Dopo aver letto il libro seminale “Lo
sviluppo ineguale” del 1973, e l’intervento recentissimo “La
sovranità popolare, unico antidoto all’offensiva del capitale”, separati da
oltre quaranta anni, il libro del 1999, “Oltre la mondializzazione”, può aiutare
a comprendere meglio la posizione dell’economista egiziano, da sempre fautore
di una lettura della mondializzazione realmente esistente come forma di
imperialismo.
La mondializzazione è interpretata da Amin come
processo avviato per una dinamica propria del sistema capitalista che parte dalla
doppia crisi, politica ed economica, resa evidente dai movimenti del 1968 e
dalla rottura del sistema monetario a partire dal 1971. La mondializzazione
come transizione, dunque, verso un avvenire sconosciuto e come processo
intrinsecamente caotico, il cui esito è indeterminato. Essa potrà risolversi sia
in un avvenire multipolare e più umano, come in una degradante caduta in un
mondo sempre più ineguale, dispotico, e segregazionista.
Il secondo esito si affermerà se quella che chiama la legge implacabile dell’accumulazione,
alle diverse scale sempre uguale a se stessa, sarà lasciata libera di dominare
l’intero sistema sociale e la logica dei rapporti tra paesi; allora si produrrà
quella che Amin chiama “la legge del
valore mondializzato”, che necessariamente produce sempre maggiore
polarizzazione.
La proposta essenziale del libro del 1973 è, come si
vede, ancora riaffermata a venticinque anni di distanza.
Più in particolare l’analisi è che il capitalismo,
ovvero il sistema che a posteriori appare dominato dalla meccanica
autoreferente del capitale (cioè della valorizzazione per se stessa), tende per
sua natura all’espansione, dunque alla mondializzazione, e all’accumulazione. Quindi
tende alla polarizzazione ed alla crescita delle ineguaglianze a tutti i
livelli. Ne consegue che la polarizzazione è una legge immanente dell’espansione
mondiale del capitalismo (p.21).
In altre parole, il capitalismo genera continuamente
centri di accumulazione, e continuamente lascia indietro periferie. Come scrive
Lohoff in un contributo contemporaneo, nel 2000, “Fughe
in avanti”, il “mondo incantato della globalizzazione” si fonda su questa
continua accelerazione nella creazione di valore per il valore, ovvero di “valore
fittizio” che accumula potenziale di rischio. Sia Lohoff, sia Amin, pur senza
individuare una data (dato che non hanno la “sfera di cristallo”, come dirà il
secondo) prevedono allora che questo accumulo determinerà un giorno una crisi: il
potenziale di rischio si dovrà scaricare.
Rispetto all’analisi del Gruppo Crisis, però, Amin
guarda più al quadro internazionale, e riconosce che è nella periferia per
eccellenza, quella del mondo non occidentale, che le logiche polarizzanti della
creazione di valore senza distribuzione, e la “contraddizione in divenire”
(Marx) del capitalismo si manifestano in pieno. È qui che dopo la crisi degli
anni settanta, senza mutare la sua natura, il capitalismo ha spostato la sua
capacità di creare accumulazione, potenziandola, oltre la semplice distinzione
tra industrialismo e non.
Chi resta invece connesso con lo schema che vede i
paesi industrializzati, per il solo fatto di esserlo, più avanti nella scala
della civilizzazione, e più connessi con il centro, può mancare di osservare
che a ben vedere la mondializzazione contemporanea ha imparato a farne a meno: la polarizzazione si manifesta facendo leva
su altri fattori scarsi.
Anche se alcune periferie si sono industrializzate
restano, infatti, fondamentalmente subalterne rispetto alla potente logica di
capitali governati, in modo ferreo e cooperativo ad un tempo, da quella che,
semplificando, Amin prende in questi anni a chiamare la “Triade” imperialista mondiale: Stati Uniti, Europa e Giappone.
L’industrializzazione delle periferie si è infatti
prodotta, dove è avvenuto, per effetto di alcuni meccanismi strettamente
connessi:
-
La fuga dei
capitali dalle periferie al centro (che determina il “tributo” di cui parla
anche Todd
pochi anni dopo);
-
La migrazione
selettiva dei lavoratori;
-
La riaffermazione
di posizioni di monopolio (anche se in parte immateriali);
-
Il controllo da
parte dei centri dell’accessibilità alle risorse del pianeta (non ultimo
manipolandone i prezzi).
Tra i monopoli più determinanti c’è quello delle
tecnologie.
Per cui le periferie ora svolgono la funzione
essenziale di fornire i prodotti facilmente sostituibili, quelli industriali e
di massa. Mentre il centro si riserva di dirigerne la produzione, di progettare
l’innovazione, di, eventualmente, fornire i prodotti intermedi e le macchine.
