Nel 2013 Parag Khanna, un più che
influente scrittore di geopolitica e mondializzazione, insieme a Ayesha Khanna, che è sua moglie,
imprenditrice ed esperta di innovazione tecnologica oltre che Phd alla London School of Economics, scrivono
questo piccolo e denso libro che
predispone alla lettura del successivo ed appena edito in Italia “La
rinascita delle città stato”. Per riportare un sintetico giudizio di un
amico molto esperto di questa letteratura “città stato governate da tecnocrazie
+ mano invisibile ed una spruzzata di diritto-civilismo”.
In “la
grande partita”, avevamo annunciato una sistematica lettura di un autore
importante non tanto per la solidità e coerenza di quel che sostiene, quanto
per la perfetta espressione della mentalità di alcune élite tecnocratiche e del
loro modernismo a-democratico.
In fondo l’idea è molto semplice e per niente
originale: la tecnologia (o meglio,
la “techink”, come vedremo) favorisce “la
stabilità di una società globale connessa da un infinito numero di reti”, che
esprime una “equilibrio auto-ordinante” (p.110). In sostanza si tratta di
una sorta di hayekismo in salsa moderna (anzi in versione cyber-racconto).
Saremmo infatti in una “età ibrida” nella quale tutte le strutture rigide (in
primis gli Stati nazionali, ovviamente, e la funzione pubblica ad essi
connessa) falliscono nel porre “in sintonia” i sistemi socioeconomici ed
ambientali e quindi nel garantire “la stabilità”.
Seguendo l’antico ideale (una cattiva lettura, ideologica,
della letteratura del moralismo scozzese, Adam Smith in primis) dell’emersione
dell’equilibrio come effetto e non come volontà, quella autentica invenzione
controfattuale, che compare improvvisa nel testo, della “società globale” deve per i Khanna essere necessariamente prodotta
e stabilizzata da identità e connessione. O con le loro parole da “un sistema
più resiliente costituito da maggiori capacità locali unite a un accesso
globale alle risorse”, cioè da una governance fatta ormai da “reti
decentralizzate che coordinano i servizi via internet: reti di proprietà e
condivise da molti, con una fluida connettività volontaria”.
Il mio amico immagina che simili uscite siano
commissionate direttamente da Silicon Valley, e magari è vero.
Chiunque sia a finanziare la sua ricerca, queste idee
sono estremamente influenti e diffuse. Dunque vale la pena seguirne lo
sviluppo, anche se tutti i testi di Khanna sembrano costruiti con un
frullatore: frammenti e aneddoti montati facendo uso di concetti sfocati ed
esposti con leggerezza sconcertante.
L’argomentazione dei due autori muove dalla ripresa di
due testi degli anni settanta di Alvin Toffler, “Lo choc del futuro”, e “La terza ondata”, nei quali venivano
anticipate tendenze come la crisi dell’industrialismo ed il sovraccarico
dell’informazione, o come la centralità delle città (globali), ma anche “la
rivoluzione del fai da te”. Uno dei concetti che i Khanna riprendono,
accettandolo, è quindi che il ritmo del cambiamento accelerato sia in sé un
fattore decisivo. La capacità della tecnologia di accelerare il tempo, con
l’ansia che porta con sé, induce secondo loro in sostanza un affidamento che
ancora le nostre vite sul piano psicologico.
Da questa frettolosa osservazione (ma non infondata)
ne deriva che noi viviamo in un’epoca di orlo: sulla frontiera dell’età
dell’informazione che si prepara. Dunque in una “età ibrida”.
Questa “età
ibrida” (frontiera che, con tipica leggerezza concettuale, al termine del
libro diventa “stabilità” ed “equilibrio”) è una “nuova epoca sociotecnologica”
capace di “emergere” man mano che “le tecnologie si fondono tra di loro” e con
gli esseri umani. L’idea è, insomma, che le tecnologie siano autoaccrescenti,
per effetto di una reciproca fertilizzazione (ad esempio informazione,
biotecnologia, computazione, robotica, neuroscienze, nanotecnologia, per
riportare un confuso e disordinato elenco che segue), e che siano in via di
penetrazione con lo stesso umano. Con le sue parole: “da un utilizzo della tecnologia all’unico scopo di dominare la natura
stiamo passando alla trasformazione di noi stessi in una struttura pronta ad
essere plasmata dalle tecnologie, integrandole dentro di noi fisicamente. Non
solo usiamo la tecnologia: la assorbiamo” (p. 8). Sono frasi a grande
effetto in una conferenza a pagamento.
Come dice ancora, con una frase dalla vertiginosa
imprecisione: “nell’età ibrida, quindi,
la natura cessa di essere una verità distinta e immutabile” (la natura
cessa di essere una verità?). Peccato che immediatamente dopo faccia un esempio
che risale al 1800. Dunque “l’età ibrida”, poi, in fondo, non è che l’età
tecnologica.
