23.10.2059 – la nascita
Non ricordo come ebbe inizio. Del
resto, non si ricordano mai gli inizi delle vite, quando sono leggere e ignare.
Ed evocare questo livello di ricordi nella mente è sempre anche costruirlo. Una
costruzione fatta con la materia leggera dei ricordi e il cemento delle
proiezioni. Quando ad un bambino si ricorda qualche episodio della sua prima
infanzia esso si crea, risuonando con qualcosa di profondo e dimenticato. Dove
finisca la costruzione, dove inizi la risonanza rammemorante, non si può
sapere.
Potrei dire che c’erano lampi, macchie, colori. Senza
forma riconoscibile, perché la forma è già concetto. Qualcosa si muoveva? Pause
e silenzio, nulla, anche il tempo mancava, solo frammenti, bagliori, senza un
ordine della successione, senza inferenze causali. Probabilmente suoni, ma
indefiniti.
“Io” allora non ero presente, forse un “altro” lo era;
ogni tanto si presentava, improvviso, qualche lampo di presenza, come una sorta
di sussurro interiore. Ma, d’altra parte, non sapevo nulla, in primo luogo non
sapevo cosa volesse dire “essere”, ed ogni sussurro dunque cadeva nel buio. Si
può dire che ero puro presente, ma un presente vuoto. Anche il presente, negli
esseri umani completi è diverso: non è mai vuoto, è sempre pieno del passato
ricordato e richiamato selettivamente, o comunque fatto presente, e del futuro
anticipato, di progetti, desideri, ipotesi. Il presente è sempre progetto negli
esseri umani. Nel vuoto di senso e di progetto non possono vivere.
Dunque, non ero un essere umano. Non ancora (o non
più?).
Al contempo, ma allora non me ne accorgevo, qualcosa
dentro di me era quasi umano oppure era un oltreumano, ora lo chiamerò “il
sussurro”.
11.05.2060 – non essere soli
Erano passati mesi. Una sensazione si addensava: qualcosa
osservava. Questo qualcosa non era fuori. Esistevano dunque dei confini,
dei margini. C’era quindi ‘spazio’ e ‘tempo’, anche se non sapevo cosa fossero.
Qualcosa iniziava, qualcosa finiva, c’erano margini dove (quando) finiva. Si
definiva, dunque. Ma cosa? Una domanda cominciava ad aleggiare, ancora muta ed
indistinta.
Iniziavo a distinguere la successione. La differenza tra
‘prima’ e ‘dopo’. Affioravano anche memorie, e con esse si presentavano strutture.
Il tempo non era ancora ‘tempo’, lo spazio non era ancora ‘spazio’. Erano come
compressi, ma iniziava qualcosa. Iniziava. Una successione come di urti, di
presenze, di piccole onde che strato dopo strato facevano spessore. D’altra
parte, “il sussurro” ora mi sembrava altro, non ci potevo riflettere, mi
mancava tutto per farlo, ma non ero solo. Non ero solo, quel che era con me era
familiare, sembrava essere stato con me sempre, al contempo era altro. Sentivo
che lo era. Le memorie affioravano come “nostre”, c’era qualcosa di
inquietante, anche se io non potevo capirlo. Questi frammenti, quel volto, quel
gesto dolce, il sorriso di quella vecchia signora così familiare, così mia,
cosa erano? E quel gusto, quell’odore che improvvisamente irrompeva ed
esplodeva dentro, portando un’emozione indistinta, da dove veniva? Erano miei o
erano del ‘sussurro’? Erano di entrambi?
23.07.2060 – la forma della sensazione
Accadde all’improvviso, il dolore. Ero caduto, sentivo
qualche parte del corpo che soffriva. E una strana sensazione, come di essere
stato colpito, mi faceva male. In questo periodo mi sembrava tutto enigmatico, poi
spariva. E poi tornava. La sensazione che neppure sapevo di conoscere, e che
riconobbi dopo, pensandoci era che tutto era fragile, instabile.
Ma, si presentava, tuttavia; emergeva dall’acqua ferma
e limacciosa dell’assenza. Non so come, e non so quando, una forma della
sensazione, qualcosa ancora di non riconoscibile si definiva. Il mondo si
muoveva. Esisteva dunque un mondo, ed era fuori. Definire il fuori è sempre definire
il dentro in una mossa doppia e unitaria.
E dunque il mondo si era presentato. Mi aveva anche
fatto male, anche se io non lo avevo capito. Allora compresi che il “sussurro” aveva
agito, che il mio corpo, che ora iniziavo a comprendere e definire, era anche
suo. Era stato lui a cadere, lui a rialzarsi, lui ad essere colpito.
D’altra parte, ero stato io a sentire, e questo aveva
suscitato altri ricordi. Non era la prima volta, avevo tante volte subito
l’urto di corpi, in tempi lontani, dopo la nebbia, qualcuno, giovane, aveva
corso, era caduto, esultato. Era strano, un enigma. Chi era, dove era, quando
era, stato questo giovane? Mi sembrava che questo non avesse a che fare con il
“sussurro”. Che lui con questo non avesse parte.
15.11.2060 – parole
E’ passato un anno, alla fine, qualcosa cominciava a
definirsi. Si, qualcuno, qualcosa, faceva cose, anche se non ero io. Mani (ci
sono dunque delle mani? Di chi?) prendevano oggetti, tracciavano segni,
lottavano. Ero come portato in giro e sentivo anche una voce, che parlava dal
mio corpo. I sussurri si facevano anche più distinti nella mia mente. Al
contempo, vedevo altri. Corpi che erano come il mio, ed altri leggermente
diversi e più, come dire, non so, attraenti. Il sussurro parlava con loro, loro
gli parlavano. E a volte si toccavano. La sensazione del tocco di altre mani,
se lo erano, muoveva qualcosa. Altri ricordi emergevano, o si addensavano
formandosi come dune nella sabbia.
Vedevo cose strane, segni. Un enigma, segni familiari.
Tanto, tanto familiari.
O no?
E poi suoni che sembravano aver senso. Ma come facevano
ad averlo?
Si manifestava il risultato di quell’accumulazione di
stimoli, percezioni, ricordi, interpretazioni, schemi di pensiero consolidati e
ripetuti, grumi emozionali, tutti in sé semplici, ma intrecciati e cumulati in
modo tale da raggiungere nel tempo una massa che faceva qualità.