Le ultime periferie, il “Quarto mondo”, forniranno infine,
come sempre, il residuo: le materie prime e gli uomini. Quegli uomini che
vengono fatti filtrare secondo la necessità, ma mai veramente liberamente, per
tenere sotto controllo costante il lavoro.
Controllo accentuato dalla piena liberazione degli
scambi e dei capitali.
Per Amin l’ideologia neoliberale, dai tempi del “tono
fiabesco” preso da Walras (p.59), vede il mercato come una sorta di chiamata
sacra, capace di generare da sola l’unione di democrazia ed universalismo. Viceversa
mercato e democrazia sono in tensione reciproca (almeno se la seconda è
rettamente intesa, come processo e tensione all’inclusione, e non solo come
forma), e la mondializzazione realmente esistente è in tensione con l’universalismo.
La stessa deregolazione, promossa sul commercio internazionale dall’OMC, è a
ben vedere una forma di altra regolazione, inibente le capacità di autodifesa e
a servizio degli attori più forti, in particolare delle multinazionali.
Questa nuova economia si muove, dunque, “alla ricerca
di chimere” (p 66).
Peraltro, dopo la rottura del compromesso fordista,
faticosamente negoziato nel mondo sviluppato, anche a partire dalla capacità
delle periferie di opporre resistenza alla generalizzazione della logica del
valore (facendo leva sia sul contropotere sovietico sia sul cosiddetto “movimento
dei paesi non allineati”) e al vecchio colonialismo che ne era espressione
rozza ma efficace, i compromessi sociali sono stati disgregati, consentendo la
ricostituzione di un “esercito di riserva” anche nel centro.
Ma questo “esercito” si costituisce anche nelle
periferie, e anche più numeroso e disperato. La modernizzazione anche delle
periferie (che restano tali) non lo ha riassorbito, tutt’altro: ha creato un nucleo di lavoratori integrati nelle
forme moderne di produzione, rivolte per lo più all’esterno e per questo
strutturalmente dipendenti e fragili, e un molto più vasto mondo di lavoratori sradicati, esclusi e sottoproduttivi che una
mal coordinata industrializzazione dell’agricoltura per l’esportazione ha separato
dalle loro fonti di esistenza (anche esistenziale).
Uno dei nodi è che le attuali condizioni, e Amin
scrive prima che la mondializzazione acceleri, rendendolo sempre più evidente,
rendono impossibile assorbire queste sempre crescenti “riserve”.
Sintomo di questo processo è anche la crescente
finanziarizzazione, che rende sempre più dipendenti dal debito e sempre più al
suo servizio. Le crisi del sud-est asiatico della fine degli anni novanta ne è
spia.
Quale è la
prospettiva? Non certo tornare alle
vecchie regolazioni, che sono ormai trascorse, ma sviluppare lotte locali e
determinate dalle condizioni sempre diverse della dominazione e della
dipendenza, “a modo loro mondializzate”. Lotte che possano spostare i rapporti
di forza, come una volta fecero le lotte coordinate dei paesi coloniali, per
arrivare a costruire un mondo effettivamente “policentrico”, che sia “capace di assicurare ai popoli e alle
nazioni margini di autonomia tali da consentire il progresso democratico e
sociale – in altri termini ‘un’altra mondializzazione’” (p 100).
Questa formula, tanto anni novanta, può creare alla
sensibilità odierna qualche problema, ma credo vada compresa nei suoi termini. Una
mondializzazione significa qui la liberazione, ognuno nei suoi termini, a
livello necessariamente mondiale, dei diversi percorsi di sviluppo e volontà di
affermazione; significa assicurare nel mondo che non ci sia solo dominazione.
E assicurarlo superando l’attuale dipendenza dal
sistema politico e sociale in cui si afferma senza limiti la competizione tra i
proprietari del capitale dominante, ovvero del “capitalismo”. Ciò non significa
necessariamente, però, superando il capitalismo (che questo è, per Amin, una
prospettiva lunga, “secolare”), ma almeno ripristinare la giusta relazione tra
economia e politica. Infatti “l’economia è incastrata in un iceberg di rapporti
sociali di cui la politica costituisce la parte emergente”. Si tratta dunque di
non mettersi più a servizio del mercato, ma essere in grado, a livello locale e
mondiale, di delimitarne di nuovo il campo di azione.
È in realtà l’economia che è incastrata nella politica;
e ciò anche per i “cinque monopoli” che determinano l’attuale dominazione (e
rendono tali le periferie anche quando sono industrializzate): si tratta dunque
di definire semplicemente quali
interessi devono determinare la politica che si afferma.
Nel seguito del testo sono riassunte, come sempre, le
condizioni dell’equilibrio mondiale, con particolare attenzione ai paesi non
core. Dunque la Cina, la Russia, il mondo arabo e africano.
