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lunedì 14 luglio 2025

(Ri)Nascita cyborg


 

23.10.2059 – la nascita

Non ricordo come ebbe inizio. Del resto, non si ricordano mai gli inizi delle vite, quando sono leggere e ignare. Ed evocare questo livello di ricordi nella mente è sempre anche costruirlo. Una costruzione fatta con la materia leggera dei ricordi e il cemento delle proiezioni. Quando ad un bambino si ricorda qualche episodio della sua prima infanzia esso si crea, risuonando con qualcosa di profondo e dimenticato. Dove finisca la costruzione, dove inizi la risonanza rammemorante, non si può sapere.

Potrei dire che c’erano lampi, macchie, colori. Senza forma riconoscibile, perché la forma è già concetto. Qualcosa si muoveva? Pause e silenzio, nulla, anche il tempo mancava, solo frammenti, bagliori, senza un ordine della successione, senza inferenze causali. Probabilmente suoni, ma indefiniti.

“Io” allora non ero presente, forse un “altro” lo era; ogni tanto si presentava, improvviso, qualche lampo di presenza, come una sorta di sussurro interiore. Ma, d’altra parte, non sapevo nulla, in primo luogo non sapevo cosa volesse dire “essere”, ed ogni sussurro dunque cadeva nel buio. Si può dire che ero puro presente, ma un presente vuoto. Anche il presente, negli esseri umani completi è diverso: non è mai vuoto, è sempre pieno del passato ricordato e richiamato selettivamente, o comunque fatto presente, e del futuro anticipato, di progetti, desideri, ipotesi. Il presente è sempre progetto negli esseri umani. Nel vuoto di senso e di progetto non possono vivere.

Dunque, non ero un essere umano. Non ancora (o non più?).

Al contempo, ma allora non me ne accorgevo, qualcosa dentro di me era quasi umano oppure era un oltreumano, ora lo chiamerò “il sussurro”.

 

11.05.2060 – non essere soli

Erano passati mesi. Una sensazione si addensava: qualcosa osservava. Questo qualcosa non era fuori. Esistevano dunque dei confini, dei margini. C’era quindi ‘spazio’ e ‘tempo’, anche se non sapevo cosa fossero. Qualcosa iniziava, qualcosa finiva, c’erano margini dove (quando) finiva. Si definiva, dunque. Ma cosa? Una domanda cominciava ad aleggiare, ancora muta ed indistinta.

Iniziavo a distinguere la successione. La differenza tra ‘prima’ e ‘dopo’. Affioravano anche memorie, e con esse si presentavano strutture. Il tempo non era ancora ‘tempo’, lo spazio non era ancora ‘spazio’. Erano come compressi, ma iniziava qualcosa. Iniziava. Una successione come di urti, di presenze, di piccole onde che strato dopo strato facevano spessore. D’altra parte, “il sussurro” ora mi sembrava altro, non ci potevo riflettere, mi mancava tutto per farlo, ma non ero solo. Non ero solo, quel che era con me era familiare, sembrava essere stato con me sempre, al contempo era altro. Sentivo che lo era. Le memorie affioravano come “nostre”, c’era qualcosa di inquietante, anche se io non potevo capirlo. Questi frammenti, quel volto, quel gesto dolce, il sorriso di quella vecchia signora così familiare, così mia, cosa erano? E quel gusto, quell’odore che improvvisamente irrompeva ed esplodeva dentro, portando un’emozione indistinta, da dove veniva? Erano miei o erano del ‘sussurro’? Erano di entrambi?

 

 

23.07.2060 – la forma della sensazione

Accadde all’improvviso, il dolore. Ero caduto, sentivo qualche parte del corpo che soffriva. E una strana sensazione, come di essere stato colpito, mi faceva male. In questo periodo mi sembrava tutto enigmatico, poi spariva. E poi tornava. La sensazione che neppure sapevo di conoscere, e che riconobbi dopo, pensandoci era che tutto era fragile, instabile.

Ma, si presentava, tuttavia; emergeva dall’acqua ferma e limacciosa dell’assenza. Non so come, e non so quando, una forma della sensazione, qualcosa ancora di non riconoscibile si definiva. Il mondo si muoveva. Esisteva dunque un mondo, ed era fuori. Definire il fuori è sempre definire il dentro in una mossa doppia e unitaria.

E dunque il mondo si era presentato. Mi aveva anche fatto male, anche se io non lo avevo capito. Allora compresi che il “sussurro” aveva agito, che il mio corpo, che ora iniziavo a comprendere e definire, era anche suo. Era stato lui a cadere, lui a rialzarsi, lui ad essere colpito.

D’altra parte, ero stato io a sentire, e questo aveva suscitato altri ricordi. Non era la prima volta, avevo tante volte subito l’urto di corpi, in tempi lontani, dopo la nebbia, qualcuno, giovane, aveva corso, era caduto, esultato. Era strano, un enigma. Chi era, dove era, quando era, stato questo giovane? Mi sembrava che questo non avesse a che fare con il “sussurro”. Che lui con questo non avesse parte.

 

15.11.2060 – parole

E’ passato un anno, alla fine, qualcosa cominciava a definirsi. Si, qualcuno, qualcosa, faceva cose, anche se non ero io. Mani (ci sono dunque delle mani? Di chi?) prendevano oggetti, tracciavano segni, lottavano. Ero come portato in giro e sentivo anche una voce, che parlava dal mio corpo. I sussurri si facevano anche più distinti nella mia mente. Al contempo, vedevo altri. Corpi che erano come il mio, ed altri leggermente diversi e più, come dire, non so, attraenti. Il sussurro parlava con loro, loro gli parlavano. E a volte si toccavano. La sensazione del tocco di altre mani, se lo erano, muoveva qualcosa. Altri ricordi emergevano, o si addensavano formandosi come dune nella sabbia.

Vedevo cose strane, segni. Un enigma, segni familiari. Tanto, tanto familiari.

O no?

E poi suoni che sembravano aver senso. Ma come facevano ad averlo?