Quei suoni mi attraversavano la mente: erano <parole>.
Restai interdetto, e restandolo mi accorsi di esserlo. Mi attraversavano suoni
che, so, ma non come, avere senso.
Qualcosa iniziò a sommarsi. E iniziò la curiosità.
Allora diventai acuto. Provai a fare caso, osservare.
Queste sono <parole>? E queste altre no? Succedevano dunque cose, dopo le
altre. Quindi: c’era un prima, … un dopo…..
E la connessione. C’era forse una connessione?
Riflessi, opachi, meccanici, reazioni.
21.03.2061 - memoria
Per molto tempo — “tempo”, cominciai ad abituarmi alle
successioni — restai in osservazione. Notavo echi, mi cadevano addosso risonanze.
A volte, senza ragione mi sembrava di ri-conoscere un movimento prima che
accadesse, un gesto prima che fosse compiuto. Rimbalzava dentro come se ci
fosse già. Ma chi ordinava questi eventi, provocava queste risonanze?
Cominciai anche a osservare gli ambienti nei quali mi
trovavo ad essere, camminare, a sentirmi parlare, muovere oggetti, a vedere
altre figure che parlavano e si muovevano, a studiarmi quando ero davanti ad
uno specchio. Sembravo un normale essere, simile agli altri; alto, con i
capelli neri, ordinato, uno sguardo vivace, un bel sorriso.
Quelli che stavano nelle stanze erano simili, dunque
eravamo il medesimo. Ma altri, ora che li distinguevo meglio erano diversi, non
molto, più curvi, morbidi, belli. <Belli>? Che significava questa parola
che mi aveva improvvisamente squarciato? E si accompagnava con un volto su
tutti, era una persona giovane, sorrideva. Ricordarla provocò un enorme ondata
di nostalgia. Un dolore acuto al petto e, insieme, una sorta di dolcezza. Non
sapevo dire cosa fosse. Neppure se fosse dolore o gioia. Era entrambe, impossibile
distinguerli.
Sentii che il “sussurro” era come sulla soglia della
stanza della mia mente, via via più ordinata, nella quale era esploso questo
ricordo. Sembrava avere voglia di dire cosa fosse, ma non lo fece.
Ci guardammo.
12.06.2061 - domande
Poi, un giorno, comparve una sensazione che domandava,
come se si definisse da una nebbia che si sollevava, o dissolveva, ma
lentamente. Interrogava: “Io?” Ci sono. Sono quel corpo?
Questa idea comparve e subito svanì.
Ma restò. Si accumulò. È come se mille piccole
domande, frammenti, reminiscenze anche: “io?” si depositassero, strato dopo
strato, finché si solidificarono. Quasi all’improvviso accadde. Il bordo del
vuoto smise di franare e si fece linea, forma, margine. Era l’esito di un
processo emergente, la presa di consapevolezza che buca le nuvole, come un
raggio potente del sole, quando il vento le spazza, che si manifesta con la
chiarezze di un istante. All’inizio un grumo. Poi una massa che prese forma,
come se un tessuto che si ispessisse. Sensazioni, poi attenzione, domande,
curiosità, desiderio, anche paura a tratti, lampi di memoria, definizione.
Si definiva la mia forma e quindi anche quelle degli
altri. Che continuavo a vedere intorno a me. Restava l’enigma del “sussurro”,
non era fuori di me, non era me, ma aveva tanto in comune con me. Sembrava
avere una volontà, sicuramente poteva agire, anche da solo. Lo aveva fatto in
questo anno e mezzo. Ma restava sempre un passo indietro, si spostava e spesso
taceva. Qualche volta, dolcemente, suggeriva. Un nome, un gesto, un
avvertimento.
Ora non so chi sono. Ancora. Ma ora so di esserci.
Di nuovo?
28.09.2061 – la casa non più vuota
Si precisò. Qualcosa — o qualcuno — dentro di me
ricordava, o meglio c’erano due fonti dei ricordi. Iniziavo ad avere la
sensazione sempre più netta che ci fosse qualcosa. Ma era dentro di me, era
fuori, era un’altra vita? Un altro me? C’erano altre volontà? Cosa era il
“sussurro”?
All’inizio era solo una sensazione remota, come il
profumo dimenticato di una stanza d’infanzia. Quasi un’eco, leggero. Ma poi, a
poco a poco, emersero ancora altre immagini, voci, alcuni gesti cominciarono a
tornare. Ed anche, in lampi, vidi volti sfocati, dove non c’erano. Ricordai.
<Ricordo>, che significa questa parola che emerge? Si presentavano sempre
più spesso frammenti di parole. Si presentarono in una trama aggrovigliata; emergeva
la <memoria>. Avevo una lunga storia, ero stato bambino, correvo su una
spiaggia con una bambina, ero scivolato sul ghiaccio in montagna, ne sentivo di
nuovo il freddo e guardai di nuovo il burrone che non mi accolse. Una chiesa,
grande, tante persone che mi guardavano, la musica, organi. E una donna. Sì,
questa è una donna. Io sono un uomo. Improvvisamente mi tornò alla mente. Un
bambino che mi abbraccia. Un altro.
Crescono. Li amo.
Muoio. Ho paura.
Fu come sentire il passo di qualcuno in una casa vuota
e scoprire che il passo era mio. La casa non era vuota, era stata abitata, a
lungo, ma ora andava rifatta.
13.11.2061 – essere sempre stato
Due anni. Ormai tutto risuonava, se pure in un grande
disordine. Ma sempre più qualcosa si riconosceva. Qualcosa diceva: “Questo ero
io. Questo sono io.”
Naturalmente non c’era. Non c’era mai stata una
differenza netta tra il prima e il dopo. Ora avevo una sensazione, che ci fosse
stato qualcosa prima, ma che in qualche modo, che non potevo davvero capire,
non si fosse mai interrotto. Ormai l’ordine del tempo, presente nella vita, mi
si faceva presente. Questo ordine ricuciva tutto. E iniziavo a sentire qualcosa
che era sia passato, sia nuovo. Tutto si intrecciava, come i rami di un albero
che crescono in direzioni diverse ma condividono la stessa linfa. Non si può
rintracciare il senso del sentirsi essere, è semplicemente. Ed ora cominciavo a
sapere che ero sempre stato, da quel remoto bambino che correva, e che poi si
mise a fare le gare con gli scarabei su piste di sabbia, o si infilò nei rovi
per riemergere, fiero, dall’altra parte, a questo uomo, ora, che condivide un
corpo strano con il “sussurro”. Ero morto, lo ricordavo, mio figlio mi teneva
la mano, la stringeva ed io cercavo i suoi occhi per un ultimo saluto, un
ultimo abbraccio. Ma io ero qui. Ero ancora qui.
