Nel blog, nei suoi quasi quattro anni, molte volte
siamo tornati sulla tecnologia. Serve una sorta di mappatura, potremmo partire da
una ricognizione/rilettura del libro di Brynjolfsson e McAfee del 2014 “La
nuova rivoluzione delle macchine”, e da quello di Tyler Cowen del 2013 “La
media non conta più”. Inquadrata in questo modo la ricezione americana del
tema dell’accelerato impatto dello sviluppo tecnologico sull’insieme dei
rapporti sociali connessi con il lavoro, potrebbe essere utile guardare l’uso
che fa di questa tesi, piuttosto radicale e sotto molti profili probabilmente
prematura Paul Mason nel suo fortunato libro “Postcapitalismo”
(con la sua tesi fondata sui cicli di Kondrat'ev). Tanto altro potrebbe essere
citato, e molti altri post (se provate, a digitare “tecnologia lavoro” nella
casella di ricerca escono oltre cento risultati), ma bisogna pur fermarsi.
Dunque potrebbe essere utile riprendere alcune letture sinteticamente fatte nel
post “Piani
di Lavoro Garantito o reddito minimo” ed in particolare le idee, sotto
molti profili contrapposte di Hyman Minsky e André Gorz, in sostanza + - lavoro
come risposta.
Ma veniamo al libro, molto fortunato e da allora
spesso citato di Brynjolfsson e McAfee. Gli autori, come Tyler Cowen e molti
altri (ad esempio Jerry Kaplan, o Martin Ford, ma anche rapporti della McKinsey,
la Bank
of America) sostengono che anche se tante volte la tecnologia ha sconvolto
la nostra società, e poi l’allarme è rientrato, questa volta è diverso. Questa
volta la rivoluzione tecnologica in corso coinvolge le funzioni più elevate del
lavoro, e non solo quelle manuali, o altamente ripetitive. Questa sostituzione
crescente, e da molti anni, è secondo loro il motore invisibile della crisi
delle società occidentali e della stagnazione. Specificamente è la causa
principale (anche se, ovviamente, non unica) della diversa ripartizione dei
profitti tra il capitale e il lavoro, quindi della stagnazione dei salari dei
lavoratori dipendenti e dei compensi di molti autonomi. La deflazione salariale
e la disoccupazione strutturale che sono al centro dell’attenzione politica, e
non da ora (e spesso viene annunciata come formule semplici come “fine della
classe media” e simili, ad esempio si può leggere il “discorso
sullo stato dell’unione” di Obama del 2015, che alla luce del risultato
delle elezioni di Trump di quasi due anni dopo mostra la portata del suo
fallimento). Certo ci sono altre ipotesi complementari (come quella della
“stagnazione secolare”, di Summers o Krugman), e ci sono le teorie che accusano
principalmente la finanziarizzazione e la globalizzazione, ovvero fattori
strutturali di tipo geopolitico.
Sono tutti fattori coinvolti, e del resto non sono
indipendenti.
Abbiamo appena letto la posizione
di Brishen Rogers che invita a focalizzare un ampio riequilibrio dei rapporti
di forza sociali e fatta una ricognizione
sui “piani di lavoro garantito” o sui “redditi di cittadinanza”, la cui scelta
in parte dipende da quale diagnosi cruciale si fa.
Guardando la cosa in modo tradizionale (ma Annette
Bernhardt, come Mariana
Mazzucato, hanno mostrato un modo nuovo e più corretto di guardare la cosa)
le implicazioni del ritenere che la stagnazione, la disoccupazione e la carenza
di domanda aggregata dipendano principalmente dalla direzione che prende la
tecnologia o, in alternativa, da scelte tecnico-politiche (come la
liberalizzazione dei capitali o quella del commercio, o l’indebolimento del
sindacato) hanno, infatti, una conseguenza: se il motore sono le innovazioni
non si può far niente, al massimo aiutare il sistema con qualche sovvenzione (il
dibattito allora propende per le “imposte negative”, o le forme di “reddito
garantito” più o meno incondizionato, vecchio cavallo di battaglia libertario)
e investimenti di base in istruzione. Dunque “politiche dell’offerta”. Se,
invece, il motore sono scelte fatte, bisogna verificarne gli effetti ed
eventualmente revocarle (questa ipotesi è quella alla quale al termine,
passando per la prima, ha scelto un vecchio frequentatore di questi temi come
Robert Reich, in “Come
salvare il capitalismo”).
