Premessa: gli
studi regionali
Il libro
di Samir Amin è del 1973, e si inquadra come frutto maturo nel contesto di quei
dibattiti sullo sviluppo che si sono dispiegati in tutti gli anni sessanta come
reazione alle tradizionali teorie quantitative neoclassiche, imperniate su una
nozione di spazio economico completamente astratto e formale. Già Francois
Perroux aveva smosso gli approcci che tentavano di spiegare gli assetti
spaziali a partire dalla nozione di equilibrio grazie alla semplice
osservazione che di fatto l’assetto spaziale economico è caratterizzato da
squilibrio. Cioè è conformato dalla presenza di ‘centri’ e ‘periferie’
(come vedremo nozioni centrali nell’analisi di Amin). Le relazioni tra ‘centri’
e ‘periferie’, è il punto, sono definite da scambi di equilibrio in linea di
principio eguali, o suppongono relazioni ineguali di sfruttamento? La questione
che pone questa domanda è al centro delle cosiddette “scienze regionali”,
avviate negli anni quaranta da Alfred Loesch, ma profondamente rinnovate negli
anni sessanta sulla base di una rilettura che fa uso anche di categorie
marxiste.
Al centro l’idea che lo sviluppo economico, a tutte le
scale, non sia un processo lineare nel quale spontaneamente si realizza
l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse economico degli attori, ma
un processo discontinuo e squilibrante nel quale si producono diseguaglianze, e
quindi potere.
La stagione degli studi regionali è connessa strettamente
con l’emergere e prendere forza dell’intervento pubblico per contrastare e
ridurre i crescenti divari economici a scala regionale (ne è espressione in
Italia lo sforzo di riequilibrare lo sviluppo tra nord e sud, e tra aree urbane
e interne, attraverso investimenti diretti e sistemi di incentivi). Ma il libro
del 73 di Amin è anche testimone precoce dei limiti di questo sforzo riformista:
il sottosviluppo è qualcosa di più di un ‘ritardo’, si tratta più dell’effetto
di una dominazione. Già Perroux, pur in un quadro teorico neoclassico,
individuava in proposito una nozione di spazio come campo di forze sia
centriptete che centrifughe, che determinano attrazione e repulsione degli
attori economici (qui imprese) verso alcuni luoghi anziché altri; si generano
in questo modo dei “poli di crescita” dai quali si origina lo sviluppo
economico in quanto sede di “attività motrici”. Queste, essenzialmente
industriali nella fase, possono essere sia infrastrutturali (trasporti), sia
classi di industrie (siderurgia, automobilistica, energetica) sia servizi
(informatici, finanziari, ricerca). Per fare un esempio recente esprime una
logica di questo genere l’analisi
di Moretti sugli “hub di sviluppo”.
L’impresa motrice esercita una dominazione, sia sulle
imprese connesse, sia sullo spazio regionale coinvolto, in funzione della sua
capacità innovativa (letta in senso schumpeteriano), cioè, dice Perroux della
forza “di imporre ai fornitori un prezzo
di acquisto dei propri input inferiore ai prezzi di mercato”.
Questa osservazione teorica è fatta propria e
utilizzata sistematicamente da Amin, per spiegare lo sviluppo ineguale nel
quale sono intrappolate le periferie del mondo.
Come abbiamo visto anche nell’analisi empirica di
Moretti, la regione dominante, perché sede di imprese e settori “motrici” (è
chiaro che Amin contesta questa implicita valutazione) attrae capitali e
persone in modo selettivo, autoalimentandosi e incrementando la polarizzazione.
In Perroux ciò, come in Moretti, implica una crescita sempre maggiore della
complessità del sistema e della ricchezza generale del sistema, in Amin provoca
anche una sempre maggiore dipendenza e stagnazione delle periferie.
La “causazione
circolare cumulativa”
Inizia ad andare in questa direzione la ricerca di
Hirschman, che sottolinea gli effetti
cumulativi e prevedendo quindi la crescita dello squilibrio tra le aree in
cui si concentrano gli investimenti (al suo tempo nel nord del mondo, ora anche
in alcune aree del vecchio sud) e i “sud”, dove si accumulano i “ritardi”. Il
punto di Hirschman è che la soluzione degli squilibri devono avvenire nel lungo
periodo in modo spontaneo, una idea che in termini diversi è ripresa da Amin.
Un autore che sviluppa queste idee, ed è espressamente
ed a più riprese citato da Samir Amin è Gunnar Myrdal, che contribuisce in modo
notevole alla “teoria della polarizzazione”, con il suo modello della “causazione circolare e cumulativa”, che
esclude di fatto qualsiasi possibilità di addivenire ad un equilibrio
neoclassico tra le parti, ovvero tra centri e periferie.
Sarà poi un autore molto noto agli studi urbani e
regionali, come John Friedman
che è appena scomparso, a formulare l’idea che gli scambi tra paesi industrializzati e regioni sottosviluppate
(una nozione rimessa in questione da Amin) sono
caratterizzati dall’essere “ineguali”. Ovvero scambi attraverso i quali il
centro preleva dalla periferia materie prime, forza lavoro e altro, esercitando
una dominazione. Nella visione olistica di Friedman lo sviluppo economico è
effetto di questi rapporti funzionali dominati e delle condizioni di
organizzazione spaziale, cioè le armature urbane, che le concretizzano. Si
distinguono quindi le aree centrali (dove si concentra la tecnologia, il
capitale ed il lavoro, ad elevata infrastrutturazione ed elevati tassi di
crescita), le aree a tendenza ascendente periferiche, comunque dipendenti dai
centri (Indonesia, Taiwan), le aree di frontiera caratterizzate
dall’ipersfruttamento di qualche risorsa locale, le aree a tendenza discendente
(coinvolte in processi di declino economico, emigrazione e devalorizzazione,
come l’Europa meridionale). Con le sue parole: “I principali centri di
innovazione saranno definiti come regioni centrali: tutte le altre aree
all'interno di un dato sistema spaziale saranno definite come periferiche. Più
precisamente, le regioni centrali sono sottoinsiemi sociali territorialmente
organizzati che presentano un'elevata capacità di trasformarsi in senso
innovativo; le regioni periferiche sono sottoinsiemi il cui ritmo di sviluppo è
determinato principalmente dalle istituzioni presenti nella regione centrale
rispetto alle quali esse si pongono in una posizione di sostanziale dipendenza”.
Friedman, che non fa uso di concetti di derivazione marxista, ma di un quadro
analitico riconducibile a Schumpeter e alla teoria del conflitto di Ralf
Dahrendorf, individua quindi la necessità di riforme sociali, politiche
pubbliche, apprendimento e mobilitazione sociale e in questa direzione avrà una
notevole influenza, ancora negli anni novanta, nella cultura regionalista in
chiave di creazione delle condizioni della partecipazione e dello sviluppo
comunitario.