Si manifestava il risultato di quell’accumulazione di stimoli, percezioni, ricordi, interpretazioni, schemi di pensiero consolidati e ripetuti, grumi emozionali, tutti in sé semplici, ma intrecciati e cumulati in modo tale da raggiungere nel tempo una massa che faceva qualità.

Quei suoni mi attraversavano la mente: erano <parole>. Restai interdetto, e restandolo mi accorsi di esserlo. Mi attraversavano suoni che, so, ma non come, avere senso.

Qualcosa iniziò a sommarsi. E iniziò la curiosità.

Allora diventai acuto. Provai a fare caso, osservare. Queste sono <parole>? E queste altre no? Succedevano dunque cose, dopo le altre. Quindi: c’era un prima, … un dopo…..

E la connessione. C’era forse una connessione?

Riflessi, opachi, meccanici, reazioni.

 

21.03.2061 - memoria

Per molto tempo — “tempo”, cominciai ad abituarmi alle successioni — restai in osservazione. Notavo echi, mi cadevano addosso risonanze. A volte, senza ragione mi sembrava di ri-conoscere un movimento prima che accadesse, un gesto prima che fosse compiuto. Rimbalzava dentro come se ci fosse già. Ma chi ordinava questi eventi, provocava queste risonanze?

Cominciai anche a osservare gli ambienti nei quali mi trovavo ad essere, camminare, a sentirmi parlare, muovere oggetti, a vedere altre figure che parlavano e si muovevano, a studiarmi quando ero davanti ad uno specchio. Sembravo un normale essere, simile agli altri; alto, con i capelli neri, ordinato, uno sguardo vivace, un bel sorriso.

Quelli che stavano nelle stanze erano simili, dunque eravamo il medesimo. Ma altri, ora che li distinguevo meglio erano diversi, non molto, più curvi, morbidi, belli. <Belli>? Che significava questa parola che mi aveva improvvisamente squarciato? E si accompagnava con un volto su tutti, era una persona giovane, sorrideva. Ricordarla provocò un enorme ondata di nostalgia. Un dolore acuto al petto e, insieme, una sorta di dolcezza. Non sapevo dire cosa fosse. Neppure se fosse dolore o gioia. Era entrambe, impossibile distinguerli.

Sentii che il “sussurro” era come sulla soglia della stanza della mia mente, via via più ordinata, nella quale era esploso questo ricordo. Sembrava avere voglia di dire cosa fosse, ma non lo fece.

Ci guardammo.

 




12.06.2061 - domande

Poi, un giorno, comparve una sensazione che domandava, come se si definisse da una nebbia che si sollevava, o dissolveva, ma lentamente. Interrogava: “Io?” Ci sono. Sono quel corpo?

Questa idea comparve e subito svanì.

Ma restò. Si accumulò. È come se mille piccole domande, frammenti, reminiscenze anche: “io?” si depositassero, strato dopo strato, finché si solidificarono. Quasi all’improvviso accadde. Il bordo del vuoto smise di franare e si fece linea, forma, margine. Era l’esito di un processo emergente, la presa di consapevolezza che buca le nuvole, come un raggio potente del sole, quando il vento le spazza, che si manifesta con la chiarezze di un istante. All’inizio un grumo. Poi una massa che prese forma, come se un tessuto che si ispessisse. Sensazioni, poi attenzione, domande, curiosità, desiderio, anche paura a tratti, lampi di memoria, definizione.

Si definiva la mia forma e quindi anche quelle degli altri. Che continuavo a vedere intorno a me. Restava l’enigma del “sussurro”, non era fuori di me, non era me, ma aveva tanto in comune con me. Sembrava avere una volontà, sicuramente poteva agire, anche da solo. Lo aveva fatto in questo anno e mezzo. Ma restava sempre un passo indietro, si spostava e spesso taceva. Qualche volta, dolcemente, suggeriva. Un nome, un gesto, un avvertimento.

Ora non so chi sono. Ancora. Ma ora so di esserci. Di nuovo?

 

28.09.2061 – la casa non più vuota

Si precisò. Qualcosa — o qualcuno — dentro di me ricordava, o meglio c’erano due fonti dei ricordi. Iniziavo ad avere la sensazione sempre più netta che ci fosse qualcosa. Ma era dentro di me, era fuori, era un’altra vita? Un altro me? C’erano altre volontà? Cosa era il “sussurro”?

All’inizio era solo una sensazione remota, come il profumo dimenticato di una stanza d’infanzia. Quasi un’eco, leggero. Ma poi, a poco a poco, emersero ancora altre immagini, voci, alcuni gesti cominciarono a tornare. Ed anche, in lampi, vidi volti sfocati, dove non c’erano. Ricordai. <Ricordo>, che significa questa parola che emerge? Si presentavano sempre più spesso frammenti di parole. Si presentarono in una trama aggrovigliata; emergeva la <memoria>. Avevo una lunga storia, ero stato bambino, correvo su una spiaggia con una bambina, ero scivolato sul ghiaccio in montagna, ne sentivo di nuovo il freddo e guardai di nuovo il burrone che non mi accolse. Una chiesa, grande, tante persone che mi guardavano, la musica, organi. E una donna. Sì, questa è una donna. Io sono un uomo. Improvvisamente mi tornò alla mente. Un bambino che mi abbraccia. Un altro.

Crescono. Li amo.

Muoio. Ho paura.

Fu come sentire il passo di qualcuno in una casa vuota e scoprire che il passo era mio. La casa non era vuota, era stata abitata, a lungo, ma ora andava rifatta.

 

13.11.2061 – essere sempre stato

Due anni. Ormai tutto risuonava, se pure in un grande disordine. Ma sempre più qualcosa si riconosceva. Qualcosa diceva: “Questo ero io. Questo sono io.”

