Nel post avente carattere programmatico, “La
grande Partita”, era stato ipotizzato di leggere l’evoluzione della guida
statunitense, dal globalismo umanista di Obama all’apparente unilateralismo
muscolare di Trump, come sintomo di uno scontro egemonico a livello del
conflitto tra sistemi di élite entro il capitalismo anglosassone (un simile
scontro si era manifestato nella Brexit). Come avevamo provato a scrivere in
questo quinquennio (o decennio) potremmo essere ad un punto di biforcazione
intrinsecamente instabile, in cui diversi agenti e network organizzativi
competono per attrarre capitali e risorse, incluso risorse di autorità e forme
di legittimazione, verso i propri schemi concorrenti.
Cioè verso sentieri alternativi che si articolano
diversamente tra le logiche dell’espansione produttiva,
con relativi effetti di consenso e tenuta sociale su cui la campagna di Trump
ha fatto particolarmente leva, commerciale,
(cfr. anche la recente intervista
per The Economist), e finanziaria (ovvero del mero capitale
mobile, largamente sfuggito per ora al controllo egemonico degli Stati
nazionali). Quel che sembra di vedere è il tentativo di sfidare la proposta
egemonica del capitale finanziario mobile, fino ad ora dominante, e quindi anche
il network di tecnici (con relativi saperi), agenti, istituzioni, luoghi, che ne
determinano il radicamento ed il funzionamento.
Questo scontro potrebbe cambiare il mondo, ma fino a
che non ci sarà un accumulo di forze preminente la fase resterà instabile: da
una parte abbiamo un declinante network globalista (ad occhio costituito da
grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di
servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank
massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti
politici, molti intellettuali, anche soggettivamente schierati dall’altra parte
rispetto al capitale), e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e altamente
contraddittorio di interessi e desideri che si organizzano ed emergono sia
dall’alto come dal basso, non necessariamente per gli stessi fini (anzi, in
genere per opposti).
Trump, ma anche May, sarebbe stato quindi portato al potere (anche in modo fortunoso) da un nuovo network in formazione, ma comunque dotato di potenti agganci di potere tradizionali e in sincronia affettiva con una potente corrente sociale cosiddetta “populista”, soprattutto per riportare in termini controllabili la proiezione di controllo dalla quale dipende in ultima analisi la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi forma.
Quindi, come avevamo detto, per:
-
Restringere le
catene logistiche bisognose di protezione (reincorporando parte della catena
produttiva, soprattutto quella parte che riveste importanza strategica),
-
Ridurre
drasticamente i costi di protezione sostenuti in proprio (cosa che potrebbe
significare anche, e di fatto significa, alzare il “tributo” che le potenze
sottoposte pagano al centro imperiale),
-
Rinegoziare il
multilateralismo e quindi ridefinire a proprio maggiore vantaggio i margini di
autonomia economica degli attori principali (USA, Europa in via di
disarticolazione, Russia, Cina, Giappone),
Per ottenere tutto questo, e rigarantirsi gli spazi di autonomia strategica, è indispensabile però reindustrializzare e quindi ribilanciare il commercio, tornando a pagare le importazioni con le esportazioni e non più con la vendita di “sicurezza” (cosa che sovraestende eccessivamente le forze, comunque limitate, leggeremo Todd in proprosito).
Questo rivolgimento presuppone però anche la ri-messa sotto
controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo
leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque la riaffermazione
della “logica territorialista” alla scala opportuna. Vedremo che su questo
punto ci sono diverse ipotesi nella letteratura geostrategica, la principale è
che nella “grande partita” potrebbero nascere delle scacchiere macroregionali.
Il quadrilatero
di potere sul quale ruota la partita è comunque quello che vede:
-
gli USA,
estrattivi ed imperiali, da una parte,
-
l’arena europea in
via di costante ridefinizione, aspirante egemone con diverse forze riluttanti
ed altre ribelli, dall’altra,
-
il vecchio rivale
russo, inaggirabile nella sua duplice forza militare e fondata su materie prime
e territorio,
-
e il nuovo aspirante
dell’impero di centro cinese, con la costellazione orientale come posta dello
scontro egemonico e ago della bilancia.
“Fare nuovamente
grande l’America” significa per la leadership americana risolvere questo puzzle:
-
Impedire che si
saldi un blocco egemonico esteso all’eurasia, e anche alla sola Asia (comunque
luogo di concentrazione della metà della popolazione mondiale), tenendo
distinte e separate (come peraltro sono state per millenni) le loro diverse
forze e restandone quindi arbitro,
-
trovare un accordo
di coesistenza e possibilmente cooperazione con la Russia, accuratamente restando
in mezzo tra questa e l’Europa,
-
conservare la
propria presa egemonica sull’Europa (riportando dentro una gabbia il demone
tedesco che dall’unificazione sembra voler di nuovo uscirne, perdendo la subalternità strategica che era condizione del permesso a rifarsi potenza dopo la duplice sconfitta militare).