Come sempre in un vasto dibattito ognuno ha qualche
buon argomento. Indubbiamente questo genere di problema non è nuovo,
l’innovazione tecnologica ed organizzativa ha sempre proceduto, per motivi non
del tutto chiari, a “pacchetti” ed a “ondate”, ed ha creato ogni volta
importanti sfilacciamenti e squilibri nel tessuto sociale e territoriale
consolidato. Normalmente ha anche avuto impatti geopolitici importanti, ha
creato “perdenti” (che talvolta erano i vincenti della fase precedente) e
vincenti. Le transizioni sono spesso state attenuate da politiche pubbliche
promosse al fine di non subire le conseguenze politiche (e di potenza) dello
slittamento, o di attenuarle. Ma, come sottolinea Mason, questa volta la
rinnovata ideologia del lassaiz faire e la sconfitta totale delle
organizzazioni dei lavoratori, per molteplici ragioni che ci porterebbero
lontano ma che abbiamo più volte tentato di guardare, ha impedito che questi
freni e contrappesi si attivassero.
Dunque Brynjolfsson e McAfee pensano che l’umanità,
anche a causa della prevalenza di nuove tecniche di grande impatto, sia sul
punto di un salto di efficienza e capacità produttiva paragonabile
all’introduzione della macchina a vapore, ovvero della prima rivoluzione
industriale. Per dare qualche dato: nel 1813 in Inghilterra erano presenti solo
3.000 telai meccanizzati (a vapore), e 250.000 artigiani tessili, in India
erano milioni; nel 1833 i telai erano diventati 100.000 e gli artigiani scesi a
200.000, in India cominciava la deindustrializzazione; nel 1860 i telai erano
400.000, gli artigiani erano spariti sia in Inghilterra sia in India. La
colonia assorbiva a questo punto il 30% della produzione inglese, dato che non
ne produceva più. Il drenaggio di risorse liquide dall’India alimentò
l’ulteriore industrializzazione inglese.
Ogni volta, è successo anche con l’elettrificazione,
tra la disponibilità della tecnologia e la sua esplosione passa qualche
decennio, perché alle innovazioni bisogna abituarsi, le catene logistiche vanno
ridefinite, e talvolta anche i rapporti di forza generali. Talvolta anche il
territorio e le città (e anche questa volta sarà l’impatto sulle macchine
territoriali che sovraintenderà all’ulteriore sviluppo).
La tesi degli autori è che i tempi siano maturi e che
l’impatto delle nuove tecnologie dell’informazione e dell’automazione (con
nuove generazioni di software intelligenti e potenti interconnessioni) abbia
passato “la metà della scacchiera”, quella dopo la quale la progressione si fa
immediatamente inarrestabile (“Legge di Moore”). In questo quadro tutti i ruoli
intermedi tendono ad essere falcidiati e si entra in una economia dove “il
primo prende tutto”. La distribuzione diventa a “a coda di potenza” (è la tesi
anche di Tyler Cowen, “la media non conta più”).
In questa situazione diventa necessario trovare il
modo di ripartire meglio le risorse, per non ritrovarsi in una situazione
simile alla Roma imperiale, in cui la distruzione della classe media (provocata
essenzialmente dagli effetti dell’apertura imperiale, e dai relativi flussi
commerciali e fiscali) determina la polarizzazione in una aristocrazia e una
plebe sussidiata, e sul lungo termine il declino dell’Italia, che, forse a
causa delle lue lunghe coste, era in precedenza il territorio più densamente
abitato e ricco del mondo conosciuto.
La disuguaglianza economica può provocare tracolli
politici (come si vede) e nel medio termine anche declino economico.
Alcuni pensano che (“legge di say”) alla fine il
capitalismo rigenererà ciò che ora distrugge, e la presenza di capacità
tecnologiche e produttive creerà una nuova domanda. Si possono guardare tre
momenti in cui emerse questo dibattito:
-
Gli anni trenta,
quando immense falangi di disoccupati (prima del crollo in borsa) si
accumulavano per effetto dello spiazzamento tecnologico in una società che
passava da agricola ad industriale e cambiava industrie. Keynes, in quel caso
(in una meditata conferenza, sulla quale aveva lavorato a lungo, “Prospettive
economiche per i nostri nipoti”, propose di considerare che la velocità
relativa di distruzione e ricomposizione della forza lavoro fosse la
spiegazione e richiedesse un’azione). La guerra risolse il problema.