Il passo successivo è compiuto nel corso degli anni
sessanta, quando gli studi che fanno uso delle categorie marxiste iniziano ad
affermarsi nel campo della geografia economica e degli studi regionali. È
chiaro che questa fase è l’immediato background di un libro come questo, che
vede la luce all’inizio degli anni settanta da un autore, un economista, che ha
iniziato a lavorare negli anni cinquanta. Un autore, e la cosa non è affatto
secondaria, espressione di un centro periferico e formatosi anche in Francia,
dove Francois Perroux
insegnò al College de France, mentre Amin studiava a Parigi dal 1947 al 57
prima scienze politiche, poi statistica ed economia. Del resto la sua tesi di
laurea in economia “Le origini del
sottosviluppo -accumulazione capitalista su scala mondiale”, del 1957, è
condotta sotto la direzione di Perroux.
Samir Amin dopo la laurea ritorna al Cairo e lavora
per il governo come ricercatore per tre anni, poi diventa consigliere del
ministero della pianificazione del Mali per altri tre e nei successivi sette
anni insegna a Poitiers, Dakar e Parigi. Nel 1970, a ridosso di questo libro, è
direttore dell’IDEP (Istituto Africano
dello Sviluppo Economico e della Pianificazione), poi dal 1980 direttore
del Forum del terzo mondo a Dakar.
La linea di ricerca e di critica di Amin viene ripresa
ed estesa da Immanuel Wallerstein e da Giovanni Arrighi (con i quali il
confronto è serrato in tutti i libri del nostro), e poi da una concezione dello
spazio regionale come tessuto di rapporti sociali passati, costantemente
rimodellato a partire da questi dagli attori che si sforzano, ognuno per la sua
parte, di sfruttare le opportunità che si presentano con ciò modificandole.
Sono espressione di queste attenzioni, in qualche modo derivanti da un
approccio che risente della lezione del materialismo storico, autori importanti
come David Harvey, Richard Peet, Massimo Quaini, Yves Lacoste, Claude
Raffestin, Jean-Bernard Racine, Michael Storper, ma questa è una storia (quella
degli sviluppi che porterebbe lontano e sulla quale si può rimandare a questa
utile lezione).
“Lo sviluppo
ineguale”
Ora conviene avvicinarsi alla lettura del libro, si
tratta di un testo complesso che riassume a tutta evidenza un quindicennio di
ricerche e di esperienze sul campo e si dà contemporaneamente più compiti: contestare l’approccio neoclassico allo
sviluppo e le sottostanti teorie dello spazio economico, fornire un quadro teorico generale alle politiche pubbliche rivolte allo sviluppo nelle periferie del
mondo, sistemare a tal fine alcuni
concetti derivanti dalla tradizione marxista, utilizzandoli quali
strumenti.
Il primo di questi strumenti è il concetto di “modo di produzione”, inteso come forma
astratta mai completamente incarnata da una formazione storica specifica, e mai
presente in forma pura o isolata. I “modi di produzione” che individua sono
cinque:
1.
La forma comunitaria
primitiva (una organizzazione del lavoro organizzata per famiglie, l’assenza di
scambi mercantili, la distribuzione del prodotto attraverso regole sociali),
2.
La forma tributaria
(una organizzazione del lavoro che vede due classi, contadini organizzati
comunitariamente e dirigenti che percepiscono dai primi un tributo; quando si
feudalizza la proprietà della terra passa ai secondi),
3.
Il modo schiavistico
di produzione (il mezzo di produzione è il lavoratore-schiavo),
4.
Il modo mercantile
semplice (produttori e scambi tra di loro; diverso lo scambio a lunga distanza,
che provoca accumuli di forte surplus),
5.
Il modo di produzione capitalista (deriva dalla disgregazione del modo
tributario-feudale per effetto degli scambi su lunghe distanze e la
concentrazione di ricchezza che ne consegue, quindi per la liberazione dei
lavoratori e la loro proletarizzazione che ne fa forza-lavoro).
È abbastanza ovvio che mai nessuna società è stata
completamente “comunitaria”, e mai nessuna solo “mercantile”, in effetti la
maggior parte delle società precapitaliste sono delle formazioni “tributarie”
in cui persistono ambiti “comunitari” e “mercantili”.
Il punto è comprendere quale forma è dominante e
quindi di che surplus vive la società.
In particolare se il surplus che rende possibile la forma sociale sia proprio o trasferito. È proprio nelle società “tributarie”
ricche, ovvero fondate su una economia interna ricca (come l’Egitto, la Cina),
è trasferito nelle società
fondamentalmente “commerciali” (come il mondo arabo o in parte greco) o “schiaviste” (come il mondo romano).
Dato che però nessuna società può essere ridotta alla
sua infrastruttura una delle cose che bisogna capire è, per Amin, come si forma
l’articolazione delle istanze sociali espresse dai diversi gruppi in relazione
alle modalità economiche di produzione (ovvero le diverse classi che possono
essere individuate nel “modo di produzione”), e quale forma di alienazione
rende possibile il prelievo del surplus senza fare esclusivo riferimento alla
violenza.
A partire da queste circostanze nascono le condizioni
del consolidarsi delle “nazioni” (p.21).
In termini generali lo sviluppo storico del
capitalismo si è verificato a partire da formazioni precedenti (tributarie) per
via di una disgregazione dall’interno che è prodotta man mano che l’estrazione
di surplus per via autoritaria (accompagnata da alienazione), viene sfidata
dalla logica mercantile ed in particolare dai commerci di lunga percorrenza.
Nella transizione tra medioevo feudale ed età mercantile precapitalistica
questa tensione costante per la mercatizzazione di tutta la società, insieme a
quella per la salarizzazione e quindi per la dissoluzione dei rapporti di
autorità fondati sulla religione e la gerarchia opera fino a che prevale il
modo di produzione capitalista. L’insorgenza finale del “libero mercato del
lavoro” è il segnale che il processo è compiuto (qui si ripercorre l’analisi di
Polanyi).
Caso particolare è stato il mondo arabo, in cui
campagne molto povere hanno determinato una economia tributaria molto esigua,
ma ciò non ha impedito di sfruttare la posizione geografica (a cavallo tra
oriente ed occidente) per intermediare i flussi di commercio di lunga distanza,
fondando su di esso una ricca civiltà urbana. Una civiltà, quindi, che viveva del
surplus prodotto altrove.
La principale formazione tributaria “forte” che Amin
individua è, invece, il suo nativo Egitto, in cui si forma precocemente una
classe-stato che estrae un ricco surplus da una popolazione contadina
relativamente abbiente. Una simile formazione tributaria, è il punto in realtà
centrale della ricostruzione storica, è autocentrica.
Cresce, cioè, per linee interne e non dipende da una ricchezza prodotta altrove;
dunque è più stabile.
Altro caso particolare è la formazione schiavistica
romana, che fonda la sua ricchezza sul saccheggio sistematico dei paesi
subalterni (per la verità ci sono in Italia aree di forte economia agricola,
come quella di Capua e della piana campana). Roma, è insomma, uno stato che
estrae tributo (in uomini e in beni, o in oro) da paesi autocentrici, come
l’Egitto, e da paesi fondati sui commerci, come i Greci.
