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domenica 11 maggio 2014

Alberto Alesina, 15 dicembre 1997, “I quattro grandi bluff dell’Unione Monetaria”,


Il 15 dicembre 1997 sul Corriere della Sera esce un articolo a firma di Alberto Alesina nel quale il grande opinionista (e importante professore di Economia ad Harvard) ricorda ai suoi lettori che da un punto di vista economico non c’erano buone ragioni per aderire all’Euro (almeno questa è la sua opinione nel 1997).

Ma mi pare che ci sia qualcosa di interessante al fondo di questo articolo, oltre i contro argomenti economici che vedremo: se la Moneta Unica non porta vantaggi, ma solo rischi, perché la vogliono? Alesina in effetti non sembra rispondere, fino all’ultima frase, che lascia cadere –da consumato polemista- così per caso, e lascia sospesa: “…che tristezza (eccetto che per gli Eurocrati)”.

In effetti tutti gli argomenti, incluso quello geopolitico, sono estremamente deboli, ma il treno è in movimento ed ha una immensa inerzia. Dunque non si fermerà.

Secondo la mia opinione ci sono due spiegazioni, che reciprocamente si rafforzano, per capire come mai nessuno ha tirato il freno: il processo di unificazione per via economica dei paesi europei usciti dalla seconda guerra mondiale parte da molto lontano ed ha un complesso intreccio di ragioni funzionali e retoriche a suo sostegno; nel corso del processo si sono formate delle élite sovranazionali (quelli che Alesina chiama “Eurocrati”) miste, politiche ed amministrative, il cui potere si fonda sul processo di integrazione.

Il primo fenomeno ha una grandissima forza d’inerzia (anche culturale), e forze propulsive attive ancora oggi vive. La storia europea potrebbe essere riletta sotto il profilo dello sforzo di contenere, disciplinare ed incanalare il desiderio di emancipazione e partecipazione dei ceti popolari e dei lavoratori, dall’inizio del secolo scorso (per non risalire troppo indietro) le nostre società sono agitate dalle lotte per l’estensione del suffragio (prima per superare il voto per censo –diretto od indiretto tramite l’istruzione- poi per sesso, etc.) che porta alla fine all’irruzione della cosiddetta “democrazia di massa”. La stessa prima guerra mondiale, secondo alcune letture (ad esempio Canfora in “1914), è espressione anche di uno sforzo di contenere il movimento socialista, che nella prima decade del secolo, spinto dalle incredibili ineguaglianze, è in esplosiva crescita quasi ovunque. Dopo la guerra, nel crollo morale, fisico ed economico, che segue si entra in una fase di estrema turbolenza nella quale i movimenti di massa prendono il sopravvento almeno in Italia, Germania e Russia (in Spagna un simile movimento viene fermato con un Golpe). In Italia e Germania la cosa si volge in regime totalitario di destra (una prima fase di mobilitazione di sinistra è contrastata, e travolta, da una contro mobilitazione di destra), in Russia di sinistra.
Questa tragica esperienza nell’immediato dopoguerra è letta (Arendt e Adorno) come debolezza dell’uomo, ormai isolato ed individualizzato, alla manipolazione da parte di demagoghi (come Mussolini, Hitler e Lenin) anche tramite i nuovi media (radio in primis). La straordinaria ricerca su “La personalità autoritaria”, condotta da Adorno nel 1950 (con Frenkel-Brunswink, Levinson e Sanford), e il libro di Hannah Arendt “Le origini del totalitarismo” ne sono espressione. Questa ricostruzione l’abbiamo già incontrata in Werner-Muller e, se soccorrono le forze, la approfondiremo, quel che qui conta è che il disciplinamento della società di massa, fattasi interclassista con l’emergere di un sempre più forte ceto medio, passa nel programma delle élite politiche ed industriali attraverso la creazione di una riserva di potere sovranazionale.
La Comunità Economica Europea (e poi l’Unione Europea), al di là della retorica è sempre stata espressione di un disegno di controllo dalle spinte che potevano venire da una opinione pubblica nazionale, e dalla società locale, sospettata di essere immatura e disponibile ad avventure. Cioè ha rappresentato la polizza di assicurazione (o, se vogliamo, una “riserva di potere”) di chi non voleva correre, nel secondo dopoguerra, gli stessi rischi del primo.
Tuttavia, sulle carrozze quando partono prendono posto tanti passeggeri, e non sempre si può verificarne la qualità. Dunque nella carrozza europea io sospetto abbiano preso posto anche quelli che vedevano la stessa storia in modo diverso da Adorno e dalla Arendt, e, in continuità con una lotta secolare, intendevano la “riserva di potere” nella direzione del controllo dei movimenti di emancipazione popolare.