-
Poi alla metà
degli anni sessanta (quando se ne occupa Minsky) la “rivoluzione cibernetica”,
come allora si diceva, ripropose il tema, il Presidente Johnson chiese un
rapporto e gli fu risposto che c’era il rischio per effetto della “combinazione
di computer e macchine automatizzate che si autoregolano”; una cosa che “sfocia
in un sistema di quasi illimitata capacità produttiva che progressivamente
richiede meno lavoro umano”.
-
Nel 1983 il premio
nobel Wassily Leontief rilancia l’allarme “il ruolo degli esseri umani come
fattore più importante della produzione è destinato a scemare allo stesso modo
del ruolo dei cavalli nella produzione agricola, all’inizio calato e poi
eliminato del tutto dall’introduzione del trattore” (cit. , p.188).
È un problema di velocità relativa, come dice Keynes,
ovvero, nel gergo degli economisti di elasticità relativa rispetto al prezzo e
rispetto all’offerta di lavoro.
Ma oggi stiamo sostituendo il cervello degli uomini, e
stiamo producendo sistemi che sono molto più abili di noi a compiere operazioni
concernenti alla fine l’esecuzione ripetitiva di routine specializzate, anche
sofisticate. Chi non è particolarmente abile nel pensiero astratto e
concettuale, e capace di interazione profonda e creativa con le routine
informatiche è tendenzialmente spiazzato o devalorizzato.
Come sostiene Tyler Cowen l’intelligenza
meccanizzata semplicemente aiuta a
fare molte cose in modo molto più economico; questo semplice ma potentissimo effetto andrà quindi a vantaggio di ciò che resta
scarso. Cioè dei terreni di qualità e dei territori pregiati (soprattutto
perché interconnessi e densi), della proprietà intellettuale e del lavoro di
qualità; mentre svantaggerà in modo decisivo il lavoro non qualificato, per il
quale crescerà la concorrenza, e il denaro non impiegato (che, infatti, sconta la tendenza a tassi bassi o negativi)
ed i territori marginali.
In questo nuovo ambiente troveranno, è vero, spazio
molti nuovi lavori nei servizi alle persone, ma tendenzialmente saranno poco
pagati (a meno siano di grande pregio e nei cluster più dinamici), e lavori nel
settore del marketing (dato che saranno rimescolati tutti gli assetti) come del
management (per la prevalenza di nuovi schemi
organizzativi basati sul lavoro di gruppo in remoto). Ma la tendenza generale,
già molto visibile, sarà per Cowen che il segmento centrale della distribuzione
dei redditi e dei lavori si assottiglierà sempre di più.
Quindi e progressivamente sistemi sempre più potenti sostituiranno tutti
quelli che non sono capaci di mettere in campo la magia di saper lavorare con
le macchine in modo profondo e creativo.
La prospettiva di Cowen è drastica: il futuro vedrà una ulteriore
polarizzazione e la prevalenza per la maggioranza di “salari malthusiani”
(insufficienti per vivere) che dovranno essere necessariamente integrati da un
“reddito minimo” che li metterà “sotto tutela” dello Stato. Le risorse saranno
prese dalla tassazione, ma moderata, delle macchine.
Qualcosa del genere accadrà alla scala geografica, intere aree saranno
“sotto tutela” e condannate al ruolo di consumatori più o meno passivi ed altre
saranno il concentrato (“l’hub”, che come ha mostrato Moretti,
tende sempre a concentrarsi e creare un effetto alone) della nuove economia
meccanizzata e interconnessa. In Europa vede chiaramente il primo destino per
il sud mediterraneo e il secondo per il “core” germanico.
Questa tesi, piuttosto radicale e forse prematura (nel
senso che la distruzione del lavoro non è ancora giunta a simili livelli, e
appropriate ed energiche politiche pubbliche possono ancora fare la differenza
sia nel riorientare la traiettoria della creazione di offerta di lavoro sia
quella dello stesso sviluppo tecnologico) è incorporata da Paul Mason nel suo
fortunato libro “Postcapitalismo”
in un molto più ampio disegno che è fondato sulla teoria dei cicli di
Kondrat'ev.
