Per ripercorrere alcuni nodi cruciali attraverso testi
presentati nel blog nel corso del tempo potrà essere utile guardare agli
interventi sulla “globalizzazione” di Joseph Stiglitz e di Dani Rodrik, ma
anche alle classiche analisi di Saskia Sassen e a qualche altro intervento
significativo, come il testo di Moretti.
Stiglitz era stato da poco Capo Economista della Banca
Mondiale quando scrive, nel 2002, un aspro libretto sulla globalizzazione del
“Washington Consensus”, un libro a ridosso dello schock delle crisi asiatiche e
dell’ampia ondata di turbolenze finanziarie che precedono e seguono: “La
globalizzazione e i suoi oppositori”.
Ma torna sul tema con un altro libro nel 2006, “La
globalizzazione che funziona”, nel quale intravede la tempesta che
si avvicina. Il punto di attacco, sul quale torna spesso (ad esempio nel
recente articolo “Il
lato sbagliato della globalizzazione”) è l’analisi di accordi commerciali iniqui
e distorsivi guidati dalle aziende multinazionali.
Dani Rodrik nel 2011 scrive un fondamentale libro
sulla globalizzazione, che critica abbastanza aspramente la finzione che il
libero mercato sia sempre a vantaggio di tutti e propone il suo famoso “trilemma”.
È “La
globalizzazione intelligente”. Ma sul tema tornerà spesso, di recente in
alcuni importanti articoli
sul libero scambio ed in un paper
sull’uguaglianza globale e nazionale.
Enrico Moretti scrive nel 2012, un libro che ha avuto
notevole risalto “La
nuova geografia del lavoro” che letto in questo contesto può aggiungere
concretezza all’analisi.
Quindi ci sono i fondamentali testi di Saskia Sassen,
una delle più acute interpreti della mondializzazione da un punto di vista a
cavallo tra geografia economica, economia politica, sociologia: il primo è “Città
globali”, del 1991; quindi “Territorio,
autorità, diritti. Assemblaggi dal medioevo all’età globale”, del 2008; “Espulsioni.
Brutalità e complessità nell’economia globale”, del 2014.
Qualche attenzione si può prestare anche al libro
Yanis Varoufakis “Il
Minotauro globale”,
Da un altro lato si potrebbe guardare, per dare conto
del punto di vista neoliberale, il recente libro di Richard Baldwin “La
grande convergenza”, ed i libri di Parag Khanna (in particolare
“Connectography”, sui quali dovremo tornare con calma). E il libro di Michael
Spence “La
convergenza inevitabile”, del 2012.
Lo schema che propongo di porre al
centro dell’attenzione è semplice; a partire almeno dagli anni settanta si
rafforzano a vicenda:
1. una crisi
degli assetti di potere mondiali, con l’egemonia americana sfidata
dagli effetti della decolonizzazione ed i maggiori “costi di protezione”
(l’esempio principe è la guerra del Vietnam) che ne conseguono. Per
interrogarla in modo più profondo faremo delle letture, come indicato in “La
grande Partita”.
2. l’avvio di
una trasformazione strutturale profonda nelle tecnologie produttive, che si può
sintetizzare nel termine “informatizzazione”, e che non è solo meccanizzazione
ed automazione, ma soprattutto standardizzazione e comunicazione;
3. gli effetti
di una crisi di accumulazione, per l’effetto della concorrenza e
della pressione fiscale e sociale indotta dal mondo del lavoro, al termine di
un lungo e vittorioso ciclo di lotte in tutto l’occidente, che determina una
“insopportabile” (dal punto di vista del capitale) caduta del saggio di
profitto;
4. le
conseguenze di un’acuta crisi fiscale, che deriva dalla crescente
difficoltà a gestire gli squilibri determinati dalla crescita e dalla
trasformazione in corso dell’economia.
In modo molto pronunciato viene
portata al centro della scena una élite in parte nuova, che organizza e
attraverso la quale circola un nuovo potere in qualche modo selvaggio. Una capacità estrattiva che
si manifesta con immane potenza attraverso il concatenamento di ruoli in
strutture che contribuiscono anche a fare e definire nuove persone, insieme ai
loro saperi e discorsi. In modo molto sintetico il potere di estrarre valore
praticamente da ogni cosa, e di mercatizzare ogni rapporto, vede al centro un set
di attori identificati dalla loro appartenenza ai circuiti della ‘alta finanza’
(l’attore centrale di ogni globalizzazione) e dell'industria monopolistica
dedita all'esportazione, quelle che Crouch chiama “imprese giganti”. Ma anche
gli “intellettuali”, in senso gramsciano che servono a connettere questo
ristretto club (probabilmente nell'ordine di qualche decina di migliaia di
persone) con quello che si potrebbe chiamare un ‘blocco sociale deflazionario’ che ne è la base effettiva. Questi “intellettuali”
fungono, cioè, da relè (il termine è
usato da Crozier nell'analisi delle organizzazioni) e possono essere
individuati in alcuni strati politici trasversali, ovviamente dal sistema dei
media, ma anche da molti tecnici strategici (come molti economisti, analisti,
burocrati) che innervano e funzionalizzano le ‘vecchie’ strutture degli Stati
Nazione. In questo modo si arriva probabilmente a qualche singolo milione di
persone nel mondo (Castells li stima in cinque). Le arene in cui questo potere
circola, e viene prodotto, sono organizzate dal principio centro/periferia.
Il ‘blocco sociale deflazionario’ è invece composto da coloro che per
posizione nella distribuzione della ricchezza (rentiers) e struttura del
reddito (fisso e garantito o da pensione), hanno interesse oggettivo ad una
struttura economica rivolta a creare inflazione negativa o nulla, anche al
prezzo di stagnazione e disoccupazione, che tanto non li tocca. A questo
potrebbero appartenere almeno un centinaio di milioni di persone.
Sono per loro che i restanti
miliardi vivono e soffrono nel distopico ‘mercato’ del lavoro contemporaneo.
Venendo al quadrilatero di fenomeni
sinergici prima elencato:
-
La prima tensione induce la potenza imperiale a
cercare di spostare i costi di protezione sugli alleati (denunciando lo schema
sul quale era stato impostato il dopoguerra), attraverso la rinuncia
all’ancoraggio delle valute mondiali al dollaro (e di questo, in linea di
principio, all’oro). Nel 1973 Nixon, per fottere gli alleati (come si esprimerà
un senatore americano), dichiara unilateralmente la non convertibilità. Da
allora un dollaro si può cambiare, andando alla FED, ma solo per un altro
dollaro. Dopo alcuni anni di tensione valutaria e di disordine le politiche
avviate da Reagan (e Volker, con la sua lotta all’inflazione e la politica dei
tassi alti) richiamarono i capitali che negli anni cinquanta e sessanta
sembravano utilmente diretti alla crescita del “terzo mondo”. Ma bisogna
considerare tra gli effetti dei mutati rapporti di forza e della
decolonizzazione anche l’incremento del costo delle materie prime, che monta in
particolare ma non solo per il petrolio con la formazione dell’OPEC.
-
La
seconda tensione, nel contesto del campo
della prima, crea la possibilità di organizzazioni produttive più flessibili e
decentrate, e quindi anche di un radicale allargamento del campo di azione
delle aziende più grandi e forti. Ma al contempo crea una sempre crescente
disoccupazione tecnologica, che vede il numero degli addetti all’industria,
nucleo emotivo e organizzativo della società “fordista”, calare costantemente
ed irresistibilmente. E quelli al terziario ed alle attività di servizio di
vario genere (sia nel settore pubblico sia nel privato) crescere. Uno degli
effetti più importanti di questa trasformazione strutturale è la perdita di
potere dei lavoratori e delle loro organizzazioni, ma anche dei partiti di
massa che ad essi si riferivano. Quindi una mutazione nei rapporti di forza
politici e nella stessa conformazione dei partiti politici (a sinistra la
“terza via” di Blair e Clinton è espressione del tentativo di adattarsi a
questa condizione).
-
La terza tensione, che si mette in fase con le altre due, è il portato della
stagflazione degli anni settanta ed insieme una delle cause, il capitale
“sciopera” (come dice Streeck) fuggendo dagli investimenti e dalla repressione
fiscale che in una prima fase viene tentata (sia in America, sia in Europa). La
resa degli stati nazionali (anche dei potenti Stati Uniti d’America, per non
parlare della Francia di Mitterrand o della Germania di Schroeder) porta
all’avvio della lunga fase di deregolazione (a partire dal settore finanziario,
al centro della fuga) che crea l’ambiente migliore per il recupero del saggio
di profitto, a danno soprattutto del lavoro (cioè della quota salari, che da allora
non recupera più gli incrementi di produttività in quasi tutti paesi e che
perde circa il 10% rispetto alla quota profitti).
Questa soluzione “ad hoc”, strettamente adattiva ed a corto
raggio, non progettata ma in qualche modo ‘trovata’, produce però le condizioni
di base per la condizione di stagnazione-contrazione contemporanea, dato che
distrugge le condizioni di sostenibilità della domanda interna in tutti i paesi “sviluppati”.
-
La quarta tensione, che spesso viene vista isolatamente, è il portato delle
precedenti. La funzione pubblica non riesce a tenere dietro alla velocità di
queste trasformazioni e si trasforma da elemento propulsore ad essere accusata
di essere il freno conservatore. Nelle condizioni di irresponsabilità e
mondializzazione del capitale, inoltre, ha crescenti difficoltà a conservare
l’equilibrio. Dunque fallisce nel contrastare ed attenuare gli effetti della
trasformazione tecnologica in corso (e che accelera negli ultimi anni), con
gravissime conseguenze sul piano della coesione e tenuta sociale (e politica).
Cinque anni simbolo possono essere
citati in questo contesto: 1971, 1980 e 1989, 1995, 2001. Nel primo anno viene
rotto l’accordo di Bretton Woods, nel secondo prende l’avvio la “rivoluzione
reaganiana” (anticipata da quella della Thatcher), nel terzo crolla il sistema
sovietico (poi completato nel 1991), nell’ultimo la chiusura del negoziato
dell’Uruguay Round e la nascita del WTO, da ultimo nel 2001 la Cina entra nel
WTO e parte la fase di accelerazione della mondializzazione.
Intorno a tali date e fenomeni ha
preso forma un nuovo compromesso sociale a rapporti di forza
invertiti, rispetto a quello del “welfare state”. Nel contesto di
un’impostazione economica essenzialmente deflattiva, si crea la condizione per
un allargamento della base produttiva, con il coinvolgimento di centinaia di
milioni di nuovi lavoratori, che produce effetti molteplici sia sulla
distribuzione sociale sia sui costi dei beni industriali e quindi sul consumo.