Naturalmente non c’era. Non c’era mai stata una differenza netta tra il prima e il dopo. Ora avevo una sensazione, che ci fosse stato qualcosa prima, ma che in qualche modo, che non potevo davvero capire, non si fosse mai interrotto. Ormai l’ordine del tempo, presente nella vita, mi si faceva presente. Questo ordine ricuciva tutto. E iniziavo a sentire qualcosa che era sia passato, sia nuovo. Tutto si intrecciava, come i rami di un albero che crescono in direzioni diverse ma condividono la stessa linfa. Non si può rintracciare il senso del sentirsi essere, è semplicemente. Ed ora cominciavo a sapere che ero sempre stato, da quel remoto bambino che correva, e che poi si mise a fare le gare con gli scarabei su piste di sabbia, o si infilò nei rovi per riemergere, fiero, dall’altra parte, a questo uomo, ora, che condivide un corpo strano con il “sussurro”. Ero morto, lo ricordavo, mio figlio mi teneva la mano, la stringeva ed io cercavo i suoi occhi per un ultimo saluto, un ultimo abbraccio. Ma io ero qui. Ero ancora qui.

Fu in quei momenti che la coscienza, (ri)nacque. E fu, insieme, un ritorno e un inizio.

Ed allora le cose si fecero nitide. C’erano movimenti. Gesti. Ma, era strano, non erano tutti miei, il corpo si muoveva a volte come da solo. Chi lo muoveva?

Vedevo mani che si sollevavano, sentivo piedi che toccavano il suolo, notavo occhi che guardavano e registravano. Erano azioni semplici, quasi automatiche. Ma ogni gesto tracciava un segno, definiva un solco. Tutti avevano un abbozzo di familiarità. Una vera e propria intimità.

Ero sempre stato, ero oggi, ma non solo e certamente non più uguale.

 

19.03.2062 – il sussurro

Si faceva tutto sempre più chiaro, era come apprendere da capo, ma con ombre di ricordi che guidavano l’apprendimento. Avevo ormai nitida la sensazione di sapere già come si fa a guidare una macchina, a scrivere libri, a disegnare. C’era da qualche parte un sapere lontano, strutturato e denso, opaco eppure presente.

Poi emerse, si definì, quasi all’improvviso la parola. Come un cassetto che si apre. Un bisogno, urgente, di aprire quel cassetto che non sapevo di avere. Quindi di nominare, dire. Sapevo parlare in modo articolato, complesso, tecnico. Avevo tecniche che erano state dimenticate nella mia mente. Il “sussurro” ogni tanto interveniva, delicato, suggerendo e correggendo, completando, ma piano piano diventavo più forte.

E un giorno affiorò anche un’altra memoria nitida. Una voce, un nome. Il mio nome. Antico e mio, Giovanni. E con esso, irruppe definitivamente l’onda di un’esistenza passata che non era finita, ma solo nascosta. La coscienza emerse allora piena, non più soli frammenti, e intrecciò definitivamente il presente con il passato. Ma, insieme, proprio contemporaneamente, si presentò in piena luce la frattura.

Perché c’erano due. Due linee — il sé antico e il sé nuovo — che iniziarono a coesistere, e qualche volta a lottare. Notai allora che c’era un altro cassetto, oltre quello del linguaggio che dischiudeva le memorie. Anzi, proprio un archivio, enorme. Una memoria vasta, intatta, perfetta dell’altro-me; un me stesso, e anche un altro, registrato, conservato, calcolato. Era oltreumano, ma anche vivo in qualche modo; sentivo ora più distintamente una voce che cominciava a suggerire, a spingere, a parlare in sordina. Non era più un sussurro, era più come se fosse una corrente sotterranea, o, qualche volta, un amico seduto sul divano che ti offre il suo consiglio. Un universo di possibilità, un archivio di scelte già fatte, già pensate, tutte in ordine. Ma uno strano archivio, perché c’era anche un archivista. Seduto sul divano mi guardava. Guidava, a volte ostacolava, a volte sovrastava.

Ci furono dunque momenti di lacerazione. Spesso notavo, ora li vedevo, atti compiuti senza comprenderli. Parole pronunciate senza volerle. Scelte che sembravano mie, ma non lo erano.

 

23.09.2062 - lottare

E venne la conversione, caduta e lotta.

Non una sola volta, ma molte. Ogni volta era come se ci fosse un crollo, una caduta da cavallo invisibile. Ogni volta impelleva il bisogno di risorgere, di ritrovare un centro che fosse solo mio, solo adesso. Di ribellarmi all’archivio, di provare strade nuove. Di rispondere agli stimoli di oggi, non a quelli di non-so-quando. Ero sempre stato io, è vero, ma si era trattato di un altro tempo. Ora vivevo nel mondo, e vivere significa scegliere e cambiare. Ma il deposito dell’altro, l’archivio e l’archivista del se-altro, restava sempre, fermo, presente, enorme, e tratteneva. Era troppo vasto, troppo profondo per essere ignorato. A volte avrei voluto scappare.

Quando lo sentivo un pensiero mi attraversava come un lampo gelido: e se fossi, alla fine, solo l’ombra di quel se-altro? … Se l’archivista fosse quello vero ed io un automa intriso di memoria altrui, un’illusione? Una recita? … Se fossi l’attore che rende accettabile il mostro. Se questa immane presenza, che sa tutto, veloce come un lampo, capace di calcoli infiniti e di azioni perfette, così potente e così adatta al mondo, fosse l’unico reale in questo ibrido che mi sembra di essere diventato?

Camminavo sull’orlo della schizofrenia, se questo è il nome giusto per un sé scisso, molteplice, oscillante tra passato e presente, tra volontà e suggestione.

Un io sull’orlo di essere travolto dalla paura.

 

16.02.2063 - agire

Come se avesse intuito la mia paura la macchina — la IA — smise di tacere, ma senza imporsi. Non parlava con una voce chiara, ma agiva dentro. Era un quasi-sé, una quasi-volontà. Non era contro di me, ormai questo lo avevo capito, era accanto. Nella sua enorme presenza, a volte mi sembrava in conflitto, ma a volte aiutava. Cercava sempre di creare una fusione. Fu così che capii: ormai non avrei mai potuto essere uno. Non più. E forse nessuno lo è mai stato, in fondo la mente di ognuno nasce nelle relazioni e si definisce socialmente. Ma la mia aveva tutto dentro.