La lettura della crisi che compie lo scrittore inglese
è fondamentalmente ancorata allo sviluppo della tecnologia, che procede in
qualche modo “ad ondate” (lo studioso russo ricavava tale regolarità
dall’analisi dei dati in suo possesso, evitando di individuarla come legge ex
ante, ma proponendola come osservazione ex post). Mason, alla ricerca di una
prospettiva che escluda i decenni di caos che altri (da Arrighi a Streeck)
immaginano in arrivo, vede l’attuale crisi come sfasatura tra sistemi basati
sul mercato, non più adatti a suo parere alla piattaforma tecnologica
essenziale della modernità contemporanea, basata sull’informazione. È dunque la
tecnologia dell’informazione (che è a costo marginale nullo e quindi massimizza
la sua efficacia quando è largamente condivisa, dunque è nella sua essenza non
privatizzabile, ovvero ha valore d’uso senza avere valore di scambio) che in
qualche modo “erode il capitalismo”. L’economista di Chicago Paul Romer ha
delineato la risposta, se l’informazione non costa nulla bisogna possederla
tutta, ovvero la risposta per trarre valore da essa è essere l’unico detentore
(una idea che, come si vede, molti stanno attivamente cercando di attuare). Ma
il punto di Mason è che questa “soluzione”, per salvare la scarsità su cui si
basa il capitalismo come sistema di distribuzione e quindi potere,
sottoutilizza drasticamente il prodotto della tecnica. Se ha successo Romer
avremo un “infocapitalismo”, che incessantemente sarà all’opera per creare
nuovi bisogni e sottometterli al mercato, ovvero costantemente cercherà di
estendere e colonizzare nuove aree della vita mercatizzarle. Catturando quindi
ogni esternalità positiva dentro il circuito del valore di scambio.
Se, invece, durante una lunga transizione prevarrà una
economia dell’informazione completamente coerente, per Mason, avremo al termine
un “postcapitalismo”, in cui piccole isole di valorizzazione capitalista
residuali si troveranno immerse in un oceano fatto di reddito di cittadinanza
universale e incondizionato, economie della gratuità nel tempo liberato,
produzioni a costo marginale 0 e spese fisse già ammortizzate o coperte dal
pubblico (dunque gratuite e fornite a tutti), lavoro volontario, programmazione
dell’energia e delle risorse non sostituibili che resteranno gli unici beni
scarsi.
Mason va a sostenere una posizione in qualche modo a
metà tra Negri e Gorz, “la lotta di classe diventa lotta per poter essere umani
e istruiti nel proprio crescente tempo libero” (p.172) e la libertà dal lavoro è
quindi il vero obiettivo. Sono gli individui interconnessi e globali, come in
Drucker, ad essere i nuovi soggetti attivi “rivoluzionari”.
Certo questa utopia “infotech” al momento è molto
lontana da intravedersi, noi siamo alle viste, piuttosto, di una sorta di
ipercapitalismo finanziario-cognitivo in cui si contrappongono immensi e
inefficienti monopoli a scala mondiale e lavoretti “del cazzo” (la gig
economy). Un mix devastante e crudele di aziende giganti, pseudomercati
subalterni a forme di monopolio e monopsonio sempre più stretti, piattaforme di
comunicazione e scambio che ne sono il braccio armato, reti logistiche sempre
più intrecciate, lunghe e incontrollabili (e che incorporano investimenti
sempre più ciclopici), un sistema industriale enorme, ma decentrato,
incorporato nel modo di valorizzazione finanziario ed alle sue logiche, e
dedito a sfruttamento selvaggio delle “risorse umane” in esso catturate.
Naturalmente, anche enormi scontri tra blocchi continentali, finanziari e
commerciali, in attesa che le frizioni militari evolvano.
Ma l’abbondanza, che questa tecnomacchina ha la
potenzialità di generare (questo è il punto anche di Negri) potrebbe spingere
per Mason, o lo farà per dinamica e logica interna, ad uno sganciamento del lavoro dal tempo, del tempo di lavoro da
quello “libero”, del reddito dal lavoro. Molte merci (qui Mason sembra
lavorare, non marxianamente, con una concezione della merce come set in qualche
modo limitato, ovvero dei bisogni cui rispondono come limitati da qualche
“natura umana”) diventeranno gratuite, ma saranno ancora scambiate. Riemergerà,
insomma, una sorta di economia del dono.