Come sia, le èlite che guidano questo processo gradualmente si specializzano, e alimentano una burocrazia dedicata, la cui esistenza dipende -alla fine- dalla vita della tecnostruttura europea. Tutte le istituzioni, col tempo, tendono ad autonomizzarsi ed a salvaguardare essenzialmente se stesse, l’Unione Europea non fa eccezione. I “servizi” che garantisce alle èlite nazionali (il facile schermo alle pressioni locali, tramite la formula <è l’Europa che lo vuole>) e l’enorme congerie di forze, e clientes, che si aggirano intorno al bilancio europeo, oltre che intorno al potere di regolazione (anche e soprattutto minore, le Direttive sulle bustine di zucchero e via dicendo), rafforzano enormemente la sua missione. Si trasformano in una oligarchia.

Sulla base di questa situazione, dunque, il treno dell’unificazione monetaria, che parte nel 1978 con lo SME, e trova uno snodo decisionale altrettanto cruciale della ratifica del Trattato di Maastricht nel 1993, nel 1997 è pronto a prendere il via dalla stazione.

A questo punto Alesina contesta puntualmente che la cosa sia vantaggiosa; lo fa ripercorrendo i quattro argomenti principali della retorica mainstream:
1-      che l’Unione Monetaria sia necessaria per mantenere il mercato comune europeo;
2-      che i cambi flessibili rappresentino un rischio per gli operatori e un freno al commercio internazionale;
3-      che l’Unione faciliti la riduzione di inflazione e deficit pubblici;
4-      che sia il passo decisivo verso l’Unione Politica;
Tutti gli sforzi titanici (quella che chiama “l’orgia di numeri su migliaia di miliardi volanti da un capitolo all’altro”) per rientrare nel parametro del 3% (una cosa che, come impietosamente ricorda, “non ha alcun significato economico o persino contabile”), si giustificano dall’esistenza di questi presunti quattro decisivi vantaggi.

Quanto al primo, Alesina contesta (“non è vero”) che l’UEM serva a mantenere il mercato comune, sono le barriere doganali e le regolamentazioni che contano a questo fine, poi conta la flessibilità del mercato del lavoro (la capacità di movimento dei lavoratori, cioè di emigrare). Il mercato di ogni paese, ricorda il professore di Harvard, “è il resto del mondo”.