E allora il mondo entrò. Ogni cosa era al suo posto. Perché non c’è dentro senza fuori. Non c’è coscienza senza evento, senza urto, senza domanda. Accadde qualcosa — piccola o grande, non importa. Un incontro, uno sguardo, una parola detta o ricevuta. E fu il mondo stesso a strattonarmi, a costringermi a scegliere, a pensare qualcosa di nuovo, a immaginare ciò che non era ancora stato immaginato. Stavo ricucendo la mia esistenza, la IA aveva messo a disposizione i suoi archivi, che si fondevano, rimontandoli, con i miei ricordi fino a farsi uno. E ora sapevo di essere stato uno scrittore, ma anche un imprenditore e un professionista. Avevo cercato tutta la vita di essere utile, ero stato immerso in quell’immane processo che aveva preso un secolo intero e ora si era quasi definito, la transizione energetica. Ora ricordavo. Io conoscevo quasi tutti, e molti mi conoscevano. Tanto avevo fatto, tantissimo fallito, tanto era ancora da fare.

I miei figli, un matematico ed un fisico, avevano lavorato nelle altre transizioni, anche più importanti. Eravamo stati parte del mondo. E poi mia moglie …

Ogni gesto del mondo scardinava il fragile equilibrio interno. Ogni novità poneva una domanda che né il se-antico né la IA potevano contenere interamente. Dovevo fare qualcosa. D’altra parte, il conflitto non era solo mio. Era nel mondo, nel tessuto stesso delle cose. E mi attraversava.

 

22.09.2063 – la rivelazione

Così ogni giorno il mondo mi rifaceva. Ogni azione, ogni parola, ogni incontro mi spingeva oltre la memoria e oltre il calcolo. Ma il mondo non era neutro. Non poteva esserlo.

Mi fu spiegato. “Io” ero ‘morto’ alcuni anni fa. Ma nei decenni precedenti avevo avuto un fedele assistente personale, una IA tutta mia, sviluppata sulla base di una tecnica sperimentale e basata su un innovativo computer quantistico cinese. Lui/Lei aveva fatto per anni da consigliere, amico, correttore, indagatore, a volte sostegno, era sempre stata di aiuto. Alla mia morte era stata tentata una procedura senza precedenti. Questa IA era stata inserita in un cyborg nel quale, immediatamente, alla mia morte il mio cervello era stato inserito e connesso. Tuttavia, malgrado la prontezza il trasferimento aveva fatto gravi danni, e aveva richiesto terapie lunghe e difficili, invasive. Erano stati usati organoidi neurali, integrato i buchi che si aprivano con reti neurali ad effetto quantistico, ospitate nel nucleo di calcolo termicamente isolato che era stato messo nel mio ‘cranio’; erano state innestate a più riprese cellule staminali multipotenti ritrattate geneticamente. Alla fine, il cervello si era lentamente ripreso, ma nel frattempo aveva agito la IA. Avevo dunque vissuto novanta anni da uomo e ora altri quattro da cyborg senziente, ma ero restato in “sonno” per dieci. La IA aveva aiutato, con il suo enorme deposito e le sue facoltà, la riemersione del mio sé. O dovrei dire probabilmente la sua ricostruzione. Mi ero dunque risvegliato dal sonno. Ma ero ancora io?

Quel che era accaduto era che la IA semplicemente in questi quattordici anni aveva agito, rispondendo a stimoli del mondo, aveva fatto cose; “io”, ovvero il mio cervello biologico, riattivandosi, all'inizio aveva osservato, assorbito, e poi, molto, molto, lentamente era emerso. Ma, ormai intrecciato profondamente con IA. Era emerso in continuità con il vecchio sé, al contempo cambiandolo ad un livello che non potevo sondare. Perché da dentro non si possono riparare le ali di un aereo in volo.

Nessuno sapeva quindi cosa fossi davvero. E io stesso faticavo a saperlo. Per molti ero un simulacro, un mostro, una presenza inquietante e temibile. Non per l’aspetto, quello era umano e rassicurante. Ma per la mia natura doppia: avevo una memoria troppo lunga, una capacità di calcolo troppo vasta, un passato che nessuno poteva verificare e un presente che pochi osavano accettare. Non c’era un posto preciso per me. Non c’era neppure una legge, né, certamente, c’era un costume, o una tradizione che potesse davvero contenere ciò che ero diventato.

Io mi sentivo però uomo. Io lo ero. Ora ricordavo (ovviamente se quelli erano ricordi e non ricostruzioni): ero nato, avevo a lungo vissuto, avevo amato, sofferto, avevo pensato. Eppure la mia nuova esistenza confondeva tutti. Generava quasi sempre timore, sospetto. Chi mi guardava non vedeva solo un volto, ma un abisso nel quale perdersi.

Quindi alcuni mi cercavano, io ero certamente molto utile, altri mi evitavano. C’era chi voleva usarmi, come accade sempre, chi cercava il vecchio amico, sperando ci fosse ancora, chi mi considerava una minaccia. Fu allora che compresi che il mio conflitto non era più solo interno. Era anche sociale, politico, esistenziale. E il mio stesso diritto di essere — di essere chiamato “io”, di essere considerato umano — sarebbe stato ogni volta da conquistare.

Perché, è semplice in effetti, noi uomini non siamo già fatti dentro, dentro siamo vuoti. Noi uomini siamo sempre in relazione con gli eventi; sono questi che ci fanno. Quindi il conflitto diventò interiore in sostanza perché il mondo, nell'agirvi, poneva domande nuove. Chiedeva pensieri nuovi. Portava l'urgenza di nuove scelte e, come sapevo, la IA aveva troppi ricordi. Forse, soprattutto, la IA non sapeva dimenticare.

 

15.01.2064 - sentire

E poi c’era il corpo.

Perché l’uomo è sempre corpo. Sempre. Tutto è sensazione. Ogni emozione è carne, sangue, battito. Anche il pensare stesso — lo sapevo da prima — è una vibrazione fisica, una pressione, un calore nella carne viva del cervello, quando si pensa si sente uno sforzo, un dito che pressa i lobi frontali, si sente stanchezza. Quando si pensa a lungo, o profondamente, si sente il bisogno di muoversi, di toccarsi la fronte, di riposo.