A partire dagli anni settanta, e via via più velocemente, calano i prezzi
relativi dei beni industriali di massa e questo, malgrado l’erosione del
reddito della parte attiva della popolazione, crea sia una sensazione crescente
di ricchezza diffusa sia il fenomeno sociale e culturale del “consumismo”.
Dunque le condizioni per la creazione di un consenso su nuove basi: sul
consumo anziché sul lavoro.
Questa trasformazione, incoraggiata
dalla gestione del debito e del credito (a sua volta effetto logico e
operativamente conseguente della presa di centro della finanza nel sistema di
produzione-mondo post Bretton Woods e post deregolazione), crea le condizioni
ideali per l’azione delle grandi aziende multinazionali che si moltiplicano in
numero e capacità di influenza. In questi anni si verifica in sostanza
un’esplosione dell’investimento diretto all’estero e, in conseguenza, di nuove
aree economiche bersaglio di tali investimenti. Malgrado alcuni “incidenti”
(come le crisi degli anni novanta nei paesi emergenti in centro e sudamerica,
come nell’est asiatico), si afferma un “internazionalismo” capitalista che ha
anche fortissime intonazioni morali e che determina una sorta di nuova
“egemonia” culturale e politica. E’ questo l’ambiente di cultura del liberismo.
L’invito ad “arricchirsi” che è rivolto contemporaneamente ad alcune élite
connesse in occidente ed alle masse cooptate nell’ex “terzo mondo” (ora
“regioni di convergenza”).
La perdita
di quota salari, e l’aumento dell’ineguaglianza, in occidente determinata
dalla concorrenza estera caricata sul lavoro (mentre il capitale si sposta
liberamente), viene attenuata e gestita da due dinamiche concorrenti: la deflazione dei prezzi dei beni prodotti
all’estero, e la facilitazione del
debito.
Per
qualche anno questo nuovo equilibrio (che è anche un compromesso sociale, che
Bernake ancora nel 2004 elogiò come “Grande moderazione”)
cammina e sembra avere successo. Ma così si crea e consolida un anello
autorafforzante:
-
deregolazione/flessibilizzazione;
-
disinvestimento in occidente nei
settori produttivi, creazione di capitale mobile eccedente derivante dai
profitti ed investimento diretto all’estero;
-
riduzione della quota salari ed
indebolimento della domanda;
-
stagnazione o bassa crescita quasi
interamente nominale (imputata ai servizi finanziari);
-
deflazione dei prezzi;
-
riciclaggio di parte della finanza
eccedente in credito facile per sostenere i consumi;
-
creazione del consenso necessario per
proseguire con flessibilizzazione, deregolazione e contenimento costi ai fini
della competizione sui mercati esteri.
In
particolare il “quadrilatero” sul quale si fonda il consenso popolare che la
mondializzazione condotta dal capitale, ed utilizzata dagli Stati Uniti per
rinsaldare il proprio controllo del mondo e trarne il tributo che gli consente
di conservare l’equilibrio politico è formato da quattro principali elementi:
-
il
credito facile, che si afferma come principale mezzo di
accesso a consumi e investimenti (si espande l’uso di carte di credito, sempre
più estreme, gli acquisti a rate, i vari mutui, etc…);
-
l’espansione
del consumo, trainata da un’innovazione tecnologica che
penetra nella vita quotidiana attraverso l’elettronica di consumo (stereo,
televisioni, computer personali, telefonia mobile, internet, device ibridi) e
la stessa mondializzazione (che espande costantemente lo ‘scaffale’ con
prodotti esotici e variazioni innumerevoli, trasmettendo l’impressione di una
rinnovata ricchezza);
-
la
stabilità dei prezzi, che protegge i redditi acquisiti e i
capitali grandi e piccoli, con un progressivo spostamento delle spese dai beni
materiali (che hanno una tendenza deflazionaria per tutto il trentennio) ai
servizi a rete e finanziari, più o meno monopolistici (che arrivano ad incidere
molto significativamente sulle spese familiari tipiche, portandosi subito
dietro a quelle per la casa);
-
l’edonismo
individualista, che viene registrato da ogni indagine (ad
esempio si veda Inglehart “La
società postmoderna” e Giddens in “Identità
e società moderna”, quando parla di “politica della vita” e di “economia
della post-scarsità”), l’aumento del rischio viene venduto come stimolante ed
energizzante da un ethos che vede solo identità multiple, mature e coraggiose e
cosmopolitismo visto come trionfo della ‘modernità’ ed ‘avanzamento’.
Questo
anello, progressivamente, erode le condizioni di vita di parte sempre maggiore
della popolazione attiva in occidente e rende alla fine instabili le nostre
società. Man mano che guadagna forza, come un tornado, risucchia le forze e
determina un colossale spreco di vite e risorse.
I
cantori non se ne avvedono, ma scavare sotto le strutture del welfare state e
delle politiche economiche di sostegno della piena occupazione, demandando a
nuovi attori “indipendenti” (vere e proprie strutture di disciplinamento
istituite in e tramite mercati globali, come le Banche Centrali, gli organismi
ibridi dell’Unione Europea, le stesse ‘istituzioni di Bretton Woods’ ormai
asservite al nuovo credo) l’inibizione delle forze sociali che avevano
costruito la modernità non può che determinare un nuovo ambiente di potere. Nel
quale l’individuo perde quella base di sostegno che è al fondo presupposta come
permanente nella logica del discorso della “terza via”. E senza la quale il
“rischio” non è più tollerabile e la libertà si limita al colore del vestito
che si può ancora comprare.
Veniamo
adesso alle letture su questo vasto tema.
Nel 2002
Joseph Stiglitz scrive, come abbiamo detto, “La
globalizzazione e i suoi oppositori”.
L’ex
capo economista e consigliere del primo Clinton, ricorda che le cosiddette
“Istituzioni globali” che sono al centro della sua attenzione (il FMI, la BM,
l’Ocse, il WTO, per dire delle principali), nei trionfali anni novanta hanno
promesso prosperità a tutti; quando sembrava che l’occidente avesse vinto ogni
possibile battaglia strategica e culturale, ed il capitalismo anglosassone si
avviava a dominare ogni parte del mondo (un bel ritratto è stato compiuto dallo
scrittore pakistano Moshin Hamid in “Il
fondamentalista riluttante”) la legittimazione delle politiche imposte da
Washington è stata ottenuta in questa moneta. Ma questa storica promessa del
capitalismo è stata bugiarda, in realtà la prosperità era per pochi. Come dice
hanno tenute le redini ben strette, “facendo
ben attenzione a trarne il massimo dei vantaggi, a spese del mondo in via di
sviluppo” (S. p.6).
I
negoziati sono stati sempre dissimmetrici, i deboli (non la Cina, che si è
guardata molto bene dal praticare il “Consensus”) hanno dovuto aprire i mercati
e deregolare ogni settore, mentre i forti hanno potuto conservare isole di
protezione preordinate ai blocchi di consenso più forti (l’esempio principe è
l’agricoltura). Stiglitz denuncia che con il protocollo commerciale del 1995
(le tornate negoziali sono state: Ginevra, 1947 firma GATT; Annecy, 1949,
riduzione di 5.000 tariffe doganali; Torquay, 1950, taglio del 25% di 8.700
tariffe doganali; Ginevra II, 1956, 2,5 Mld $ di riduzione tariffe ed
ammissione del Giappone; Dillon, 1960, riduzione tariffe doganali per 4,9 Mld;
Kennedy, 1964, riduzione tariffe doganali per 40 MLd; Tokyo, 1973, riduzione
tariffe doganali per 300 Mld; Uruguay, 1986, creazione OMC, importanti
riduzioni tariffe ed allargamento raggio di azione; Doha, 2001, non concluso e
abbandonato) l’effetto netto risultante è
stato la riduzione degli introiti dei paesi più poveri rispetto al loro deficit
per importazioni. L’Uruguay Round, ad esempio, ha fatto notevolmente
aumentare i profitti delle industrie farmaceutiche occidentali (una parte del
negoziato ha interessato i diritti di proprietà intellettuale, cioè i brevetti),
si tratta infatti di un regime di proprietà intellettuale non equilibrato, “in quanto riflette in modo preponderante gli
interessi e il punto di vista dei produttori anziché degli utenti”.
I
prezzi pagati per questo tour de force sono stati:
-
distruzione accelerata dell’ambiente,
-
corruzione della politica, per effetto
delle immense somme a disposizione delle lobby,
-
spiazzamento culturale per la velocità del
cambiamento.
La
Globalizzazione, infatti, sostiene Stiglitz, è guidata dalle multinazionali,
che fanno circolare merci e capitali, ma anche tecnologia e competenze.
Ma
vediamo meglio queste “Istituzioni”:
-
Il FMI (che è una creatura di Keynes e
della Conferenza di Bretton Woods) ha come missione di evitare una nuova
depressione a livello mondiale, e si basava all’origine sulla
consapevolezza che i mercati da soli non funzionano sempre bene, e possono
avere bisogno di risorse derivanti da un’azione collettiva economica a livello
mondiale. Si tratta di una Istituzione Pubblica, finanziata dai contribuenti di
tutto il mondo, ma risponde ai Ministeri delle Finanze ed alle Banche Centrali
dei vari Stati, in base ad un sistema di votazione legato alle quote di forza
economica uscite dalla II Guerra (recentemente è stato aumentato il peso
“azionario” della Cina). Gli USA hanno potere di veto. L’organismo è passato
negli anni da essere una Istituzione Pubblica nata per prevenire i “fallimenti
dei mercati” ad una posizione di fervente sostegno ideologico ad una totale
supremazia del mercato. Da politiche
espansive è quindi passato a consigliare solo politiche di contenimento dei
deficit, di aumento delle tasse o aumento dei tassi d’interesse. Questo
cambiamento radicale è avvenuto negli anni ottanta, durante i quali ci fu
“un’epurazione” entro il Dipartimento di
Ricerca della Banca Mondiale,
alla cui guida fu chiamata Ann Krueger per la quale il problema dei paesi in
via di sviluppo era il loro governo e la soluzione il libero mercato. Si formò
quindi il cosiddetto “Washington
Consensus”, un’identità di vedute tra FMI, Banca Mondiale e Dipartimento
del Tesoro degli USA, circa le politiche <<giuste>> per i paesi in
via di sviluppo. Per cui nella pratica è frequentemente successo che
l’abbassamento di qualsiasi protezione all’industria locale, anche quando
estremamente vulnerabile a più forti aziende e prodotti esteri, ha di fatto
distrutto i posti di lavoro locali, mentre le rigide politiche monetarie
imposte per prevenire l’inflazione (anche dove non c’era) hanno impedito la
formazione di nuovi lavori, a causa di tassi punitivi, infine l’assenza di reti
di sicurezza –causata dalla necessità di contrarre il ruolo dello Stato- ha
fatto il resto. Chi perdeva il lavoro non ne trovava un altro e sprofondava
nella povertà. Anche l’apertura ai capitali, con sistemi finanziari locali mal
regolati e spesso deboli, ha portato in genere caos e infiniti abusi.