Il capitalismo
Il capitalismo fa la sua comparsa quando lo sviluppo
delle forze produttive si sviluppano in direzione di maggiore complessità, per
cui “i mezzi di produzione, che sono essi stessi prodotti, non sono più
abbastanza semplici da essere alla portata del loro produttore” (p.53). In
questo modo l’insorgenza del modo di produzione capitalista riceve una seconda
spiegazione (oltre all’influenza del commercio nel disgregare la forma sociale
precedente): la tecnologia. Con le
sue parole: “da questo momento il centro di gravità dei mezzi di controllo
della società si sposta dal dominio dei mezzi naturali al dominio dei mezzi che
sono essi stessi prodotti, le attrezzature produttive”. È chiaro che prendono
in tal modo il centro del modo di produzione e della relativa forma sociale
concrezioni del capitale più mobili rispetto al capitale fondiario, fondato
sulla gerarchia e l’esercizio della forza, precedente. La potenzialità del
commercio di lunga distanza diventa decisiva.
Ci sono dunque tre
caratteristiche essenziali del modo di produzione capitalista:
1-
Generalizzazione
della forma-merce;
2-
Assunzione di tale
forma da parte della forza-lavoro, ovvero proletarizzazione;
3-
Assunzione della
forma-merce da parte delle attrezzature produttive, in cui si materializzano i
rapporti sociali, “del rapporto di appropriazione esclusiva di classe che
definisce il capitale”.
Ora la produzione e le forme mercantili non sono più
giustapposte, ma diventano “sinonimi”. Assume spazio centrale anche nella
teoria economica (che, ovviamente, è prodotta specificamente dal capitalismo
iniziando ad emergere dal 1600 ed a consolidarsi nel 1700) la nozione di
“domanda ed offerta”, che è propria della forma mercantile. Per questo snodo si
può far riferimento alle ricerche di Polanyi,
ma anche di Mauss,
ed in generale all’antropologia storica.
Talmente larga è questa egemonia che anche molte forme
di socialismo si sono ridotte, al fine, ad essere una sorta di “capitalismo senza capitalisti” (secondo
la formula avanzata dallo stesso Engels anziano, e da Marx nella “Critica al programma di Gotha”) (p.57).
In definitiva per Amin in sé il calcolo economico non
ha una razionalità superiore, essa è correlata al modo di produzione. Si tratta
solo del modo adatto a questo. La forma di razionalità (dunque il giudizio)
“non può mai andare oltre il quadro dei rapporti sociali che gli sono propri”.
E specificamente nella forma industriale la razionalità è limitata “dal
rapporto sociale fondamentale che definisce il saggio del plusvalore, cioè il
saggio dello sfruttamento del lavoro; per un altro verso, dai rapporti sociali
secondari che definiscono le relazioni fra la borghesia e i proprietari
fondiari che controllano l’accesso a talune ricchezze naturali”. Quindi, non
appena prendono il centro i monopoli privati (processo iniziato già vivente
Marx, e salito di scala enormemente con la globalizzazione recente) anche entro
la classe sociale borghese si aprono delle contraddizioni.
Dunque in definitiva la risultante del calcolo
economico è “irrazionale dal punto di vista sociale”, in quanto resiste alla
necessità che il livello di sviluppo delle forze produttive (enormemente
elevato) sia posto a servizio dell’intera società. Si colloca a questo livello
della critica la questione dello sperpero delle risorse umane, delle ricchezze
naturali, e del futuro: si colloca, insomma, la questione ambientale.
Un diverso calcolo economico deve prendere ad
orizzonte il tempo lungo, deve ricercare sistematicamente le soluzioni che
riducono al minimo il tempo di lavoro socialmente necessario ed essere
orientato alla produzione utile per i bisogni della società. Il fine del
sistema non deve essere più la massimizzazione del plusvalore, ma del prodotto
effettivamente utile e tale da conservare le risorse sociali e naturali (p.67).
L’orientamento del capitalismo alla massimizzazione
del plusvalore (ovvero del profitto) porta invece e ad una tendenza alla crisi
che Amin individua essenzialmente come indebolimento della domanda aggregata,
con le sue parole: “un aumento del saggio di plusvalore al di sopra del suo
livello oggettivamente necessario conduce ad una crisi, in conseguenza
dell’insufficienza della domanda sociale”. È questo il problema che le
socialdemocrazie cercano di contenere, attraverso il rafforzamento delle
organizzazioni dei lavoratori e la migliore distribuzione del plusvalore
estratto dal processo di produzione.
Possono essere dunque sollevate tre osservazioni:
1-
L’accumulazione
“autocentrica” è possibile solo se il salario reale cresce, in questo caso la
domanda interna può sostenerla, altrimenti il processo di accumulazione esige
una continua espansione esterna del mercato;
2-
Lo sviluppo
autocentrico è esclusivo rispetto alle forme precedenti;
3-
Ed è condizione
perché si manifesti la tendenza all’abbassamento del saggio di profitto della
quale la risposta sono i monopoli e l’imperialismo il cui scopo è “porre
termine alla perequazione del profitto” (p.73).
Ma la dinamica determinata dal rimpatrio dei profitti
provenienti dalla periferia nella quale il capitale mobile è andato a cercare
un saggio di remunerazione più vantaggioso contribuisce ad aggravare
costantemente il problema posto dalla necessità dell’assorbimento della
eccedenza di capitale. Il “surplus” (ovvero più in generale ciò che rimane
quando sono stati reintegrati i fattori produttivi spesi), concetto più ampio
di quello di plusvalore, deve essere infatti costantemente assorbito per
evitarne la svalutazione. Questo è il meccanismo alla base del ‘sotto-sviluppo’
delle periferie: il continuo abbassamento del saggio di profitto al centro,
causato dalla perequazione delle forze in campo e proprio degli sviluppi
autocentrici. Nelle condizioni del compromesso fordista interviene (bisogna
ricordare che siamo nel 1973) quindi il monopolio di stato che organizza
l’impiego del surplus; quello eccedente è speso nello sfruttamento delle
periferie.
Il riferimento per questa analisi è il classico testo
di Baran e Sweezy “Il capitale monopolistico”,
che sostiene la non contraddizione, nelle condizioni del capitalismo avanzato,
delle due tendenze all’aumento del surplus e dell’abbassamento del saggio di
profitto.
Il problema
dell’espansione monetaria e della finanziarizzazione
A questo punto della trattazione l’autore si dedica al
problema della moneta, discutendo le posizioni di Keynes e della scuola
monetarista di Milton Friedman. Secondo la sua posizione gli investimenti non
sono significativamente relazionati con le modifiche del saggio di interesse,
così come ovviamente il risparmio. Piuttosto il secondo dipende dai redditi da
proprietà, mentre il primo dal “grado di corrispondenza tra la capacità di
produzione e la capacità di consumo” (p.76).
Quel che vede Amin, scrivendo ad immediato ridosso
della rottura condotta da Nixon (1971) della convertibilità in oro della divisa
americana, e dunque di tutte, è che “l’espansione
dei crediti o l’emissione di potere d’acquisto [ora] possono essere illimitate”,
dunque “è divenuta possibile l’inflazione
del credito”. Ovvero, per dirlo in altro modo, l’indefinita espansione del
debito.