Ma questa età
accelera. E l’informazione che sta
assumendo un ruolo sempre maggiore; anzi: “molti oggetti del mondo reale hanno
acquisito un’ombra’ digitale” che, nell’accelerare dell’età ibrida diventerà
“una forma di vita in sé e per sé”. Se non si fosse capito subito dopo
chiarisce il senso della frase, questa età è “ibrida” perché introduce all’età
post-umana della “singolarità” di Ray Kurzwell “La
singolarità è vicina” (prevista per la metà del secolo in corso).
Dunque questo sogno-incubo ha anche una data di fine,
durerà più o meno trenta anni, e porterà ad un’epoca realmente globale nella
quale nessuno dominerà (presumibilmente perché in fondo a farlo non sarà più
l’uomo). Un’epoca che secondo gli autori si sta già presentando anche a livello
geopolitico, dato che nessuno domina effettivamente il gioco. L’autore di “Connectography”, nel quale sostiene questa
tesi, vede addirittura l’Africa e l’America Latina come “giocatori e non
pedine” per la prima volta sullo scacchiere mondiale. Inoltre vede centrali le
reti di trasporti e comunicazione (spenderà molte parole per descrivere le
nuove “vie della seta”) come cinghie di trasmissione della stessa tecnologia.
Dunque ne conclude che Nord/Sud, ed Est/Ovest non siano più punti di
riferimento imprescindibili, in quanto ci sono forze (che nel seguito
identifica essenzialmente con quelle di mercato, ovvero le grandi imprese
globali che sono anche le sue principali clienti come consulente) che “dialogano, commerciano e competono tra loro
in termini sempre più paritari”. Certo, qui, l’affermazione, che è del
tutto lontana dalla realtà dei fatti, ma poggia interamente su quel “più”. Insomma, il mondo accelera, per
sua propria dinamica, e verso la sempre maggiore connessione.
La connessione, seguendo un’antica pre-comprensione, è
in sé antigerarchica e quindi priva di potere. Si tratta di una idea al fondo
settecentesca, derivante dall’ethos di una società commerciale che spingeva per
superare i limiti di una aristocratica, e che negli autori sembra del tutto
ignara delle riflessioni che, alla luce del trauma della ‘banalità del male’ il
novecento ha stratificato sul potere.
Sulla base di questa sostanziale ignoranza i due
Khanna (nati alla fine degli anni settanta, in India, e residenti a Singapore)
possono immaginare che sia alla vista una nuova “fine della storia”; una fine
che non sia quella progressione teleologica verso la democrazia liberale
precognizzata da Fukuyama (in “La fine della storia e l’ultimo uomo”)
quando lavorava per il Dipartimento di Stato USA, ma in effetti “una rottura molto più sistematica con il
passato nel suo insieme” (p.12). Ovvero, come vedremo e come dirà meglio
nei suoi libri successivi, anche con la
democrazia stessa.
In questa età di transizione, insomma, la tecnologia
svilupperà modelli evolutivi suoi propri e diventerà sempre più pervasiva, come
l’aria che respiriamo. Attiverà una co-evoluzione umano-tecnologica.
Una co-evoluzione nella quale troveranno spazio nuove
potenze, come la Cina che “domina il settore manifatturiero” e produce “l’innovazione
pianificata” fatta di ingenti finanziamenti pubblici mirati a specifici
settori. Questa osservazione, fattualmente corretta, non si sposa con l’intera
ispirazione del testo, ma pazienza, nel frullatore c’è posto per tutto.
In questa età che si affaccia, oltre alla semplice
dimensione (che a suo dire non è più decisiva, dato che piccole città come
Singapore possono ritagliarsi uno spazio) anche l’autorità è quindi da
rivedere. Infatti “la centralizzazione perde terreno in favore della
diffusione” (anche se la pagina prima vantava la centralizzazione degli
investimenti per la ricerca), grazie ad esempi come i guerriglieri ed i
terroristi, e le città guadagnano centralità grazie alla loro connessione.
È in questo contesto che viene introdotto il
quasi-concetto centrale dell’analisi degli autori: la “technik”. Si tratta in fondo della semplice evocazione del termine
tedesco che fa riferimento, al contrario di quello inglese, ad un insieme di
abilità, processi ed esiti tecnologici. Richiamando due autori distantissimi
come Spengler e Mumford, gli autori rinviano allora ad un insieme di dimensioni
“scientifiche e meccaniche” (?) e all’interesse per gli effetti sociali e
umani. Dopo questa confusissima e breve caratterizzazione giungono alla
definizione della “technik” come “il
quoziente tecnologico della civiltà”.
Dunque la “technik” determina la capacità di
adattarsi, e attraversa trasversalmente le contrapposizioni tradizionali. Dopo
Spengler e Mumford arriva William Gibson.