Più sistematicamente,
nel testo di Stiglitz vengono elencati sostanzialmente i seguenti effetti
negativi delle politiche del “consensus” portate avanti da FMI e BM:
-
l’<<apertura del paese agli
investimenti esteri>>, se condotta senza le necessarie precauzioni e
gradualità, porta alla distruzione dell’ambiente produttivo locale.
-
Inoltre se mancano leggi chiare (ed un
governo autorevole) spesso le aziende internazionali arrivate, dopo aver
distrutto i concorrenti locali, sfrutteranno il loro raggiunto potere
monopolistico per alzare i prezzi; sarà quindi di vita breve anche il risparmio
per i consumatori che è l’argomento in prima battuta portato avanti (sul
modello “Wall Mart”) (S. p.67).
-
Altra politica tipica, consigliata dal
FMI è quella del <<bilancio in pareggio>>. Ora Stiglitz ci ricorda
che “in settant’anni nessun economista degno di tale nome ha mai pensato che un
paese in fase recessiva possa avere il bilancio in pareggio” (S. p.105).
L’emendamento del Pareggio di Bilancio in Costituzione impedisce ad un paese
che entra in fase recessiva (e dunque al quale calano le entrate fiscali) di
agire. Con la norma del pareggio sarà costretto a ridurre le spese (o di
aumentare le imposte), con il risultato di attivare un meccanismo vizioso.
“Approvare l’emendamento avrebbe significato dare al governo la possibilità di
sottrarsi a una delle sue principali responsabilità, vale a dire il
mantenimento della piena occupazione”. E’ del tutto chiaro che se si
ridefinisce il compito del governo come garantire solo la stabilità monetaria e
la libera circolazione di merci e capitali, la cosa assume diversa valenza.
-
Quindi troviamo l’indicazione di
<<ridurre il disavanzo della bilancia commerciale>>, che deve
essere sempre portato in attivo. Lo scopo palese è di avere le risorse per
rimborsare i creditori esteri, anche qui tutto bene, “basta non fare caso alle
conseguenze per la popolazione”.
-
Ancora, la preoccupazione centrale di
<<evitare la svalutazione>> (che deprezza i crediti esteri,
evidentemente), ha portato il FMI ad opporsi sempre alle svalutazioni della
moneta; allora restava solo una strada (escludendo, per altra via, anche la
reintroduzione di tariffe doganali, che danneggiano le aziende internazionali),
anzi due: 1-aumentare le esportazioni, ma non è facile, in condizioni di
recessione e restrizione del credito; 2-ridurre le importazioni per via di
riduzione dei redditi, cioè proprio tramite la recessione.
Ora, il testo si
dilunga anche, e correttamente, a descrivere analiticamente le crisi nelle
quali dette politiche del FMI sono state attive, e nelle quali hanno allargato
considerevolmente i danni.
-
la crisi thailandese, aperta dal crollo
del baht il 2 luglio 1997, la più grande crisi economica dai tempi della Grande
Depressione, che partendo dall’Asia arrivò in Russia e America Latina,
minacciando il mondo intero. Le politiche del FMI sono state sia in grado di
inasprire la crisi sia di provocarne in parte l’inizio. La causa principale è
stata, infatti, una liberalizzazione dei mercati finanziari troppo rapida e
radicale. Il “miracolo asiatico” era andato avanti per trent’anni e con poche
scosse. Malgrado ciò, quando la crisi scoppiò la prima reazione del FMI fu
accusare le élite (che erano sempre le stesse) di essere corrotte ed incapaci.
In realtà la crescita era stata causata dalla fortunata combinazione di un’elevata
propensione al risparmio, dall’investimento dei governi in istruzione e dalle
politiche industriali dirette dallo Stato. Si è trattato di economie che
puntavamo molto sulle esportazioni, proteggendo al contempo le importazioni e
facendo attenzione a proteggersi anche dalla eccessiva liberalizzazione dei
capitali (il paese di maggior successo, la Cina, è stato estremamente prudente
in tale direzione e lo è ancora). Si è trattato in genere di politiche attente
alla stabilità, all’istruzione, al problema della povertà. Sempre con uno Stato
molto presente.
-
Quando scoppiò la crisi gli esperti
occidentali, ed i politici come Clinton, la minimizzarono, mentre gli esperti
locali “erano terrorizzati”, “consideravano
i capitali vaganti che arrivavano con la liberalizzazione dei mercati
finanziari la fonte dei loro guai” (S. p. 93).
-
Il FMI propose il suo classico
“pacchetto”, cui solo la Malaysia resistette con successo ed è stata premiata
dalla crisi più breve e meno grave di tutte. Per le altre andò male: la Corea del Sud subì il restringimento del
credito alle sue aziende chiave che, su indicazione degli USA, si erano
indebitate all’estero (cioè con banche occidentali). La Thailandia subì un attacco speculativo in coincidenza con un
indebitamento a breve termine (speculazione autoavverantesi sul deprezzamento
della moneta). Il FMI fornì un pacchetto di salvataggio di 95 Mld di dollari
per sostenere il tasso di cambio fisso. Questi soldi furono di fatto utilizzati
per avere la liquidità per fare fronte alle richieste di rientro delle banche
occidentali, insomma tornarono a casa (passando, però, dalla tasca pubblica a
quella privata). Ci fu anche una imponente, e logica, “fuga di capitali”.
-
Il pacchetto era soggetto, ovviamente, a
“condizionalità”. Precisamente all’innalzamento radicale dei tassi (per
trattenere i capitali remunerandoli) ed a “riforme strutturali”. Condizioni
talmente ampie che i paesi dovevano “rinunciare alla loro sovranità economica”.
-
Fu un fallimento totale. La
disoccupazione andò alle stelle, il PIL crollò (-13% in Indonesia, -6,7 in
Corea, -10% in Thailandia), le banche chiusero, e tutti hanno (giustamente)
incolpato il FMI. In Corea del Sud un quarto della popolazione è caduta in
povertà.
Gli impatti si sono
sentiti dalla Russia alla Nigeria, al Brasile (che non aveva alcuna relazione).
Durante la crisi solo la
Malaysia si comportò in modo diverso; il Ministro delle Finanze, Mahathir,
ridusse i tassi di interesse e impose il rientro dei capitali all’estero delle
aziende malesi entro un mese nel settembre 1998. Congelò per dodici mesi il
rientro dei capitali esteri e impedì l’uscita di quelli locali. Misure
chiaramente annunciate come transitorie e di emergenza. Il 7 settembre 1998
Paul Krugman, con un suo articolo, avvallò questa politica, ma la maggior parte
degli economisti occidentali annunciarono disastri. Inoltre dissero che così si
rimandava solo il momento di affrontare i “veri problemi”. La Banca Mondiale (all’epoca Stiglitz era
Vicepresidente) lavorò per trasformali in più semplice tassazione per l’uscita.
In un anno la Malaysia ristrutturò le sue banche e le aziende, rimosse i
controlli e le tassazioni provvisorie e la situazione si stabilizzò.
La Cina, invece,
rispose con politiche macroeconomiche espansive di tipo infrastrutturale e
controlli dei capitali (che non ha mai eliminato) e superò rapidamente la
crisi.
Allora ciò che va
fatto per Stiglitz è (p. 241):
1- riconoscere il rischio rappresentato dai “capitali vaganti”;
2- modificare il diritto fallimentare e rendere possibile voltare pagina, non
aumentare l’indebitamento con i “salvataggi” (certo perdono le controparti, che
spesso sono occidentali). Le perturbazioni macroeconomiche devono essere
riconosciute come motivazione per il fallimento con atterraggio morbido. Bisogna
velocizzare la ristrutturazione del debito e continuare ad operare.
3- Diminuire il ricorso ai salvataggi.
4- Migliorare la regolazione del sistema bancario.
5- Migliorare la gestione del rischio.
6- Migliorare le reti di sicurezza.
7- Migliorare la risposta alle crisi. Anziché concentrarsi sulla psicologia
dei creditori (cioè dei mercati) bisogna tornare alla missione di ripristinare
la domanda aggregata. Considerare gli effetti sulla povertà e la
disoccupazione.
8- Riformare il WTO e riequilibrare il commercio mondiale. Prestando la giusta
attenzione ai diritti di proprietà intellettuale.
Nel
libro di qualche anno dopo, “La
globalizzazione che funziona”, lo stesso Stiglitz attacca direttamente la logica della modellistica
matematica (basata sulla finzione dell’agente rappresentativo) che vede la
liberalizzazione del commercio essere sempre un
bene per tutti nel medio periodo. In realtà così si creano “paesi ricchi
abitati da gente povera”, perché la liberalizzazione comporta sempre costi
molto alti (“salari più bassi, disoccupazione crescente, perdita di ‘sovranità
nazionale’”, p.66) che superano di gran lunga i vantaggi per pochi di una
maggiore efficienza. Ma in realtà i “vincitori” sono nella parte alta della
scala sociale e i “perdenti” nella parte bassa. Nessuno risarcisce, anzi
l’effetto è di inibire i meccanismi redistributivi. Esattamente il contrario.
Chi protesta, “semplicemente vede il mondo come è”.
Quel che è cruciale è la velocità con la quale questi
fenomeni avvengono, perché le persone non si ricollocano senza attriti. Per
come la mette, “quando la rapidità della
liberalizzazione del commercio fa aumentare la disoccupazione, difficilmente si
possono concretizzare i vantaggi promessi dalla liberalizzazione stessa. Quando
le persone passano da lavori tutelati a bassa produttività alla disoccupazione,
sarà la povertà ad aumentare, e non certo la crescita” (S. p.72). Infatti
chi non perde il lavoro vedrà, normalmente, ridursi il suo salario o i benefici
collaterali, i datori di lavoro spiegheranno che l’alternativa a perdere
indennità e tutele è la delocalizzazione. È in questo contesto discorsivo che
Keynes spese la famosa frase <<nel
lungo periodo saremo tutti morti>>. Nel lungo periodo è ben possibile
che i mercati ripristino la piena occupazione, ma sarà tardi per molti.
