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lunedì 12 maggio 2014

Anthony P. Thirlwall, 1998, “la follia dell’Euro”


Sul blog Godrano, troviamo questo articolo del 1998 di Anthony P. Thirlwall, in lingua originale qui, la traduzione è di Giorgio D.M. L’articolo è stato segnalato anche da Alberto Bagnai su Goofynomics qui.
Thirlwall è professore di Economia applicata presso l'Università di Kent. I suoi principali contributi sono stati su l'economia regionale, l'analisi della disoccupazione e dell'inflazione, la teoria della bilancia dei pagamenti e la crescita e sviluppo economico, con particolare riferimento ai paesi in via di sviluppo. Egli è l'autore del best seller di testo Economia dello Sviluppo: Theory and Evidence (Palgrave Macmillan), giunto alla sua nona edizione. Egli è anche il biografo ed esecutore letterario del famoso economista di Cambridge Nicholas Kaldor. 
In sostanza l’autore è uno specialista delle materie implicate nella scelta dell’Unione Monetaria.


In questo contributo l’economista anglosassone commenta la decisione del maggio 1998 di realizzare la Moneta Unica nell’Europa a 11, a partire dal 1 gennaio 1999 (l’Inghilterra, si è sfilata promettendo che quando sarà giunto il momento giusto –cioè l’adeguata convergenza- indirà un referendum per definire l’eventuale adesione). Come noto l’Euro poi sarà introdotto nel ’99 e come banconote circolanti nel 2002.
La prima considerazione che l’economista inglese propone è che “il momento giusto” per fare il referendum non arriverà mai, perché nessuno può sapere se avrà bisogno delle “armi di politica economica”, delle quali gli Stati aderenti si stanno privando: il tasso di cambio, la politica monetaria e la discrezionalità nella politica fiscale.
E allo scopo di prevedere il futuro è irrilevante sapere se si rispettano oggi dei criteri di convergenza.
Infatti, “i criteri di convergenza riguardanti l’inflazione, la stabilità del tasso di cambio, i tassi di interesse, il deficit di bilancio e il debito pubblico sono tutti di natura monetaria ma non c’è alcuna garanzia che la convergenza monetaria genererà una convergenza reale delle nazioni europee”. Di più, per Thirlwall è probabile sia vero il contrario, “e cioè che una convergenza reale richieda una divergenza monetaria”, infatti le due principali variabili economiche non sono quelle monetarie, ma il tasso di crescita e il livello di disoccupazione [due variabili collegate].
Peraltro le differenze che contano per la vita delle persone sono state amplificate esattamente dalle politiche di convergenza monetaria. Questa è quella che l’autore chiama “la follia dell’Euro”.

A che scopo?

Il primo motivo addotto è promuovere ulteriormente il commercio in Europa riducendo i costi di transazione ed evitando le fluttuazioni dei tassi di cambio.
Come aveva detto l’anno prima Alberto Alesina, sul Corriere della Sera, “non c’è alcuna solida evidenza empirica che mostri che una molteplicità di monete e i tassi di cambio scoraggino il commercio”. Infatti non è difficile “coprirsi” contro i rischi derivanti dalle fluttuazioni delle valute, trasferendo una piccola parte del valore a società di servizio assicurative (il che, a livello macroeconomico non è un costo ma un trasferimento). Molto più rilevanti sarebbero le specializzazioni e la crescita complessiva del prodotto. Dunque, “se la moneta unica creerà una zona in deflazione in Europa, come credo che accadrà, l’euro [al contrario] comprometterà il commercio”. E, capolavoro di controfinalità, “potrebbe anche dare origine a sentimenti favorevoli al protezionismo”.
I piccoli risparmi che si verificano sui costi di transazione a vantaggio della redditività industriale (dato che il trasferimento interno alle assicurazioni è a carico del venditore che “si copre”), resterebbero “ben piccola cosa se confrontati con i potenziali costi derivanti per le nazioni dalla perdita della sovranità economica”.
Un piccolo esempio numerico, per capirci: se il paese A, vende 100 di merci al paese B, e compra da questo 50, sia nella prima ipotesi (necessità di “coprirsi” comprando a casa una assicurazione che incide il 2%) come nella seconda (nessun costo assicurativo) il saldo per i due paesi è lo stesso (+- 50); dato che il 2% è un trasferimento tra agenti economici interni e incide solo sulla redditività del capitale industriale (deprimendola) a vantaggio del giro di affari delle assicurazioni. E’ da notare che verso il resto del mondo non cambia niente. Alla fine è una partita interna (e minima), che alza un velo più che altro sui gruppi di pressione più rilevanti sul campo.