Insomma, un impero americano sfidato, che non può più
essere certo di controllare i meccanismi estrattivi che nutrono la sua relativa
debolezza (la mancata produzione, l’eccesso di consumo, la dipendenza dai
flussi finanziari, l’insostenibile centralità del dollaro) deve necessariamente
ripristinare, prima che sia troppo tardi, l’autentica fonte di sovranità
statuale: il controllo della domanda
interna. Ma ciò, dal suo punto, può avvenire solo se si pongono sotto
controllo responsabile, ovvero se si riconducono alla logica della potenza
dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale, e quindi gli investimenti.
Abbiamo con ciò definito un piano di lettura e ricominceremo
da Giovanni Arrighi nel suo testo del 1999 “Caos e governo del mondo” (letto in due parti, prima e seconda). Ma prima di avviarne la lettura ritorniamo un attimo
sul Poscritto a “Il lungo XX secolo”, del marzo 2009, che è l’ultima cosa scritta e
pubblicata da Arrighi, scomparso in quello stesso anno: a quindici anni di
distanza il politologo italiano ribadisce che l’espansione finanziaria
caratterizzante l’economia globale (della quale dal 1994 al 2009 ha fatto in
tempo vedere il repentino crollo, anche se non la successiva permanenza e in
certo senso sorprendente rafforzamento) non è un fenomeno isolato, e tanto meno
naturale, ma una tendenza storica del
capitalismo. Questa è la “spia” del semplice fatto che “la possibilità di
continuare a trarre profitto dal reinvestimento di capitale nell’espansione
materiale dell’economia-mondo ha raggiunto il limite” (LS, p.393). La
finanziarizzazione in effetti prolunga la leadership, ma nei percorsi storici
sin qui conclusi è anche stata sempre il preludio della crisi terminale. Quando
una nuova forma di egemonia (dovremo tornare su questo termine assolutamente
centrale nell’analisi di Arrighi) finalmente si presenta, i capitali resi mobili
si travasano e il potere cambia indirizzo, ponendo anche termine alla
finanziarizzazione (perché i capitali trovano nuova applicazione in una
rinnovata fase espansiva): le “fasi finanziarie” sono dunque, nel loro ciclo
espansione-ritiro, un essenziale momento di riorganizzazione del “regime di
accumulazione”.
Ma, poiché la storia non ha leggi (ma solo regolarità
percepibili a cose fatte ed avvenute) la terza tesi del libro era che questa
volta sembra che lo schema abbia subito una variante: probabilmente il crollo
sovietico ha determinato una “biforcazione”, il potere militare è rimasto
saldamente in mano all’egemone “declinante”, mentre quello economico
finanziario si è spostato in oriente. La situazione è dunque di difficile previsione
e potrebbe anche a lungo restare nel “caos sistemico”.
La meccanica proposta è piuttosto semplice:
-
L’espansione
materiale, condotta inizialmente ordinatamente sotto uno schema egemonico, e
dunque entro una sorta di “divisione del lavoro” gerarchicamente ordinata, ad
un certo punto incontra i limiti (dell’egemonia) e allora la sovraccumulazione
di capitale, ovvero la sovrabbondanza di capitale rispetto alle opportunità di
investimento valide, determina il passaggio a una fase aspramente concorrenziale.
Questa induce i singoli agenti economici a spostare risorse crescenti in forma
liquida (a causa della riduzione dei margini di profitto derivanti dalle
normali attività produttive e commerciali).
-
Questa circostanza
determina l’aumento dell’offerta di capitale mobile ed una espansione
finanziaria quando si manifesta a fronte una corrispondente domanda. Per Arrighi
ciò avviene storicamente quando la concorrenza tra gli Stati (anche qui segno
di riduzione di egemonia da parte dell’attore d’ordine) per il capitale mobile
si inasprisce. E gli Stati passano a questa politica (ne è espressione in
Italia la separazione Banca d’Italia-Tesoro e lo esprime bene, anche se
inconsapevolmente Guido Carli), perché la riduzione degli investimenti nella
produzione e commercio, con la relativa stagnazione generale, avvia una crisi
fiscale. Le restrizioni di bilancio, derivanti dal rallentamento dell’espansione
commerciale e produttiva, determinano allora una più intensa competizione per i
capitali che nel frattempo si sono accumulati nel sistema finanziario mondiale.