Questo elemento è quello che, negli anni seguenti,
risolverà, sia pure provvisoriamente, la contraddizione tra l’incremento del
surplus e la riduzione dei profitti (resa tale dall’incremento dei redditi
reali del lavoro). La domanda aggregata, necessaria per rendere possibile
l’allocazione delle produzioni, e quindi l’incremento del surplus, sarà infatti
sostenuta non a scapito dei profitti, ma grazie all’espansione, ormai senza
limiti, del debito. Il problema dell’affidabilità del credito, dunque del suo
valore, sarà risolto con opportune “innovazioni” (nel contesto della
deregolazione degli anni ottanta).
Ma dalla sua osservazione si intravede anche il
sorgere di una nuova contraddizione: “tra
le esigenze dell’ordine economico, che non può più essere ottenuto in virtù
della sola politica economica nazionale (poiché il capitalismo ha ormai assunto
una dimensione fondamentalmente mondiale), e il carattere ancora nazionale
delle istituzioni e delle strutture. Se questa contraddizione con viene
superata non è da escludere la possibilità di un ‘incidente congiunturale’
molto grave” (p.102). La profezia è in anticipo di trentacinque anni, ma è
corretta.
Quindi il testo passa ad un altro intermezzo teorico,
confrontandosi con la matrice della teoria neoclassica, alla quale il suo
maestro Perroux era espressamente legato, cioè con “il postulato religioso di una armonia universale” in Leon Walras,
con i suoi tassi di equilibrio (prezzo, cambio e reddito) che sono
espressamente negati da Amin (pp.103-13). Piuttosto sussiste una dialettica
delle durate (Braudel) tra tassi di cambio nel breve e assestamenti strutturali
nel lungo termine, un assestamento, sia chiaro “accettato dai deboli e imposto
dai forti”. Insomma, nulla di “naturale” e di armonioso, “al contrario,
riflette il progressivo modellarsi di un mondo sempre più ineguale”. I livelli
“di equilibrio”, possono benissimo essere, cioè, livelli “di dominazione”, e vi
corrispondono distribuzioni della redditività relativa degli investimenti nei
diversi settori ed aree.
Del resto “ogni serio tentativo di sviluppo di un
paese della periferia conduce necessariamente a difficoltà dei pagamenti
esteri” (p.133).
Ciò considerando il vero problema diventa “quello
dell’assestamento strutturale attraverso il quale certe formazioni nazionali si
sottomettono ad altre, si modellano in funzione di altre”. Qui l’ideologia
dell’armonia e dei tassi “naturali”, serve al suo scopo di nascondere questo
semplice fatto.
La
specializzazione ineguale
Si arriva così al punto, di riconoscere che la teoria
della specializzazione internazionale nasconde semplicemente il fatto che
l’interesse superiore di un paese è sviluppare centri produttivi che possano
innescare una crescita autostenuta. E questa dipende essenzialmente dalla
crescita dei redditi reali per una quota maggioritaria della popolazione, in
conseguenza dall’espansione della domanda interna.
Gli scambi non sono di per sé (tautologicamente) equi,
in realtà “lo scambio è ineguale essenzialmente perché sono ineguali le
produttività (e tale ineguaglianza è legata a differenti composizioni organiche
[del capitale]), e, in via accessoria, perché le differenti composizioni organiche
determinano, per il tramite della perequazione del saggio di profitto, prezzi
di produzione differenti dei valori in isolamento” (p.145). In questo modo
attraverso gli scambi commerciali a prezzi internazionali sono mascherati
trasferimenti di valore dalla periferia verso il centro.
Determina ed aggrava questa situazione l’esercizio dei
monopoli, e del più assoluto di questi: quello della tecnologia. Il progresso
tecnologico è, del resto, capital using ed innalza quindi la composizione
organica del capitale.
In queste condizioni, allo scopo di tentare di
sormontare le difficoltà di realizzazione del plusvalore, i capitali cercano di
mettere in opera alla periferia quelle produzioni moderne che nei paesi del
centro sono “poco redditive”. Beneficiando di bassi salari, anche rispetto alla
produttività (grazie alla tecnologia) si riesce ad ottenere questo effetto. Ma
i surplus sono in buona misura di nuovo estratti e trasferiti al centro sia
attraverso la sottovalutazione dei prezzi, sia attraverso la reimportazione dei
profitti comunque conseguiti (p.197, per una valutazione contemporanea di
questi effetti si veda qui).
A questo scopo la strategia del capitale
internazionale, a quel 1973, è:
-
Integrare l’Europa
dell’Est (processo esploso dopo il 1989, ma già visibile come tendenza);
-
Specializzare il
terzo mondo nella produzione industriale classica mentre il centro si sposta
verso le attività ultramoderne (processo accelerato per tutti gli anni settanta
e poi, notevolmente, negli ottanta e novanta).
Si crea in questo modo quella che Samir Amin chiama
una “accumulazione extravertita” che esalta la dipendenza e determina quello
che si riconosce come un assetto sociale del sottosviluppo e una sempre
maggiore marginalizzazione delle masse (p.200).
In effetti lo scambio ineguale è semplicemente
trasferimento di valore e produce uno sviluppo solo per alcuni.
La questione della
dialettica tra lavoratori del centro e della periferia
Ma non ha “alcun senso”, sostiene l’autore,
“attribuire a ciò il significato che ‘gli operai del centro sfruttano quelli
della periferia’, perché solo la proprietà del capitale permette lo
sfruttamento” (p.205).
Al più sono le classi sociali dominanti che sfruttano
gli uni e gli altri, o con le sue parole “la
borghesia del centro, la sola che ha una dimensione mondiale, sfrutta il
proletariato ovunque, al centro come alla periferia, ma sfrutta quello della
periferia ancora più brutalmente”. Il differenziale di sfruttamento, nelle
condizioni esistenti all’inizio degli anni settanta, quando gli elementi del
compromesso fordista al centro erano ancora vigenti, si dà per Amin dal
semplice fatto che nelle forme di economia “autocentrica” (fondate su una forte
domanda aggregata interna e non su una estroversione pronunciata) quello che
chiama “il meccanismo oggettivo che fonda l’unità” lega la borghesia e la
costringe a riconoscere una qualche distribuzione del surplus al suo
proletariato. Nelle economie periferiche estroverse, invece, questa necessità
viene meno e lo sfruttamento si può presentare nella forma più netta. In una
sorta di divisione del lavoro le periferie svolgono quindi la funzione di
essere riserve di materie prime e manodopera a buon mercato che può essere
importata alla bisogna.