Nel 1999 la Cina stava crescendo da anni al ritmo
ufficiale del 10%, secondo un modello che prevedeva fortissimi controlli sui
capitali e inconvertibilità della moneta. Una lieve flessione si produsse a
seguito della crisi asiatica e del programma di privatizzazione di molte
imprese statali. Nel quindicesimo congresso Jiang Zemin annunciò la chiusura di
molte imprese statali per dare spazio a imprese private (ma sempre connesse con
il sistema politico-bancario nazionale).
Questo è il contesto nel quale Samir Amin dichiara
essere il progetto cinese “del tutto coerente, ma non socialista”. In sostanza
un progetto di “capitalismo nazionale e sociale” che non è affatto trainato
dalle esportazioni, come può sembrare, ma dagli investimenti.
Un capitalismo separato da quello della “triade”, e
quindi potenzialmente ad esso opposto, anzi un progetto che punta a promuovere
la propria accumulazione vedendo gli Stati Uniti come avversario fondamentale.
Quello cinese gli appare, insomma, come un progetto di
una società modernista, nazionale e sociale (p. 119), in cui anche i processi
di privatizzazione sono essenzialmente da interpretare come istanza di
decentramento e di apertura, ma sotto il
perdurante controllo sociale. Un processo che apre alla possibilità di
conflitti regionali, tra un nord ancora burocratico e per certi versi “feudale”,
ed un sud diviso tra una Shanghai capitalista ed una Canton “compradora”
(ovvero parassitaria). Conflitti che si manifestano anche entro il partito e la
sua complessa governance.
Il vero rischio che si palesa (e costituisce progetto
per le forze esterne, in particolare per il grande capitale occidentale)
potrebbe essere quindi la disgregazione del grande paese tra un sud-est
incentrato su Canton, Hong King e Taiwan, un centro su Shanghai e Wuhan, e le
regioni del Tibet e di Sinkiang “indipendenti” (ovvero dipendenti da altri).
L’analisi prosegue con una breve caratterizzazione
della crisi russa e del mondo arabo. Quindi della “catastrofe economica dell’Africa”
(p157), dove i progetti nazionalisti e modernizzanti che fecero capolino nell’epoca
della decolonializzazione sono stati nel frattempo sconfitti completamente. Le parole
d’ordine, sia pure imperfette, dell’indipendenza politica, modernizzazione
dello stato e industrializzazione sono state quindi accantonate.
La sempre maggiore estroversione dell’economia qui si
è accompagnata con la disintegrazione della società, che si sta separando in un
piccolo strato di borghesia dipendente dai poveri surplus ricavati dalle
esportazioni (prodotti con selvagge forme di sfruttamento interno di una mano d’opera
povera che, rispetto agli oceani di disperazione che la circonda sembra
addirittura privilegiata), effetto della industrializzazione subalterna al
mercato mondiale che si è affermata, in uno strato di lavoratori inclusi e in
un crescente esercito di proletarizzati. Restano le famiglie dedite all’agricoltura
tradizionale di sussistenza, sempre più aggredita ed erosa dalla tenaglia delle
importazioni e delle condizioni ambientali.
Nelle conclusioni Amin chiama alla costruzione di un “fronte nazionale, popolare e democratico”
(p179), che avvii una strategia della liberazione imperniata sulla ricerca dell’autonomia
e che sia capace di superare le tre fondamentali contraddizioni del
capitalismo:
-
La subordinazione
dei lavoratori;
-
Lo scontro tra il
calcolo economico a breve termine (l’unico possibile) dei pochi, e l’interesse
(non economico, ma sociale e politico) a lungo termine dei più;
-
Il contrasto
strategico tra centri e periferie (che continuamente su riformano). In particolare
tra società capitaliste centrali, periferie integrate (ma subalterne) e
periferie emarginate (p201).
La prospettiva geopolitica suggerita è di lavorare per
una regionalizzazione sul piano di indipendenza e di parziale disconnessione. Una
quindicina di regioni organizzate attorno a poteri egemonici sulla scala locale
ed in grado di promuovere e difendere al loro interno efficaci compromessi
sociali e stabilità. Una lunga transizione che muova da riforme radicali
capaci, pur “senza rompere integralmente con le logiche del sistema in tutte le
loro dimensioni”, di trasformarne la portata e di prepararne il superamento
(p.207).
Si tratta in sostanza di confrontarsi sul piano di
quattro sfide:
-
Il mercato,
-
L’economia-mondo,
-
La democrazia,
-
Il pluralismo
nazionale e culturale.
La messa in equilibrio di queste sfide, ed il
superamento dei limiti fondamentali del capitalismo (alienazione del lavoro,
polarizzazione, calcolo economico a breve termine secondo una mal intesa legge
del valore) richiederà una lunga transizione, come quando il feudalesimo si è
tramutato in capitalismo, superando una lunga fase di coesistenza.
Ma l’obiettivo è decisivo: “irregimentare il mercato e metterlo a servizio di una riproduzione sociale
che assicuri il massimo progresso sociale” (p. 238)
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