Ciò comporta quello che Arrighi chiama “redistribuzioni sistemiche di reddito e
ricchezza dalle comunità più varie agli agenti che controllano il capitale
mobile, così gonfiando e sostenendo la redditività di transazioni finanziarie
ampiamente separate dal commercio e dalla produzione”. Su questo tema rinvia a “Caos e Governo del mondo”, in
particolare al capitolo “Le origini
sociali delle egemonie mondiali”.
Negri e Hardt, in “Impero”
(I), interpretano questo schematismo della scuola di Braudel (Wallerstein, Arrighi, Samir Amin e, fino al 1999, Andre Gunder Frank), come l’annuncio
di un “eterno ritorno del medesimo” che impedisce di prendere in considerazione
la possibilità di quella che chiamano “una rottura sistemica, un mutamento di
paradigma, un evento”. In altre parole se “tutto deve ritornare” (catturato in quella che
Braudel chiamava “la dialettica delle durate”), in uno schema ciclico allora viene
nascosto quello che l’ex operaista chiama “l’identità del motore che alimenta i
processi della crisi e della ristrutturazione”, ovvero la lotta di classe.
Insomma, sotto il peso dell’apparato storiografico (e quindi del metodo seguito), a parere di Negri anche la crisi degli anni settanta
diventa “un mero episodio dei cicli inevitabili e oggettivi dell’accumulazione
capitalistica, piuttosto che essere compresa come l’esito dell’attacco
proletario e anticapitalistico sia nei paesi dominanti che in quelli subalterni”
(I, p.226). L’ipotesi alternativa proposta è che furono invece queste lotte a
determinare la natura della ristrutturazione capitalistica, non la competizione
intercapitalistica, come nello schema ciclico. Di qui la fuga in avanti di
Negri, che immagina possibili “futuri” non “condannati a ripetere i
precedenti cicli del capitalismo”, ma a fuoriuscirvi; dandosi il compito di lavorare a “decifrare i
punti delle reti transnazionali della produzione, i circuiti del mercato
mondiale e delle strutture globali di comando capitalistico” nelle quali si “concentrerebbe
il potenziale di rottura” e quindi “il motore del futuro”. Alla “guerra di
posizione” si contrappone una nuovamente possibile, ma del tutto immaginaria, “guerra
di movimento”.
Torneremo a suo tempo sul libro di Negri, ma ora può
essere interessante leggere la replica di Arrighi al punto sollevato: è vero
che il libro enfatizza la periodicità delle espansioni finanziarie,
rintracciando più ciò che hanno di eguale (la struttura) che le evenienze
individuali della loro affermazione concreta, ma ciò non implica che non
possano darsi rotture di paradigma. Questa replica assomiglia alla distinzione
che fa l’ultimo Marx, nella lettera alla redazione della Otecestevennye Zapiski,
(cit. in Musto, “L’ultimo
Marx”, p.61), quando afferma che lo schematismo con il quale aveva
più volte descritto il percorso attraverso il quale il capitalismo era emerso
dall’ordine feudale, era solo uno “schizzo storico” di un caso concreto, quello
europeo, e non “una teoria
storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli,
indipendentemente dalle circostanze storiche in cui sono posti”.
La cosa dovrebbe essere letta quindi al contrario:
quel che si vede dall’esperienza storica è che il ritorno del “medesimo” (l’espansione
finanziaria, ogni volta diversa) ha sempre prodotto proprio fondamentali
riorganizzazioni del sistema. Non si tratta qui di costruire teorie “sovrastoriche”,
ma di cercare di trovare ordine e comprensione nell’accumulo di eventi dati. Tutti
i libri di Arrighi sono aperti riguardo al futuro, come è giusto.
Certo comunque viene prodotto quello che chiama “un
modello evolutivo”, ma non rivolto ad un fine. Arrighi resta ancorato all’intuizione
di Marx, che richiama, secondo la quale “il
vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”, per cui
la produzione supera sempre i suoi limiti, ogni volta con “mezzi che la pongono
di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta” (Karl Marx, Il Capitale, III Vol. p.350). Solo che estende
questa osservazione agli interi sistemi geopolitici.
In altri termini, se “la
produzione capitalista è il capitale stesso” (Marx), allora la
contraddizione, anche per Arrighi nasce nel fatto che “la produzione è solo produzione per il capitale, e non per la continua
estensione del processo vitale per la società dei produttori”, o, con le
parole dello studioso italo-americano: “l’essenza della contraddizione è che,
in tutti i casi storici, l’espansione mondiale del commercio e della produzione
rappresenta un mero strumento, diretto soprattutto ad accrescere il valore del
capitale, e tuttavia, nel corso del tempo, tale espansione tende a far
diminuire il saggio di profitto, decurtando così il valore del capitale” (LS,
p.400). Se, concretamente, questa contraddizione porterà ad un nuovo regime
egemonico o no (ovvero al caos o ad un nuovo ordine) è, e deve restare, aperta perché
è questione storica che dipende dallo scontro delle forze (incluso dei
lavoratori).