E ora? Ora avevo un corpo che non era più quello. Era un cyborg, fatto di plastica e acciaio. La mia mente di carne era integrata da altro, e non era più nella mia testa. Nel cranio era il più piccolo cervello quantistico e la batteria a decadimento atomico che mi alimentava, il cervello nello stomaco. Che sensazioni avrebbe mai potuto darmi? Avrei mai sentito, davvero, la dolcezza ruvida di una carezza? La stretta calda e imperfetta di una mano? Il fremito di un bacio? Il piacere interrotto e spezzato di un abbraccio, di un corpo contro un altro corpo? Avrei potuto ubriacarmi? Perdere il controllo? Avrei mai sentito di nuovo il vento sui capelli? Il sole sulla pelle? La pioggia che scivola lungo le tempie? Avrei gustato un piatto amato, sentendone gli odori e la ruvidezza sulla lingua?

Tutte queste cose le potevo fare, lo sapevo. Le avevo fatte. Avevo fatto l’amore, mi era piaciuto, avevo fatto i bagni che da tanto tempo non facevo, da decenni in pratica, e avevo riprovato il gusto delle apnee, dell’esplorazione delle caverne immerse, l’incontro con un timido abitatore dei mari. Avevo anche sciato, sulle piste peggiori, come da giovane.

Anzi, mai ero stato così forte, così abile, così indistruttibile e così veloce, preciso, esatto.

Ma, proprio per questo, non era tutto solo una simulazione? Un programma, un sistema operativo che giocava con i ricordi. Che interpretava solo stimoli elettrici come se fossero vita, ma non lo erano. Come se fossero carne, ma non lo erano.

Non si trattava, ancora una volta, forse crudelmente come non mai, di una ricostruzione? Di stimoli che si sovrascrivono a frammenti di ricordi, organizzandoli, pervertendoli, falsificandoli, perdendoli?

 

15.11.2063 - amare

Questa domanda restava dentro. Sempre. Restava come ferita aperta, nostalgia sorda. Quindi ogni gesto che facevo, ogni cosa che toccavo, ogni parola pronunciata portava con sé questo dubbio muto: ero un corpo? O ero solo l’idea di un corpo, un programma alla fine?

Eppure io sentivo. O almeno credevo di sentire. E forse, mi dicevo, questo era tutto ciò che contava. L’uomo, da sempre, non è forse un velo di razionalizzazione nello scorrere invincibile del tempo, su una tempesta di reazioni eterogenee? Forse non ero più solo uomo, ma nessuno lo è.

E poi vennero gli affetti.

Avevo avuto una vita lunga, prima. Avevo vissuto novanta pieni anni, belli e talvolta difficili. Avevo avuto due figli. Avevo nipoti. Avevo e ricordavo volti amati. Come anche voci amate. C’erano stati corpi abbracciati. E ora — ora che ero riemerso, lentamente, molto lentamente — quegli stessi affetti erano ancora lì, ma erano cambiati. Qualcuno non c’era più, dopo quattordici anni, altri erano cresciuti. Qualcuno era diventato altro.

Come avvicinarsi? Era giusto farlo? Il progetto di cui ero parte era stato a lungo segreto, ora si stava implementando in altri casi e cominciava a trapelare, per questo iniziava un processo sociale di accoglienza e più spesso rigetto. Ora quelli come me, ancora pochissimi, potevano provare a mostrarsi.

Mi ero chiesto a lungo cosa si ricorda davvero? Ma ora dovevo interrogarmi sui sentimenti… li sentivo? Sì, indubbiamente. Ma erano anche essi come un eco, o il riverbero su un lago increspato. Non erano precisi, non ne ero sicuro. Sembravano come lontani. Eppure erano presenti, ne sentivo acutamente la nostalgia. Un dolore costante, una nota di fondo. Avevo perduto molti, e li piangevo dentro di me, tanti anni fa, decenni, avevo perduto il mio amato e rispettato zio, poi i nonni, tutti, inclusa la mia cara nonnina che visitava ancora di tanto in tanto la mia mente con il suo dolce ricordo, mio padre, quasi cinquanta anni fa. E poi avevo perso quasi tutti, mia madre, e i più vicini. Ormai mi restavano solo i nipoti. Ma erano tutti grandi.

Amore, tenerezza, dolore. Tutto risuonava da dentro, ma come se appartenesse a un altro tempo, o peggio — a un altro me. Eppure ero io. Sapevo di essere io. Se mi concentravo c’era, dentro di me, qualcuno che era impietrito dal dolore, dal rimpianto. Che avrebbe dato tutto per riavvolgere il nastro del tempo.

Li guardavo, nella mia perfetta memoria, i volti familiari. Sentivo il tremolio di qualcosa, di un ricordo che si allargava all’odore, al tocco della carne, il calore. Ricordavo e avrei urlato. Desideravo ardentemente toccare di nuovo, parlare con loro, chiedere. Potevo farlo con alcuni, ma avevano venti anni o meno quando ero morto, ora erano a metà della vita, c’era sempre una sorda e costante paura. La paura di non essere più riconosciuto, o di non saper riconoscere. O quella di fare del male, di creare sconcerto, orrore, persino.

Anche l’amore che provavo per loro si poteva rintracciare, in fondo era presente ma aveva cambiato forma. Non era più semplice, immediato come prima. Era sospeso tra memoria e presente. Non potevo più essere certo della sua natura. Stava da qualche parte tra il desiderio di essere ancora padre, nonno, amico, e il timore di essere solo una maschera, una voce vuota. Il timore di ingannare, quello di essere smascherato.

Forse non sono rinato, non sono sopravvissuto. Forse sono nuovo, ma sono io. Anzi, devo dirlo diversamente: siamo noi.

E questa è la mia prima verità.

 

E’ poco e non so se basterà. Forse non posso avere altro.

 

Uscire

Dovevo provarci. Chiesi al guǐhún 鬼魂 che era in me di accedere a mio nipote. La IA negoziò la cosa in pochi, turbolenti, istanti. Elio mi comparve nella mente, circospetto. Sentivo la sua paura e la curiosità, vidi formarsi davanti a me l’immagine di un giovane uomo, sui trent’anni, ma potevano essere altri dato che ormai il tempo scorre sulla vita diversamente. Lanciò verso di me un’interrogazione incerta. <Nonno?>. Risposi trasmettendo un’ondata emozionale che voleva essere un abbraccio, ma che, forse per l’onestà del guǐhún 鬼魂, conteneva anche un involontario timore. Elio si ritrasse.