Thirlwall ribadisce che se anche lo scopo fosse di completare il Programma per il Mercato Unico [Single Market Programme] iniziato nel 1986 (cioè la svolta neoliberista della UE), “non c‘è alcuna ragione per cui la mancanza di una Moneta Unica dovrebbe impedire lo smantellamento delle barriere al commercio non tariffarie e la libera circolazione dei fattori della produzione, il lavoro e il capitale, se si ritiene che questa circolazione sia desiderabile”. Infatti la mobilità del lavoro dipende casomai “dalle opportunità di impiego, dai costi di trasporto, dalla disponibilità di abitazioni e dalle barriere linguistiche, non dal fatto che attraversando i confini nazionali si debba o no cambiare valuta”.

In effetti, come giustamente osserva, l’argomento che vede la Moneta Unica necessaria per il completamento del Mercato Unico “è, di fatto, il rovesciamento della tradizionale teoria delle aree valutarie ottimali [optimum currency areas] secondo la quale una area valutaria ottimale dipende essa stessa dal grado di mobilità dei fattori”. È come mettere un carro davanti ai cavalli, chiedendo agli stessi di spingerlo anziché tirarlo. Più o meno si muoverà, ma in modo molto inefficiente.
Con le parole di Thirlwall: “se la mobilità è bassa, in particolare se è bassa la mobilità del lavoro, una moneta unica non sarà ottimale perché potranno persistere grandi sacche di disoccupazione, riducendo il benessere”.

Qui c’è un punto, ovvero un presupposto nascosto che il nostro evidenzia: questa idea “presuppone che la mobilità dei fattori porti sempre ad un equilibrio”. Cioè che il benessere di tutti sia garantito sempre, in ogni luogo e tempo, dallo spostamento dei fattori produttivi dove sono marginalmente più efficienti. E’ un’idea da modello matematico, astratta come un’idea di Platone. In effetti è come se dicessi: mettiamo che la fabbrica (o il servizio “tradable”) A, nel paese Alfa, produca 100 utilizzando 20 lavoratori e 200 di capitale (impiegato in beni strumentali, acquisti e dotazioni finanziarie); e la fabbrica (o servizio) B, nel paese beta, produca 100 utilizzando 17 lavoratori e 180 di capitale (sempre in beni strumentali, acquisti e dotazioni finanziarie). Se metto in contatto ed in competizione, senza alcun freno o vincolo, e senza protezioni A con B ottengo che B assorbe la produzione di A, impiegando 34 lavoratori e 360 di capitale. Così è aumentata la produttività e la ricchezza.
Benissimo, ma la distribuzione? Si può parlare di equilibrio con il capitale impiegato nella fabbrica A che è in parte distrutto (la componente fissa) ed in parte assorbito da B; e con i lavoratori di A che sono disoccupati (e dunque inattivi)? Solo se da beta arrivano dei trasferimenti verso alfa (per i sussidi di disoccupazione) e il mercato si riadatta specializzandosi ulteriormente. Ma nel frattempo? Cioè in questo momento (sono cinque anni che viviamo in quel “e nel frattempo”).

Inoltre, come dice più che giustamente Thirlwall, “quando la migrazione dei fattori della produzione ha luogo dalle regioni depresse alle regioni più prospere, essa tende a mettere in moto delle forze cumulative che rinforzano lo [squilibrio] iniziale. [cioè] la domanda cade nelle regioni depresse e si espande nelle regioni prospere”. Il che è, diciamo, naturale.
Infatti, come abbiamo visto anche nel caso americano nell’ottima lettura di Moretti, “le imprese, quando decidono dove insediarsi, preferiscono i luoghi dove sono già insediate altre attività (per sfruttare le economie di scala esterne) e dove il mercato si espande più velocemente, a meno che non siano indotte ad andare altrove da sussidi generosi”.