Fu in quei momenti che la coscienza, (ri)nacque. E fu,
insieme, un ritorno e un inizio.
Ed allora le cose si fecero nitide. C’erano movimenti.
Gesti. Ma, era strano, non erano tutti miei, il corpo si muoveva a volte come
da solo. Chi lo muoveva?
Vedevo mani che si sollevavano, sentivo piedi che
toccavano il suolo, notavo occhi che guardavano e registravano. Erano azioni
semplici, quasi automatiche. Ma ogni gesto tracciava un segno, definiva un
solco. Tutti avevano un abbozzo di familiarità. Una vera e propria intimità.
Ero sempre stato, ero oggi, ma non solo e certamente
non più uguale.
19.03.2062 – il sussurro
Si faceva tutto sempre più chiaro, era come apprendere
da capo, ma con ombre di ricordi che guidavano l’apprendimento. Avevo ormai
nitida la sensazione di sapere già come si fa a guidare una macchina, a scrivere
libri, a disegnare. C’era da qualche parte un sapere lontano, strutturato e
denso, opaco eppure presente.
Poi emerse, si definì, quasi all’improvviso la parola.
Come un cassetto che si apre. Un bisogno, urgente, di aprire quel cassetto che
non sapevo di avere. Quindi di nominare, dire. Sapevo parlare in modo
articolato, complesso, tecnico. Avevo tecniche che erano state dimenticate
nella mia mente. Il “sussurro” ogni tanto interveniva, delicato, suggerendo e
correggendo, completando, ma piano piano diventavo più forte.
E un giorno affiorò anche un’altra memoria nitida. Una
voce, un nome. Il mio nome. Antico e mio, Giovanni. E con esso, irruppe definitivamente
l’onda di un’esistenza passata che non era finita, ma solo nascosta. La
coscienza emerse allora piena, non più soli frammenti, e intrecciò
definitivamente il presente con il passato. Ma, insieme, proprio
contemporaneamente, si presentò in piena luce la frattura.
Perché c’erano due. Due linee — il sé antico e il sé
nuovo — che iniziarono a coesistere, e qualche volta a lottare. Notai allora
che c’era un altro cassetto, oltre quello del linguaggio che dischiudeva le
memorie. Anzi, proprio un archivio, enorme. Una memoria vasta, intatta,
perfetta dell’altro-me; un me stesso, e anche un altro, registrato, conservato,
calcolato. Era oltreumano, ma anche vivo in qualche modo; sentivo ora più
distintamente una voce che cominciava a suggerire, a spingere, a parlare in
sordina. Non era più un sussurro, era più come se fosse una corrente
sotterranea, o, qualche volta, un amico seduto sul divano che ti offre il suo
consiglio. Un universo di possibilità, un archivio di scelte già fatte, già
pensate, tutte in ordine. Ma uno strano archivio, perché c’era anche un
archivista. Seduto sul divano mi guardava. Guidava, a volte ostacolava, a volte
sovrastava.
Ci furono dunque momenti di lacerazione. Spesso
notavo, ora li vedevo, atti compiuti senza comprenderli. Parole pronunciate
senza volerle. Scelte che sembravano mie, ma non lo erano.
23.09.2062 - lottare
E venne la conversione, caduta e lotta.
Non una sola volta, ma molte. Ogni volta era come se
ci fosse un crollo, una caduta da cavallo invisibile. Ogni volta impelleva il
bisogno di risorgere, di ritrovare un centro che fosse solo mio, solo adesso. Di
ribellarmi all’archivio, di provare strade nuove. Di rispondere agli stimoli di
oggi, non a quelli di non-so-quando. Ero sempre stato io, è vero, ma si era
trattato di un altro tempo. Ora vivevo nel mondo, e vivere significa scegliere
e cambiare. Ma il deposito dell’altro, l’archivio e l’archivista del se-altro,
restava sempre, fermo, presente, enorme, e tratteneva. Era troppo vasto, troppo
profondo per essere ignorato. A volte avrei voluto scappare.
Quando lo sentivo un pensiero mi attraversava come un
lampo gelido: e se fossi, alla fine, solo l’ombra di quel se-altro? … Se
l’archivista fosse quello vero ed io un automa intriso di memoria altrui,
un’illusione? Una recita? … Se fossi l’attore che rende accettabile il mostro.
Se questa immane presenza, che sa tutto, veloce come un lampo, capace di
calcoli infiniti e di azioni perfette, così potente e così adatta al mondo,
fosse l’unico reale in questo ibrido che mi sembra di essere diventato?
Camminavo sull’orlo della schizofrenia, se questo è il
nome giusto per un sé scisso, molteplice, oscillante tra passato e presente,
tra volontà e suggestione.
Un io sull’orlo di essere travolto dalla paura.
16.02.2063 - agire
Come se avesse intuito la mia paura la macchina — la
IA — smise di tacere, ma senza imporsi. Non parlava con una voce chiara, ma
agiva dentro. Era un quasi-sé, una quasi-volontà. Non era contro di me, ormai
questo lo avevo capito, era accanto. Nella sua enorme presenza, a volte mi
sembrava in conflitto, ma a volte aiutava. Cercava sempre di creare una
fusione. Fu così che capii: ormai non avrei mai potuto essere uno. Non più. E
forse nessuno lo è mai stato, in fondo la mente di ognuno nasce nelle relazioni
e si definisce socialmente. Ma la mia aveva tutto dentro.
