Il professore di economia all’Università di Kinstom,
Steve Keen, su Forbes scrive un incisivo articolo
simpaticamente costruito come una lettera al Presidente Trump (anche se è solo
un pretesto). L’attacco è rivolto in realtà alla convinzione dogmatica ed
interessata della disciplina economica, e di tutte le forze sociali e politiche
che si lasciano influenzare da essa, che la globalizzazione ed il libero
scambio gioverebbero a tutti se solo si condividessero più equamente i
guadagni. In sostanza è come se si fosse data una grande festa dimenticando di
invitare alcuni, e si potesse rimediare semplicemente facendolo.
Basta quindi fare questa promessa, non è necessario
terminare la festa.
David Ricardo |
Questa per Keen è “una
fallacia fondata su una fantasia”, cioè sul nulla. Ed è stata tale sempre, “sin
da quando David Ricardo ha iniziato due secoli fa a sognare del ‘Vantaggio
comparato e dei guadagni del commercio”. Una teoria che non certo a caso, come ricorda,
è stata scritta quando l’Inghilterra era la superpotenza economica mondiale ed
il Portogallo un suo rivale. Lo scontro dal quale nacque il libro di Ricardo
era del resto ben concreto: abolire o meno le “Leggi sul mais” che imponevano
tariffe protettive ai cereali importati dall’Europa. Chiaramente si contrapponevano
due sistemi di interesse ben definiti: da una parte i produttori agricoli
(ovvero la nobiltà di campagna, difesa da Malthus), dall’altra la crescente
forza dell’industria. Secondo il famosissimo argomento di Ricardo se anche la
produttività relativa di un settore in un primo paese fosse inferiore a quella
assoluta dell’altro paese, ma comunque superiore a quella degli altri settori,
converrebbe ad entrambi i paesi specializzarsi ognuno sul settore a maggiore
produttività relativa e scambiarsi i prodotti eccedenti. Come si dice, è
semplice matematica.
Se tutti i fattori produttivi di entrambi i paesi sono
infatti interamente impiegati a fare la cosa che gli riesce meglio, si produrrà
di più, e gli scambi comunque faranno sì che ognuno abbia tutto.
La prescrizione è curiosamente del tutto
corrispondente agli interessi dell’industria inglese (che aveva una posizione
dominante) e del paese in generale: abbattere tutte le barriere tariffarie, in
modo che tutti possano guadagnarci.
Come dice Keene l’argomento appare convincente solo
fino a che non ci si fa una semplice domanda: “allora come trasformi una pressa di vino in un jenny di filatura?”.
La risposta è semplice: “non lo fai”.
Il modello di Ricardo ipotizza in effetti che si possa
produrre vino o panno con il solo lavoro, e naturalmente non è così. Sono invece
necessarie le macchine, e anche una certa quantità di sapere e organizzazione
(di ciò che oggi chiamiamo ‘know how’). E naturalmente le macchine che si usano
per la produzione del vino, per non parlare della sottile sapienza dei
vinificatori, non può essere usata per qualsiasi altra cosa: tutte queste cose sono invece distrutte.
Il capitale fisso impiegato viene abbandonato, venduto in perdita o spedito all’estero,
i vinificatori sono disoccupati, sottoccupati o emigrano.
Ricardo ignora questo piccolo dettaglio. Ed i
successori si sono impegnati sulla stessa traccia, aggiungendo capitale e
macchine (Ricardo considerava solo il lavoro come fattore), hanno continuato ad
ipotizzare che tutto si potesse spostare senza perdere ed istantaneamente.
Ma leggiamo direttamente da “Principi di Economia”, 1817, di David Ricardo (ed. Utet):
“In un sistema di perfetta libertà di
commercio, ogni paese destina naturalmente
il capitale e il lavoro agli impieghi maggiormente vantaggiosi. Questa ricerca del vantaggio individuale lega
mirabilmente col bene universale di tutti. Stimolando l’industria,
ricompensando l’ingegno e usando nel modo più efficace i particolari poteri
elargiti dalla natura, essa distribuisce
il lavoro nel modo più efficiente ed economico; mentre, aumentando la
quantità generale dei prodotti, diffonde il benessere generale e lega con il
vincolo comune degli interessi e degli scambi la società universale delle nazioni di tutto il mondo civile. è per
questo principio che il vino viene prodotto in Francia e in Portogallo, il
grano in America e in Polonia e le ferramenta e le altre merci in Inghilterra.”
(p.283)
Di seguito propone il suo famosissimo esempio, sotto l’ulteriore
condizione che il capitale e le persone si spostino liberamente, equalizzando i
tassi di rendimento, entro i paesi, ma non tra questi, per cui i rapporti
commerciali impediscano al capitale di essere sottoutilizzato.
Vale la pena in questa sede sottolineare come le ipotesi di validità della sua tesi sono molteplici, e ben espresse:
-
Che ogni paese
destini senza alcuno sforzo, ovvero naturalmente, il capitale ed il lavoro
sempre agli impieghi maggiormente vantaggiosi;
-
Che la ricerca del
vantaggio individuale sia la sola molla che conduce al “bene universale di
tutti” (decisamente una promessa escatologica);
-
Che l’aumento
quantitativo della massa delle merci (nel testo c’è una discussione tra merci e
ricchezza, ovvero prezzi) si diffonda il benessere e ciò leghi, “con il vincolo
comune degli interessi e degli scambi”, quella straordinaria invenzione
controfattuale che è la “società universale delle nazioni”, ma, attenzione,
solo “di tutto il mondo civile”. Evidentemente gli “incivili” vanno pur
convinti (con le cannoniere inglesi, naturalmente), non essendo in grado di capire il loro interesse .
Come dice Keene, tutto ciò è “semplicemente una
sciocchezza”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che
quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il
capitale in essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari
quantità di capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in
ruggine”.
Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è
come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”.
E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo
piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi
di ruggine”.
In sostanza ed in primo luogo, dunque, i famosi
vantaggi derivanti dal commercio, per tutti e per ogni paese, che si
tratterebbe solo di condividere in modo più equo, semplicemente non esistono. Infatti la specializzazione, che si
vuole in tal modo promuovere non migliora un paese, ma lo peggiora. Lascia macchine
scartate e saperi resi inutili, e lascia con “meno modi di inventare nuove
industrie” che è la vera fonte della crescita.
L’università di Harvard ha prodotto una ricerca nella quale ha mostrato
che è piuttosto la diversità, che non la specializzazione ad essere “l’ingrediente
magico” che genera la crescita. Tutti i paesi di successo hanno una serie molto
diversificata di industrie e per questo hanno la capacità di inventare nuove
industrie, fondendo quelle esistenti.
La specializzazione favorisce i servizi di élite
(finanziari, assicurativi, di intermediazione internazionale), che la servono,
ma danneggia tutti gli altri, ed in particolare la classe operaia.
Questa è la semplice verità.
La festa è finita, bisognerebbe tornare a casa.
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