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sabato 10 maggio 2014

Alberto Bagnai, “Chi guadagna con l’Euro”



Su Il Giornale un articolo nel quale Alberto Bagnai, professore di economia a Pescara e animatore principale della campagna culturale no-euro riassume alcune delle ragioni per le quali propone di considerare l’Euro realmente esistente insostenibile per l’Italia ed il sud Europa.
Richiamando il Manifesto di solidarietà il professore propone la prospettiva di un'uscita controllata dall'Unione Monetaria che è in effetti condivisa, con significative differenze, da moltissimi studiosi o attori di destra e sinistra, anglosassoni e continentali, economisti e non. Ne abbiamo presentati moltissimi (basta mettere la parola chiave “Euro” nel blog); quel che sostiene Bagnai è che si tratta di una battaglia per due obiettivi: il benessere della gran parte della popolazione (in particolare dei lavoratori del ceto medio e medio-inferiore), e la democrazia sostanziale.

Condividendo entrambi gli obiettivi, e la minaccia ad essi, ripercorrerò, commentandoli, i principali passaggi dell’intervista. Per Bagnai, che anima uno dei più importanti blog economici italiani (Goofynomics, che nella classifica ebuzzing è permanentemente entro i primi dieci posti), l’integrazione monetaria è un progetto politico individuato dai politici europei negli anni settanta per completare il programma di unità politica avviato nell’immediato dopoguerra. Vorrei sottolineare questo punto: si sceglie uno strumento economico –anzi monetario- per ottenere un risultato politico-istituzionale, cioè un obiettivo costituzionale. Un risultato, in altre parole, che ha a che fare essenzialmente con il potere di definire le scelte che influenzano le nostre vite e con la responsabilità.

Che l’Euro –afferma Bagnai- sia  nelle condizioni date, in quanto meccanismo economico, tecnicamente insostenibile tutti i decisori che lo impongono lo sapevano, sin dall’inizio. Questa affermazione è supportata da valanghe di riscontri; anche se nelle decisioni politiche la pura razionalità tecnica è solo un elemento tra altri (è noto, ad esempio che attori di primo piano come Andreotti e La Malfa usassero rispondere ai tecnici che gli obiettavano i meccanismi competitivi in grado di stritolare la nostra economia con fastidio e mostra di irrilevanza). Infatti per un politico la questione è sempre essenzialmente <politica>, cosa che essenzialmente significa <di potere> e in misura minore <di legittimazione> (cioè di giustificazione politica).
Bagnai comunque cita Albertini, Prodi, Spinelli, Padoa-Schioppa e Ciampi. Tutti attori che sapevano benissimo “che una moneta unica sarebbe stata insostenibile per paesi così diversi”; il punto (lo diceva anche Jean Monnet) era di ottenere il superiore obiettivo dell’unità politica attraverso le crisi. Cioè, in effetti, lasciando arrivare le crisi –ed anzi provocandole-, mettere tutti in una situazione insostenibile, costringendo il cambiamento. Giustamente Bagnai chiama questa cinica strategia “violenza economica”.

Ma che genere di violenza è? E come esattamente funziona? Verso chi?