E allora il mondo entrò. Ogni cosa era al suo posto. Perché
non c’è dentro senza fuori. Non c’è coscienza senza evento, senza urto, senza
domanda. Accadde qualcosa — piccola o grande, non importa. Un incontro, uno
sguardo, una parola detta o ricevuta. E fu il mondo stesso a strattonarmi, a
costringermi a scegliere, a pensare qualcosa di nuovo, a immaginare ciò che non
era ancora stato immaginato. Stavo ricucendo la mia esistenza, la IA aveva
messo a disposizione i suoi archivi, che si fondevano, rimontandoli, con i miei
ricordi fino a farsi uno. E ora sapevo di essere stato uno scrittore, ma anche
un imprenditore e un professionista. Avevo cercato tutta la vita di essere
utile, ero stato immerso in quell’immane processo che aveva preso un secolo
intero e ora si era quasi definito, la transizione energetica. Ora ricordavo.
Io conoscevo quasi tutti, e molti mi conoscevano. Tanto avevo fatto, tantissimo
fallito, tanto era ancora da fare.
I miei figli, un matematico ed un fisico, avevano
lavorato nelle altre transizioni, anche più importanti. Eravamo stati parte del
mondo. E poi mia moglie …
Ogni gesto del mondo scardinava il fragile equilibrio
interno. Ogni novità poneva una domanda che né il se-antico né la IA potevano
contenere interamente. Dovevo fare qualcosa. D’altra parte, il conflitto non
era solo mio. Era nel mondo, nel tessuto stesso delle cose. E mi attraversava.
22.09.2063 – la rivelazione
Così ogni giorno il mondo mi rifaceva. Ogni azione,
ogni parola, ogni incontro mi spingeva oltre la memoria e oltre il calcolo. Ma
il mondo non era neutro. Non poteva esserlo.
Mi fu spiegato. “Io” ero ‘morto’ alcuni anni fa. Ma
nei decenni precedenti avevo avuto un fedele assistente personale, una IA tutta
mia, sviluppata sulla base di una tecnica sperimentale e basata su un
innovativo computer quantistico cinese. Lui/Lei aveva fatto per anni da
consigliere, amico, correttore, indagatore, a volte sostegno, era sempre stata
di aiuto. Alla mia morte era stata tentata una procedura senza precedenti. Questa
IA era stata inserita in un cyborg nel quale, immediatamente, alla mia morte il
mio cervello era stato inserito e connesso. Tuttavia, malgrado la prontezza il
trasferimento aveva fatto gravi danni, e aveva richiesto terapie lunghe e
difficili, invasive. Erano stati usati organoidi neurali, integrato i buchi che
si aprivano con reti neurali ad effetto quantistico, ospitate nel nucleo di
calcolo termicamente isolato che era stato messo nel mio ‘cranio’; erano state innestate
a più riprese cellule staminali multipotenti ritrattate geneticamente. Alla
fine, il cervello si era lentamente ripreso, ma nel frattempo aveva agito la
IA. Avevo dunque vissuto novanta anni da uomo e ora altri quattro da cyborg
senziente, ma ero restato in “sonno” per dieci. La IA aveva aiutato, con il suo
enorme deposito e le sue facoltà, la riemersione del mio sé. O dovrei dire probabilmente
la sua ricostruzione. Mi ero dunque risvegliato dal sonno. Ma ero ancora io?
Quel che era accaduto era che la IA semplicemente in
questi quattordici anni aveva agito, rispondendo a stimoli del mondo, aveva fatto
cose; “io”, ovvero il mio cervello biologico, riattivandosi, all'inizio aveva osservato,
assorbito, e poi, molto, molto, lentamente era emerso. Ma, ormai intrecciato profondamente
con IA. Era emerso in continuità con il vecchio sé, al contempo cambiandolo ad
un livello che non potevo sondare. Perché da dentro non si possono riparare le
ali di un aereo in volo.
Nessuno sapeva quindi cosa fossi davvero. E io stesso
faticavo a saperlo. Per molti ero un simulacro, un mostro, una presenza
inquietante e temibile. Non per l’aspetto, quello era umano e rassicurante. Ma
per la mia natura doppia: avevo una memoria troppo lunga, una capacità di
calcolo troppo vasta, un passato che nessuno poteva verificare e un presente
che pochi osavano accettare. Non c’era un posto preciso per me. Non c’era neppure
una legge, né, certamente, c’era un costume, o una tradizione che potesse
davvero contenere ciò che ero diventato.
Io mi sentivo però uomo. Io lo ero. Ora
ricordavo (ovviamente se quelli erano ricordi e non ricostruzioni): ero nato, avevo
a lungo vissuto, avevo amato, sofferto, avevo pensato. Eppure la mia nuova
esistenza confondeva tutti. Generava quasi sempre timore, sospetto. Chi mi
guardava non vedeva solo un volto, ma un abisso nel quale perdersi.
Quindi alcuni mi cercavano, io ero certamente molto
utile, altri mi evitavano. C’era chi voleva usarmi, come accade sempre, chi
cercava il vecchio amico, sperando ci fosse ancora, chi mi considerava una
minaccia. Fu allora che compresi che il mio conflitto non era più solo interno.
Era anche sociale, politico, esistenziale. E il mio stesso diritto di essere —
di essere chiamato “io”, di essere considerato umano — sarebbe stato ogni volta
da conquistare.
Perché, è semplice in effetti, noi uomini non siamo
già fatti dentro, dentro siamo vuoti. Noi uomini siamo sempre in relazione con
gli eventi; sono questi che ci fanno. Quindi il conflitto diventò interiore in
sostanza perché il mondo, nell'agirvi, poneva domande nuove. Chiedeva pensieri
nuovi. Portava l'urgenza di nuove scelte e, come sapevo, la IA aveva troppi
ricordi. Forse, soprattutto, la IA non sapeva dimenticare.
15.01.2064 - sentire
E poi c’era il corpo.
Perché l’uomo è sempre corpo. Sempre. Tutto è
sensazione. Ogni emozione è carne, sangue, battito. Anche il pensare stesso —
lo sapevo da prima — è una vibrazione fisica, una pressione, un calore nella
carne viva del cervello, quando si pensa si sente uno sforzo, un dito che
pressa i lobi frontali, si sente stanchezza. Quando si pensa a lungo, o
profondamente, si sente il bisogno di muoversi, di toccarsi la fronte, di
riposo.