Ciò che andrebbe realizzato, invece di questo scambio
ineguale, è un libero commercio tra uguali e calibrate protezioni verso i più
forti. Un esempio interessante è quello dell’agricoltura, che è sovvenzionata
per un terzo del reddito agricolo in Europa e per la metà in Giappone. La somma
dei sussidi all’agricoltura di Stati Uniti Europa e Giappone corrisponde al 75%
del reddito dei paesi dell’Africa subsahariana, è chiaro che i contadini
africani non possono competere (una mucca europea riceve più del reddito della
metà della popolazione dei paesi in via di sviluppo). Nel settore del cotone 25.000
ricchissimi coltivatori di cotone negli USA si dividono 4 miliardi di dollari
di sovvenzioni, creando un eccesso di offerta che fa crollare i prezzi e mette
fuori gioco i 10 milioni di coltivatori del Burkina Faso. Le sovvenzioni
finiscono per danneggiare anche i produttori occidentali che non riescono ad
accedervi (ad esempio perché non esportano) che sono costretti a competere con
prezzi troppo bassi. Naturalmente se si abolissero i sussidi ed aprissero in
mercati, si alzerebbero i prezzi a vantaggio degli agricoltori nei paesi in via
di sviluppo, ma a svantaggio dei lavoratori delle città (che sono oltre il 50%
nel mondo) che andrebbero compensati.
Il cuore del problema è però, per Stiglitz, che il
sistema finanziario globale fa funzionare i flussi di denaro “in salita, dai poveri verso i ricchi”
(S. p. 281); gli USA vivono infatti al di sopra dei loro mezzi, prendendo in
prestito 2 Miliardi al giorno dai paesi più poveri. In parte ciò avviene in
ragione del pagamento del debito ed in parte per acquistare Buoni del Tesoro da utilizzare come
Riserve. Ma i Titoli di Stato americani pagano un interesse bassissimo (ca
l’1%). Nel solo 2004 il flusso da Cina, Malaysia, Filippine, Thailandia hanno
trasferito per costituire riserve, agli USA 318 Miliardi di dollari per
proteggersi dalle aggressive politiche del FMI.
Queste riserve complessive, con un rendimento
così basso, rappresentano un “costo-opportunità” elevatissimo per i paesi in
via di sviluppo ed un trasferimento corrispondente per gli USA che si può stimare
in ca. 300 miliardi di dollari all’anno (il quadruplo degli aiuti totali al
terzo mondo, il 2% del loro PIL).
E’ dunque un
tributo che il mondo paga agli USA.
Questo trasferimento, e le risorse paralizzate nelle
riserve (dal punto di vista dei paesi in via di sviluppo), contribuiscono inoltre
a ridurre la domanda aggregata mondiale: “per
mettere a fuoco l’entità del problema, occorre sottolineare che i paesi del
mondo possiedono oltre 4.500 miliardi di riserve che aumentano a un tasso annuo
del 17% ca. In altre parole, ogni anno viene sottratto all’economia mondiale
potere di acquisto per 750 miliardi – denaro che viene seppellito sottoterra.
Un’economia globale solida ha bisogno di una domanda di beni e servizi
abbastanza forte da soddisfare la capacità di produzione mondiale” (S. p.
287).
Chi in quegli anni riusciva a compensare questa
tendenziale carenza di domanda aggregata mondiale, salvaguardando l’equilibrio,
erano gli Stati Uniti, che servivano da consumatori di ultima istanza. Essi
hanno in effetti gestito un deficit di enormi proporzioni, che ha evitato una
caduta dei prezzi e la deflazione (sindrome giapponese).
Ma la questione che pone, a questo punto, Stiglitz nel
2006 è: “per quanto tempo gli Stati Uniti potranno continuare a fornire questo
servizio, cioè proseguire a spendere e spandere senza ritegno?” (S. p. 288).
E’ probabilmente
la domanda alla quale sta cercando di rispondere Trump.
Come detto andiamo ora a Dani Rodrik che nel 2011
scrive un fondamentale libro sulla globalizzazione “La
globalizzazione intelligente”.
La globalizzazione, che è quel vasto movimento aperto
dalla revoca di Bretton Woods e dal movimento di imponente deregolazione
avviato già alla fine dell’amministrazione Carter e rafforzato
programmaticamente da Reagan, ha attirato in quella che l’autore chiama una
“zona morta” forze immense, alla ricerca di libertà dalle regolazioni, ovvero
dalla responsabilità sociale imposta dagli Stati Nazionali. L’economista turco
la chiama “un’astuzia”, intenzionalmente ed esplicitamente ricercata. In questo
spazio si sente la mancanza di un’autorità antitrust (il motivo specifico per
cui i grandi trust di multinazionali si sono rifugiati nel vuoto) e un’autorità
di sicurezza globale. Ma manca anche la democrazia, o almeno una forma di
rappresentanza dei popoli.
Queste mancanze portano a instabilità, inefficienza e
scarsa legittimità.
L’accusa di Rodrik è rivolta:
-
all’abbandono dei
più deboli, in una società che si riorienta verso la competizione e i
“vincenti” (una delle retoriche trainanti della fase),
-
l’inefficienza
nell’allocazione delle risorse e soprattutto dei fattori di produzione (nel
gergo economico in particolare questa accusa è rivolta alla crescente
disoccupazione e sottoccupazione),
-
la crisi fiscale
che riduce sia le risorse mobilitabili sia gli spazi di manovra pubblici,
-
quindi la perdita
di coesione sociale.
Anche Rodrik ripercorre la storia dello sviluppo dei
paesi di convergenza, evidenziando come quelli di maggiore e più stabile
successo si siano allontanati dalle ricette del “Washington Consensus”. Cina e
India non le hanno seguite, preferendo un’economia nella quale lo Stato
conserva la propria capacità di azione e di bilanciamento. Invece l’Argentina
di Cavallo, dopo il 1991, lo applica in modo letterale. Incluso il “vincolo
esterno” del legame a moneta estera (il dollaro). A questa mossa di Ulisse
(legarsi all’albero per non avere facili vie di uscita) segue una impressionante
serie di privatizzazione e deregolazioni rivolte ad aprire l’economia
all’estero. La globalizzazione è qui considerata, dal Ministro Cavallo, “contemporaneamente
un briglia ed un motore”. Il problema di presenta con una crisi esterna, quella
asiatica, che provocò una immediata rivalutazione verso l’alto della troppo
ottimista valutazione del rischio per i paesi “emergenti” (nei quali era
classificata anche l’Argentina), e con la reazione del Brasile che svalutò del
40% il Real. Come reazione, nel 2001, Cavallo inasprisce l’austerità, tagliando
pensioni e stipendi del 13% e restringendo il credito ed anche i prelievi.
Quando la crisi si avvita l’Argentina fa default sui debiti esteri, introduce
controlli dei capitali e svaluta il “peso”, nel frattempo sganciato dal
dollaro: è la resa su tutta la linea. In pratica il tentativo di Cavallo, allo
stringersi della crisi, fu di onorare fino all’ultimo centesimo gli obblighi
contratti con i creditori esteri, trovando le risorse dai “contratti” stipulati
con tutte le categorie nazionali (dipendenti pubblici, pensionati, autorità
provinciali, correntisti bancari). Un tentativo cui il popolo argentino si
oppose in modo risoluto e vincente.
Questa politica “stabilizzare, liberalizzare,
privatizzare” viene teorizzata John Williamson a partire dagli anni ottanta ed
è espressa, per il processo di consolidamento ideologico, in un articolo di
Sachs del 1995, nel quale i paesi vengono divisi secondo la presenza di
un’economia <<aperta>> o <<chiusa>>. Secondo la ricostruzione
proposta i primi crescevano 2,4 volte più velocemente dei secondi. Peccato che
nei primi ci fossero Corea del Sud, Taiwan, Indonesia che avevano a lungo
protetto con cura i propri “campioni nazionali” (e lo fanno ancora).
Il sostanziale fallimento della prima generazione di
“raccomandazioni”, portò ad una seconda serie, nella quale (qui Rodrik cita una
raccomandazione del FMI del 2005) che propone riforme profonde della Pubblica
Ammnistrazione, flessibilità della manodopera, ancora più apertura. Una dose
maggiore della medicina che non funziona. Lo scopo era di costringere gli Stati
ad indossare la <<camicia di forza
dorata>> di Thomas Friedman, quello strano indumento, imposto dal
“branco dell’elettronica” (esperti di finanza e speculatori globali) che “fa
crescere l’economia e ritirare la politica”.
Rodrik spende qualche importante pagina per
rintracciare le radici intellettuali e le esperienze storiche alla radice di
questa preferenza per l’apertura a competizione e scambio: è l’antica idea dei
“vantaggi comparati” la cui prima
formulazione viene ricondotta a Henry Martyn nel 1701. L’economista e politico
inglese sostenne la Compagnia delle
Indie Orientali che aveva iniziato ad importare prodotti tessili a
basso prezzo, mandando ovviamente fuori mercato l’industria della lana inglese.
A chi proponeva che le importazioni si limitassero alle materie prime non
lavorate, in modo da far lavorare l’industria locale, Martyn oppose l’argomento,
nel suo “Considerazioni sul commercio
nell’India orientale”, che il commercio internazionale assomiglia al
progresso tecnologico: come una segheria fa con due persone il lavoro di trenta
segatori, o una chiatta, l’importazione consente di ottenere lo stesso
risultato con meno impegno di risorse (che possono essere impiegate in altro,
magari da scambiare con il prodotto importato). Un argomento apparentemente
molto forte, e che viene costantemente ripetuto. Che dà, però, per scontato che le risorse liberate saranno subito riutilizzate.
Il tema sarà perfezionato, oltre un secolo dopo, da David Ricardo, con
l’esempio dello scambio tra vestiti e vini dell’Inghilterra con il Portogallo.
Quelli che contano sono i “vantaggi
comparati”. Purtroppo le cose –anche nella versione di Ricardo- non sono
così semplici: guardando la cosa dal punto di vista della società, infatti,
compaiono talvolta dei costi “sociali” non correttamente rappresentati nello
scambio privato. Un esempio è dato dai danni ambientali della produzione (o del
trasporto), un altro è la dissipazione di beni pubblici come l’esperienza, la
capacità di fare, l’istruzione nella pratica; un esempio di segno opposto è il
guadagno di conoscenza o di trasferimento tecnologico. Ma un altro è il costo
sociale della disoccupazione (transitoria o di lungo periodo). Anche il costo di
una ricollocazione ad un livello inferiore di reddito o di posizione (anche in
termini di risorse pubbliche investite nella formazione e dissipate).