Quanto al secondo argomento, Alesina contesta (“non esiste evidenza”) che i cambi flessibili creino rischi, la storia non lo mostra; in effetti “Il rischio di cambio si può facilmente ridurre o eliminare con operazioni di hedging”. Ma cosa più importante: “In ogni caso, la mancanza di flessibilità dei tassi di cambio ha anche dei costi: elimina un canale di stabilizzazione a shock razionali. Il Financial Times continua a ripetere che il Regno Unito fa bene a rimanere fuori dall'Unione Monetaria (per qualche anno almeno) perché quel Paese ha un ciclo sfasato rispetto al resto dell'Europa. Ma cicli sfasati rimarranno anche dopo l'Unione Monetaria e non solo per il Regno Unito”.
L’argomento è molto importante, perché è esattamente ciò che è successo circa dieci anni dopo: “Se un Paese nell'Unione Monetaria subisce uno shock di domanda negativo, qualcosa deve essere mobile e flessibile: o i salari monetari, o la forza lavoro o i tassi di cambio. Dato che i salari monetari sono rigidi al ribasso, la mobilità del lavoro in Europa è bassissima, l'Unione Monetaria che fissa i tassi di cambio rende l'aggiustamento agli shock molto difficile e renderà la disoccupazione ancora più permanente”.
Questa frase meriterebbe di essere stampata su marmo a futura memoria: o calano i salari reali (cioè i lavoratori effettivamente si impoveriscono, con essi le imprese che gli vendevano beni e servizi, e infine le banche che gli prestavano i soldi), o questi emigrano (ad esempio in Germania) o deve adeguarsi la moneta (l’orribile svalutazione). Scegliere, prego. Ovviamente per scegliere, come direbbe Rawls, devo sapere chi sono. Se io sono un industriale che esporta va benissimo, piatto ricco; se sono un “rentiers” (cioè vivo di capitali accumulati) ancora di più; se sono un lavoratore autonomo subirò gli effetti indiretti della recessione; se sono un lavoratore o un datore di lavoro nel mercato interno, è una tragedia.
Ma andiamo avanti: per Alesina è vero che una soluzione sarebbe rendere meno rigido il mercato del lavoro (salari più bassi e licenziamenti), ma la sinistra si oppone (chi sa perché?). Negli Stati Uniti succede questo, se c’è uno shock in California i lavoratori vengono licenziati, i salari calano e quelli che non vogliono se ne vanno in Texas. MA c’è almeno una differenza: “il sistema fiscale provvede notevoli sistemi compensativi: per ogni dollaro di riduzione del reddito disponibile in uno stato americano, tra i 30 e 40 centesimi sono recuperati da compensazioni fiscali. Sarebbero disposti, diciamo, i cittadini danesi a compensare in questa misura, uno shock che colpisce, per esempio, l'Italia del Sud? Molto probabilmente no, quindi neanche il sistema fiscale europeo correggerebbe questi shock asimmetrici.”
Riassumiamo: se si perde il cambio ed interviene il fallimento del sistema creditizio internazionale, la crisi seguente deve essere riassorbita dai salari dei lavoratori e/o dalla loro emigrazione, per chi non emigra ci devono essere allora compensazioni per dargli il tempo di ricostruire una vita. Queste devono venire dalle aree economiche non colpite (e che si avvantaggiano automaticamente dal fatto che il cambio bloccato impedisce ai paesi colpiti di prendere l’altra via, che per loro si traduce in più concorrenza). Ma l’Unione Monetaria europea non ha trasferimenti. Dunque c’è solo il bastone e nessuna carota.

Quanto al terzo argomento, Alesina contesta che l’Unione Monetaria abbia facilitato la riduzione dell’inflazione e dei deficit pubblici, questo effetto negli anni novanta (la cosa era l’argomento primario dell’adesione al Trattato di Maastricht) l’inflazione è scesa in tutto il mondo. E non più in Europa. Solo la regola del 3% (altro argomento portato per l’adesione) ha in effetti sortito effetto nel contenere il deficit pubblico (ovviamente). MA qui il nostro è meravigliosamente sarcastico (all’inizio aveva detto che non ha alcun significato economico): “E allora? Sostenere che uno dei principali benefici della più importante riforma del sistema monetario internazionale dopo Bretton Woods è che l'Italia avrà un deficit del 3 % del Pil invece che del 5 % del Pil nel 1998 fa sorridere, soprattutto al di là delle Alpi. Un nuovo sistema di cambio che dovrebbe durare per decenni va giudicato per i suoi meriti intrinseci e globali.”

Quanto al quarto argomento, secondo il quale l’Unione Monetaria è un passo verso l’Unione Politica, Alesina nel 1997 ammette che sia “forse l’argomento più convincente”, ma “se si pensa che l'Unione politica riduca il pericolo di conflitti intraeuropei, che, storicamente, sono stati catastrofici”.
Purtroppo l’effetto potrebbe essere opposto. E qui l’economista liberale merita il premio “Profeta dell’anno 1997 (quello di “Profeta dell’anno 1978 a Spaventa, del 1971 a Kaldor e così via): “La realtà però è l'opposto. Con ogni probabilità i contrasti tra Paesi europei aumenteranno al crescere della tendenza a coordinare politiche monetarie, fiscali, di welfare eccetera. Costringere Paesi con culture e tradizioni diverse ad uniformare politiche di vario genere, soprattutto quando la necessità economica del coordinamento è alquanto dubbia, è un'operazione inutile e potenzialmente molto pericolosa… Delle due l'una: o questo conflitto rivela forti differenze di filosofia sulla politica monetaria, oppure rivela forti tendenze nazionalistiche, soprattutto da parte della Francia che non ha ancora capito di non essere più una grande potenza. In entrambi i casi, questo conflitto non rivela niente di buono sulla futura politica monetaria comune”.