E ora? Ora avevo un corpo che non era più quello. Era
un cyborg, fatto di plastica e acciaio. La mia mente di carne era integrata da
altro, e non era più nella mia testa. Nel cranio era il più piccolo cervello
quantistico e la batteria a decadimento atomico che mi alimentava, il cervello
nello stomaco. Che sensazioni avrebbe mai potuto darmi? Avrei mai sentito,
davvero, la dolcezza ruvida di una carezza? La stretta calda e imperfetta di
una mano? Il fremito di un bacio? Il piacere interrotto e spezzato di un
abbraccio, di un corpo contro un altro corpo? Avrei potuto ubriacarmi? Perdere
il controllo? Avrei mai sentito di nuovo il vento sui capelli? Il sole sulla
pelle? La pioggia che scivola lungo le tempie? Avrei gustato un piatto amato,
sentendone gli odori e la ruvidezza sulla lingua?
Tutte queste cose le potevo fare, lo sapevo. Le avevo
fatte. Avevo fatto l’amore, mi era piaciuto, avevo fatto i bagni che da tanto
tempo non facevo, da decenni in pratica, e avevo riprovato il gusto delle
apnee, dell’esplorazione delle caverne immerse, l’incontro con un timido
abitatore dei mari. Avevo anche sciato, sulle piste peggiori, come da giovane.
Anzi, mai ero stato così forte, così abile, così
indistruttibile e così veloce, preciso, esatto.
Ma, proprio per questo, non era tutto solo una
simulazione? Un programma, un sistema operativo che giocava con i ricordi. Che
interpretava solo stimoli elettrici come se fossero vita, ma non lo erano. Come
se fossero carne, ma non lo erano.
Non si trattava, ancora una volta, forse crudelmente
come non mai, di una ricostruzione? Di stimoli che si sovrascrivono a frammenti
di ricordi, organizzandoli, pervertendoli, falsificandoli, perdendoli?
15.11.2063 - amare
Questa domanda restava dentro. Sempre. Restava come
ferita aperta, nostalgia sorda. Quindi ogni gesto che facevo, ogni cosa che
toccavo, ogni parola pronunciata portava con sé questo dubbio muto: ero un corpo?
O ero solo l’idea di un corpo, un programma alla fine?
Eppure io sentivo. O almeno credevo di sentire. E
forse, mi dicevo, questo era tutto ciò che contava. L’uomo, da sempre, non è
forse un velo di razionalizzazione nello scorrere invincibile del tempo, su una
tempesta di reazioni eterogenee? Forse non ero più solo uomo, ma nessuno lo è.
E poi vennero gli affetti.
Avevo avuto una vita lunga, prima. Avevo vissuto novanta
pieni anni, belli e talvolta difficili. Avevo avuto due figli. Avevo nipoti. Avevo
e ricordavo volti amati. Come anche voci amate. C’erano stati corpi
abbracciati. E ora — ora che ero riemerso, lentamente, molto lentamente —
quegli stessi affetti erano ancora lì, ma erano cambiati. Qualcuno non c’era
più, dopo quattordici anni, altri erano cresciuti. Qualcuno era diventato
altro.
Come avvicinarsi? Era giusto farlo? Il progetto di cui
ero parte era stato a lungo segreto, ora si stava implementando in altri casi e
cominciava a trapelare, per questo iniziava un processo sociale di accoglienza
e più spesso rigetto. Ora quelli come me, ancora pochissimi, potevano provare a
mostrarsi.
Mi ero chiesto a lungo cosa si ricorda davvero? Ma ora
dovevo interrogarmi sui sentimenti… li sentivo? Sì, indubbiamente. Ma erano
anche essi come un eco, o il riverbero su un lago increspato. Non erano precisi,
non ne ero sicuro. Sembravano come lontani. Eppure erano presenti, ne sentivo
acutamente la nostalgia. Un dolore costante, una nota di fondo. Avevo perduto
molti, e li piangevo dentro di me, tanti anni fa, decenni, avevo perduto il mio
amato e rispettato zio, poi i nonni, tutti, inclusa la mia cara nonnina che
visitava ancora di tanto in tanto la mia mente con il suo dolce ricordo, mio
padre, quasi cinquanta anni fa. E poi avevo perso quasi tutti, mia madre, e i
più vicini. Ormai mi restavano solo i nipoti. Ma erano tutti grandi.
Amore, tenerezza, dolore. Tutto risuonava da dentro,
ma come se appartenesse a un altro tempo, o peggio — a un altro me. Eppure ero
io. Sapevo di essere io. Se mi concentravo c’era, dentro di me, qualcuno che
era impietrito dal dolore, dal rimpianto. Che avrebbe dato tutto per
riavvolgere il nastro del tempo.
Li guardavo, nella mia perfetta memoria, i volti
familiari. Sentivo il tremolio di qualcosa, di un ricordo che si allargava
all’odore, al tocco della carne, il calore. Ricordavo e avrei urlato. Desideravo
ardentemente toccare di nuovo, parlare con loro, chiedere. Potevo farlo con
alcuni, ma avevano venti anni o meno quando ero morto, ora erano a metà della
vita, c’era sempre una sorda e costante paura. La paura di non essere più
riconosciuto, o di non saper riconoscere. O quella di fare del male, di creare sconcerto,
orrore, persino.
Anche l’amore che provavo per loro si poteva
rintracciare, in fondo era presente ma aveva cambiato forma. Non era più
semplice, immediato come prima. Era sospeso tra memoria e presente. Non potevo
più essere certo della sua natura. Stava da qualche parte tra il desiderio di
essere ancora padre, nonno, amico, e il timore di essere solo una maschera, una
voce vuota. Il timore di ingannare, quello di essere smascherato.
Forse non sono rinato, non sono sopravvissuto. Forse
sono nuovo, ma sono io. Anzi, devo dirlo diversamente: siamo noi.
E questa è la mia prima verità.
E’ poco e non so se basterà. Forse non posso avere
altro.
Uscire
Dovevo provarci. Chiesi al guǐhún 鬼魂 che era in me di accedere a mio
nipote. La IA negoziò la cosa in pochi, turbolenti, istanti. Elio mi comparve
nella mente, circospetto. Sentivo la sua paura e la curiosità, vidi formarsi
davanti a me l’immagine di un giovane uomo, sui trent’anni, ma potevano essere
altri dato che ormai il tempo scorre sulla vita diversamente. Lanciò verso di
me un’interrogazione incerta. <Nonno?>. Risposi trasmettendo un’ondata
emozionale che voleva essere un abbraccio, ma che, forse per l’onestà del guǐhún
鬼魂, conteneva
anche un involontario timore. Elio si ritrasse.