La teoria dice che “poiché la ristrutturazione
economica genera vantaggi a livello di efficienza, e i settori che beneficiano
dei vantaggi comparati si espanderanno mentre gli altri subiranno una
contrazione, la ridistribuzione è spesso necessariamente al servizio dei
profitti che si ottengono dal commercio” (Rodrik, p.63).
In realtà anche in questo caso le cose non stanno
esattamente così, o meglio non ci sono enormi vantaggi con modici impatti
distribuzionali (da compensare). Rodrik afferma che in un sistema economico
come gli USA con tariffe doganali del 5%, la liberalizzazione completa
genererebbe 50 dollari di spostamento di reddito tra gruppi differenti per ogni dollaro di maggiore efficienza
ricavata. Se, invece, la riduzione delle tariffe fosse dal 40% al 0
comunque il fattore sarebbe 6. Detto in termini semplici: “è come dare 51
dollari ad Adam, solo per lasciare David più povero di 50 dollari” (p.64). Se
questo si accompagna a produzioni gravemente problematiche (sfruttamento di
bambini, impatti ambientali, rischi sanitari o chimici) nei paesi di
importazione si comprenderà che sarebbe materia da discutere. Insomma alla
domanda “è utile maggiore commercio?” La risposta dovrebbe essere “dipende”.
La questione è che il
commercio ha sempre conseguenze sociali, come ricorda Rodrik “uno
scambio redditizio tra un acquirente ed un venditore è auspicabile per la
società considerata nel suo insieme unicamente quando i prezzi rispecchiano
interamente i costi sociali (opportunità) inclusi nello scambio” (Rodrik, p.
125). Una delle cose dalle quali dipende è se si possono tassare i vincenti
(Adam) per risarcire i perdenti (David) fino a che il sistema ritroverà
equilibrio. Cosa chiaramente più ardua se il vincente è un'impresa
multinazionale con sede alle Caiman.
Ancora di più se tutto è stato fatto proprio per non
farsi tassare.
Il testo descrive anche la “prima globalizzazione” (da
metà ottocento al 1914) in cui potenti tecnologie di trasporto, radicalmente
più efficienti ed anche “capital intensive”, come le navi a vapore, i treni, i
canali sempre più lunghi e navigabili, e di comunicazione (il telegrafo) misero
in contatto come mai prima le aree di produzione (ad es. di cibo) con quelle di
consumo (l’Europa). Nel 1900 metà delle calorie erano ormai importate e le
frequenti crisi alimentari un ricordo. Dagli anni ottanta si entra nella fase
terminale di finanziarizzazione, con l’adozione del golden standard che garantì
la stabilità della moneta al prezzo di crescenti rigidità sociali. Due
istituzioni sono centrali: l’ideologia del laissez faire e le cannoniere
inglesi. Imperialismo va insieme a mercantilismo.
Il golden standard fu abbandonato durante gli anni
trenta e si entra in una fase protezionista tra le due guerre, al termine delle
quali si tenta il “Compromesso di Bretton Woods” un sistema equilibrato con:
una liberalizzazione parziale dei commerci (con ampie aree non liberalizzate),
ampia libertà alle singole nazioni a regolare il proprio mercato interno, forti
limitazioni alla finanza (che, come è noto Keynes considerava con molta
prudenza). Nell’ambito di questo schema di cooperazione internazionale potevano
convivere senza eccessive frizioni il modello “tedesco” di economia di mercato
sociale, quello “scandinavo”, con uno stato sociale molto esteso, quello
“francese” con la forte programmazione, quello americano e inglese, quello
giapponese (protezione interna insieme a settore di esportazione molto
competitivo ed aiutato). I negoziati sul commercio si svolgevano nell’ufficio
di Ginevra del GATT, ed erano improntati allo sforzo di promuovere un commercio
giudicato accettabile dagli Stati. La debolezza era la parità indiretta con
l’oro (35 dollari per oncia) garantita dalla moneta americana.
Nel 1971 l’operazione fallì quando Nixon scelse di
introdurre una tassa del 10% sulle importazioni, per frenare l’insostenibile
sbilanciamento che derivava dalla bilancia commerciale USA entrata in deficit.
Dopo alcuni infruttuosi tentativi si passò alla fluttuazione libera delle
valute.
La conclusione di Rodrik è giustamente famosa, e
ricorda il meno noto Trilemma di Dahrendorf (in “Quadrare
il cerchio”: dato che periodicamente la finanza globalizzata ritira la
propria fiducia e pretende la più inflessibile restituzione (fino all’ultimo
cent) degli investimenti, e questo avviene sempre durante una fase di
recessione o stagnazione (che diventa dunque recessione). E dato che in
condizioni di accesso alle decisioni di coloro i quali sono colpiti dalle
conseguenze, questa inflessibilità è difficile da mantenere, la prima scelta è tra democrazia nazionale e globalizzazione
finanziaria, non si possono avere entrambe. Nelle parole di Rodrik (p.
224), non si possono avere
contemporaneamente democrazia nazionale, Stato nazionale indipendente e
iperglobalizzazione. Tra queste tre bisogna sceglierne due.
Se si vuole l’iperglobalizzazione bisogna scegliere tra lo Stato Nazionale e la Democrazia. E’ infatti possibile conservare un ruolo alla democrazia solo in forme di governance statuale allo stesso livello della sfida: globale. E’, altrimenti, possibile conservare un ruolo allo Stato Nazionale, solo se rinuncia a far esprimere il popolo sulle questioni economiche (distributive) quando vanno in conflitto con i “mercati internazionali”.
Se si vuole Stato nazionale e democrazia, bisogna frenare la iperglobalizzazione (che era poi il compromesso di Bretton Woods).
In altre parole bisogna scegliere tra:
-
la “camicia
dorata” (iperglobalizzazione + Stato nazionale non democratico);
-
la governance
globale (iperglobalizzazione “domesticata” + Stato democratico
mondiale);
-
il compromesso di
Bretton Woods (Stato nazionale + politica democratica).
Questi due schemi possono mostrare in modo
semplificato il punto:
Economia chiusa ed in equilibrio |
Economia aperta esteroflessa |
Il terzo sguardo sulla globalizzazione, che giova
ripercorrere, è quello di Saskia Sassen, come detto a cavallo tra geografia
economica, economia politica, sociologia: il primo è “Città
globali”, del 1991; quindi “Territorio,
autorità, diritti. Assemblaggi dal medioevo all’età globale”, del 2008; “Espulsioni.
Brutalità e complessità nell’economia globale”, del 2014.
Ciò che abbiamo visto all’opera è quindi l’insorgenza
di processi apparentemente irresistibili di frammentazione e sfilacciamento
sociale, lo spostamento radicale dei rapporti di forza sia tra capitale/lavoro
sia tra i diversi capitali (sulla linea mobili/radicati e centro/periferia),
l'affermazione di nuove gerarchie e connessioni dominate (anche delle imprese,
sulla stessa linea dentro/fuori in cui vince chi accede, è mobile, rapido,
flessibile e non ha forma), quindi il cambiamento antropologico (con la
centralità della competizione, egoismo e assenza di radici). Si tratta di
fenomeni tra i quali ci sono rinvii necessari.
Ma tutto questo è anche in connessione intima (con
direzione causale ambigua) con l'emergere di nuovi pacchetti di
tecnologie abilitanti che ha preso forza dai sessanta, per poi accelerare nei
novanta. Si tratta di nuove modalità di creazione di valore nelle condizioni
tecnologiche e funzionali (penso alla centralità dell’interconnessione e della
comunicazione) contemporanee. Dunque, per citare un’idea ottocentesca, dalla
valorizzazione di qualche forma di “intelligenza
generale” e della sua condivisione sociale (mi riferisco,
ovviamente, ai Grundisse di
Marx, precisamente al “frammento delle
macchine”), insieme alla rimessa in discussione della centralità dei valori
guida di Competizione ed Efficienza, in favore
di Responsabilità e Equilibrio. Qui anche il pensiero
ambientalista può aiutare, se è preso al suo meglio.
Il mio punto, in sintesi, è che l'automazione (che è
il motore dell'espulsione crescente del lavoro dal centro del sistema
produttivo, se la si comprende non alla scala della singola macchina o
stabilimento) non è solo derivante dalle macchine, ma da un sistema generale di
messa-in-connessione lunga e dalla divisione del lavoro in moduli
interdipendenti e scambiabili (connessa con la possibilità tecnica
di organizzare catene standard di produzione lunghe, a logistica flessibile,
con rapporti fortemente dominati).
Nel fondamentale libro di Saskia Sassen del 1991, “Città
Globali”, tempestivamente la
sociologa olandese coglieva il punto: l’avvio della fase di disordine aperta
con il ritiro unilaterale degli Stati uniti d’America dal sistema monetario di
Bretton Woods (sotto la pressione del duplice deficit con cui si chiudono gli
anni sessanta e della crisi di egemonia che ne segue), insieme ai fenomeni
connessi che si verificano in quegli anni, determina
un vuoto di potere da una parte (p.22) e, anche in reazione o per
sfruttamento, un’accelerazione della
mobilità dei capitali dall’altra. I fenomeni che dominano quella lunga fase
che prende l’avvio degli anni settanta (data in cui si può far risalire la
transnazionalizzazione delle proprietà e delle attività produttive) ma che
prende forma compiuta a partire dagli anni ottanta sono soprattutto due:
-
l’espansione del
sistema finanziario, in risposta alla crisi ed alla regolazione
nazionale,
-
la restituzione
alle grandi città di un ruolo centrale, in sostituzione al sistema produttivo
manifatturiero.
Le città globali, tema del libro, hanno alcune
caratteristiche comuni:
-
sono “elementi di
un unico sistema” funzionale
-
e sono
relativamente staccate dalla crescita della nazione.
Le città connesse con la rete produttiva e finanziaria
mondiale sono quindi, per Sassen, specificatamente “luoghi in cui si produce”;
i cui “manufatti” sono proprio quelli essenziali del nostro tempo, “servizi e prodotti finanziari”, di qui
la loro centralità. Più dettagliatamente, in esse si erogano servizi specialistici alla produzione
(che soppiantano la centralità dei servizi al consumo propri della fase
precedente) e capacità di “mobilizzare” i
valori fissi (cioè di trasformare attività e passività, in linea di
principio qualunque, in strumenti negoziabili e dunque mobili, cfr. p. 84) e
distribuirli nel mondo.