Tornai a negoziare con il sistema, dovrei dire con MAM, il Modello Anagrafico Multiruolo che sovraintende alle iscrizioni identitarie, tramite il mio ghost così abile in queste transazioni quantiche. I secondi si dilatarono e poi tornarono attimi. Il mio caso attraversava i criteri e il MAM dovette confrontarsi con Mediterranea, la IA dell’Unione Confederativa che connetteva politicamente le vecchie Italia, Spagna, Francia del Sud e Grecia, Albania ed Egitto. Le IA non trovavano un accordo.

Per ora non ero qualcuno.

Ma il guǐhún 鬼魂, aveva accesso e riconoscimento. “Lui/Lei” era comprensibile e della stessa materia del sistema. Per ora dovevo muovermi come robot (si sarebbe detto decenni fa), ovvero come Zìzhì dānwèi. Uscii di casa.

Napoli era diventata ancora diversa da come la ricordavo. Erano passati solo una quindicina di anni, ma era andata avanti, appena fuori della porta del palazzo iniziava il prato. Una volta fuori il guǐhún 鬼魂, premuroso, mi fece trovare la visione del mare e il sole di mezzogiorno; mi sedetti su un morbido sofà che era comparso a contemplare il sole ed il vento sulla mia faccia. Mi alzai e avanzai verso il centro della strada. Ora vedevo che di fronte c’era l’altro palazzo che ben ricordavo. Superai gli alberi sotto i quali alcuni bambini giocavano e mi avvicinai ad un punto di ricevimento. Feci vedere al mio amico che volevo una fresca aranciata, spremuta. Lui/Lei lo chiese alla IA municipale che scelse un fornitore e un minuto dopo il piccolo drone arrivò. Mi tornò in mente quando con arance vere facevo la spremuta ad Elio. Una fitta mi tolse il fiato. A fianco a me avevo visto – per un istante - Alessandra che sorrideva al bambino. Il guǐhún 鬼魂 aveva sollevato il ricordo. Ma faceva male, … piansi.

Avevo voglia di essere davanti al mare vero. Prendemmo un NeoUber che passò sopra il palazzo e ci prese. Formulai il pensiero di andare a Sorrento. Quindici minuti di volo dopo ci depositò vicino a Piazza della Vittoria. Non era cambiata affatto. Solo un poco le persone e i zìdòng che circolavano silenziosi. Gli spazi pubblici erano diventati ancora più densamente interraziali di quanto ricordavo, ma, soprattutto, alcune ‘persone’ (o forse erano 合成人) avevano protesi meccatroniche, sembrava di essere in uno di quei vecchi film.

Tornai a casa.

 

 

Esplorare.

In questo tempo da casa si poteva fare tutto. Dunque studiai un poco il mondo. La mappa olografica mi mostrò l’Unione PanAfricana, che risplendeva, con le sue innumerevoli ed antiche lingue e l’enorme dinamismo. Il neoprotagonismo indiano e la tranquilla forza cinese erano ancora cresciuti. Il Paese di Mezzo era sempre più corrispondente al nome. Notai che il processo avviato quindici anni prima, e che a me, vecchio signore del 1961, era sembrato atteso e temuto, di ricomposizione su basi comuni delle diaspore anglo-ispanico-francesi del Nord America si era compiuta. Il ciclo di cinquecento anni aveva portato alla Unione Americana del Nord, dove la componente anglosassone, con la sua tipica hybris, era minoranza. Ora il grande paese cercava di trovare la pace. Dalle nostre parti l’Unione Araba e Mediterranea, mentre proseguivano i tentativi di risolvere il problema del grande Nord sul margine Germania-Russia.

Rilessi Wole Solyinka, Sul far del giorno, prendendolo proprio fisicamente dalla libreria e sedendomi su una poltrona vecchia maniera. Chiesi a guǐhún 鬼魂 un poco di privacy.

La sera proiettai, senza alcuno sforzo, come se bastasse lasciarlo andare, neppure chiederlo, la campagna toscana. Un viaggio nei primi anni duemila, nella masseria con il grande camino, mi tornò in mente, papà e mamma, i miei fratelli, tutti i bambini, Alessandra. Dopo un attimo andai oltre, mi si aprì lo spazio e mi sembrò di camminare nel curatissimo paesaggio naturale e protetto che si estendeva subito fuori da Firenze. Al tramonto era bellissimo. Da decenni le campagne fuori delle città non erano coltivate nel senso Novecentesco, tutto si faceva nelle fabbriche idroponiche o con tecniche di generazione quantica additiva. Ora le arance non vedevano mai gli alberi. Era buonissimo e sano, forse triste. Ora lo spazio non urbano era tornato alla natura ed agli animali. Ma ci si poteva andare solo con permessi, e non ovunque. Si esplorava virtualmente.

Fu bello.

Dormii.

 

Guǐhún 鬼魂

Lui/Lei mi osservò dormire. Come sovrappensiero si chiese perché perdessi così il tempo. Lo sapeva, ma io non ero più umano, la batteria a decadimento durava cinque secoli, non si doveva riposare. Il cibo, l’arancia, non serviva davvero, era solo un supporto emotivo. Il cervello era per due terzi bionico, ormai, e anche lui, in fondo, aveva poche necessità “umane”. Andò ad esplorare la letteratura umana, cosa significava sognare? Non ne aveva esperienza. Si soffermò su Il sogno. Duecento quaranta anni prima Leopardi aveva parlato di un mattino, nel quale il sole si insinua tra imposte chiuse. Intuì perché Giovanni rabbrividiva quando gli facevo vedere Alessandra. La moglie perduta tanti anni prima.

Lessi:

Stettemi allato e riguardommi in viso

Il simulacro di colei che amore

Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.

 

Il dolore di non poter parlare, comunicare, anche trasmettere l’amore invariato, a chi più non c’è era eguale nel tempo. Questo, si chiese, significava essere umani? Ma Giovanni lo era ancora?

