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lunedì 29 maggio 2017

Annette Bernhardt, Governare il sentiero di sviluppo tecnologico


In un forum del Boston Review sul “reddito di base per una società giusta” leggiamo l’intervento di Annette Bernhardt e (in un altro post) quello di Brishen Rogers. Nel pezzo di Rogers viene chiarito, nel contesto statunitense, come molto spesso il “reddito di base” sia proposto da punti di vista libertariani, anche agitando prematuramente e strumentalmente allarmi sulla fine del lavoro, mentre andrebbe inserito invece in un contesto di presa di potere dal basso del mondo del lavoro, sfidato e destabilizzato da nuove tecnologie il cui principale effetto non è di eliminare il lavoro, ma di deprezzarlo e renderlo servile.

Michelangelo Buonarroti

Mentre sul tema dell’attualità degli allarmi per una società senza lavoro guidata dalla tecnologia si può leggere il recente articolo di Mishel, sul quale magari faremo un altro post (anche per lo studioso della ripartizione dell’ineguaglianza la “questione robot” è per ora soprattutto una distrazione in parte intenzionale ed il tema è piuttosto tornare ad avere un buon lavoro, adeguatamente pagato), la Bernhardt mette il dito su un punto veramente centrale.

Questo è certamente un punto di radicale distanza dai “libertariani”, ma è ovvio che sono alla fine gli esseri umani che creano le nuove tecnologia. In linea di principio gli esseri umano possono modellarne quindi il percorso. Un punto simile lo sostiene Atkinson nel suo libro finale (di una intera vita) sulla disuguaglianza: non deve essere accettato fatalisticamente che il percorso dello sviluppo tecnologico sia quasi come un percorso della natura. E con esso l’automazione.

Come dice, invece, la Bernhardt un ordine del giorno progressista deve includere il controllo intenzionale, pubblico e democratico, del mix tecnologico, cioè: “il controllo di quali tecnologie sono sviluppate e per quali fini, e come esse sono incorporate nell’organizzazione del lavoro e della produzione”. Anche se qualcuno evocherà mentalmente le deviazioni iperburocratiche sovietiche, la questione che pone la studiosa americana, come quello inglese, è certamente cruciale e si può porre nei termini di questa alternativa:
-        la struttura della nostra vita comune deve essere eterodiretta da dinamiche e meccanismi lasciati al di fuori della nostra visione, comprensione e controllo (come vorrebbe Hayek in “Legge, legislazione e libertà”, la sua opera più coerente e matura)?
-        oppure l’impresa collettiva della civile cooperazione può essere portata sotto l’autonomo controllo umano?
Possiamo, in altre parole, essere liberi? Essere liberi, anzi, che cosa significa?

E’ libero chi sceglie, consapevolmente, le proprie azioni, mentre non può essere davvero libero chi si adatta passivamente alla struttura dei rapporti sociali, economici, e politici indotti dalla piattaforma tecnologica generale, vista come nuova natura ed a sé sovraordinata. Su questo punto si potrebbe tornare, anche se la questione non è affrontata direttamente, all’interessante studio di Axel Honneth “Il diritto della libertà”. Il lavoro presuppone, per essere liberamente accettato, una sorta di mutuo vincolamento e rispetto (Parsons), pur entro complementari obbligazioni di ruolo, o, come diceva Hegel, l’onore e la libertà civile.

Torniamo a Bernhardt, il focus sono gli effetti della tecnologia sul lavoro che, come evidenzia anche Rogers:
-        struttura le condizioni della qualificazione (o distruzione di competenza) delle attività esistenti,
-        sposta la domanda dei consumatori su sempre nuovi oggetti distintivi, attivando nuovi desideri e creandone la domanda,
-        integra la forza lavoro globale, aumentando enormemente l’offerta di lavoro (con immense conseguenze sul piano della concorrenza),
-        e consente outsorcing sempre più capillari, quindi disaggrega o aggrega anche su lunghe distanze.

Queste trasformazioni possono essere mitigate (ed il “reddito di cittadinanza” è una delle forme possibili); si può ad esempio dare assistenza formativa ai lavoratori sostituiti o spostati, oppure possono essere introdotte tasse sui robot (come propone Bill Gates). Ma bisogna notare che attraverso la via fiscale, in effetti, si va già oltre la mitigazione, si influenza la traiettoria: se fosse introdotta una tassa per la dequalificazione indotta dall’introduzione di tecnologia e nuove pratiche organizzative connesse, anche se come dice l’autore “le flotte di robot onniscenti sono a decenni di distanza”, questa sposterebbe i punti di convenienza economica ad introdurre, e quindi anche a sviluppare e persino a pensare, le stesse tecnologie. Come ricorda Atkinson era il punto di Hicks.
Certamente ci sarà bisogno, se si vuole andare in questa direzione, di una metrica, cioè di una capacità e prassi valutativa: potremmo usare il numero dei lavoratori disintermediati, la perdita potenziale di guadagni durante la loro vita (anche a causa del ricollocamento su percorsi professionali meno qualificanti o della durata di una disabilitante disoccupazione), gli impatti derivanti sulla salute, sui costi aggregati sanitari, sulla crescita ed i percorsi professionali ed umani di lungo periodo di figli e nipoti, … è la questione della path-dependence (dipendenza dal percorso) di molta parte della nostra economia e delle stesse biografie individuali inserite in essa.
Occorre quindi una tecnologia della valutazione molto sofisticata, e degli organismi corrispondenti.
Quel che è certo è che al termine di un simile filtro, probabilmente il punto di arrivo sarebbe diverso.

