuan, a Shanghai”, dobbiamo curarci. Gli occhi profondi color nocciola di suo padre la guardavano con dolcezza e timore. Era un uomo alto, un poco strano, quasi scuro di pelle e poco Han. Eppure, veniva da un’antica ed illustre famiglia.

Prepararono insieme i tangyuan dorati al loto e zafferano, un piatto della sua famiglia che aveva ascendenze parsi. Li mangiarono caldi, sorseggiando un tè. Ricordarono come alla mamma piacessero tanto.

All’alba presero la BYD e viaggiarono fino a Shanghai. Sull’autostrada G2, paesaggi brulli e poi più verdi e risaie a perdita d’occhio. Faceva un poco caldo, ma soprattutto era molto umido.

La grande città li accolse con il suo caratteristico odore, ogni città ne ha uno. Magnolia e sale marino. Il distretto di Lujiazui, con le sue foreste di cristallo nella nebbia si presentò fino a che comparve la Shanghai Tower, imponente con i suoi oltre seicento metri di altezza e l’andamento a spirale. Gli architetti avevano fatto a gara. Sfere rosa e argento che si innalzano verso il cielo, immensi edifici prismatici e aperti in alto, enormi ed affilate pagode alte centinaia di metri. Ma anche piccoli giardini, viuzze della città vecchia, case tradizionali e cortili.

Andarono direttamente nella casa della famiglia. Una casa a corte shíkùmén (石库门), del primo Novecento, nella Concessione Francese. Case che nella loro stessa pietra ricordavano il colonialismo europeo e per questo a Hua facevano sempre venire un brivido.

 





Il cortile con i bambù e l’albero di cachi era addobbato con drappi bianchi, ed erano stati preparati tavoli per le offerte; era stata portata fuori quella antichissima teiera di argento di Isfahan, si diceva antica di mille anni. Si sentiva un gong in lontananza, leggero. Sull’altare c’era la foto di Yuan Hua (袁华), la forestiera del Nord, come sottovoce la chiamavano qui. La nonna li accolse sulla soglia. Piangeva. “Hua era così brava, intelligente, così bello parlare con lei”. Vennero offerti quei dolci troppo dolci che sono così simili al carattere del Sud. Piano piano arrivarono i parenti dal Nord, con la loro fredda parlata mandarina ed il tono pechinese e composto. Venne accesa la fiamma alimentata da legno di sandalo, un rito zoroastriano della famiglia. A fianco ardeva l’incenso buddista.

Le rotte delle spezie si tramandano.

 

Lei arrivò con un volo Air Canada. Era in una scatola di legno scuro, molto bella, e sigillata. Andarono a prenderla con un sentimento sospeso, come automatico, cose che vanno fatte e si fanno. Sentendosi quasi staccati. A Pudong presero l’urna in braccio con un tremito. Xuan improvvisamente cadde. Le ginocchia si erano piegate da sole sotto la lunga veste bianca.

Daohan si inginocchiò di fronte a lei, e, senza dire nulla mise la sua fronte sulla sua. Restarono così.

Tutti si allontanarono di un passo, in silenzio.

Andarono a casa.

Tutta la famiglia era schierata, come per una parata, ed aspettava. Daohan attraversò la porta di pietra con una sorta di gravità involontaria. Xuan era un passo indietro e guardava in basso.

L’urna fu posata delicatamente al centro dell’altare. Hua era tornata.

La vecchia madre di lei, e suo padre, si fecero avanti per primi. Toccarono il legno, temendolo. Si inchinarono tre volte.

Quindi tutti gli altri si avvicinarono, in fila, e si inchinarono.

Le due fiamme furono ravvivate.

 

Le due famiglie discussero, gentilmente ma fermamente, su quale dovesse essere il luogo della sepoltura, le tradizioni si confrontavano. Prevalse la più antica, ’la moglie resta con il marito’, a Shanghai. Quaranta giorni di lutto, ogni giorno un rito, una fiamma ravvivata, una tazza di tè.

Xuan volle che sul drappo centrale fosse scritto 天下為公.

Quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti.

 

Il Liji, Libro dei Riti, tante traduzioni possibili, un ponte tra confucianesimo e taoismo.

Un giorno nel giardino, al tramonto, Xuan rompendo il silenzio delle loro passeggiate chiese all’improvviso: “La Grande Via 大道”, padre, “come dargli un senso, è la via unica o è di tutti. Che significa qui, ’di tutti’?”

Daohan si piegò verso sinistra, leggermente, “non è solo l’ideale politico di unità che vorrebbe Confucio, è anche l’ordine naturale che promana dall’universo, il Dao”. L’urna di Hua sembrava sorridere.

“Cosa intendi per ordine naturale, papà?” Chiese, esitante.

È difficile”, risposte, mentre le tradizioni di famiglia assorbita da bambino nelle conversazioni con il nonno proprio in questo medesimo luogo echeggiavano nella sua mente. “L’ordine è wúwéi (无为), lasciar essere e non agire, nel fluire delle cose alle quali adattarsi secondo la loro piega. Ma è anche battaglia tra luce e ombra, tra Ahura Mazda e Angra Mainyu”. ’Noi siamo anche persiani’, Xuan, pensò.

Siamo moltitudine.

La Grande Via prevarrà”, aggiunse, “ma dovremo farla prevalere”.

“Allora avremo he er bu tong (和而不同): l’armonia nella diversità”, aggiunse Xuan.

“Si”.

 

“Questo significa”, aggiunse Xuan, “che anche la ’modernità’ non è un destino comune, uniforme e omogeneo, dominato da una sola forma, ma una possibilità storica tra altre”.

Daohan completò, premuroso, “Una possibilità, che ogni civiltà può assumere secondo il proprio ritmo (shi ) e la propria forma di vita (li – i riti)”.

 

“Passavamo le notti a parlare di questo con tua madre”

 

Vedi, figlia, “lo junzi non domina, non assimila, piuttosto ascolta. Bilancia, accorda tra di loro, fa emergere l’equilibrio intorno a sé”.

 

Rispose Xuan, “Nel Lunyu 13. 24, Confucio afferma: 君子和而不同,小人同而不和。 (’Il nobile è armonioso ma non identico; il meschino è identico ma non armonioso’)”.

Daohan, ripeté, pensieroso, “armonioso ma non identico”.

E lei, “identico ma non armonioso”.

Oriente ed Occidente. Da una parte la realizzazione dello Spirito attraverso la negazione, dall’altra il processo interminabile di coltivazione dell’umano, relazionale ed armonioso.

Padre e figlia lessero insieme, da un antico libro della famiglia:

 

“1. Non serve varcare la porta di casa

2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;

3. né dalla finestra scrutare

4. per comprendere il dao del Cielo.

5. Più esci e più t’allontani,

6. meno comprendi.

7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],

8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.

9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle proprie mire.”

 

Il cortile era il luogo migliore per meditare sul non-agire Daoista. Rifletterono sulla conoscenza che non avviene attraverso l’esplorazione esterna, la conquista, l’estensione del dominio (come nella scienza moderna o nell’episteme coloniale), ma attraverso l’interiorità, l’intuizione, la consonanza con il Dao, il distacco.

“Ogni cosa è parte della totalità, l’universale è ovunque e la conoscenza è riconoscimento, disvelamento”, sintetizzò Xuan, felice.

“Lei è in pace”.

 

 

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