Lo specialista di politiche regionali, cosa che sarei anche io da altra disciplina, ricorda a questo punto che “questa è l’essenza dei problemi regionali in tutte le nazioni, e il motivo che giustifica l’adozione di politiche regionali. Tutte le regioni, e le nazioni da questo punto di vista, funzionano in presenza di forti forze centrifughe che rafforzano il più forte e indeboliscono il più debole, arricchiscono il più ricco e impoveriscono (relativamente) il più povero”.
La verità è che il sistema non raggiunge equilibri (a meno di considerare tali la situazione di avere due o tre oasi lussureggianti circondate dal deserto) ma continuamente trasforma vecchie distribuzioni in nuove. In questo processo succede normalmente che infrastrutture (come gli acquedotti romani, investimenti del livello di più finanziarie italiane) vengano abbandonate, immensi capitali fissi distrutti e le relative popolazioni con essi. Lo scopo del Governo pubblico, che ai cittadini risponde, è rendere questi processi più graduali, invertirli se necessario, garantire che non siano condotti al prezzo di immani distruzioni e perdita di umanità (cioè di uomini e donne).

Aver dimenticato questo rende meno civile la nostra cultura.

Tra i mezzi che i Governi hanno per evitare questo disastro ci sono sempre state le “armi della politica economica”. Thirlwall usa a più riprese proprio questa parola: armi.
“Se anche la moneta unica fosse un aiuto per la mobilità dei fattori della produzione, la mobilità dei fattori della produzione non può essere considerata come una panacea per le regioni depresse o per le nazioni che non possono impiegare le armi della politica economica per proteggersi. Dopo decenni di emigrazione dal Nord al Sud della Gran Bretagna, e dal Sud al Nord dell’Italia, i divari tra le regioni in questi paesi sono rimasti notevoli”.
Quella che è stata descritta è, infatti, una forma di aggressione, di invasione. Dalla quale occorre proteggersi.

Poi c’è il secondo motivo: “promuovere l’unione politica che alla fine condurrà agli Stati Uniti d’Europa, per eliminare una volta per tutte la prospettiva dei conflitti intestini che per secoli hanno afflitto le nazioni europee”. Un esempio di political wishful thinking che respinge il buon senso economico.
Promuovere uno strumento come la Moneta Unica che è “profondamente antidemocratico [undemocratic]”, soprattutto in quanto “la Banca Centrale Europea non è tenuta ad alcun tipo di responsabilità democratica [democratic accountability]”, e che quindi affida armi delicate come il tasso di interesse ad “un gruppo di banchieri centrali non eletti”, che decideranno “senza riguardo per le circostanze specifiche di ciascuna nazione”. Viene meno qualsiasi possibilità di variare le condizioni di accesso al capitale a Madrid, a Monaco o a Milano.

Proponendosi per il “Premio Profeta 1998” Thirlwall dice a questo punto che “la disaffezione che nelle diverse regioni sarà causata dal deteriorarsi delle condizioni economiche, in paesi che non avranno più gli strumenti politici per affrontare le crisi economiche, può troppo facilmente trasformarsi in terreno fertile per il nazionalismo, per il fascismo e per il risentimento politico, come abbiamo visto nell’Europa degli anni Venti e Trenta. Sembra che coloro che ignorano la storia siano condannati a riviverla”.

“Questa è una ricetta per il disordine politico e la frammentazione dell’Europa”.



Una economia con un solo tasso di interesse per tutti i paesi che l’adottano, indipendentemente dalle condizioni economiche delle singole nazioni, e senza trasferimenti compensativi “può essere descritta solo come l’economia dei folli [economics of the mad-house, l’economia del manicomio]”.
Infatti il tasso di interesse è un’arma potente per influenzare il livello dell’attività economica, e in modo particolare il bilanciamento tra i consumi e gli investimenti e naturalmente “non c’è alcuna ragione per supporre che i cicli economici dei diversi paesi saranno mai così sincronizzati che tutte le nazioni richiedano nello stesso momento lo stesso tasso di interesse per regolare il livello dell’attività economica o il tasso di inflazione”.
Tra l’altro, se lo scopo fosse realmente la convergenza (cioè la riduzione degli squilibri di ricchezza e potere), e non il suo esatto contrario (come peraltro è evidente), sarebbe necessario che alcuni paesi crescano più rapidamente di altri. In particolare della Germania.
Cioè sarebbe necessario incoraggiare gli investimenti a spese dei consumi. In altre parole incoraggiare a fare più fabbriche e comprare meno BMW, cosa che “richiede in alcuni paesi dei tassi di interesse più bassi che in altri paesi”.