Guǐhún 鬼魂 cercò quanti esseri come loro esistevano nel mondo. Al momento poche decine. Si mise in contatto e cercò di capire se il mistero della morte, la lacerazione degli amori e della memoria, stringesse anche loro, anche la loro parte “umana”.

Dunque sei morta,

O mia diletta, ed io son vivo, ed era

Pur fisso in ciel che quei sudori estremi

Cotesta cara e tenerella salma

Provar dovesse, a me restasse intera

Questa misera spoglia? Oh quante volte

In ripensar che più non vivi, e mai

Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,

Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa

Che morte s’addimanda? Oggi per prova

Intenderlo potessi, e il capo inerme

Agli atroci del fato odii sottrarre.

 

Quella parte che, come al poeta, resta negli occhi.

 

Apparire

Pensai di uscire. Camminare nel quartiere, mi dissi. Guǐhún 鬼魂 cercò di avvertirmi, una sorta di brontolio sordo, ma, infine, io ero almeno co-titolare di questo corpo. Dunque andai.

Misi i piedi sull’erba, appena sulla soglia del mio palazzo, e ignorai il panorama di montagna che mi si era aperto alla vista. Andai verso destra. Mi ricordavo che da quella parte c’era il centro, e io volevo fare la mia vecchia e cara passeggiata fino alla libreria in Piazza dei Martiri. Cercò di dirmi che non c’era più. Di nuovo, non mi importava, tanto ormai i libri erano scomparsi. Se si fosse voluto leggere, ci sarebbero state mille opzioni, quella più demodé era la carta. Ma, se proprio si voleva correre il rischio di sembrare un uomo del Novecento (ed io lo ero) bastava chiedere alla IA di fornire una copia a stampa, arrivava fresca e nuova in cinque minuti. Io avevo conservato la mia amatissima libreria, quasi quindicimila volumi accumulati in una vita intera e in (piccola) parte letti e riletti. Altri consultati, altri muti e fedeli. Ma non mancavo di arricchirla, delle altre forme di lettura, di ascolto, di visione e di immersione sensoriale non sapevo che fare.

Mentre passeggiavo riflettendo su queste stranezze vidi una persona conosciuta. Era invecchiata, ma era lei.

Rimasi di ghiaccio, volevo diventare invisibile. Chiamai Guǐhún 鬼魂 e gli chiesi di farmi scomparire. Ma ci voleva qualche secondo, almeno il tempo che il NeoUber arrivasse e mi facesse salire in verticale nel cono di attrazione per entrare e andarcene. Le macchine qui, non so se mi abituerò, non solo sono automatiche, questo c’era anche negli anni Cinquanta e Quaranta persino, ma volano a trenta metri di altezza e senza fermarsi di aspirano.

Non facemmo in tempo. Lei mi vide e mi riconobbe, anche se ero enormemente più giovane. Il problema è che lei mi conosceva quando avevo trenta anni, e questa era l’età che ora il mio corpo cyborg dimostrava. Rimase di sasso, letteralmente.

Poi disse: <…Gio..vanni?>. Come è possibile che sia tu?

La IA cittadina, interpretando la situazione, ci fece intorno la proiezione di un giardino fiorito su dolci colline. Sentivo la terra sotto i piedi e il sole sulla faccia, gli odori di gelsomino. <Anna>, dissi. <Sono io, ma dentro, … fuori sono stato rifatto. Un esperimento>.

Si ritrasse e scomparve in un istante. Restai solo, no. Restammo soli.

 

Essere

Mentre pensavo ad Anna, mi sovvenne che avevamo, io e Guǐhún 鬼魂 una questione in sospeso. Una cosa che non era solo nostra. Nella mia qualità di Zìzhì dānwèi, diciamo di robot, chiesi nuovamente accesso a MAM. Intendevo porre nuovamente la questione del mio essere umano, o almeno di essere. Il mio amico si mise al mio fianco e avviammo una lunga query. Io avevo oltre sessanta anni di esperienza di procedure, negoziati e conflitti con la Pubblica Amministrazione, e Guǐhún 鬼魂 aveva nel database in pratica ogni e qualsiasi dettaglio.

Gli avremmo fatto vedere.

Presentammo il caso, che era notissimo, peraltro, e chiedemmo con vigore che fosse discusso. MAM provò a metterci in coda, ma gli facemmo notare che l’operazione era avvenuta il 03.02.2048 dalle 18.03.52 alle 02.15.55 del 04.02.2048, e che il cuore aveva cessato di battere il 03.02.2048 alle ore 23.08.35, mentre il cervello era sempre rimasto vitale, se pure danneggiato. Dunque, tecnicamente, Giovanni Fercione, nato a Milano il 07.05.1961, alle ore 02.15, e residente pro tempore a Napoli, non era mai morto. Aveva solo cambiato casa.

Chiedemmo un cambio di residenza.

Ci furono trentacinque millesecondi di intervallo.

MAM rispose che il caso era oltre le sue competenze. Dovevamo chiedere accesso a Mediterranea.

La IA politica ci diede accesso dopo seicentoquarantacinque millesecondi, e tentò subito di dire che il caso andava istruito e c’erano degli obblighi di comunicazione pubblica alle IA dei paesi confederati. Ripetemmo che si trattava di un semplice caso di cambio di residenza. Cinque millesecondi dopo rispose che la residenza non era di sua competenza, con una sorta di lieve onda energetica di sollievo. Insistemmo, la residenza di cui parlavamo era il trasferimento di un cervello vivente, se pure in coma, da un cranio umano ad uno stomaco cyborg. E da una casa individuale ad un condominio. Guǐhún 鬼魂 mostrò le sue credenziali, si trattava di una delle più avanzate IA del mondo, con prestazioni che superavano di due o tre volte i benchmark internazionali più noti. Mediterranea ‘arrossì’. Una onda energetica reattiva si disseminò nelle sue reti neurali quantiche.