In Italia città di questo genere non ce ne sono, se
non al massimo Milano per alcuni aspetti e comunque in ordine subordinato a
Londra (che a sua volta lo è con New York). Anche di qui la relativa
retrocessione del paese nel contesto del sistema produttivo mondiale.
Insomma la tesi è che come nella fase precedente,
quella fordista, il centro della produzione era nella fabbrica, normalmente
dispersa sul territorio o aggregata per aree industriali nelle grandi periferie
delle città, così in questa fase i processi intrecciati della dispersione dei
capitali, dell’esplosione degli investimenti diretti all’estero e della
decentralizzazione delle attività produttive, insieme all’estromissione delle
funzioni amministrative intermedie dal ciclo di fabbrica, determinano uno
spostamento del centro produttivo fuori
della fabbrica e dentro le città principali. Quelle, cioè, che hanno
connessioni, infrastrutture di comunicazione, evoluti sistemi finanziari, e
sviluppati comparti di servizio alle imprese.
Ma il processo ha portato per molteplici ragioni
tecniche, economiche e politiche allo smantellamento (una lunga fase dalla metà
degli anni settanta, fino alla fine degli ottanta, poi continuato a lungo dopo
gli anni del libro) dei centri industriali, quindi all’organizzazione in
grappoli e reti dei flussi produttivi, alla ritenzione presso la “casa madre”
solo delle funzioni direzionali pregiate e dei frammenti di ciclo produttivo
qualificanti. Il resto, servizi poveri e/o meramente amministrativi, e processi
delegabili in subfornitura, sono stati distribuiti rispettivamente nelle aree
urbane e nei territori che offrono un valore aggiunto, senza che la distanza
sia significativamente rilevante. È chiaro che questo processo, come dice la
Sassen: “va letto come un tentativo di
demolire quel sistema di relazioni tra capitale e lavoro noto come fordismo,
sulle cui basi sono state organizzate in passato le attività produttive”
(S., p. 28).
Le conseguenze sono state imponenti, infatti la
dispersione in condizione di maggiore controllo –reso possibile dalla mobilità
del capitale e dagli strumenti tecnologici disponibili- “ostacola la formazione
delle ‘aristocrazie del lavoro’ che il fordismo promuoveva” (S., p.36). Nel
dopoguerra questa progressiva formazione era connessa strettamente con
l’allargamento delle classi medie e con formalizzazione dei mercati del lavoro
(con la sicurezza e stabilità). Si è trattato di una lunga fase espansiva
caratterizzata da intensità di capitale, standardizzazione e suburbanizzazione,
che favorivano grandi imprese organizzate verticalmente sia nel settore
manifatturiero come in quello bancario o assicurativo. Queste unità “avevano al
loro interno mercati del lavoro che offrivano ottime possibilità di carriera,
un impiego sicuro e svariati benefici aggiuntivi” (Edwards, 1979, cit. p.284).
C’è di più, “le forme di organizzazione
sociale che accompagnavano questo processo, rispecchiandosi nelle strutture
della vita quotidiana, riproducevano e consolidavano una cultura di tipo
borghese. L’espansione delle classi medie instaurava modelli di consumo che
assecondavano la standardizzazione dei processi produttivi e quindi, in certe
circostanze, favorivano la sindacalizzazione o altre forme di protezione dei
lavoratori, strettamente connesse all’esistenza di stabilimenti o uffici di
grandi dimensioni; la sindacalizzazione, a sua volta, agevolava il livellamento
delle relazioni all’interno della fascia mediana”.
Tutto questo non è
più.
Nel suo secondo libro, del 2008, il sistema che si afferma,
progressivamente a partire dagli anni settanta, è descritto invece come “incentrato sul mercato e dominato dalle
banche private”; ciò sposta la questione politica fondamentale
dall’inclusione (e quindi dalla lotta alla disoccupazione ed alla povertà) al
“libero scambio” (dunque alla concorrenza). Mentre apre i due “luoghi del
rischio”, ciò, tra le altre cose, genera un “deficit democratico” e la
concentrazione dei poteri nell’esecutivo, anzi, “la transizione verso un
esecutivo privatizzato di fronte ai cittadini e alle altre branche dello stato,
unito ad un’erosione della privacy del cittadino” (S. p. 234); ciò che si
compie, con l’abuso dei poteri di governo (nel reinterpretare norme invece di
approvarne di nuove), oltre a “sconfinare nell’illegalità”, è mercatizzare le
funzioni istituzionali, attraverso la quale “si ricostruisce il confine tra
pubblico e privato”. Oggi “buona parte di ciò che circola nel dominio pubblico”
è, per la Sassen, “funzionale alla creazione di un’infrastruttura per le
operazioni globali dei mercati e delle imprese e alla liberazione dalla
responsabilità della spesa sociale che era parte dell’era precedente”.
Ciò, a suo parere, apre all’urgenza di porre la
domanda di come la sfera pubblica possa
tornare ad essere decisiva e non solo “vittimizzata dallo sviluppo del dominio
privato” (p.238). La prima operazione da fare è mostrate che la distinzione
tra pubblico e privato è storica: “riflette diversi interessi e la differenza
di potere tra gli attori”. Questo spostamento “solleva questioni sul ruolo di
vecchie nozioni di interesse pubblico nazionale, concetto critico per la
normatività dello stato” (p.250), ma ciò è particolarmente problematico quando
la sfera privata si espande su linee internazionali (in cui lo stato nazionale
ha sempre avuto capacità di governo inferiori). Questo vuoto sembra
colmarsi nell’approccio neoliberale attraverso la generalizzazione “di un concetto globale
di regolamentazione come efficienza”. Quindi, “con l’efficienza come unico scopo, la privatizzazione diventa legittima
in domini una volta terreno esclusivo dello stato.” Ma qui l’analisi
prosegue: è la neutralità che viene
attribuita ai mercati, come si vede benissimo, “a renderli critici per il
conseguimento dell’efficienza e quindi dei vantaggi pubblici generali”.
Ora, “nel
momento in cui l’efficienza diventa un obiettivo, essa tende a sostituire
l’interesse pubblico oppure a funzionare come una sua controfigura: l’ideale
dello stato regolatorio ha lasciato il posto a quello di uno stato competitivo
la cui nuova norma è massimizzare l’efficienza” (p.251).
L’idea non è nuova, anzi Rosanvallon, in “Legittimità
democratica” ha mostrato come si tratti di una forma di legittimazione
radicata nell’emersione della sfera pubblica politica democratica, come
reazione a questa, e Majone, in “Lo
Stato regolatore” la sua applicazione moderna, attraverso “fiduciari” ai
quali è realmente trasferito un potere, violando il divieto di delegare un
potere delegato istituito da Locke nel “Secondo
trattato del governo”.
Per la Sassen la globalizzazione non è, però, un
processo che si oppone allo Stato Nazionale, ma al contrario che lo utilizza. La
globalizzazione ha quelle che chiama “profonde embricature” con gli Stati
Nazionali, in particolare con i più forti (ed in primis con lo Stato federale
americano). La forma più sviluppata, quella che in questo libro scritto prima
della crisi chiama “la globalizzazione economica delle multinazionali”, si è
affermata solo grazie a “capacità” altamente sviluppate che si ricollocano, un
esempio è lo Stato di Diritto che è indispensabile anche alla privatizzazione e
liberalizzazione neoliberale.
Espressione di questa costruzione di sistemi globali a
partire da risorse nazionali è lo strapotere di sistemi di aziende private di
natura finanziaria o post-industriale (come Google, Facebook, Apple, ma anche
Amazon, etc…) e della corona di aziende, organizzazioni, sistemi d’ordine (come
istituti di normazione) e grandi network professionali o di servizi evoluti.
Il principio di legittimazione, come visto, di questo
network di poteri, e dello slittamento verso l’esecutivo, con svuotamento del
ruolo dei Parlamenti e surroga dei poteri giudiziari (nonché delle “autorità
indipendenti”) è derivato dal mondo privato. Ma si istalla nella sfera
pubblica, sostituendo i suoi principi di legittimazione.
L’intero libro è costruito sull’analogia, fondata su
un’ampia ricostruzione storica basata su buone fonti, con la transizione tra il medioevo e l’età dello stato nazione (i
capitoli da due a quattro), focalizzando in particolare i processi di
territorializzazione (che definiscono, al termine un monopolio esclusivo
dell’entità statuale su un’area territoriale in precedenza contesa e
attraversata orizzontalmente da giurisdizioni e poteri intrecciati), nei quali
in particolare le territorialità urbane si presentavano come tripartite (Tilly,
1991):
-
erano centri
dell’economia locale,
-
ma anche nodi di
una rete internazionale di città nelle quali circolava il capitale commerciale,
-
e infine
potenzialmente sottomesse ad un potere statuale anche lontano (come nel caso
delle città del nord rispetto al potere imperiale tedesco).
Qui viene posto, ad esempio, un parallelo: “a mio giudizio le città globali e i
distretti ad alta tecnologia di oggi funzionano come territorializzazioni
strategiche parzialmente denazionalizzate; la loro considerevole autonomia
regolatoria è dovuta all’affermazione di regimi di governo privati” (p.70).
Naturalmente “questo crea una geografia
del controllo sovrano piuttosto irregolare, oggi come nel passato”.
Anche se la Sassen non trae completamente questa
conclusione, riservandosi dal guardare nel futuro, può esserci qualche
assonanza superficiale con la tesi di Parag Khanna della
medioevalizzazione (cfr. Come si governa il mondo, 2011). L’autore
indiano, direttore della Global
Governance Initiative della New American
Foundation (un importante think thank liberale), vede in arrivo
un “medioevo postmoderno” senza egemoni e “ipercomplesso”, in cui nessuno
sostituirà la funzione di ordine che con sempre maggiore difficoltà gli USA
adempiono dal dopoguerra, ma si affermerà come si affermò nel rinascimento un
equilibrio di diplomazie (per la verità in quel caso sanguinoso). Per Khanna
“stiamo vivendo la fase aurorale di una nuova età nella quale ogni individuo e
ogni comunità possiedono la capacità di perseguire autonomamente i loro fini.
La rivoluzione informatica ha messo ogni soggetto nella condizione di far
valere la propria autorità., aprendo la strada a un mondo basato sulla
reciprocità tra infinite comunità di vario genere e dimensione” (ivi, p.310).