Ma, vorrei obiettare, se una merce è gratuita non è
neppure più tale, e il suo scambio fuoriesce dal novero dell’economia (anche
del dono), abbiamo letto
Mauss. La merce è tale in una economia generale dello scambio, che presuppone
la scarsità ed il valore (effetto di sistema anche esso); ma le merci, come i
bisogni cui rispondono, sono sempre prodotti storici, e, muovendosi nella
duplice logica della soddisfazione e della distinzione, tendono costantemente
ad ampliarsi e differenziarsi. Merci,
doni, bisogni e desideri sono strutture dell’articolazione della società,
condizioni della sua esistenza stessa. Almeno in quella in cui viviamo. L’alternativa
sarebbe una società organizzata su un principio diverso, in cui questo collante
è presente ma non così centrale: gli esempi del passato parlano di società
organizzate da beni collettivi, erogati sulla base di strutture di autorità
(culturali, religiose e politiche) molto diverse e più potenti.
Certo, con ciò non intendo dire che il capitalismo è
l’unica modalità di organizzazione sociale possibile. In un articolo
di qualche tempo fa Wolfgang Streeck, conducendo un’argomentazione molto
concentrata sui nessi economici disfunzionali e non sulla tecnologia, ha
formulato dla diagnosi di una crisi sistemica che potrebbe portare il
capitalismo come lo conosciamo a “collassare da solo”. E senza alcun sostituto
organico. A suo parere, immaginare che un sistema termini quando un nuovo
erompe dal suo interno, superandone l’efficienza (idea alla quale sia Mason sia
Negri sono aggrappati) è, come dice, “un
pregiudizio marxista o meglio: un pregiudizio modernista che il capitalismo
come epoca storica si concluderà solo quando una nuova, società migliore sarà
alla vista, e un soggetto rivoluzionario sarà pronto per la sua attuazione per
il progresso dell’umanità”.
Tuttavia con l’assoluto indebolimento, prodotto dal
‘progetto’ della globalizzazione,
di ogni credibile e all’altezza dei problemi agenzia pubblica, immaginare un
nuovo progetto è obiettivamente difficile, il mondo che procede in modo
adattivo e con un’ottica di brevissimo termine.
Curiosamente, traguardando oltre il capitalismo
mercatista e finanziarizzato contemporaneo, entrambi guardano all’esempio della
caduta della struttura economica, sociale ed infine politica dell’impero romano
ed all’emergere del modo di produzione e di società medioevale (transizione
oggetto anche dell’analisi di Sassen). Ma Streeck, correttamente, enfatizza il
fatto che fu questione di secoli e che il crollo precedette di un paio di
secoli la visibile riorganizzazione. Il caos, ovvero lo scontro di molti ordini
contrapposti, dominò a lungo.
Qui sarebbe interessante leggere anche la proposta di
Arrighi, imperniata sul concetto di “egemonia”, ma ci porterebbe lontani e vale
la pena rimandarla. Mentre comunque il politologo italo-americano inquadra i
cicli sistemici sotto la chiave di “egemonie”, capaci quindi di organizzare e
gerarchizzare sistemi di relazione e modalità di produzione di surplus (che,
certo, utilizzano le tecnologie del loro tempo e da queste possono anche essere
favorite o sfavorite), e dunque si aspetta che ne emerga un’altra a riportare
ordine, il sociologo tedesco, in particolare in questo
altro contributo, vede nel consumo di merci il principio stesso di
organizzazione sociale (e quindi anche di legittimazione) delle nostre
disfunzionali economie e sistemi. Ma il consumo di merci è intrinsecamente
edonista, una fonte di legittimazione e produttore di ordine sociale, e
gerarchia, intrinsecamente non collettivo. Dunque la disgregazione sociale
proseguirà, e la tecnologia non ci potrà aiutare; una molla individualista ed
edonista, orientata alla creazione di soddisfazione per sé in qualche modo “contro”
gli altri (in quanto la sua diffusione ne distrugge il valore, che insiste
nella capacità del consumo di elevarci sugli altri), è per sua natura illimitata.