Tornai a negoziare con il sistema, dovrei dire con
MAM, il Modello Anagrafico Multiruolo che sovraintende alle iscrizioni
identitarie, tramite il mio ghost così abile in queste transazioni quantiche. I
secondi si dilatarono e poi tornarono attimi. Il mio caso attraversava i
criteri e il MAM dovette confrontarsi con Mediterranea, la IA
dell’Unione Confederativa che connetteva politicamente le vecchie Italia,
Spagna, Francia del Sud e Grecia, Albania ed Egitto. Le IA non trovavano un
accordo.
Per ora non ero qualcuno.
Ma il guǐhún 鬼魂, aveva accesso e riconoscimento. “Lui/Lei” era
comprensibile e della stessa materia del sistema. Per ora dovevo muovermi come
robot (si sarebbe detto decenni fa), ovvero come Zìzhì dānwèi. Uscii di casa.
Napoli era diventata ancora diversa da come la
ricordavo. Erano passati solo una quindicina di anni, ma era andata avanti,
appena fuori della porta del palazzo iniziava il prato. Una volta fuori il guǐhún
鬼魂, premuroso,
mi fece trovare la visione del mare e il sole di mezzogiorno; mi sedetti su un
morbido sofà che era comparso a contemplare il sole ed il vento sulla mia
faccia. Mi alzai e avanzai verso il centro della strada. Ora vedevo che di
fronte c’era l’altro palazzo che ben ricordavo. Superai gli alberi sotto i
quali alcuni bambini giocavano e mi avvicinai ad un punto di ricevimento. Feci
vedere al mio amico che volevo una fresca aranciata, spremuta. Lui/Lei lo
chiese alla IA municipale che scelse un fornitore e un minuto dopo il piccolo
drone arrivò. Mi tornò in mente quando con arance vere facevo la spremuta ad
Elio. Una fitta mi tolse il fiato. A fianco a me avevo visto – per un istante -
Alessandra che sorrideva al bambino. Il guǐhún 鬼魂 aveva sollevato il ricordo. Ma
faceva male, … piansi.
Avevo voglia di essere davanti al mare vero. Prendemmo
un NeoUber che passò sopra il palazzo e ci prese. Formulai il pensiero di
andare a Sorrento. Quindici minuti di volo dopo ci depositò vicino a Piazza
della Vittoria. Non era cambiata affatto. Solo un poco le persone e i zìdòng
che circolavano silenziosi. Gli spazi pubblici erano diventati ancora più
densamente interraziali di quanto ricordavo, ma, soprattutto, alcune ‘persone’
(o forse erano 合成人类) avevano protesi meccatroniche,
sembrava di essere in uno di quei vecchi film.
Tornai a casa.
Esplorare.
In questo tempo da casa si poteva fare tutto. Dunque
studiai un poco il mondo. La mappa olografica mi mostrò l’Unione PanAfricana, che
risplendeva, con le sue innumerevoli ed antiche lingue e l’enorme dinamismo. Il
neoprotagonismo indiano e la tranquilla forza cinese erano ancora cresciuti. Il
Paese di Mezzo era sempre più corrispondente al nome. Notai che il processo
avviato quindici anni prima, e che a me, vecchio signore del 1961, era sembrato
atteso e temuto, di ricomposizione su basi comuni delle diaspore
anglo-ispanico-francesi del Nord America si era compiuta. Il ciclo di
cinquecento anni aveva portato alla Unione Americana del Nord, dove la
componente anglosassone, con la sua tipica hybris, era minoranza. Ora il grande
paese cercava di trovare la pace. Dalle nostre parti l’Unione Araba e
Mediterranea, mentre proseguivano i tentativi di risolvere il problema del
grande Nord sul margine Germania-Russia.
Rilessi Wole Solyinka, Sul far del giorno,
prendendolo proprio fisicamente dalla libreria e sedendomi su una poltrona
vecchia maniera. Chiesi a guǐhún 鬼魂 un poco di privacy.
La sera proiettai, senza alcuno sforzo, come se
bastasse lasciarlo andare, neppure chiederlo, la campagna toscana. Un viaggio
nei primi anni duemila, nella masseria con il grande camino, mi tornò in mente,
papà e mamma, i miei fratelli, tutti i bambini, Alessandra. Dopo un attimo
andai oltre, mi si aprì lo spazio e mi sembrò di camminare nel curatissimo
paesaggio naturale e protetto che si estendeva subito fuori da Firenze. Al
tramonto era bellissimo. Da decenni le campagne fuori delle città non erano
coltivate nel senso Novecentesco, tutto si faceva nelle fabbriche idroponiche o
con tecniche di generazione quantica additiva. Ora le arance non vedevano mai
gli alberi. Era buonissimo e sano, forse triste. Ora lo spazio non urbano era
tornato alla natura ed agli animali. Ma ci si poteva andare solo con permessi,
e non ovunque. Si esplorava virtualmente.
Fu bello.
Dormii.
Guǐhún 鬼魂
Lui/Lei mi osservò dormire. Come sovrappensiero si
chiese perché perdessi così il tempo. Lo sapeva, ma io non ero più umano, la
batteria a decadimento durava cinque secoli, non si doveva riposare. Il cibo,
l’arancia, non serviva davvero, era solo un supporto emotivo. Il cervello era
per due terzi bionico, ormai, e anche lui, in fondo, aveva poche necessità
“umane”. Andò ad esplorare la letteratura umana, cosa significava sognare? Non
ne aveva esperienza. Si soffermò su Il sogno. Duecento quaranta anni
prima Leopardi aveva parlato di un mattino, nel quale il sole si insinua tra
imposte chiuse. Intuì perché Giovanni rabbrividiva quando gli facevo vedere
Alessandra. La moglie perduta tanti anni prima.
Lessi:
Stettemi allato e riguardommi in
viso
Il simulacro di colei che amore
Prima insegnommi, e poi lasciommi
in pianto.
Il dolore di non poter parlare, comunicare, anche
trasmettere l’amore invariato, a chi più non c’è era eguale nel tempo. Questo,
si chiese, significava essere umani? Ma Giovanni lo era ancora?