Le nove tesi
Una delle conseguenze è che è nella periferia che si creano le condizioni di una transizione al
socialismo (sotto forma anche di
tensione anticoloniale). Di qui le “nove tesi”:
1-
I modelli della transizione al socialismo periferico
sono del tutto diversi da quelli della transizione nelle condizioni del centro; nel primo la meccanica che genera la
proletarizzazione e pone le condizioni della risposta è che l’aggressione
commerciale del centro disgrega le modalità produttive e la forma di vita
locale ma contemporaneamente l’investimento di capitali esteri, rivolti solo a
creare isole di industrie monopoliste che guardano all’esterno, non è
sufficiente ad includere la gran parte della popolazione, che resta quindi nella
condizione di riserva interna ed eventualmente da esportare;
2-
La specializzazione internazionale provoca tre
distorsioni principali: le attività
esportatrici trovano la loro ragione (sia in termini di investimenti, sia di
tecnologie e clienti) all’esterno e non nel mercato interno per la sua debolezza,
ciò malgrado la superiorità della produttività assoluta del centro in tutti i
campi. Questa superiorità, malgrado i teoremi semplificati avviati da David
Ricardo (discussi in un capitolo del libro), di fatto costringe la periferia a
relegarsi nel ruolo di fornitore complementare dei prodotti per i quali ha un qualche
vantaggio naturale.
3-
Nella periferia la debole industrializzazione (ed extravertita) e la crescente disoccupazione
causata dalla distruzione commerciale delle attività originarie crea una ipertrofia di attività terziarie, e
di spese amministrative;
4-
Quando c’è uno sviluppo industriale è generalmente
distorto in favore di settori
“leggeri”;
5-
L’esportazione dei profitti dei capitali importati, ed impiegati in aziende extroverse, neutralizza gli effetti del moltiplicatore di spesa;
6-
Anche l’analisi
della strategia dei monopoli stranieri nei paesi periferici conferma la
necessità di passare dalla messa in
questione dell’integrazione al mercato mondiale;
7-
I paesi sono sottosviluppati abbastanza
indipendentemente dal mero reddito pro-capite,
ma in funzione di alcune caratteristiche: fortissime ineguaglianze,
disarticolazione della struttura produttiva, dominazione economica del centro;
8-
Il sottosviluppo
(che non è una fase antecedente dello sviluppo) ad un certo punto determina il blocco della crescita, che non è in
grado di mettere in questione la dominazione;
9-
Il modello tipico delle formazioni periferiche è la dominazione del capitale agrario e commerciale
di sostegno (comprador) e del capitale centrale sull’insieme del sistema.
Il punto sollevato è che le attività esportatrici,
quando prevalgono in senso quantitativo, provocano una distorsione sia delle
risorse finanziarie (a causa di investimenti diretti, con relativo flusso in
uscita di remunerazione degli stessi; infrastrutture di servizio, in
particolare logistiche, sbilanciate su grandi porti e linee ferroviarie per le
merci nei settori e regioni esportatrici) e anche umane (in termini di
orientamento di formazione ed istruzione rivolte ai settori integrati), che
aggiunge una dimensione qualitativa e realizza una dominanza del settore
esportatore sull’insieme della struttura economica che è alla fine “sottomessa e modellata in funzione delle
esigenze del mercato estero”.
Riepilogo storico
Del resto nel centro la transizione dalle forme
precedenti (tributarie e commerciali) a quelle capitaliste nei paesi capofila
si è svolta storicamente come innesto di una rivoluzione della produttività
agricola e di concentrazione del sovvrappiù nella nuova forma industriale che
ha utilizzato la manodopera liberata (e “proletarizzata”) e la forma di
produzione artigianale insieme. Questo processo ha avuto carattere ambivalente,
è stato accompagnato da immani costi umani, ma ha determinato un nuovo
equilibrio socioeconomico che Amin non nasconde essere “superiore” (in termini
di sviluppo delle forze produttive). Fin qui l’analisi è molto tradizionale.
Ma nella periferia, subalterna ai centri perché dominata in termini di
forza, la transizione è molto diversa: la penetrazione di forme di relazione
sociale di tipo mercantile è naturalmente ostacolata da strutture sociali
resistenti in modo olistico (cfr. le analisi di Polanyi ed altri) che dunque
vanno forzate a “monetizzarsi”. Questo processo è una vera e propria violenza,
ossia opera nella forma “dell’accumulazione primitiva”. Culture obbligatorie da
esportazione, obbligo di pagare le tasse solo in moneta, vera e propria
espropriazione della terra e lavori più o meno forzati (in miniera, ad
esempio). Esempi in SudAfrica, in Rhodesia, in Kenya. Si tratta di quello che
Rey chiama il “modo di produzione
coloniale”.
A seguito della “monetizzazione”, comunque, i “beni di
prestigio” diventano beni acquistati e per lo più di importazione, quelli
tradizionali (in cui si concentrava il sovrappiù, che però aveva immediatamente
natura sociale) sono abbandonati. A questo punto, per causa di diversi fattori,
tra i quali l’insufficiente dotazione di capitale e tecnologia, questa
trasformazione da una economia sociale di sussistenza, ad una economia
monetaria di esportazione, viene ad essere condotta soprattutto attraverso
l’intensificazione pura e semplice del lavoro, e dello sfruttamento.
Questo equilibrio, con la distruzione dell’artigianato
e il sovrasfruttamento (molto pronunciato) della risorsa terra, comporta dunque
una regressione con esclusione di una parte significativa della forza lavoro,
“si costituiscono così, a poco a poco, le condizioni dello scambio ineguale,
cioè della riproduzione del sottosviluppo”. La deformazione dei rapporti agrari
precapitalistici e la distruzione dell’artigianato generano alla fine una
“urbanizzazione senza industrializzazione”.
Un ambiente nel quale i bassi livelli di remunerazione
del lavoro (nell’abbondanza degli esclusi) e la concentrazione del capitale
estero, portano a creare dei settori di esportazione che sono come delle
cittadelle assediate (non di rado protette da “contractors”).
Modello di
industrializzazione subalterna
Gli investimenti esteri che intervengono a questo
stadio, sono diretti alle industrie di esportazione, e in misura anche notevole
(dal 50 al 70%) alle infrastrutture, fisiche e non, necessarie alla loro
efficienza. La maggior parte del reddito che si genera (sia dal lato del
capitale, sia del lavoro) in questi nodi extravertiti è immediatamente
trasferita all’estero sia come dividendi sia come remunerazione delle merci di
importazione (anche perché “distintive”) che i lavoratori, che si sentono parte
di una élite, consumano. Alla fine resta solo una parte che è spesa sul mercato
locale (per lo più alimenti). La parte maggiore finisce ad essere quella
incamerata dallo Stato come tasse (se l’attrazione non è stata a spese di
queste).
Anche quando si procede alla sostituzione graduale dei
beni di importazione, questo processo è condotto in modo diverso da quello che
si è manifestato nei paesi del centro a sviluppo autocentrato: nei paesi
periferici, caratterizzati dalla presenza competitiva di paesi centrali, parte
dall’industria dei consumi di base e lentamente risale la catena verso i
prodotti intermedi (utensili) via via più complessi. In questo modo in effetti
l’estroversione aumenta, dato che cresce l’importazione dei beni strumentali
intermedi.