Invece il tasso della BCE sarà sempre un tasso di compromesso, orientato a ridurre l’inflazione (cosa per la quale è opportuno anche tenere relativamente alto il valore dell’euro) indipendentemente dalle caratteristiche locali del mondo del lavoro, della struttura produttiva etc. Cioè indipendentemente dal fatto che il trade-off tra inflazione e disoccupazione è diverso da paese a paese.
Con le sue gravi parole: “Gli individui all’interno degli stati nazionali aderenti alla moneta unica non potranno più decidere per loro stessi se desiderano che le loro economie si espandano o contraggano. I loro redditi, i prezzi dei loro prodotti, i prezzi delle loro case e i tassi dei loro mutui saranno decisi per loro. La privazione dei diritti civili conduce alla rivolta”.

Seconda follia è nel campo della politica fiscale. “Al vertice di Dublino del 1996 è stato firmato un Patto di Stabilità che impone agli stati aderenti alla moneta unica di non avere deficit di bilancio maggiori del 3% del PIL, pena una sanzione pari allo 0,2% del PIL incrementata dello 0,1% del PIL per ogni punto di deficit oltre il limite del 3%.
E’ allucinante l’analfabetismo economico dei funzionari che hanno potuto immaginare una formula così meccanica per punire una dissolutezza solo apparente. Se il deficit stesso è il risultato di uno shock recessivo, il Patto di Stabilità aggraverà la deflazione, e la multa, in condizioni di questo tipo, renderà ancora maggiore il deficit”.

Cosa simile si può dire per l’annullamento del tasso di cambio interno. Con esso non scompariranno gli squilibri regionali tra esportazioni ed importazioni, ma cesseranno di avere la naturale influenza che hanno sul cambio.
Se io compro una BMW da un concessionario, in regime di valuta diversa, questi vende delle lire per comprare i marchi con i quali fa l’ordine alla casa madre (il contrario fa la famiglia tedesca con il vino italiano). Se ci sono più acquisti di merci tedesche di quante ce ne siano di merci italiane, ci sarà una maggiore domanda di marchi rispetto alla lira. Dunque, per la legge della domanda e dell’offerta, semplicemente, la moneta più richiesta si apprezzerà rispetto a quella meno richiesta. Ma la svalutazione della lira conseguente (o la rivalutazione del marco, se preferite) porterà la prossima BMW a costare di più e il vino meno. Allora le case che fanno vino (e uva) avranno più ordini fino a che, esportando, si raggiungerà un nuovo equilibrio.
Tutto questo non succede più se, artificialmente, blocco il tasso di cambio. Allora l’unico modo è far costare meno il vino unilateralmente. Per fare ciò la disoccupazione è un effetto utile, in quanto induce una riduzione generalizzata dei salari e dei prezzi interni (in seconda battuta) che può riportare alle condizioni di competitività per via di impoverimento.

In effetti è come se gli Stati europei diventassero altrettante regioni interne. “Una moneta unica europea trasformerà de facto le nazioni europee in regioni, altrettanto prive di difese quanto lo sono le regioni all’interno di uno stato, con lo svantaggio aggiuntivo che il bilancio europeo per affrontare le situazioni di deprivazione materiale e di disoccupazione è molto più ridotto in rapporto all’area che probabilmente sarà colpita di quanto lo siano i bilanci nazionali in rapporto ai problemi regionali interni a ciascun paese”. Non è, infatti, stato previsto alcun meccanismo che automaticamente trasferisca e ridistribuisca risorse tra i diversi stati, come quello che, ad esempio, esiste tra gli Stati degli Stati Uniti d’America.

Naturalmente bisogna distinguere tra effetti congiunturali e di lungo periodo. L’adattamento del tasso di cambio verso il basso ha una “utilità limitata nell’incrementare permanentemente il tasso di crescita di un paese, a meno che non si riesca a mettere in atto un continuo deprezzamento del tasso di cambio reale, ma esso rimane una inestimabile arma per combattere gli shock interni ed esterni, o una competitività che si deteriori gradualmente”.

L’asimmetria della missione della BCE sulla inflazione (meno del 2%) fa sì che la stagnazione, di cui “il perseguimento della moneta unica è il principale responsabile”, continuerà.
E’ infatti “probabile che il tasso di interesse sarà fissato in modo tale da mantenere il tasso di inflazione al di sotto del 2%, senza riguardo per il livello della disoccupazione, e per mantenere un tasso di cambio forte così che l’euro possa competere con il dollaro come valuta di riserva”.
Tutto questo insieme al Patto di Stabilità Fiscale “rafforzerà le pressioni verso la deflazione”.

L’Euro, dunque, “non funzionerà e potrebbe provocare dei danni irreparabili alla causa dell’integrazione europea”.

Nomination al “Premio Profeta 1998”.


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