Su L’Antidiplomatico
troviamo un articolo-intervista
all’economista ed attivista egiziano, Samir Amin, di cui abbiamo già letto
l’importante saggio del 1973 “Lo
sviluppo ineguale”. Nell’intervista, Raffaele Morgantini chiede al teorico
dei processi di dominazione nord-sud e del concetto di “sviluppo ineguale”
(perché schiacciato dalla forza di dominio della logica intrinseca della
competizione e del capitale) quale ritenga sia la natura dell’attuale fase. In
linea con la sua essenziale interpretazione, già presentata nei primi anni
settanta, Amin risponde di ritenere l’attuale “crisi” come una nuova fase di
tendenziale stagnazione (una “L”, anziché una “U”) la cui logica non consente
una stabile ripresa. Come vedremo nella lettura del suo libro del 2009 “Crisi”, la sua risposta è dunque di avviarsi
nella lunga marcia che possa portare oltre il capitalismo stesso.
Si tratterebbe, in sintesi, del segnale di un
esaurimento storico. Ma non di un pacifico declinare, tutt’altro. L’osservatore
che instancabilmente ha visto il mondo dal lato della sua parte più debole
vede, al contrario, un incattivirsi. Un esasperare la capacità estrattiva (come
illustra anche l’ultima Saskia Sassen in “Espulsioni”)
che produce da una parte sempre più stagnazione, dall’altra ancora più
polarizzazione. L’insieme di polarizzazione e stagnazione non consente di
distribuire, sia pure in modo scandalosamente ineguale, benefici passabilmente
estesi, e dunque è palesemente insostenibile.
Come vedremo nella lettura di “Oltre la mondializzazione”, del 1999, la fase
del capitalismo monopolista (analizzato negli anni sessanta da Sweezy e Baran,
tra gli altri), che si è avviata negli anni novanta, e giunge ai termini
estremi del suo contraddittorio sviluppo al termine degli anni dieci, vede
l’estensione su scala mondiale di monopoli sempre meno fondati sulle tecnologie
produttive industriali, ma sempre più su punti di controllo politici. Infatti,
come dice riprendendo un denso tessuto di studi che risalgono a Polanyi, “l’economia è incastrata in un iceberg di
rapporti sociali di cui la politica costituisce la parte emergente” (ivi,
p.108), per cui il capitalismo va compreso come un sistema politico e sociale
in cui si innesta la competizione essenzialmente tra i proprietari del capitale
di volta in volta dominante. Oggi non è più l’industria, come nel trentennio
seguito alla seconda guerra, ad essere il centro di gravità sul quale si
concentrano i capitali dominanti e si genera la polarizzazione, con i suoi
effetti di potere, ma è il dominio delle
tecnologie emergenti, il controllo
dei flussi finanziari e della sua dinamica (anche in base al controllo del
sistema delle Banche Centrali), l’accesso
prioritario alle risorse naturali del pianeta (e la capacità di
determinarne il prezzo), il controllo
essenziale dei mezzi di comunicazione ed il monopolio della forza di distruzione. Questi monopoli, come detto
essenzialmente “extraeconomici”, determinano nel loro insieme l’effetto di
costringere tutte le attività economiche realmente produttive allo stato di
“subappaltatori” e garantisce una rendita essenziale (e parassitaria) a chi li detiene.
Si tratta del largo processo di informatizzazione e robotizzazione, e più di
recente di avvio verso la IA di generazione effettivamente produttiva, che
induce un crescente accentramento del capitale e il declino del valore (qui
sembra di riecheggiare le analisi
del gruppo Krisis). Ma non è affatto la tecnologia a “governare la storia”,
bensì piuttosto “il conflitto per il suo controllo” (come aveva immaginato Marx
nel famoso “frammento
delle macchine”).
In questo contesto anche l’emergere di alcuni paesi,
nei quali si sta facendo strada una certa classe media che lascia indietro la
grandissima parte della popolazione, è da leggere per Amin soprattutto in
termini di possibilità crescente o meno di perseguire un percorso di autonomia
politica. ovvero di autonomizzazione dalle forme del capitale dominante e non
di inserimento subalterno in esse. L’unico paese che rispetta, in parte, questo
standard è la Cina, in cui il progetto di innalzamento nazionale della
ricchezza e potenza è accompagnato sia dallo sforzo di integrarsi nella
mondializzazione (sforzo ambiguo, come risulta dall’analisi contenuta negli
altri suoi libri) sia, però, di cercare di esercitare il controllo sulle
dinamiche. Questa potenziale indipendenza ne fa il principale avversario del
sistema occidentale di controllo del mondo (che include ovviamente il
Giappone).
Paesi intermedi sono l’India e il Brasile, che restano
essenzialmente nel ruolo di paesi esportatori di materie prime, ma nel quale
alcuni mercati stanno emergendo, lasciando indietro la società.
Poi ci sono i paesi semplicemente saccheggiati: quelli
arabi, africani e sudamericani.