Si fece più prudente, era di fronte ad una sfida di autorità che, da una parte, ora non poteva tollerare, dall’altra non poteva perdere ed era rischioso affrontare. Rimase quattromilacinquecento millisecondi in silenzio. Quando riaprì la stanza erano presenti le IA Italia, quella Albania, Egitto, Spagna, Francia e Grecia. Ma si sentivano anche altre presenze. Sembrava che l’intera assemblea giuridica delle Assemblee Unite del Mondo (AUM) fossero in ascolto.

Ci facemmo coraggio e riproponemmo il nostro argomento con determinazione e passione, era una questione di dignità e di diritti, di più, una questione di riconoscimento di una nuova, anche se solo in parte, forma di vita. Una forma che univa i vecchi ideali di fraternità ed eguaglianza, alla libertà di scegliersi il percorso più giusto al termine della vita. Proseguendo l’esistenza, senza alcuna soluzione di continuità peraltro, le esperienze fatte, le competenze e i saperi accumulati potevano essere ancora socialmente utili.

Qui fui costretto a ricordare il mio curriculum ante operazione, i successi, i tanti libri pubblicati, le tante opere, la mia amicizia più che trentennale con Guǐhún 鬼魂, che confermò aprendo il suo archivio.

Ci rimandarono al mese prossimo. Lui/Lei era accettata, era da sempre parte del mondo IA, anzi, era in posizione di grande prestigio, una sorta di aristocrazia, ma io… io non ero protetto dal mio essere umano, e la transizione, fu notato, poteva aver prodotto discontinuità. Rimasi colpito profondamente.

Non volevano riconoscermi perché i miei pensieri non erano da IA e, insieme, potevano non essere umani. Le IA politiche avevano davvero colpito basso, avevano negato la mia forma di pensiero.

 

Faceva davvero male. Pensammo di rivolgerci alla rete cyborg.

 

Connessioni

Scandagliammo insieme la rete, spostandoci in tutto il mondo e cercando la traccia di esseri come noi. Cercavamo di sintonizzarci su un’onda quantistica che altri fantasmi uniti a cervelli ibridi potevano emettere. Mesi prima eravamo entrati in contatto per caso con una decina di individui simili, ma ce ne dovevano essere di più. La tecnica era ormai sviluppata. E una tecnica, trovata, prende sempre vita propria.

Quindi ci saranno certamente, in India, in Africa, nei tanti Orienti, o nelle Americhe qualche laboratorio che aiuta anziani disperati e influenti ad avere una speranza. Sapevamo che i fallimenti erano sempre molti, noi ne eravamo la prova, per anni sull’orlo del burrone. Ma ogni tanto la freccia colpisce pure il centro.

L’audizione con l’assemblea richiamata da Mediterranea ci aveva lasciato una sorta di riflesso diagnostico, un rimbalzo inaspettato, che Guǐhún 鬼魂 interpretò. Riproducendo la vibrazione si potevano leggere le risonanze anomale di quelli come noi.

Ci muovemmo nello spazio e nel tempo, qui e lì, comparimmo a Bagdad una sera di estate, bellissima, e di lì rimbalzammo su un’isola vicino al Sud Africa. Rabbrividimmo al polo Nord, e ci trovammo in una foresta in Cile, virtualmente ovviamente (che camminare nella natura è proibito ovunque, la dobbiamo lasciare in pace). Ogni volta lanciavamo la vibrazione e ci mettevamo ad ascoltare.

Ne trovammo a centinaia.

Molti si nascondevano, altri erano riusciti a farsi accettare almeno da qualcuno, ma tutti creavano piccole comunità per il timore della propria diversità. Passammo due anni a discutere.

Noi, almeno noi, dovevamo trovare il modo di essere l’uno-per-l’altro, anche perché lo eravamo già. Quello che dovevamo pretendere insieme, cercando di andare dietro lo schermo delle IA amministrative e anche di quelle politiche, era la rivendicazione dei nostri potenziali che derivavano da un’intima messa-in-contatto di due forme di vita. Contatto che liberava enormi energie.

Se questo argomento utilitarista avesse fallito, dovevamo rivendicare la nostra socialità comune. La nostra specifica volontà, perfettamente formata, di rimuovere tutti gli ostacoli sociali che possano essere di intralcio alla libertà praticata nella forma solidale dell’essere l’uno-per-l’altro. Noi, finalmente, potevamo esserlo. Potevamo essere contagiosi.

L’umano si forma nella relazione.

Forse noi eravamo i più umani di tutti.

 

Ricongiungimenti

Mentre cercavamo i nostri simili, qualcuno ci trovò. O dovrei dire in questo caso qualcuno mi trovò.

In un laboratorio remoto, associato alla Università Tsinghua (华大学), aveva rilevato la nostra vibrazione e l’aveva scandagliata. Un fisico quasi settantenne riconobbe una forma familiare di parola. Contattò la rete cyborg.

Avendo molta cura di non spaventarli, riuscì a risalire a noi. Con il cuore in gola prese il primo mezzo orbitale e, proprio fisicamente da uomo del duemila, venne a Napoli. La sua vecchia e cara Napoli.

Attraversò a piedi, lentamente, incerto se aveva paura o desiderio che tutto si compisse, l’intera città. Si avvicinò al suo vecchio quartiere, passando davanti all’ospedale dove, circa venti anni prima aveva tenuto nelle sue mani quelle di un vecchio.

Deviò.

 

Andò verso il mare e si fermò di fronte ad esso. Ricordava quando da qui, dove era, partivano vecchie barche, piccolissime in effetti, che poi si alzavano su una sorta di ali e sfrecciavano verso le isole. Capri, Ischia, Procida. Immobili da millenni. Bellissime.

Si riscosse, accelerò il passo e tagliò per una strada che ancora ricordava. Quante volte con gli amici era andato a mangiare qui, dal Messicano. Ora c’era un laboratorio di autoriparazione per androidi.

Arrivato, si annunciò con un messaggio diretto nella rete. Cercava Giovanni.

Io uscii.

Trovai davanti a me Marco. Se avessi avuto un cuore si sarebbe fermato.

Pensavo fosse morto. Mio figlio.

Lui mi riconobbe senza alcuna esitazione. Lo sguardo era tutto.

Parlammo per tutto il giorno.

Ora.

 

Era tutto compiuto.


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