Questo quanto agli argomenti presenti nel dibattito europeo, sin dai tempi dell’adesione allo SME, poi da quelli del divorzio Tesoro-Banca d’Italia ad opera di Andreatta, e da quelli dell’adesione al Trattato di Maastricht; però in Italia è presente anche un altro argomento. Versione locale di quel vasto movimento di neutralizzazione delle spinte indisciplinate dal basso di cui abbiamo parlato in apertura, di sospetto verso la democrazia popolare, in effetti.
Infine, per ciò che concerne l'Italia, l'entusiasmo per partecipare all'Unione è descritto, anche in ambienti governativi, come un modo per difenderci da noi stessi, cioè un modo per trasferire potere politico a Bruxelles e Francoforte e toglierlo a Roma”. Vale a dire trasferire potere dagli organi eletti a suffragio universale a istituzioni burocratiche e politiche di secondo livello che ai primi non rispondono.

Per Alesina, “Probabilmente questo è un ottimo motivo per aderire all'Unione, ma, diciamocelo: che tristezza. (Eccetto per gli eurocrati)

Condivido la tristezza, dissento radicalmente dal poterlo considerare, in qualunque senso e momento, “un ottimo motivo”.


In effetti il punto è sempre lo stesso: <un ottimo motivo per chi?>

2 commenti:

  1. Ritengo che l'Alesina del '97, in contrasto con quanto sostenuto dal sig. Vasalli (con cui non voglio polemizzare, oguno ha il diritto di esprimere le proprie idee anche se in aperta contraddizione rispetto ad evidenze palmari), sia di ottima annata (dato che oggi praticamente rinnega quanto asserito nell'articolo), ha colto nel segno in tutti i punti, in paticolare rilevo due dati, con riferimento al quarto punto grazie alla moneta unica nel parlamento europeo ora abbiamo rappresentati l'UKIP di Farage e l'FN della Le Pen, infatti grazie alla moneta senza stato, abbiamo che le divergenze tra nord e sud d'europa anzichè attenuarsi si vanno ampliando in modo disastroso (paradigmatico il caso della Grecia) e questo ha determinato l'insorgere e il proliferare di movimenti ultranazionalisti o, in alcuni casi, addirittura razzisti.
    Quanto al punto due in effetti il vincolo esterno postula che "qualcosa deve essere mobile e flessibile: o i salari monetari, o la forza lavoro o i tassi di cambio. Dato che i salari monetari sono rigidi al ribasso, la mobilità del lavoro in Europa è bassissima, l'Unione monetaria che fissa i tassi di cambio rende l'aggiustamento agli choc molto difficile e renderà la disoccupazione ancora più permanente", mai profezia più azzeccata, in Italia la disoccupazione è al 13%, in Spagna al 25%, in Gracia al 27%, con punte del 60% presso i giovani (under 25). L'unico modo per ridurre tale stato di prostrazione è quello di incidere sui salari monetari, data la fissità dei tassi di cambio, ed è proprio questo che si sta verificando nei PIIGS, dati alla mano i fenomeni di deflazione salariale in cinque anni (dalla crisi del 2008) hanno raggiunto già una dimensione rilevante i salari reali medi lordi sono diminuiti del 2,2 percento in Italia, del 3,8 in Portogallo, del 3,9 in Irlanda, del 5,4 in Spagna e sono crollati del 22 percento in Grecia.

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  2. Non c'è alcuna ragione di polemizzare, casomai ce ne sarebbero per me di scusarmi dato che evidentemente non mi sono spiegato affatto, perché concordo con tutta l'argomentazione di Alesina. Che infatti non ironicamente è stato "profeta". L'articolo sinteticamente e nel 1997 riprende quasi tutti i topos che oggi sono presentati contro l'Euro e che hanno dimostrato nel tempo una loro effettiva solidità. In effetti ci sarebbe da chiedere come mai oggi dimentichi più o meno tutto quel che ha scritto quindici anni fa (nel frattempo è stato arruolato nell'esercito degli ?). Ottima annata, in effetti.
    Solo con la frese finale (che, però, non è poco) io dissento. Ma questo è appunto un diritto.

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