Svolge un ruolo in questo processo anche il sistema
delle aziende multinazionali, che aggravano la concorrenza tra i paesi
sottosviluppati facendo sì che in essi crescano strutture parallele “che
rendono impossibile lo sviluppo di complementarietà integrative all’interno di
ambiti economici più ampi, che è condizione di uno sviluppo autonomo”. Questo
fenomeno negli anni settanta era visibile in alcuni paesi (mentre da allora si
è esteso indefinitamente): Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Le
cosiddette “tigri asiatiche”, ma anche in Messico. Tutti i paesi coinvolti
nelle precoci crisi degli anni novanta che hanno fatto intravedere il
meccanismo della crisi successiva. In questi territori si sono insediate,
grazie a massivi investimenti infrastrutturali di stato, le “runaway
industries” americane ma anche giapponesi e britanniche che hanno consentito
una rilevante crescita. Ma si tratta per lo più di industrie leggere. Questa
crescita è costantemente dipendente dall’afflusso continuo di capitali esteri,
non ha quindi un carattere autonomo ed autoalimentantesi. In sostanza si tratta
di paesi dipendenti dalle condizioni del mercato mondiale e nei quali fatica a
formarsi una vera e propria borghesia imprenditoriale nazionale, mentre si
forma una piccola classe media di professionals. Una delle conseguenze è che
“l’ideologia elitistica che si innesta su questo tipo di dipendenza e la
degenerazione della cultura nazionale inducono ad accettare una riduzione della
sfera di autonomia decisionale del paese” (p.226).
Dall’altro lato la
fuga delle imprese rallenta la crescita anche nei paesi centrali e crea zone di
depressione e disoccupazione.
Ciò che distingue, in sostanza, l’economia sviluppata
da quella periferica, nella visione di Amin è la densità degli scambi interni rispetto a quelli con l’esterno.
Ovvero il grado di extraversione. Una economia dove prevalgano i secondi è
“disarticolata”. “L’economia
sottosviluppata è costituita da settori e da imprese giustapposte, scarsamente
integrate fra di loro ma fortemente integrate, separatamente l’una dall’altra,
in complessi il cui centro di gravità è situato nei centri capitalistici. Non
esiste una vera nazione nel senso economico del termine, un mercato interno
integrato.” (p.253)
La conseguenza è molto semplice: in una economia
interconnessa e differenziata il crollo del prezzo internazionale di un bene
(poniamo, del petrolio, o del nichel, o di un bene agricolo come lo zucchero)
può essere riassorbita in quanto a valle di essa c’è una intera rete di aziende
interconnesse, che producono valore aggiunto da quello e che possono vivere
anche importandolo, lasciando dunque che il settore della produzione di base di
questo si inaridisca (anzi, ne compensano le perdite). Ma in un’economia
monoproduttrice si torna al deserto.
Ci sono altri effetti, come l’ipertrofia del settore
finanziario (che attira i necessari capitali dall’esterno), del settore
terziario che è un effetto della sovrappopolazione che deriva, a sua volta,
dalla extraversione che esclude dalla produzione una parte crescente delle
forze produttive (dovendo tenere bassi i salari per reggere la competizione
internazionale con paesi maggiormente dotati di capitale).
La storia delle periferie è quindi costellata di
improvvisi “miracoli”, seguiti non appena la dinamica dei flussi di
investimenti esteri cambia segno, da paralisi, ristagni e talvolta regressi,
anche improvvisi. La ragione è per Amin semplicemente nella dipendenza.
Dipendenza in primis commerciale della periferia dal
centro, che detta l’iniziativa, individua i settori complementari nei quali può
esservi sviluppo, determina la divisione del lavoro internazionale e preclude i
settori a maggiore valore aggiunto o di più rapida crescita, che si riserva per
dinamica propria del principio di valorizzazione. I capitali eccedenti agli
investimenti altamente fruttiferi anche nelle condizioni di alto costo del
lavoro del centro, fluiscono nelle periferie in cerca di occasioni di
valorizzazione sotto forma di investimenti diretti da parte di società multinazionali,
o di altre forme di credito. Ma questi capitali devono essere remunerati.
Dunque quando la massa dei capitali esteri investiti
raggiunge una soglia relativa in rapporto al tasso di remunerazione in uscita i
due flussi (nuovi capitali in ingresso e remunerazioni in uscita) tendono ad
invertirsi: dalla fase di “valorizzazione” del nuovo territorio si passa a
quella di “sfruttamento”.
Inoltre, come prima detto, questi investimenti tendono
a formare delle isole estroverse.
Per tenere in equilibrio questa dinamica è allora
necessario espandere costantemente le esportazioni di merci, più velocemente
della crescita delle importazioni. Sfortunatamente, quando una quota importante
delle esportazioni è conseguita da aziende estere, ciò aumenta anche i flussi
finanziari in uscita. Inoltre alcune forze caratteristiche dei paesi periferici
spingono le importazioni: l’eccesso di urbanizzazione, l’aumento delle spese
amministrative, causato dall’inserimento di attività che le richiedono,
l’effetto della creazione di un piccolo strato di élite “europeizzate”, che
sviluppano consumi distintivi, lo sbilanciamento della struttura industria
verso i beni di consumo che comporta crescita delle importazioni dei beni
intermedi (macchine).
L’effetto combinato di questi fenomeni è che la
bilancia commerciale tende ad andare in deficit e i paesi a dipendere da aiuti
esteri. La periferia subisce, insomma, un adeguamento strutturale alle esigenze
di accumulazione del centro.
Completa il quadro, normalmente, la dipendenza della
moneta locale da una moneta straniera (cosiddetto “tallone”), che annulla
qualsiasi possibilità autonoma del credito.
Le condizioni
particolari dell’Africa
Seguono pagine molto interessanti sulle condizioni
regionali in chiave storica, tra le quali spicca quella della “economia di tratta” africana, un insieme
di rapporti di subordinazione/dominazione tra società che Amin chiama “pseudo
tradizionali” (perché corrotti dalla formazione di uno strato
parassitario-privilegiato che vive del saccheggio interno delle risorse umane
in favore della rete mercatale di uomini a servizio delle economie esterne)
integrata al sistema mondiale e, appunto, la società capitalistica centrale che
la conforma e la domina (p. 354). Ma un simile meccanismo si riproduce anche
nello scambio tra prodotti agricoli di esportazione e prodotti industriali di
importazione. Nel golfo di Guinea questa forma sociale prende l’aspetto della
“kulakizzazione”, la formazione di una casse di piantatori indigeni che si
appropriano del suolo ed impiegano manodopera salariata proletarizzata. Oppure
nella savana, dal Senegal al Sudan, essa fu organizzata da confraternite
mussulmane una produzione di esportazione di arachidi e cotone in forma
pseudo-feudale di tipo teocratico; una forma tributaria connessa con il sistema
internazionale in modo economicamente subalterno. Un altro caso è
l’organizzazione del latifondo da parte della colonizzazione egiziana del
Sudan, poi assunta dagli inglesi, che facevano coltivare cotone per le
industrie di trasformazione di Manchester a partire dal 1898.