Per l’autore la cosa non si deve spingere fino al punto di seguire l’istinto di “ostacolare la tecnologia”, perché in tal caso si potrebbero perdere delle occasioni di migliorare effettivamente le condizioni di esistenza e anche di lavoro. La questione è che, come nella Fiat degli anni settanta, queste trasformazioni devono essere “argomento di contrattazione” entro i luoghi di lavoro con un sindacato denso e combattivo. L’esempio che viene fatto è la grande battaglia sindacale portuale all’epoca (anni sessanta e settanta) dell’introduzione dei container e della relativa logistica meccanizzata, che ha avuto un impatto assolutamente decisivo sulle condizioni di base della globalizzazione. Il sindacato dei portuali (ILWU) ha qui colto l’occasione per migliorare le condizioni di sicurezza, gli incentivi per il pensionamento anticipato, le pensioni garantite. Prossimamente faremo una lettura, grazie al contributo di Gianni Marchetto, sulle lotte operaie in Italia su questo terreno della sicurezza nel mondo del lavoro.

Naturalmente, non ogni volta si è di fronte all’introduzione improvvisa di una nuova infrastruttura tecnica di larga portata, la maggior parte del cambiamento tecnologico è incrementale, e colpisce i singoli micronodi. È fatto di molte piccole decisioni, “che riguardano cumulativamente requisiti di abilità, il mix dei compiti, la discrezionalità delle scelte individuali dei lavoratori, e le opportunità di promozione”. Anche qui si tratta di scelte che andrebbero condivise anche se sono individualmente meno visibili; è la questione della democrazia sul luogo di lavoro.
Inoltre, come è ovvio, tutti i settori sono connessi, per cui un’applicazione per la consegna dei pasti perturba l’intera catena di approvvigionamento alimentare nella quale magari si nascondono condizioni di violazione gravi e seminascoste.

Fortunatamente molta tecnologia di connessione ha la potenzialità di lavorare in più direzioni, non solo per mettere in contatto tramite la piattaforma consumatore con distributore, ma anche i lavoratori tra di loro. Chiaramente questa possibilità è accuratamente evitata, ma potrebbe essere imposta dalla legge, ricreando con mezzi tecnologici le condizioni di compresenza (almeno in parte) che erano la base di potere dei lavoratori nel trentennio glorioso.

In ultima analisi l’obiettivo dovrebbe essere il potere di essere considerati nello sviluppo stesso delle tecnologie e delle soluzioni.

In questa prospettiva le nuove arene di regolazione sono:
-        la regolamentazione diretta della tecnologia, ad esempio degli algoritmi che determinano sempre più i percorsi professionali, le assunzioni o i licenziamenti, o i prestiti, costringendoli a introdurre criteri etici e sociali tipizzati nella norma, o a considerare in vario modo il fattore umano.
-        Oppure la regolamentazione dei prodotti, ad esempio la classificazione di servizi come Uber (ne abbiamo parlati qui) che se fossero stati sin dall’inizio classificati come Taxi avrebbero avuto effetti (e diffusione) del tutto diversi. L’opacità delle informazioni utilizzate, e dei modelli di organizzazione dei dati, aiuta in questo ed altri casi a produrre distribuzioni di benefici, ed in alcuni casi prezzi predatori, che potrebbero essere legittimamente oggetto di regolamentazione, in riferimento agli obiettivi pubblici e la definizione di interesse corrente.

Il punto è che “dovrebbe essere possibile implementare la tecnologia in modo che valorizzi il lavoro umano e sia [insieme] economicamente sostenibile”. E quindi plasmare lo sviluppo stesso della tecnologia secondo una programmazione multistakeholders.

L’autore chiarisce che l’idea da coltivare è che il sentiero di sviluppo (orientato da una dipendenza dal percorso) della tecnologia, come di tutte le cose umane, non è dato ma è aperto a diverse possibilità; ci sono “più percorsi di sviluppo tecnologico” possibili. Bisogna quindi che l’estensione dell’attenzione, e dell’accesso, a più interessati dalle conseguenze dell’introduzione di un sentiero tecnologico favorisca alternative nelle quali si sviluppino soluzioni che lavorano con gli esseri umani per migliorare la produttività congiunta e non al loro posto. Cioè che siano disponibili per incrementale le scelte e non per automatizzarle.

Del resto le condizioni ci sono nella nostra attuale società: concretamente l’impresa della tecnica è in larga parte collettiva, il capitale privato normalmente finanzia solo l’ultimo miglio (lungamente insiste su questo Mariana Mazzucato).

È chiaro, ricorda Annette Bernhardt, che tutto questo richiedere un enorme investimento di potere, è dunque un progetto difficile, ma al contempo lo genera. E del resto anche qualsiasi distribuzione del reddito dopo la sua formazione (come il “reddito minimo”) ne richiede.

Vale quindi la pena concentrarsi sulle pre-distribuzioni (come insiste Robert Reich), e la più radicale di tutte è il sentiero di sviluppo tecnologico.


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