In quello che è sicuramente un entusiasta cantore dell’orizzonte neoliberale
come liberazione, si vede un ruolo per tutti i soggetti e gruppi di pressione
capaci di attivare la “megadiplomazia” al centro del nuovo mondo: ONG, multinazionali,
partership pubblico-privato, “un bricolage di movimenti, esperimenti di
governo, network, regolamenti ‘soft’ e tutti gli altri sistemi che possono
emergere a livello locale, regionale e globale” (p.311). L’autore non si ferma
neppure dal citare il “progresso umano”, vedendolo “proseguire” (e confermando
la sottesa filosofia della storia del progetto neoliberale) al di là e contro i
“tradizionali meccanismi centralizzati di governo”, sapendo che “ogni
esperimento locale è comunque più denso di conseguenze di qualsiasi banale
organigramma globale”. Dunque “interdipendenza” ed “elasticità permanente”,
network di sistemi elastici in quanto più adatti “ad un mondo che cambia con la
rapidità di oggi”. Un mondo “autopoietico”, che si regola da sé e si reinventa
costantemente. Concludendo: “un mondo ibrido, diffuso, fondato sul binomio
pubblico-privato, non è ovviamente un mondo perfetto, e senza dubbio è assai
più complesso dell’ordine in cui viviamo attualmente. Ma di certo è un
miglioramento, e non un passo indietro. Se tutti i soggetti che popolano il
pianeta possono essere sicuri di avere garantita la propria voce, direttamente
o indirettamente, nelle politiche globali, la prossima fase diplomatica sarà
migliore di quella che ci stiamo lasciando alle spalle” (Khanna, p.313).
La Sassen non condivide l’entusiasmo di Khanna; se non
sono più l’alleviamento della povertà, o lo sviluppo economico condiviso e
sostenibile i problemi centrali, sostituiti dall’enfasi sulle garanzie
contrattuali (anche contro lo stato, come si vede nei protocolli TTP) e dai diritti
delle imprese, dai diritti di proprietà intellettuale, dalla minimizzazione dei
rischi per l’investitore e via dicendo, si rischia che il discorso legale (in
tal modo programmato), “ci impedisca di considerare nuove modalità di autogoverno democratico” (p.258) con la
sua attitudine a far apparire come necessario ciò che è storicamente
contingente. Cita in questo contesto le raccomandazioni della Banca
Mondiale che nel 2001 suggeriva di distinguere
tra legge e politica. Questa abbastanza
incredibile affermazione significava ovviamente che la legge non dovesse essere
formata dal compromesso politico tra interessi e l’emergere di conflitti
bisognosi di regolazione, ma dalle neutrali e a-valutative leggi dell’economia.
La legge, insomma, deve essere scritta dall’economia.
Si tratta quindi dell’ascesa di un “nuovo ordine
normativo”, esterno alla ragione di stato tradizionale, ma che entra nella
sfera pubblica venendo presentato a questa come parte della politica pubblica o
obiettivo pubblico. Tramite questi meccanismi (cioè tramite la logica di azione
di Ministeri delle Finanze e Banche Centrali, ma anche organi
giurisprudenziali, e altro) “la logica di utilità del mercato globale del capitale in
realtà circola in misura crescente nel dominio pubblico, dove infine emerge come
politica dello stato” (p.289). Lo
stato, insomma non è una categoria unitaria, entro di esso si divaricano forze
che lavorano in direzioni non congruenti. E altre subiscono la pressione
potente dei mercati che, ad esempio, hanno saputo “punire” il Giappone con la
lunga recessione degli anni novanta (p.294) per il suo rifiuto ad aprire i
capitali nazionali ed il controllo dello stato (ad esempio sulle banche e da
queste sulle principali aziende di esportazioni). Un altro caso è quello delle
banche centrali, o il contesto di regolazioni internazionali come le norme ISO,
le regole del WTO sui diritti di proprietà intellettuale, etc.
Qui si apre un
punto dirimente: la Sassen cita il lavoro di
Teubner, per il quale occorre abbandonare, nella costruzione di un nuovo
diritto economico internazionale e di un diritto globale, il conflitto tra
ordini legali nazionali in favore di un conflitto tra regimi legali settoriali
(ad esempio quello tra WIPO, WTO e UE e leggi nazionali). Ci sono su questo
punto diverse visioni, da Shapiro secondo il quale il diritto globale non
esiste, restando meramente scontro di forze nazionali, e si sta semplicemente
assistendo all’imposizione dei modelli commerciali anglosassoni, ad altri per i
quali esso invece sta fattualmente emergendo dal lavoro di oltre 120 corti
internazionali, o meccanismi di risoluzioni di vertenze. Una sorta di
molteplici processi di giuridificazione specializzati e segmentati che
riferiscono ad arene sociali altamente differenziate che in sostanza “si giurificano da sole” (Teubner, 2004,
cit in p.347).
Nella conclusione di paragrafo dirà: le autorità
statali privatizzate e denazionalizzate (ad esempio le banche centrali, ma non
solo) consolidano “l’emergere di un nuovo ordine spazio-temporale che ha considerevoli
capacità di governo e potere strutturale. L’ordine istituzionale rafforza i
vantaggi e le pretese di alcuni tipi di economici e politici e indebolisce
quelle di altri. È estremamente parziale, piuttosto che universale, ma
strategico in quanto ha un’influenza indebita su ampie aree del
mondo istituzionale generale e del mondo dell’esperienza vissuta, eppure non è pienamente tenuto a rispondere a
sistemi politici formali democratici.”
In questo contesto, in cui la “privatizzazione porta con sé
una probabilità più alta che si facciano leggi nell’interesse di pochi
piuttosto che della maggioranza” (p.320), il vero problema è che i mercati finanziari non
solo sono capaci di dispiegare enorme potere e di punire, ma hanno prodotto una
logica che è ormai presa a riferimento per stabilire quali sono i criteri di
una “corretta” politica economica. Anzi, dell’unica possibile. “Si tratta del
fatto che l’operato generale di questi mercati ha una logica intrinseca che
impone certi tipi di obiettivi alla politica economica del settore pubblico”.
Nel suo ultimo
libro la sociologa
olandese arriva a sostenere che “portato
alle estreme conseguenze, ciò comporta l’immiserimento e l’esclusione di masse
crescenti di persone che non hanno più valore come lavoratori e consumatori, ma
oggi può significare anche che attori economici un tempo cruciali per lo
sviluppo del capitalismo, come la piccola borghesia e le borghesie nazionali
tradizionali, non sono più di alcun valore per il sistema in generale”. Ciò
induce una essenziale “contrazione dello
spazio economico” che procede ovunque in sincronia con l’espansione dello
spazio finanziario (il PIL fatica a registrarlo perché è la somma di entrambi).
La Sassen sostiene qui una cosa molto precisa: le persone nell’occidente sviluppato hanno perso importanza in
quanto consumatori e lavoratori per il sistema dominante, non sono più
essenziali per estrarre il profitto nei settori economici guida. Anche nei
paesi in sviluppo le risorse naturali da estrarre, impacchettare,
cartolarizzare e trasferire sono più importanti degli stessi lavoratori e
consumatori che vivono in quelle regioni.
Se il capitalismo storicamente fiorì (sfuggendo alla
diagnosi di crisi tendenziale del Marxismo, ma anche di economisti borghesi
come Ricardo) grazie alla rapida espansione dei ceti medi e delle “aristocrazie
operaie”, e dunque quando la massimizzazione del consumo sempre più
diversificato e distintivo delle famiglie divenne il “fattore sistemico
strategico”, oggi nel capitalismo avanzato del nuovo millennio non è più così: la
finanza è diventata autosufficiente.
In conseguenza le economie “reali” tendono a contrarsi
ovunque (si parla spesso di “stagnazione
secolare”) perché ormai il
cosiddetto “sviluppo economico” (cioè la somma algebrica, modestamente positiva,
della perdita di molti e dell’immensa accumulazione per pochi) “dipende dalla pratica di estrarre dei beni
in qualche parte del mondo per inviarli altrove”. Precisamente, di
incapsularli in schemi di ordine della finanza e tecnici, per renderli in unica
metrica e poterli “inviare” nei “luoghi” in cui sono valorizzati e distribuiti.
Questo comportamento è “predatorio”, ma viene
esercitato più che da alcune élite, come normalmente si sintetizza, da “formazioni predatorie” che sono
combinazioni sempre mutevoli di élite e capacità sistemiche il cui principale
fattore abilitante è naturalmente la finanza che spinge il sistema verso sempre
maggiore concentrazione. La finanza è strutturalmente connessa ad ambienti
sociali densi (come si era visto nel libro del 2008) e culture del rischio
e descrittive fondate su tecniche ed ambienti altamente internazionalizzati; è
quindi strutturalmente “altra”.
Alcuni esempi sono le “recinzioni” erette da imprese
finanziarie intorno alle risorse di un paese “catturato” (attraverso il suo
debito, normalmente) ed alle imposte pagate dai cittadini (che sono estratte e
protette attraverso la coltivazione dell’avanzo di bilancio) di cui fanno parte
i “nuovi orientamenti delle democrazie liberali, volto a ridurre all’osso la spesa
dei bilanci pubblici destinata al soddisfacimento dei bisogni sociali e a
sostegno dei poveri” (p.24). La logica è perfetta e l’abbiamo vista chiarissima
nel caso greco.
Dunque l’obiettivo centrale è sbarazzarsi delle spese,
giudicate “inutili”, sovrabbondanti, non efficienti e quindi di ostacolo alla
competizione, del contratto sociale che
impediscono (per le due ragioni convergenti della necessaria pressione
fiscale e dello spazio economico occupato dai servizi pubblici e sottratto al
sistema privato) l’accumulazione
trasferibile attraverso le “città globali” dal sistema finanziario. Tutto
il sistema-mondo in cui viviamo è finalizzato solo ad ampliare questa
accumulazione (cioè la “crescita”): “i piani di rimborso dei debiti e le misure
di austerità sono [quindi] meccanismi volti ad imporre disciplina, che servono
al progetto generale di proteggere un tipo particolare di economia” (S. p.49).
Questo è il senso in cui la finanza, con la sua capacità di finanziarizzare i
debiti come gli attivi, indipendentemente da tutto, è il sistema centrale del
nostro tempo.