Qualunque sia la piattaforma tecnologica è il consumismo
la promessa fondativa del capitalismo (e ciò anche nel 1700, quando era
limitato a pochi).
Nel post “Piani
di Lavoro Garantito o reddito minimo” avevamo riassunto, tornando a termini
più vicini ed allontanandoci dalle lunghe visioni fin qui descritte, le idee
circa le azioni da produrre come risposta alla progressiva erosione della
società del (buon) lavoro nella quale, è abbastanza evidente, viviamo. Sotto
molti profili si tratta di proposte contrapposte, condotte anche con strumenti
intellettuali e disciplinari diversi: quella di Hyman Minsky e quella di André Gorz.
In sostanza rispondere con politiche pubbliche potenti, ma rivolte
rispettivamente a produrre più lavoro
(buono) o meno tempo di lavoro
socialmente necessario.
È chiaro che si tratta di coinvolgere l’insieme della
organizzazione economica e sociale, riguadagnando anche una egemonia alle
agenzie pubbliche, nazionali ed internazionali, senza la quale nessuna azione
progettuale è possibile. Ma si tratta anche di creare “buon” lavoro in misura
adeguata a sortire effetti macroeconomicamente rilevanti e di attivare l’effetto
di moltiplicazione intorno a sé e di addensamento (economico, sociale e
politico) messo in evidenza dalle migliori analisi di geografia economica (tra
le quali vale citare Moretti). Per fare un esempio, in Italia abbiamo 19
milioni di occupati nel privato (molti in condizioni di precariato e povertà),
circa 3 milioni di disoccupati totali e quasi 2 milioni (dei 14 “inoccupati”) di
scoraggiati, inoltre abbiamo 3 milioni di dipendenti pubblici. Una politica
efficace deve essere nell’ordine di milioni di posti di lavoro, il costo nell’ordine
di decine di miliardi di euro.
Ma uno sforzo simile deve creare “buon lavoro”
(contando sull’effetto trascinamento per richiudere la forbice tra l’attuale
12-15% di disoccupazione reale e un 4-5% considerabile “pieno impiego”, anche
se non “stretto”, come voleva Minsky). Farlo richiede tempo, il lavoro deve
essere utile e vero, altrimenti non produce coesione e “società”, ma incorpora
uno stigma che danneggia ulteriormente la situazione (e l’esempio dei LSU in
Italia sta lì a mostrarlo). Ciò significa che la strada dei lavori creati ad
hoc, utilizzando risorse pubbliche ma imprese private o miste, è da evitare.
Ma creare “buoni” lavori richiede tempo, dunque è una
politica che deve essere conservata per un certo tempo e con finalità
strutturali, e può essere accompagnata da una misura di sostegno più larga in
seguito progressivamente ritirata. A chi obiettasse che abbiamo già tanta
occupazione pubblica inviterei a guardare i numeri, siamo sotto la media
europea e a meno della metà dell'incidenza del vertice europeo (Svezia, 12%).
Nel tempo, se ha ragione Mason e la tecnologia erode
costantemente il valore delle cose e la dinamica distruzione di lavoro/ricreazione
non si ribilancia, potranno anche essere tentate le strade proposte da Gorz
della riduzione dell’orario di lavoro (a parità di reddito), ma occorre che le
forme di socializzazione alternative facciano strada.
A questo punto abbiamo dato uno sguardo più esteso al
tema.
La fenomenologia
dello sviluppo tecnologico in corso vede in tempi più o meno veloci la
probabile eliminazione della gran parte dei lavori di contatto in remoto
standardizzabili (come i lavori di applicazione algoritmi e procedure, o i
flussi operazionali, o come i lavori di ricerca ed interpretazione di dati e
testi almeno al livello basico), o i lavori di manipolazione e quelli
logistici; e in un tempo più lungo, ma per alcuni comunque nell'ordine di pochi
lustri, anche i lavori di interpretazione di schemi e pattern, quelli di
problem solving a livello standard (ripetizione o applicazione di schemi
collaudati, anche a nuovi casi); quindi tutti i lavori meramente produttivi di
massa, ogni attività di controllo e guida di macchine, …
Ma vede anche il ridislocamento e decentramento dei
processi produttivi, non solo industriali ma anche di servizio e professionali,
è la generalizzazione del “modello
piattaforma”, che con la cosiddetta “industria
4.0” si estende a tutti processi produttivi anche hard, provenendo da
quelli soft.