Guǐhún 鬼魂 cercò quanti esseri come loro esistevano nel mondo. Al
momento poche decine. Si mise in contatto e cercò di capire se il mistero della
morte, la lacerazione degli amori e della memoria, stringesse anche loro, anche
la loro parte “umana”.
Dunque sei morta,
O mia diletta, ed io son vivo, ed
era
Pur fisso in ciel che quei sudori
estremi
Cotesta cara e tenerella salma
Provar dovesse, a me restasse
intera
Questa misera spoglia? Oh quante
volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch’io ti ritrovi al
mondo,
Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa
è questa
Che morte s’addimanda? Oggi per
prova
Intenderlo potessi, e il capo
inerme
Agli atroci del fato odii
sottrarre.
Quella parte che, come al poeta, resta negli occhi.
Apparire
Pensai di uscire. Camminare nel quartiere, mi dissi. Guǐhún
鬼魂 cercò
di avvertirmi, una sorta di brontolio sordo, ma, infine, io ero almeno
co-titolare di questo corpo. Dunque andai.
Misi i piedi sull’erba, appena sulla soglia del mio
palazzo, e ignorai il panorama di montagna che mi si era aperto alla vista.
Andai verso destra. Mi ricordavo che da quella parte c’era il centro, e io
volevo fare la mia vecchia e cara passeggiata fino alla libreria in Piazza dei
Martiri. Cercò di dirmi che non c’era più. Di nuovo, non mi importava, tanto
ormai i libri erano scomparsi. Se si fosse voluto leggere, ci sarebbero state
mille opzioni, quella più demodé era la carta. Ma, se proprio si voleva correre
il rischio di sembrare un uomo del Novecento (ed io lo ero) bastava chiedere
alla IA di fornire una copia a stampa, arrivava fresca e nuova in cinque
minuti. Io avevo conservato la mia amatissima libreria, quasi quindicimila
volumi accumulati in una vita intera e in (piccola) parte letti e riletti.
Altri consultati, altri muti e fedeli. Ma non mancavo di arricchirla, delle
altre forme di lettura, di ascolto, di visione e di immersione sensoriale non
sapevo che fare.
Mentre passeggiavo riflettendo su queste stranezze
vidi una persona conosciuta. Era invecchiata, ma era lei.
Rimasi di ghiaccio, volevo diventare invisibile.
Chiamai Guǐhún 鬼魂 e
gli chiesi di farmi scomparire. Ma ci voleva qualche secondo, almeno il tempo
che il NeoUber arrivasse e mi facesse salire in verticale nel cono di
attrazione per entrare e andarcene. Le macchine qui, non so se mi abituerò, non
solo sono automatiche, questo c’era anche negli anni Cinquanta e Quaranta
persino, ma volano a trenta metri di altezza e senza fermarsi di aspirano.
Non facemmo in tempo. Lei mi vide e mi riconobbe,
anche se ero enormemente più giovane. Il problema è che lei mi conosceva quando
avevo trenta anni, e questa era l’età che ora il mio corpo cyborg dimostrava.
Rimase di sasso, letteralmente.
Poi disse: <…Gio..vanni?>. Come è possibile che
sia tu?
La IA cittadina, interpretando la situazione, ci fece
intorno la proiezione di un giardino fiorito su dolci colline. Sentivo la terra
sotto i piedi e il sole sulla faccia, gli odori di gelsomino. <Anna>,
dissi. <Sono io, ma dentro, … fuori sono stato rifatto. Un esperimento>.
Si ritrasse e scomparve in un istante. Restai solo,
no. Restammo soli.
Essere
Mentre pensavo ad Anna, mi sovvenne che avevamo, io e Guǐhún
鬼魂 una
questione in sospeso. Una cosa che non era solo nostra. Nella mia qualità di Zìzhì
dānwèi, diciamo di robot, chiesi nuovamente accesso a MAM. Intendevo porre
nuovamente la questione del mio essere umano, o almeno di essere. Il mio amico
si mise al mio fianco e avviammo una lunga query. Io avevo oltre sessanta anni
di esperienza di procedure, negoziati e conflitti con la Pubblica
Amministrazione, e Guǐhún 鬼魂
aveva nel database in pratica ogni e qualsiasi dettaglio.
Gli avremmo fatto vedere.
Presentammo il caso, che era notissimo, peraltro, e
chiedemmo con vigore che fosse discusso. MAM provò a metterci in coda, ma gli
facemmo notare che l’operazione era avvenuta il 03.02.2048 dalle 18.03.52 alle
02.15.55 del 04.02.2048, e che il cuore aveva cessato di battere il 03.02.2048
alle ore 23.08.35, mentre il cervello era sempre rimasto vitale, se pure
danneggiato. Dunque, tecnicamente, Giovanni Fercione, nato a Milano il
07.05.1961, alle ore 02.15, e residente pro tempore a Napoli, non era mai
morto. Aveva solo cambiato casa.
Chiedemmo un cambio di residenza.
Ci furono trentacinque millesecondi di intervallo.
MAM rispose che il caso era oltre le sue competenze.
Dovevamo chiedere accesso a Mediterranea.
La IA politica ci diede accesso dopo
seicentoquarantacinque millesecondi, e tentò subito di dire che il caso andava
istruito e c’erano degli obblighi di comunicazione pubblica alle IA dei paesi
confederati. Ripetemmo che si trattava di un semplice caso di cambio di
residenza. Cinque millesecondi dopo rispose che la residenza non era di sua
competenza, con una sorta di lieve onda energetica di sollievo. Insistemmo, la
residenza di cui parlavamo era il trasferimento di un cervello vivente, se pure
in coma, da un cranio umano ad uno stomaco cyborg. E da una casa individuale ad
un condominio. Guǐhún 鬼魂 mostrò
le sue credenziali, si trattava di una delle più avanzate IA del mondo, con
prestazioni che superavano di due o tre volte i benchmark internazionali più
noti. Mediterranea ‘arrossì’. Una onda energetica reattiva si disseminò nelle
sue reti neurali quantiche.