L’eclettismo degli autori passa dunque a fare
classifiche nelle quali troviamo una rassegna degli indicatori (PIL, HDI, NRI)
e il rovesciamento delle classifiche, con la Cina tecnocratica sopra molti
paesi democratici, non sorprendentemente Singapore al vertice (insieme a Svezia
e Finlandia). La lotta per acquisire technik è dunque “la nuova lotta di classe mondiale” e senza confini predefiniti. Ma,
molto curiosamente (probabilmente l’autore non sa bene cosa significhi il
termine), una lotta di classe che si combatte individualmente (“singoli
individui, imprese, comunità, città e nazioni”, uno strano elenco, no?).
Segue un altro concetto sfocato: il “generativismo”.
Che serve a individuare la necessità che i sistemi di istruzione evolvano verso
un “apprendimento generativo peer-to-peer”
e nello sviluppo di una “technik personalizzata”. Infatti la sfida è grande: “solo
acquisendo delle competenze e mettendole sul mercato i lavoratori occidentali
possono procurarsi quelle opportunità che una situazione di crescita senza
occupazione non può certo offrire” (p.47).
Ovviamente non può che essere così, dato che l’”età ibrida”
è quella che predispone per l’età post-umana, nella quale la produzione e tutte
le forme della cognizione saranno superate e incorporate da una intelligenza
artificiale pervasiva (e determinata nella rete) che ormai supera e trascende
le capacità della specie. L’orizzonte dei Khanna è di una inevitabile
separazione tra crescita economica (ma lo stesso termine, dato che ha a che
fare con il valore, dovrebbe essere riguardato, cosa che è oltre i loro mezzi)
e occupazione, “soprattutto perché le
macchine intelligenti saranno diventate parte integrante della forza lavoro”.
Ci saranno sempre più specializzazioni e sempre meno lavoro.
Chi resterà utile dovrà, dunque, ricercarsi delle
nicchie nelle quali ritrovare il proprio valore. Segue il solito elenco di
innovazioni e dinamiche che indicherebbero l’insorgenza spontanea di una nuova
economia peer-to-peer per ovvia definizione più paritaria e antiautoritaria.
Una nuova economia fatta da “una nuova classe di piccoli imprenditori e
artigiani che vendono i loro articoli su Etsy.com” (ed altre piattaforme
rigorosamente private e spesso monopoliste). Questa economia ha il potere di
“sottrarre posti di lavoro” molto più della esternalizzazione (ovvero della
fuga delle imprese industriali verso i paesi a basso costo del lavoro che è
tanta parte della cosiddetta “convergenza” del mondo ex non industriale).
Questa trasformazione “potrebbe persino minacciare le fasce economiche più
agiate. Man mano che l’automazione diventa più intelligente, sono a rischio
anche i posti di lavoro dei colletti bianchi in settori come la medicina
(scansioni a raggi x), la giurisprudenza (analisi dei testi), o la traduzione”.
Cioè, “la combinazione tra intelligenza
artificiale e automazione potrebbe di fatto spezzare il legame tra economia e
umanità”, creando la “disoccupazione ctyber-strutturale”.
Naturalmente questa prospettiva anche per gli autori è
preoccupante, e interessa tutti gli stati, anche i più forti. Tuttavia l’unica
soluzione cui riescono a pensare (dato che si è dopo “decenni di crescita
basata sul debito”, cosa che è vera peraltro) è far da sé. Ovvero “far leva sulla tecnologia per diventare attori
economici”.
Insomma, ad un problema collettivo, determinato dalla
dinamica complessiva della forma della produzione contemporanea (anche di
umanità) si può rispondere solo individualmente. Occorre, cioè, “far diventare
l’individuo un brand”; una mentalità che “per la fascia alta della popolazione
è diventata una religione”.
Ma per la fascia media e bassa? Cioè, come dicono, per
“tutti gli altri: la massa”? Qui la cosa è semplice, saranno esternalizzati.
Senza le opportune conoscenze (e per definizione non le avranno, dato che quel
che si cerca per fare di sé un ‘brand’ è una conoscenza distintiva, qualcosa
che ci renda ‘indispensabili’, una cosa che si dissolve non appena l’hanno
tutti), saranno abbandonati al “lavoro a chiamata”, che è sempre “gig”:
“lavoretti precari”. Oggi più di un
terzo degli americani è catturata in questa prospettiva, e crescono.
Lo spirito del testo emerge con palmare evidenza in
questo passaggio. Invece di approfondire il problema dell’ineguaglianza
crescente o del degrado dello spirito civico e della democrazia che ne
consegue, chiudono il capoverso inneggiando alla possibilità delle persone “di
innovare”.