Le compagnie commerciali coloniali di fatto
distrussero tutti i commerci interni, orientando tutti i flussi verso la costa,
riconvertendo gli stessi commercianti ad agricoltori. Ne sono esempi “la
distruzione del commercio di Samory, di Saint-Louis, Gorée e Freetown, o del
commercio haussa e ashanti di Salaga e degli Ibo del delta del Niger” (p.356).
Lo sviluppo della costa ebbe dunque quale necessario
corollario l’impoverimento dell’interno, il cui surplus era trasferito
all’estero passando per i centri di scambio costieri. Fa parte di questa logica
di sistema la nascita di massicci trasferimenti di uomini in surplus che
mettevano a disposizione la loro forza-lavoro a buon mercato del capitale
estero, dove questo la richiedeva (ovvero attirava).
Fa eccezione l’Africa centrale, dove le condizioni
geografiche e sociali hanno impedito l’estendersi dell’economia negriera (che è
l’anello di partenza dell’economia di tratta). Solo dopo la prima guerra
mondiale nel Congo belga fu tentata la creazione di qualche piantagione
industriale e sorse una piccola economia di tratta. Nell’africa equatoriale
francese bisogna aspettare gli anni cinquanta.
Un caso a parte è l’Etiopia, nella quale si forma una
società feudale autoctona che a lungo riesce a restare indipendente da queste
dinamiche e produrre uno sviluppo autocentrico. Lo interrompe la conquista
italiana del 1935, dopo la quale iniziano a presentarsi fenomeni di
sottosviluppo.
Le conseguenze
sociali
Più in generale dunque si osserva che il sistema
economico periferico è caratterizzato da crescente ineguaglianza, con una
fascia privilegiata che interessa al massimo il 20-25% della popolazione e
tende a restare stabile su questo livello. Questa ineguaglianza sociale di fatto
“costituisce il modo di riproduzione delle condizioni dell’extraversione; essa
in effetti apre un mercato per i beni di consumo di lusso, in particolare beni
durevoli, molto più cospicuo di quanto sarebbe se il reddito fosse meglio
distribuito intorno alla sua media” (p.381). Quando si raggiunge questa soglia
il processo di allocazione delle risorse (capitali, tecniche,
infrastrutturali), è distorto al punto da pregiudicare la possibilità che si
sviluppi una capacità di produzione nei beni di massa (che sarebbe introversa).
La polarizzazione e distorsione del sistema economico
produce anche l’espansione della disoccupazione e soprattutto della fascia
intermedia, tra la popolazione impiegata in lavori salariati a basso reddito e
i veri e propri disoccupati.
Interviene in questo contesto una linea di
argomentazione neomalthusiana (limitazione delle nascite) che Amin considera in
generale errata. Molti paesi, in realtà, sono sottopopolati e un incremento
della popolazione porrebbe le condizioni di uno sviluppo autocentrato. In
realtà il fenomeno della marginalizzazione è del tutto indipendente dalla
demografia, il problema si manifesta nel crescente divario tra la dinamica
economica e la dinamica demografica, ma “il sovrappopolamento è solo
l’apparenza sotto cui si rivela il funzionamento di un sistema socioeconomico,
quello del capitalismo periferico” (p.386).
Le condizioni
mondiali della lotta di classe
A questo punto dell’analisi Samir Amin si pone delle
domande che hanno avuto grande momento nel dibattito sullo sviluppo, in
particolare a sinistra. Domande che trovano il loro senso specificamente nel
contesto dello sviluppo duale del ‘trentennio glorioso’, quando la dinamica
della ineguaglianza è direttamente opposta tra centro e periferia, essendo nella
prima contrastata in modo relativamente efficace dalla forza delle
organizzazioni del lavoro e dalla minaccia esterna del modello alternativo
socialista.
Il meccanismo che mette in luce parte dal carattere
mondiale del sistema capitalista, per cui “centro e periferia sono
inevitabilmente parti dello stesso sistema”. Ne consegue in termini generali
che le masse della periferia sono marginalizzate e tenute ad un livello di
reddito complessivo (in forza dei meccanismi messi in evidenza nel testo)
inferiore anche al suo livello di produttività. Il capitalismo, in altri
termini, spende capitale eccedente nella periferia in quanto e nella misura in
cui può ottenere un saggio di sfruttamento della forza lavoro e degli altri
fattori produttivi locali maggiore che al centro. Anche nel contesto della
scarsità delle risorse naturali (che non possono essere sfruttate allo stesso
livello ovunque), dunque “se le masse dei
paesi del terzo mondo dovessero deviare tali risorse per valorizzarle a proprio
beneficio, le condizioni di funzionamento del sistema capitalistico al centro
sarebbero sconvolte” (p. 388).
Si potrebbe dire che lo sono state (in sostanza
creando vaste periferie nel vecchio centro).
Ma vediamo meglio perché: bisogna ragionare non per
singole nazioni (cosa non significa affatto che non si possa agire entro di
esse), ma in termini di sistema mondiale, come dice “di contesto mondiale della
lotta delle classi”. Un sistema caratterizzato necessariamente di anelli forti
e anelli deboli, che sono anche i luoghi in cui sono massime le contraddizioni.
Se c’è un forte ed un debole, ci sono rapporti di dominazione, e quindi ci sono
trasferimenti di valore dal debole al forte, dalla periferia al centro.
A questo punto sorgerebbe immediatamente la
conclusione che anche le classi lavoratrici al centro in effetti, per così dire
oggettivamente, guadagnano dal trasferimento di ricchezza derivante dal
maggiore sfruttamento alla periferia, in quanto questo rende le condizioni di
possibilità di remunerarle più di quanto sarebbe in assenza dei trasferimenti.
In altri termini il saggio di profitto inferiore, che deriva dalla
remunerazione strappata dalle lotte di classe nel centro, è bilanciato da uno
maggiore trasferito dalle periferie. Ciò in termini complessivi di equilibrio
di sistema, e anche a livello delle aziende internazionalizzate (che tendono,
già negli anni in cui questo libro è scritto, a spostare produzioni nei luoghi
a basso salario per recuperare redditività industriale di gruppo).
E sorgerebbe la conclusione ulteriore che alla fine il
proletariato del centro può essere indotto ad essere solidale con la sua
borghesia per difendere questo scambio ineguale, dal quale ha da guadagnare,
sia pure le briciole.
Dall’altro lato, nelle periferie, si dovrebbero dare
le condizioni simmetriche: questa volta dovrebbe essere la borghesia locale ad
essere più interessata ad una alleanza nazionale, saldandosi con le forze
popolari, che alla relazione subalterna con le forze che estroflettono
l’economia, creando le condizioni di scambio ineguale, e dunque di
sottosviluppo.
Ma le cose non si possono affrontare, per l’Amin del
1973, in termini di scontro tra nazioni, bensì in termini di scontro degli interessi di classe del
capitale e del lavoro, ovvero di scontro tra borghesia mondiale e
proletariato mondiale. La prima è essenzialmente quella del centro, alla quale
viene associata in modo subalterno e funzionale quella, debole, delle
periferie. Il secondo è viceversa in particolare nelle periferie, con le parole
(che si rifanno all’analisi leninista): “il nucleo centrale del proletariato si
situa ormai non più al centro [come ai tempi di Marx], ma in periferia”. Ciò
perché questo sopporta un maggiore sfruttamento.