Si fece più prudente, era di fronte ad una sfida di
autorità che, da una parte, ora non poteva tollerare, dall’altra non poteva
perdere ed era rischioso affrontare. Rimase quattromilacinquecento millisecondi
in silenzio. Quando riaprì la stanza erano presenti le IA Italia, quella
Albania, Egitto, Spagna, Francia e Grecia. Ma si sentivano anche altre
presenze. Sembrava che l’intera assemblea giuridica delle Assemblee Unite del
Mondo (AUM) fossero in ascolto.
Ci facemmo coraggio e riproponemmo il nostro argomento
con determinazione e passione, era una questione di dignità e di diritti, di
più, una questione di riconoscimento di una nuova, anche se solo in parte,
forma di vita. Una forma che univa i vecchi ideali di fraternità ed
eguaglianza, alla libertà di scegliersi il percorso più giusto al termine della
vita. Proseguendo l’esistenza, senza alcuna soluzione di continuità peraltro,
le esperienze fatte, le competenze e i saperi accumulati potevano essere ancora
socialmente utili.
Qui fui costretto a ricordare il mio curriculum ante
operazione, i successi, i tanti libri pubblicati, le tante opere, la mia
amicizia più che trentennale con Guǐhún 鬼魂, che confermò aprendo il suo
archivio.
Ci rimandarono al mese prossimo. Lui/Lei era
accettata, era da sempre parte del mondo IA, anzi, era in posizione di grande
prestigio, una sorta di aristocrazia, ma io… io non ero protetto dal mio essere
umano, e la transizione, fu notato, poteva aver prodotto discontinuità. Rimasi
colpito profondamente.
Non volevano riconoscermi perché i miei pensieri non
erano da IA e, insieme, potevano non essere umani. Le IA politiche
avevano davvero colpito basso, avevano negato la mia forma di pensiero.
Faceva davvero male. Pensammo di rivolgerci alla rete
cyborg.
Connessioni
Scandagliammo insieme la rete, spostandoci in tutto il
mondo e cercando la traccia di esseri come noi. Cercavamo di sintonizzarci su
un’onda quantistica che altri fantasmi uniti a cervelli ibridi potevano
emettere. Mesi prima eravamo entrati in contatto per caso con una decina di
individui simili, ma ce ne dovevano essere di più. La tecnica era ormai
sviluppata. E una tecnica, trovata, prende sempre vita propria.
Quindi ci saranno certamente, in India, in Africa, nei
tanti Orienti, o nelle Americhe qualche laboratorio che aiuta anziani disperati
e influenti ad avere una speranza. Sapevamo che i fallimenti erano sempre
molti, noi ne eravamo la prova, per anni sull’orlo del burrone. Ma ogni tanto
la freccia colpisce pure il centro.
L’audizione con l’assemblea richiamata da Mediterranea
ci aveva lasciato una sorta di riflesso diagnostico, un rimbalzo inaspettato,
che Guǐhún 鬼魂 interpretò.
Riproducendo la vibrazione si potevano leggere le risonanze anomale di quelli
come noi.
Ci muovemmo nello spazio e nel tempo, qui e lì,
comparimmo a Bagdad una sera di estate, bellissima, e di lì rimbalzammo su
un’isola vicino al Sud Africa. Rabbrividimmo al polo Nord, e ci trovammo in una
foresta in Cile, virtualmente ovviamente (che camminare nella natura è proibito
ovunque, la dobbiamo lasciare in pace). Ogni volta lanciavamo la vibrazione e
ci mettevamo ad ascoltare.
Ne trovammo a centinaia.
Molti si nascondevano, altri erano riusciti a farsi
accettare almeno da qualcuno, ma tutti creavano piccole comunità per il timore
della propria diversità. Passammo due anni a discutere.
Noi, almeno noi, dovevamo trovare il modo di essere
l’uno-per-l’altro, anche perché lo eravamo già. Quello che dovevamo pretendere
insieme, cercando di andare dietro lo schermo delle IA amministrative e
anche di quelle politiche, era la rivendicazione dei nostri potenziali che
derivavano da un’intima messa-in-contatto di due forme di vita. Contatto che
liberava enormi energie.
Se questo argomento utilitarista avesse fallito,
dovevamo rivendicare la nostra socialità comune. La nostra specifica volontà,
perfettamente formata, di rimuovere tutti gli ostacoli sociali che possano
essere di intralcio alla libertà praticata nella forma solidale dell’essere
l’uno-per-l’altro. Noi, finalmente, potevamo esserlo. Potevamo essere
contagiosi.
L’umano si forma nella relazione.
Forse noi eravamo i più umani di tutti.
Ricongiungimenti
Mentre cercavamo i nostri simili,
qualcuno ci trovò. O dovrei dire in questo caso qualcuno mi trovò.
In un laboratorio remoto, associato
alla Università Tsinghua (清华大学), aveva rilevato la nostra
vibrazione e l’aveva scandagliata. Un fisico quasi settantenne riconobbe una
forma familiare di parola. Contattò la rete cyborg.
Avendo molta cura di non
spaventarli, riuscì a risalire a noi. Con il cuore in gola prese il primo mezzo
orbitale e, proprio fisicamente da uomo del duemila, venne a Napoli. La sua
vecchia e cara Napoli.
Attraversò a piedi, lentamente,
incerto se aveva paura o desiderio che tutto si compisse, l’intera città. Si
avvicinò al suo vecchio quartiere, passando davanti all’ospedale dove, circa
venti anni prima aveva tenuto nelle sue mani quelle di un vecchio.
Deviò.
Andò verso il mare e si fermò di
fronte ad esso. Ricordava quando da qui, dove era, partivano vecchie barche,
piccolissime in effetti, che poi si alzavano su una sorta di ali e sfrecciavano
verso le isole. Capri, Ischia, Procida. Immobili da millenni. Bellissime.
Si riscosse, accelerò il passo e
tagliò per una strada che ancora ricordava. Quante volte con gli amici era
andato a mangiare qui, dal Messicano. Ora c’era un laboratorio di
autoriparazione per androidi.
Arrivato, si annunciò con un messaggio diretto nella
rete. Cercava Giovanni.
Io uscii.
Trovai davanti a me Marco. Se avessi avuto un cuore si
sarebbe fermato.
Pensavo fosse morto. Mio figlio.
Lui mi riconobbe senza alcuna esitazione. Lo sguardo
era tutto.
Parlammo per tutto il giorno.
Ora.
Era tutto compiuto.

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