Insomma, se “tutto
può essere mercificato, quantificato e scambiato elettronicamente”, e oggi
seicentomila persone affidano il proprio sostentamento al microcommercio su e.bay (ancora una piattaforma
monopolista privata), o vendendo il proprio lavoro part time su Mechanical Turk, non sanno dire altro
che il vecchio slogan della “economia condivisa in cui il consumo e la
proprietà cedono il passo all’utilizzo e la collaborazione”. Unica prospettiva
è “acquisire, a livello individuale, un maggiore controllo sul valore del
proprio tempo”, in sostanza facendone merce fino all’ultimo secondo di vita:
“essere implacabili nel trarre profitto”.
Descrivendo questo autentico incubo, che solo
l’abissale mancanza di sensibilità di una coppia di superpagati consulenti in
sostanza per vendere sogni riesce a non vedere, i due Khanna immaginano che il
99% delle persone possa avere “maggiore
indipendenza economica dal restante 1%”. Ovvero, traducendo in altri
termini che il 99% delle persone, prive di capitale e quindi del possesso dei
mezzi di produzione, lavorando “liberamente” sulle piattaforme di questi, sarà
flessibilmente in grado di mercificare l’intero proprio tempo, uno spicciolo
alla volta, guadagnando così un’apparenza di indipendenza nella continua,
frenetica, lotta per trovare il prossimo “lavoretto” (o vendere il prossimo oggettino
a qualche annoiato e superpagato consulente dall’altra parte del mondo).
“E’ davvero ora che il tempo diventi denaro” (p.59).
Parag e Aysha Khanna hanno il coraggio di definire questo
oceano di disperazione un “sistema più equo”, nel passaggio da un “capitalismo
gerarchico a uno basato sulle reti”, nel quale le capacità e la connettività
degli individui aumenterà “a spese dei monopoli” (anche se passerà su monopoli,
dell’informazione) in modo che ognuno possa “conquistarsi la propria technik”. Sono questi passaggi che fanno
sospettare al mio amico che ci sia un committente.
Si arriva fino al punto di immaginare una ricerca
scientifica applicata in grado di “spiegare la natura della coscienza e anche
di manipolarla”, ad esempio cancellando dei ricordi selettivamente a mezzo
farmaci. E dunque di fare dell’uomo un vero e proprio cyborg, dalla connessione
di bioingegneria, optogenetica e neuroprostetica, naturalmente un cyborg per
chi se lo potrà permettere.
Completa il quadro, e con giusta logica, l’apologia
della tecnocrazia che è introdotta da una opportuna citazione di Platone “la punizione del saggio che rifiuta di
prendere parte al governo è vivere sotto il governo di uomini peggiori di lui”.
Anche in questo caso il concetto in purissimo stile èlitista del grande
filosofo greco è speso in favore di quello che con abissale leggerezza chiama
“una fonte di potere più profonda -l’autorità”. La frase è da rileggere: “oggi
ciascuno di loro [aziende, ong, governi] ha accesso alla fonte di potere più
profonda -l’autorità- per costruire il consenso che legittimi la loro
influenza” (p.71). E’, a tutta evidenza, una frase incomprensibile: l’autorità
sarebbe una fonte di potere (e non una sua conseguenza) e sarebbe utilizzata da
una pluralità di soggetti eterogenei che vi hanno accesso per costruire, dopo la cosa, il consenso allo scopo di
legittimare l’influenza di cui dispongono. Insomma, l’autorità non deriva
dall’assenso, ma questo da quella (evidentemente con le tecniche prima descritte).
Siamo, abbastanza evidentemente, dietro tutta la
tradizione moderna.
Segue una tassonomia delle fonti di potere dei
“soggetti dominanti”, che si vuole generalissima ma resta confusa e inutile a
comprenderne il meccanismo (risorse, identità, autorevolezza, tecnologia), e la
soddisfazione per una riduzione del “sistema più gerarchico”, il governo, ad
“assemblaggi inediti di attori diversi che si associano liberamente”.
Per gli autori è una “nuova impostazione di governance che potrebbe anche soppiantare la
democrazia” (p.72). Non è infatti questa il sistema più adeguato per l’età
ibrida (magari grazie alle tecniche di neurocontrollo centralizzato che richiamano).
Il riferimento è alle tecniche di rilevazione diretta, ai feedback di vario genere
che si istituiscono nelle reti, e sulle piattaforme; alla pluralità di hackeraggi.
Ed all’ambiente di questa nuova prospettiva, che è la tecnocrazia.
Bisogna, insomma, per facilitare la transizione “diffondere
più Technik che democrazia” (p.101) in modo da accedere ad una sorta di “pax tecnologica”;
ovvero “un nuovo sistema sociotecnologico
che plasma ogni cosa al suo interno più di quanto un singolo potere plasmi il sistema
stesso” (p.108).
Nel loro solito linguaggio poco accurato, un autentico incubo (peraltro non nuovo).
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