La violenza esercitata dalle crisi (che, come sappiamo “non si devono sprecare”, come ricorda sempre Draghi) è la sottrazione della base di esistenza dignitosa dei più deboli, o più precisamente di coloro che sono resi deboli dalla competizione alla quale vengono esposti senza difese. Cioè della loro base di potere. Esiste, infatti, un legame essenziale tra l’indipendenza, la dignità ed il potere di cui si dispone. Autori come Beck e Bauman non si stancano di ricordarcelo.
Il meccanismo è ancora più semplice: quando si mettono in contatto aree economiche diverse, per disponibilità dei fattori di produzione (tra i quali materie prime e lavoratori), infrastrutture e posizione geografica, senza gestire e mediare le conseguenze, anzi accelerandole, il sistema più ampio creato si assesta su una media. Dunque chi, per linea di sviluppo e tradizione storica, ha un assetto ed un equilibrio sotto qualche profilo svantaggiato deve cedere o morire. In effetti è una specie di guerra.
Il Chi è altrettanto visibile: questo meccanismo militare “mostra i denti” verso i lavoratori i cui salari relativi (cioè in relazione alla produttività) siano più alti, anche di poco; il cui tenore di vita –dunque- sia ottenuto a detrimento del saggio di profitto del capitale investito. Ma mostra il suo profilo affilato anche verso le imprese che vivono del “tenore di vita” dei lavoratori, o di chi a questi offre servizi. Si tratta di un effetto a catena. Un processo di graduale indebolimento e diradamento. Dall’altro lato (cioè del manico) questo processo “densifica” in alcuni luoghi e segmenti produttivi le risorse che sottrae altrove. Lo abbiamo evidenziato anche dalla lettura del bel testo di Moretti, con riferimento al contesto americano ed alla sua reazione alla mondializzazione.
In effetti quello che si attiva è un processo di riarticolazione contemporaneamente economico, sociale, e geografico. Naturalmente è anche un processo politico. La riarticolazione del potere, produce uno slittamento tra forme di rappresentanza che modifica i rapporti di forza (una volta si sarebbe detto in modo abbreviato “di classe”). Senza abbreviare si tratta dei rapporti funzionali tra sistemi produttivi e circuiti di creazione e conservazione del valore (all’interno di quella che una volta si sarebbe chiamata la “classe borghese” ci sono spostamenti anche più ingenti che tra quella “lavoratrice”, tra chi resta connesso ai circuiti essenzialmente internazionali della finanza e chi resta posizionato-intrappolato nel livello produttivo locale, o nel mondo dei servizi, ad esempio).

Ma torniamo a Bagnai, il professore diceva che sapevano. E che hanno sottovalutato sia il livello del dolore indotto con questo brutale processo (dal punto di vista di alcuni di loro, necessario) sia, e soprattutto, le incipienti reazioni.
Cosa più grave (ma strettamente connessa, parte di una sola visione) è che l’essenziale divisione (linguistica e culturale), l’assenza di una sfera pubblica comune (e anche di media comuni), rende in effetti le istituzioni cui si devolve il potere non democratiche. Banalmente perché non responsabili verso un discorso pubblico che non è condotto al livello giusto.
Nessuno sa come parlare alla BCE, e appena lo fa riceve (come in questi giorni) stizzite risposte di “indipendenza”. Nessuno sa come parlare alla Commissione Europea, se non attraverso i singoli Governi. In altre parole, la decisione è presa da organizzazioni che non rispondono a noi. La maggioranza che decide in Commissione non risponde della sua scelta ai cittadini ma alla fine a nessuno (singolarmente ogni capo di governo potrà tornare dicendo di essere stato costretto). O, per meglio dire, solo “ai mercati”. Stiamo tornando ad una democrazia di censo. In effetti stiamo perdendo il suffragio universale. Lo avevamo visto nel commento alle eversive parole di Carli.

Se questo assetto sovranazionale irresponsabile (verso i cittadini) rende impossibile la democratizzazione delle scelte lo stesso dibattito, a volte, assume toni intollerabili. Bagnai sottolinea che nel 1978 il PCI si oppose all’adesione allo SME, con argomenti economici, peraltro condivisi da giornalisti come Eugenio Scalfari, ancora attuali. Ognuno ha poi cambiato idea dopo l’unificazione tedesca e la dissoluzione dell’Urss, quando il quadro geopolitico si stava complicando e viene decisa la ratifica dell’essenziale Trattato di Maastricht. Da allora il coro è stato praticamente unanime, sino a tempi recenti.
Quel che si manifesta oggi è quindi il fallimento di un disegno geopolitico (determinare un’unità di potere e di equilibrio in grado in prospettiva di confrontarsi alla pari con gli USA), di un disegno economico (occupare i mercati che si aprivano all’occidente all’Est, tramite una accresciuta competitività e la disponibilità di flussi finanziari), di un disegno sociale (riarticolare le aree di sviluppo dove e quando si manifesta il migliore mix competitivo), di un disegno politico (disciplinare i lavoratori e le forze cui facevano riferimento). Si tratta di quattro programmi strettamente interconnessi, come è evidente.
Un fallimento, si potrebbe dire, per eccesso di successo (non naturalmente nel primo, assolutamente velleitario, obiettivo) e incomprensione della vastità delle conseguenze.
La politica, sostiene Bagnai, è dunque incapace di affrontare tale successo-fallimento e ne nasconde portata e conseguenze. Invece la scienza economica ne è ben cosciente (in effetti più nel mondo anglosassone che non nel nostro). Comunque non sono mai mancati gli avvertimenti.