Se quella di Arrighi fosse davvero una filosofia della storia evoluzionistica (e funzionalista),
allora avviata la “crisi spia” negli anni sessanta-settanta, avremmo
necessariamente un degrado finale, con perdita di controllo, entro gli anni dieci-venti,
e una nuova egemonia, con periodo espansivo, si avrebbe entro gli anni
trenta-quaranta. In questo caso il nuovo modello egemonico, per risolvere i
problemi del precedente dovrebbe essere:
-
esteso al mondo,
-
senza le
esclusioni tattiche (cfr. guerra fredda) del precedente;
-
estensivo, ovvero
cosmopolita-imperiale, anziché manageriale-nazionale come quello USA (vedremo
la lettura di Todd in “Dopo l’Impero”);
-
capace di
rispondere sia ai costi di riproduzione della vita umana sia della natura.
Si tratta di “aspettative”, come le definisce, che
dipendono secondo me anche dalla cultura ed attitudini dell’autore e della
comunità di studio e forma di vita nella quale è stato immerso, ma anche per
lui non è detto che il sentiero che si prenderà sarà questo. Non bisogna
dimenticare che i modelli che “osserviamo ex post sono il frutto di contingenze
geografiche e storiche tanto quanto di necessità storiche” (LS, p.402).
L’anomalia principale, che potrebbe fare scegliere un
altro sentiero è l’attuale strapotere dissimmetrico militare (che rende
improbabile uno scontro militare, come si ebbe in tutte le transizioni
precedenti, e ne renderebbe comunque incerto l’esito). D’altra parte “l’arcipelago
capitalista” dell’Asia orientale, e non necessariamente una delle sue componenti,
si è affermato come “officina” e “salvadanaio” del mondo. In altre parole ha beneficiato
sia dei flussi finanziari, volti a costituire riserve (come abbiamo
visto per risposta alla imposizione senza egemonia degli organismi
internazionali a guida statunitense tra gli anni novanta e zero), sia dei
flussi di investimenti diretti all’estero, a partire dagli anni ottanta e
novanta, rivolti ad esternalizzare le produzioni. Direbbe Negri (e Streeck) in
risposta all’offensiva del mondo del lavoro in occidente.
È quindi il “potere collettivo” di natura economica
dell’arcipelago che costringe i centri del potere capitalistico a
ristrutturarsi.
Arrighi rispetto a “Il lungo XX secolo”, sia in “Caos
e governo”, sia nell’ultimo libro “Adam
Smith a Pechino”, focalizza a questo punto come potenziale egemone la Cina
(invece del Giappone), ma secondo lui qualunque possa essere, questa nuova
egemonia sarebbe diversa.
Il concetto di
egemonia è centrale in questa analisi, che altrimenti potrebbe sembrare
puramente economicista. Ciò che rende critica la posizione americana per
Arrighi, non è tanto lo spostamento dei capitali mobili verso oriente, o la
forza produttiva e commerciale (anche se profondamente radicata nelle
tradizioni della regione e potenzialmente avvantaggiata dalla presenza della
metà della popolazione mondiale entro un’area tutto sommato ristretta), quanto la caduta della capacità degli USA di
legittimarsi. E quindi di restringersi ad un “dominio senza egemonia”. Gli Stati
Uniti difetterebbero quindi, in misura decisiva di quello che Nye chiama “soft power” e della capacità di trasferire i propri valori e priorità ad altri, e
farle accettare ed interiorizzare, trasformandole in un sistema di controllo
per incorporamento.
Si tratterebbe, quindi, di una “sorta di suicidio”,
più che dell’esito inesorabile di un determinismo storico. Gli Stati Uniti sono
ormai diventati la principale nazione debitrice del mondo, a causa di un enorme
squilibrio commerciale ed una relativa deindustrializzazione, e restano
individualmente troppo deboli (pur essendo i più forti) per determinare da soli
la soluzione dei problemi mondiali.
A marzo 2009, quando ha ancora tre mesi di vita,
Giovanni Arrighi lascia dunque questo auspicio: si augura che la crisi si
risolva nella nascita di una società mondiale di mercato, basata sul mutuo
rispetto delle culture e delle civiltà, imperniata su una forza non imperiale
come la Cina e sulla costellazione orientale, e su un modello di sviluppo radicalmente
diverso “che, tra le altre cose, sia socialmente ed ecologicamente sostenibile
e offra al sud globale un’alternativa più equa al persistente dominio
occidentale”. Possibilmente senza passare per il caos sistemico.
Alla fine, come Negri e Hardt, anche Arrighi faceva
culturalmente parte del “network globalista”, cosa che non ci può impedire di
leggerlo con grande attenzione e interesse, e di imparare.
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