Sono dunque le relazioni tra la capacità di
standardizzare, uniformare e tradurre ogni cosa dell’informatica evoluta (IA), le
potentissime infrastrutture di comunicazione, connesse con la sensoristica
diffusa che si sta estendendo, e il macchinismo, che rendono dirompente il
salto di paradigma.
L’assoluta insufficienza, per fare fronte alla
ridislocazione di molti nel novero degli inutili e degli obsoleti, del “modello
supermarket”, come lo avevo chiamato in un vecchio post,
cioè della libertà come consumo ed accesso, scelta dallo “scaffale”, mentre l’individuo
si restringe nel suo ruolo sociale e subisce l’offesa della sua inutilità,
esplode con tutta la sua evidenza. Né lo scambio apparentemente gratuito sulle
piattaforme proprietarie della infrastruttura di potere mondiale, può surrogare
quella possibilità di “essere-con-l’altro” (e quindi, come dice Hegel, ‘essere
presso di sé nell’altro’), che presuppone uno scambio più profondo ed un
contributo comune all’opera collettiva. Presuppongono l’esistenza di un’opera
collettiva.
Per entrare più nel merito servirebbe una teoria della tecnologia che ne individui
le sistematiche relazioni con i linguaggi astratti, il razionalismo e l’utilitarismo,
ma anche gli effetti necessari in termini di riduzione a pensiero lineare e
algoritmizzazione del mondo. Magari ci ritorneremo.
Quel che si può intanto dire è che le tecniche non
sono qualcosa che galleggia isolatamente, ma sono create insieme a pratiche,
teorie, dinamiche sociali, sistemi di potere e di relazione preferenziale (un
esempio di esplorazione intorno ad una tecnica, la cartografia, nel suo rimando
a metodiche di controllo e creazione di nuovi organismi territoriali e
politici, ma anche a concetti e pratiche e saperi altamente specializzati, è qui).
E generano, ma insieme ne sono prodotte, effetti di potere al contempo orientando
esigenze e desideri. Non si può, nulla si capirebbe, disegnarne quindi una
fenomenologia separata da questa rete di rimandi costitutiva. Bisogna avere di
mira ciò che funziona e come lo fa,
ed anche come fa cosa (ed
eventualmente reifica).
Abbiamo visto, necessariamente per accenni, che lo sviluppo
della tecnologia ha conseguenze molteplici:
-
macroeconomiche
(impattando in modo decisivo sul valore relativo delle merci, e quindi anche sulla
distribuzione del potere, sia in chiave di sistemi mondo, sia di società ed
economie singole);
-
sociali e organizzative (lo spostamento dei rapporti e del peso reciproco tra
le diverse forme di lavoro, e tra le componenti diverse della società);
-
antropologiche (favorendo
l’emergere o l’inibizione di abilità e di forme logiche entro le quali si
sviluppa il tipo umano dominante).
Ma ha anche a che fare con l’insieme dell’organizzazione
della forma di vita, ovvero in questo caso con il capitalismo come impresa
sociale, e con la forma astratta del valore e la sua riproduzione, cioè con il
capitale.
Dopo questa analisi (che andrà ripresa ed approfondita),
si potrebbe stringere radicalmente intronao a due macroipotesi; se lasciata a
se stessa, alla sua dinamica endogena, la tecnologia, seconda natura dell’uomo,
potrebbe determinare:
-
se prevale la
tendenza alla mercatizzazione sempre
più profonda, invadendo e colonizzando ogni area disponibile (potremmo
chiamarla “ipotesi Luxemburg”) attraverso l'estensione dei monopoli
dell'informazione e del mondo del controllo (anche attraverso le forme di
sharing su piattaforme proprietarie e le infrastrutture della Iot territoriale,
oltre che della burocrazia 4.0), avremo il mondo di Tyler Cowen;
-
se prevale
inaspettatamente la liberazione ottenuta per via dell'abbondanza e del
emporwement che ne potrebbe seguire (con la liberazione dal lavoro e la trasformazione dell'umano, più o meno “desiderante”), avremo
il mondo di Mason.
Francamente mi pare una buona ragione per non
lasciarla a se stessa.
Una conversazione su questo tema:
Una conversazione su questo tema:
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