Questo proletariato delle periferie è quindi composto sia
delle piccole élite impegnate nel lavoro salariato delle aziende da
esportazione, sia dalle masse contadine (anche queste divise in agricoltura da
esportazione e di sussistenza) e infine dalle masse disoccupate e sottoccupate,
che sono quelle maggiori e potenzialmente più determinate.
Ma questo non significa affatto che la classe
lavoratrice del centro sfrutta di fatto quella delle periferie: “l’immagine
secondo cui il proletariato del centro sarebbe collettivamente privilegiato, e
quindi necessariamente solidale con la sua borghesia nello sfruttamento del
Terzo Mondo, non è che una semplificazione errata della realtà. È vero che, a
parità di produttività, il proletariato del centro riceve in media una
remunerazione superiore a quella dei lavoratori della periferia [una cosa
registrata anche dalla letteratura liberale, ma con una diversa spiegazione]. Ma, per contrastare anche al centro la legge
della caduta tendenziale del saggio di profitto, il capitale importa manodopera
proveniente dalla periferia, che da un lato viene pagata meno (e viene
destinata a mansioni più ingrate), ma che dall’altro lato viene utilizzata per
pesare sul mercato del lavoro metropolitano” (p.391).
Anche questo trasferimento rappresenta del resto un
modo di appropriarsi del valore delle periferie (rappresentato dai costi di
produzione ed istruzione della forza-lavoro stessa).
Ma nello stesso
modo, bisogna fare attenzione, sono sfruttate le “colonie interne”, ovvero le
periferie intercluse nelle aree centrali.
“Così il sistema
mondiale mescola sempre più le masse che sfrutta, portando l’esigenza di
internazionalismo ad un livello più alto”. Ma mescolandole cerca di utilizzare
al contempo le tendenze scioviniste dei lavoratori “bianchi”, per dividerli.
Dunque “il capitale unifica e divide senza sosta”.
Amin fa un esempio che proprio ci riguarda: “tra le
diverse regioni del centro operano parimenti dei meccanismi di centralizzazione
a vantaggio del capitale: lo sviluppo del capitalismo è ovunque sviluppo delle
ineguaglianze regionali. Così ogni paese
sviluppato ha creato nel proprio seno il suo paese sottosviluppato: ne è un
esempio la metà meridionale dell’Italia” (p.392).
Si tratta dunque di differenziazioni molto più
complesse di come appaia da formule come “aristocrazia operaia” o “nazioni
borghesi e nazioni proletarie”.
Conclusione
Nella conclusione Amin, dopo un interessante excursus
storico sull’esperienza sovietica, ed in particolare sulla missione di
sviluppare le forze produttive che al termina ha condotto a suo parere ad un
“capitalismo senza i capitalisti”, dichiara che “l’esperienza storica della
Russia sovietica giova a ricordarci che la
tendenza spontanea del sistema capitalistico non è quella di generare il socialismo”
(p.410). Serve quindi “un’azione cosciente” che sia anche in grado di sfuggire
alla tendenza (rappresentata da testi come “1984”
di Orwell e “L’uomo ad una dimensione”
di Marcuse) di saldare socialdemocrazia e tecnocrazia.
Dal punto di vista della periferia (o meglio, delle periferie, anche di quelle che
sono intercluse nei centri, come l’Italia in effetti), l’alternativa che vede
l’autore nel 1973 è tra uno sviluppo
dipendente che molto difficilmente potrà liberarsi delle condizioni del
sottosviluppo e uno sviluppo autocentrico
“che deve necessariamente essere originale rispetto a quello dei paesi
attualmente sviluppati”. Infatti se si resta sui binari tracciati le condizioni
della concorrenza creeranno costantemente le condizioni della dipendenza.
In questo senso “nelle
attuali condizioni di ineguaglianza tra le nazioni, uno sviluppo che non sia
semplicemente lo sviluppo del sottosviluppo avrà al tempo stesso carattere
nazionale, popolare-democratico e socialista in virtù del progetto mondiale in
cui è inserito”.
Si crea quindi una tensione tra l’obiettivo finale,
che è necessariamente mondiale, e “l’ambito transitorio che rimane nazionale”.
Bisogna sviluppare un progetto che non si definisce in termini economicisti (in
cui si ridefinisce la logica della redditività, rimettendola entro limiti
sociali), “bensì integra in sé il livello economico”. Ciò significa anche
produrre un sistema produttivo ad alta efficienza, fortemente macchinizzato ed
automatizzato, che “permetterà al tempo stesso di rendere disponibile un tempo
di non-lavoro e di dare al lavoro forme nuove, altamente qualificate”.
Prossimamente leggeremo altri testi di Amin, a partire
da “Oltre la mondializzazione”, del 1999
nel quale a venticinque anni di distanza, l’economista egiziano riflette sulla mondializzazione,
che è anche una rottura del modello “centrale” descritto in questo libro,
ovvero un suo restringimento ad alcune aree di dominazione intensificata,
mentre si allargano le periferie interne.
La dinamica diventa più plurale, nel contesto di una
“legge del valore mondializzato” si trovano ora aree centrali (alcune
extrovertite), aree semiperiferiche extrovertite e vere e proprie periferie. La
cosiddetta mondializzazione è letta alla fine del millennio come una
transizione caotica verso un avvenire sconosciuto. Ma una transizione, che,
fino a quando è dominata dalla logica capitalista, comunque genera
necessariamente la polarizzazione.
La polarizzazione, cioè, “è una legge immanente
dell’espansione mondiale del capitalismo” (ivi, p.21).
Ma rispetto alla situazione dei primi anni settanta,
quando il processo pur avviato era al suo inizio, le periferie sono state
industrializzate. In alcuni casi si sono create delle catene produttive
integrate sia con il sistema mondo sia molte estese entro le regioni (che sono
ascese secondo i casi al rango di semiperiferie, in alcuni casi di potenziali
centri). Dunque “la polarizzazione si è spostata su altri terreni” (ivi, p.23).
Sono stati registrati meccanismi di fuga dei capitali, di migrazione selettiva dei
lavoratori, di nuova imposizione di monopoli, e di rinnovato (mai sospeso) controllo
da parte dei centri dell’accessibilità alle risorse naturali del pianeta. Il principale
monopolio è quello delle tecnologie.
Si è promosso una sorta di rovesciamento: “il cuore delle periferie di domani è costituito
dai paesi che svolgeranno la funzione essenziale di fornire prodotti industriali
e che il ‘quarto mondo’ illustra il carattere distruttivo dell’espansione capitalistica”.
La prospettiva, come vedremo, diventa quella di tendere
ad un “mondo policentrico”, ovvero nel
quale sia possibile perseguire, scegliendoli secondo i propri orientamenti e bisogni,
margini di autonomia.
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