A questo punto le soluzioni tecniche, in caso di assunzione dell’insostenibilità delle conseguenze, possono essere diverse: Bagnai cita l’uscita della Germania dall’alto, la dissoluzione per uscita di Francia e Italia, la divisione (ipotesi Zingales e Stiglitz) di “due euro”. Ovviamente i costi sarebbero diversi nei vari scenari (per l’Italia il migliore è il primo).

Una delle parti più interessanti dell’intervista è quando il professore prova a caratterizzare la mappa di chi ci guadagna (un altro che prova a farlo è Streeck nel suo libro del 2013):
-    le imprese che delocalizzano e portano le produzioni all’estero, infatti una moneta forte (se non ci fosse l’Euro la nostra moneta sarebbe naturalmente più debole) consente di comprare meglio all’estero. La Confindustria, che è dominata da questo genere di industriali, è quindi ferocemente contraria (sia in Italia, sia in Francia come in Germania) alla dissoluzione dell’Euro.
-      gli intellettuali e gli economisti per diversi motivi legati al mondo della finanza, ed a istituzioni come il FMI (ma anche la BCE o l’OCSE). Bagnai fa il nome di Alesina, che dal 1997 ad oggi ha preso la posizione esattamente opposta.
-    le istituzioni non responsabili democraticamente che, come molti hanno notato, nelle crisi acquistano potere di emergenza che poi tende a stabilizzarsi (basta vedere l’attuale strapotere della BCE, superiore a qualsiasi governo “indebitato”, o della Commissione Europea, o del FMI –i tre insieme sono la Troika).
-      le banche, e più in generale la finanza, che trovano occasioni di business nell’intermediare i giganteschi flussi finanziari liberati. Qui è all’opera un meccanismo di base, già visibile dal tempo di Clinton negli USA: se i salari stagnano rispetto alla produttività, alla lunga ci sono più beni che capacità di acquistarli. La finanza interviene “prestando” i soldi chiudendo il cerchio tra i surplus di profitto, ricavati dagli industriali e dalle aziende che producono servizi, e i necessari acquirenti. Altrimenti calerebbero i prezzi, riportando i salari allineati con la produttività e riducendo il saggio di profitto. Il trucco della finanziarizzazione è fondamentalmente qui (e nella capacità di invadere nuove “nicchie ecologiche”, spazzando via i concorrenti più deboli anche al fine di “guadagnare tempo”, come ricorda Streeck).
-     Come è ovvio “l’Euro ha enormemente facilitato questo processo” (Bagnai). In particolare tramite l’abbassamento dei tassi (che facilita l’indebitamento sia pubblico che privato) e l’abolizione del rischio di cambio (che facilita gli scambi).

Chiaramente questa situazione a lungo termine (che ormai si è molto accorciato) è tecnicamente insostenibile. E l’evoluzione delle tecnologie “labor saving” non può che aggravare la cosa.
Con le parole di Bagnai: “Pur essendo ostile il sistema bancario non può continuare a vivere di una situazione di regole che di fatto impediscono la creazione di valore attraverso industria, commercio e servizi.

Lascio alla sua conclusione:

“L'euro è condannato dalla storia. Abbiamo visto cadere, nel giro di meno di un secolo, il gold standard, accordo di cambi fissi basato su un ancoraggio con l'oro, e il sistema di Bretton Woods, sistema di cambi fissi basato su un ancoraggio con il dollaro. Ora vedremo cadere anche l'Euro che è un sistema di cambi fissi basato sull'ancoraggio col niente perché è una moneta che dietro non ha neanche uno Stato, cioè quell'istituzione che da sempre è stata garante del sistema monetario.”

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