Di fronte a questo breve quadro quella che Amin chiama
una “tentazione” è di immaginare che “di
fronte ad una crisi del capitalismo globale la risposta debba essere egualmente
globale”. Una simmetria apparentemente ovvia, ma in effetti causa di sicura
sconfitta. Nessun cambiamento, mai, si è dato in questo modo, con una
miracolosa sincronizzazione di tutte le situazioni e di tutti i cambiamenti. Al
contrario, i progressi “sono sempre partiti da quelle nazioni che costituiscono
gli anelli deboli nel sistema globale: progressi differenti da un paese
all’altro, da una fase all’altra”.
Contrariamente a quanto da lui stesso in precedenza
scritto, ora Amin riconosce, ad esempio, che nel caso europeo è necessario che
“la decostruzione si imponga prima della ricostruzione”, ovvero bisogna passare
per “la decostruzione del sistema europeo se si vuole costruire un altro su altre
basi”. Cioè “occorre uscire
dall’illusione della possibilità di ‘riforme’ condotte con successo all’interno
di un modello che è stato costruito in cemento armato per non essere cosa
diversa da ciò che è. La stessa cosa per quanto riguarda la mondializzazione
neoliberale. La decostruzione, che si chiama qui disconnessione, non è certo un rimedio magico e assoluto, che
implicherebbe l’autarchia e la migrazione fuori dal pianeta. [Ma] La
disconnessione chiama al rovesciamento dei termini dell’equazione: invece di accettare di adeguarsi
unilateralmente alle esigenze della mondializzazione, si tenta di costringere
la mondializzazione ad adeguarsi alle esigenze dello sviluppo locale”.
Dunque “decostruzione”
di ciò che è costruito per essere adatto solo al modello del capitale
neoliberale, e “disconnessione” dal
sistema di competizione selvaggia della mondializzazione.
Ma “Disconnessione” significa ovviamente “porre una
domanda fondamentale: quella della
sovranità. E’ un concetto fondamentale del quale dobbiamo riappropriarci”.
Qui si sta nel centro di un largo conflitto, e con
Samir Amin in modo del tutto consapevole. La storia non è, infatti,
“determinata dallo svolgersi infallibile delle leggi dell’economia ‘pura’. [ma]
è prodotta dalle reazioni sociali alle tendenze espresse da tali leggi, che a
loro volta definiscono i rapporti sociali al cui interno esse operano” (Amin,
“Crisi”, p. 155). Del resto queste presunte “leggi”, altro non sono che il
profitto. Dunque l’avvenire non è predicibile, dipendendo da un complesso gioco
di azioni e reazioni nelle quali “il caos è tanto naturale quanto l’ordine”, in
sostanza l’emergenza di uno o l’altro è sempre eventuale. Dunque la critica che
Amin avanza, da lungo tempo, alle impostazioni di Manuel Castells (“La nascita della società delle reti”) e Negri
(“Impero”) è che questa presunta emergenza
è sempre strutturalmente subordinata alla logica capitalista dominante. Il
discorso sulle “moltitudini” finisce per essere alla fine una versione un poco
naif del discorso neoliberale dominante, imperniato su “the people” (la gente),
che riduce la società alla semplice somma degli individui che la compongono. Si
tratta di “illusioni che sono nel migliore dei casi di una sconcertante
ingenuità” (p.157).
Dunque “sovranità
di chi?” Se la società insediata in uno spazio, quindi con dei confini e
dei poteri propri, è più della somma degli individui che la compongono, si
tratta di capire quale è la fonte della sovranità nazionale che si ricerca:
quella che si limita all’espressione delle classi dirigenti, rivolta
contemporaneamente a rendere utile e disciplinato i corpi dei lavoratori e al
rafforzare la competizione verso altri centri analoghi. Oppure la forma di nazionalismo
che si è vista talvolta all’opera nelle periferie del mondo, rivolta contro le
forme di oppressione imperialiste, cioè “contro la logica della
mondializzazione imperialista attuale”?
In Europa, l’esperienza storica (e la sua narrazione)
conduce a confondere ogni forma di nazionalismo nella versione del primo tipo,
ed a vedere al converso il potere sovranazionale (europeo) come di per sé
progressista e democratico. Anche quando si comporta come ha fatto con la
Grecia.
Ma la sovranità di cui parla Amin è a tutta evidenza
un’altra. Si tratta della sovranità
popolare ad esempio ricercata da Lelio Basso (che cita spesso) che cerca di
far arretrare l’imperialismo capitale mondializzato.
Come ammette subito, si tratta di qualcosa “non facile
da immaginare, perché attraversata da contraddizioni”. Si tratta in sostanza del
progetto di trasferire “il massimo dei poteri alle classi popolari”, e di farlo
democraticamente per giungere ad un mondo effettivamente multipolare. Questo potere
si manifesta a livello locale, e trova forma compiuta nel livello statale che è
ancora, e sarà a lungo, “il luogo delle decisioni rilevanti”.
Come diceva
Lelio Basso nel 1978, “la battaglia per la
democrazia nei singoli paesi deve essere prioritaria rispetto ai fini federalisti”
(parlando del progetto europeo ad un Convegno su Spinelli ed in polemica con quest’ultimo,
che pure era suo amico).
È dunque la ricerca di una “sovranità popolare, progressista e internazionalista”.
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