In sostanza “si
tratta del progetto di contrarre lo spazio dell’economia di un paese, ma non la
redditività delle imprese [globali]” (p.229). Una logica che, si deve
notare, non è diretta solo contro le persone impoverite, disoccupate o
incarcerate, ma anche contro lo stesso capitale e le imprese locali. Come in
effetti si vede quelle che non possono essere rese mobili, che non sono
“lavorate” negli uffici scintillanti delle grandi società di consulenza e
servizio delle “città globali” e che non entrano nel grande circo della finanza
internazionale; tutte queste restano nel “margine sistemico”. Nel luogo in
cui “si estrin\ seca la
dinamica chiave dell’espulsione”.
Dunque per la Sassen anche “il rapporto fra l’odierno
capitalismo avanzato e le forme più tradizionali di capitalismo di mercato”,
assomiglia sempre più ad una forma di “accumulazione sempre più primitiva”, una
“bruta semplicità” (p.232). La
predazione, appunto.
Nel “margine
sistemico” alla fine sono stati presi anche i sistemi di welfare per la
stessa, semplice, motivazione di “bruta semplicità” per la quale il capitale
nazionale (quello non dedito alle esportazioni, non “innovativo e competitivo”,
quello concentrato sul servizio di bisogni locali, nazionali) è abbandonato
alla contrazione: non è più
necessario a chi è passato per la fucina delle innovazioni tecniche,
organizzative e finanziarie degli anni ottanta e novanta. O con altre parole,
quando i più potenti “meccanismi di accumulazione dei profitti si spostano
dall’espansione della produzione di massa e dallo sviluppo dell’infrastruttura
verso innovazioni finanziarie e il modello di impresa [a rete lunga] post-anni
Ottanta, vengono meno le ragioni per chiedere il riconoscimento dei diritti, e
il terreno su cui se ne facevano valere le rivendicazioni si disarticola, si
tramuta a sua volta in un margine sistemico” (p.234).
Uno degli effetti più potenti è l'interdipendenza ed
annullamento del “valore immediato” portato dal singolo lavoratore in processi
ormai lunghissimi e senza centro in cui
il valore emerge sostanzialmente come effetto di sistema e non come contributo
individuale. Cioè, per usare una categoria di Marx, dell'espansione
del “general
intellect” come radice del
valore emergente nel processo produttivo entro il sistema generale, ma
più precisamente dalla sua emersione e privatizzazione.
Se si ripensa la cosa in questa chiave è la fonte di
valore, e di senso, ad essere spostata dal processo di produzione
individuale, ed istantaneo, al sistema generale in cui questo emerge come
effetto immediatamente sociale ma subito preso e catturato in reti private di
creazione/distribuzione.
Se non si riesce a recuperare un equilibrio tramite le
politiche pubbliche, o almeno ad esercitare una capacità di direzione, per
controbilanciare la volontà di dominio senza direzione del capitale
finanziario e industriale-esteroflesso ed irresponsabile, il destino che si
presenta è quindi di restare abbandonati alle forze meramente reattive ed
entrare in una fase molto rischiosa in cui il sentimento di umiliazione spinge
per immediate rivalse. Il nucleo forte di questo sentiment è dato da quel
20-25% della popolazione attiva che vive sulla sua pelle il precariato e
l'incertezza della società del rischio, e che non è un segmento orientato ed
educato ai valori solidaristici della sinistra ma a quelli della destra
individualista. Esso vive una sorta di egoismo difensivo-compulsivo che nelle
sue condizioni si muta in rabbia e rancore verso “il potere”. Intorno a questo
nucleo si possono aggregare altri segmenti “discendenti” che si sfioccano dal
vecchio blocco delle “classi medie” novecentesche per le ragioni dette in via
di erosione da decenni; esattamente contemporaneamente alla progressiva
erosione ed abbandono delle difese (anche corporative e sicuramente
burocratiche) verso il mercato che erano state erette nel “trentennio” e che le
avevano, di fatto, create per la prima volta nella storia dandogli un ruolo nel
processo di valorizzazione e riproduzione. Dunque si ha un 35-40% di base
sociale disponibile ad avventure, se qualcuno trova le parole. Ma contemporaneamente
non pronte per esigenti discorsi di messa in comune e condivisione
solidaristica. Si tratta di discorsi che non capiscono né vivono.
Enrico Moretti scrive nel 2012, un libro che ha avuto
notevole risalto “La
nuova geografia del lavoro” che letto in questo contesto può aggiungere
concretezza all’analisi. Anche per il giovane economista di Berkley la
produzione di manufatti industriali “non è più il motore del benessere delle
comunità locali”, anche per l’irresistibile calo numerico degli addetti (in USA
ora all’8%). Detroit ha perso il 25% della popolazione tra il 2000 ed il 2010,
Cleveland il 17% e altre circa il 10%, sono le “cinture della ruggine” rese
famose dall’elezione di Trump. A Detroit un terzo degli abitanti vive sotto la
soglia di povertà, tutto l’indotto è stato devastato. Per l’autore, che si
colloca in posizione polemica con la “sinistra” su questo, il motore di questa
stagnazione è la globalizzazione ed il progresso tecnologico.
La globalizzazione ha visto spostare tutta la parte
produttiva delle imprese nei paesi in convergenza, dove il lavoro costa meno ed
è meno protetto, i prodotti di maggiore successo commerciale, come l’I-phone,
che sono anche alcuni dei più redditivi sono realizzati con componenti standard
da grande produzione, e sono interamente prodotti in fabbriche delocalizzate,
mentre progettazione, marketing e direzione restano in USA. L’intera
“innovazione”, su cui concentra la sua attenzione, è nel design e nel
marketing. Questo processo muove dal 1980, ma ancora dopo dieci anni le
importazioni di prodotti semifiniti o finiti, entro le catene logistiche
proprietarie occidentali erano solo al 3%. Ma raddoppiano ogni dieci anni. Ora
fanno la differenza anche e soprattutto per la loro flessibilità (un vantaggio
competitivo che un’ulteriore iniezione di tecnologia
realmente innovativa potrebbe colmare).
Una delle evidenze della ricerca sul campo di Moretti
è che le ondate di trasformazione economica polarizzano in modo selettivo il
territorio. Alcuni luoghi di vecchio successo, come è spesso avvenuto, non
riescono a ritrovare una strada e degradano, altri fioriscono o comunque non
solo altrettanto colpiti.
Ma la polarizzazione è l’effetto di poderose dinamiche
endogene. Nelle attuali condizioni il meccanismo economico che funziona meglio
è quello dell’innovazione di prodotto difficilmente replicabile (o protetta da un
marchio o brevetto), con le sue parole “nuove idee e nuovi prodotti che non
possono essere facilmente replicati” (p.14), e che consentono ai proprietari di
estrarre più valore dai mercati-bersaglio. Questo “settore”, in sostanza estrae
valore aggiuntivo (arrivando fino a ricarichi nell’ordine del 70% in alcuni
casi) e lo concentra in alcune aree ristrette. In parte geografiche (il territorio
in cui l’hub si radica), in parte sociali (lo 0,1% della società che possiede
le azioni).
Si hanno potenti effetti territoriali polarizzanti
anche per effetto degli aloni dei lavori secondari (l’idea del moltiplicatore)
che complessivamente contribuiscono ad alzare i salari nell’intera zona di
impianto. Questo effetto è potenziato dal fatto che le aziende innovative
tendono a concentrarsi in “hub” ristretti per una serie di meccanismi microfisici
che il libro ben descrive.
Dunque tende a concentrare i migliori laureati, le più
importanti aziende di servizio e finanziarie, i centri di ricerca e formazione
migliori, nelle stesse aree, lasciando intorno il deserto. Il paesaggio si
polarizza, al deserto si contrappongono poche oasi sempre più ricche.
Dunque non è vero che lo sviluppo equalizza, al
contrario, divide e polarizza (come, del resto, si vede chiaramente sia in
America sia, più di recente, in Europa).
Polarizzando tende a creare enclave omogenee, come si
è visto nelle elezioni americane, e tende a radicalizzare anche le posizioni
politiche.
Qualche attenzione si può prestare anche al libro
Yanis Varoufakis “Il
Minotauro globale”, in particolare per la lettura della crisi di passaggio
degli anni settanta. Ma questo post è già molto lungo, ed in fondo ne abbiamo
già parlato a lungo, rinvio quindi alla lettura del post sul libro.
Da un altro lato si potrebbe guardare, per dare conto
del punto di vista neoliberale, il recente libro di Richard Baldwin “La
grande convergenza”, ed i libri di Parag Khanna (in particolare
“Connectography”, sui quali dovremo tornare con calma). E il libro di Michael
Spence “La
convergenza inevitabile”, del 2012.
La globalizzazione è, insomma, un effetto cumulato di
cause molteplici, di molte forze emergenti e dello squilibrio di potere che la
loro affermazione ha indotto negli equilibri preesistenti. Con essa sembra
essere tornato il mondo ineguale e violento (ma paradossalmente pacificato
dalla forza imperiale del denaro, nel quale i conflitti armati sono solo al
confine) del XIX secolo. Quello verso il quale insorse il socialismo.
Al termine del lungo ciclo di mobilitazioni, sulla
infrastruttura generata dal modo di produzione fordista che si affermava, il sistema
sociale del capitalismo aveva trovato un equilibrio tra forze dell’alto
capitale (la “grande finanza” e le “imprese giganti” monopolistiche) e quelle dei
mercati locali, entrambe assediate dalla società organizzata politicamente. Questo
‘compromesso’ è durato dagli anni cinquanta ai settanta, in fondo poco più di
venti anni, durante gli anni settanta si è sfilacciato e rotto. La prima data è
1971, ma gli effetti si vedono solo verso la fine del decennio: in USA vince
Reagan, mentre già da un paio di anni in Inghilterra si era affermata la sig.ra
Thatcher, in Europa si istituisce lo SME, che introduce un forte vincolo
esterno alle politiche redistributive.
Il 1989 ed la successiva disgregazione dell’URSS, con
le conseguenze sulla stessa Russia, lasciano il capitalismo anglosassone nella
posizione di avanzare la propria candidatura imperiale senza apparenti
ostacoli. L’espansione della seconda mondializzazione avviene in questo quadro.
Ma accelera nella seconda metà degli anni novanta (1995 e 2001, appunto). La
mondializzazione senza freni (quella che Rodrik chiama “ipermondializzazione”)
è, alla fine, questione di un decennio, tra la metà degli anni novanta e la
metà degli anni zero.
Nel 2008 sbatte già con i suoi limiti.
Sono nove anni che
cerchiamo di farci i conti, che viviamo entro lo spazio della sua lenta
decomposizione.
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