Il libro del 2006
di Samir Amin indica una prospettiva che porta ad un maggior livello di
chiarezza la sua interpretazione dell’internazionalismo socialista da lungo
tempo elaborata e che abbiamo ritrovato, dopo dieci anni, espressa
nell’intervista “La
sovranità popolare unico antidoto all’offensiva del capitale”. In quel
recente intervento l’economista egiziano propone un’interpretazione della crisi
aperta nel 2007-8 e giunta al suo decimo anno, come esaurimento e insieme
radicalizzazione del modello monopolista ed estrattivo, intrinsecamente
imperialista e insieme completamente impersonale, che prende strada a partire
dalla crisi di valorizzazione nella quale incappa il capitalismo del dopoguerra
a partire dagli anni sessanta.
Nel 2016 Amin dirà che immaginare che “di fronte ad
una crisi del capitalismo globale la risposta debba essere egualmente globale”
è solo una “tentazione”, ed sorta di ingenuità, causa di sicura sconfitta. Questo
libro si chiuderà sulla stessa questione: il superamento deve avvenire punto
per punto, e partendo, come è sempre avvenuto, dai luoghi in cui il controllo è
più debole, o da quelli in cui le contraddizioni e le conseguenze inaccettabili
sono più forti. Per superare, in ogni singolo luogo (ovvero nazione) la
tendenza del capitalismo a schiacciare le periferie ed estrarre da esse le
risorse, bisognerà fare politica e prendere il potere. Bisognerà costringerlo a
fare i conti con le forze popolari, i progressi si potranno poi propagare.
Come avevamo scritto nel commento del bel libro di
Carlo Formenti “La
variante populista”, bisogna “riconquistare la sovranità popolare”, cosa
che passa anche per il tentativo di articolare “un’idea postnazionalistica di
nazione”. Anche per Amin le nazioni contano, ma non nel senso dell’ancoraggio
tradizionalistico ad un presunto ethnos dato, bensì in quello come dice
Formenti della “comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un dato
territorio” (p.9) che indirizzi una tensione aperta ed inclusiva a fare “Nazione”,
nel rispetto della vocazione e del diritto eguale delle altre (ovvero in
direzione di un autentico multipolarismo plurale). Ciò significa anche
coltivare e dare piena legittimità ad una forma di “patriottismo”, cioè di
amore e rispetto, verso tutti coloro che si orientano allo “spirito oggettivo”
delle migliori istituzioni e della forma di vita che ci crea come individualità
collettiva. Un patriottismo che può essere aperto e universalista, senza
sconnettersi, anzi proprio collegandosi, con le tradizioni costituzionali e la
storia di libertà e determinazione ad essere esempio nei momenti più alti in
cui ci siamo costituiti. Ciò non è affatto incompatibile con gli obblighi
che intendiamo auto assumerci nei confronti dell’umanità in generale, ma
li sostanzia: la causa dell’umanità si sostiene, infatti, difendendola entro di
noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare; compiendo la “buona
gara” di renderle ognuna esempio per l’altra.
Bisogna sottolineare a tal fine che la “sovranità
popolare” come ricorda il
costituente Lelio Basso nel 1973 a pochi anni dalla morte, non è né la
“sovranità statale” né la “sovranità nazionale” (rispettivamente scritte nelle
costituzioni tedesche e francesi), ma quella forma che “appartiene al
popolo” (non vi “emana” o “risiede”). Occorre, quindi, capire come questo
intrinseco plurale si costituisce democraticamente, senza preesistere al
processo politico. Occorre, cioè, una democratizzazione intransigente.
Questa impostazione, quella di Amin, ruota intorno a
tre parole:
-
autonomia
(che è probabilmente la parola centrale nel lavoro pluridecennale di Amin);
-
decostruzione (delle
relazioni di potere e dominazione);
-
disconnessione (dai
vincoli del capitale). Bisogna disconnettersi dalla logica e dalla competizione
selvaggia della mondializzazione, e bisogna porre quindi la questione della sovranità. Essere sovrani significa
essere autonomi, volere quel che si è (ci
torneremo).
Per comprendere meglio ciò che sostiene in questo
libro conviene riferirsi anche a ciò che nel 1999 Amin aveva
proposto: “un’altra mondializzazione”,
prodotta a partire da lotte locali nelle concrete condizioni della dominazione
e della dipendenza, che, sommandosi tra di loro, possano nel tempo spostare i
rapporti di forza che sono essenzialmente globali. Cioè lotte coordinate (in
qualche modo analogamente a quelle dei “paesi non allineati” negli anni
sessanta) per raggiungere al termine l’obiettivo di un “mondo policentrico”,
ovvero autonomo.
Sette anni dopo introduce questo libro dal tono
nettamente geopolitico, nel quale articola il suo vecchio tema della
polarizzazione nord-sud (presente sin dal libro del 1973 “Lo
sviluppo ineguale”) in chiave globale: anche qui la posizione è che ogni
alternativa effettiva all’attuale sistema polarizzante deve essere necessariamente
mondiale, e lo deve essere per il buon motivo che sono le logiche del potere e
del capitale mondiali, che lavorano sempre insieme, a creare il sistema di
vincoli che piega ogni forza nazionale. Alla polarizzazione occorre quindi opporre
un insieme di forze in grado di costringere il sistema a riconfigurarsi come
multipolare.
Ed i monopoli ad essere infranti.
Ma ciò non significa affatto che le lotte non possano,
e non debbano, partire dalle condizioni locali e specifiche, ovvero nazionali,
di dominazione, e non significa che non debbano essere rivolte all’obiettivo
politico di conquistare localmente il potere (limitandosi ad una sola
“rivoluzione culturale” ed alla costruzione di isole).
L’ideale è, in effetti, molto semplice e anche molto
tradizionalmente illuminista: “lasciare
spazio a tutte le nazioni del pianeta e coinvolgere il 100% dell’umanità”
(p.9). Questa è quella che l’autore chiama, semplicemente, “una prospettiva
socialista”. O, con una formula che si usava in Italia negli anni settanta, una
prospettiva nella quale trovino forma sempre più “elementi di socialismo”.
“Elementi di socialismo” non significa direttamente
una totale fuoriuscita dal capitalismo (che è un obiettivo, se pure può
esserlo, di lunghissimo termine, “secolare” dice l’autore); ma significa con
forza obbligare il capitalismo ad adattarsi ad una logica che non gli è
propria. E’ già successo (come sempre in modo parziale e mai definitivo) una
volta, poi c’è stato un regresso, al quale ora bisogna opporre una nuova
avanzata. Quella avanzata che nell’ultimo libro che leggeremo “Crisi”, nel 2008-9, auspica.
Come sempre nei libri di Amin l’argomentazione parte
da una ricognizione storica, e dunque dall’emergere di una sorta di governo in comune da parte delle forze
congiunte di USA, Europa e Giappone (o meglio dai capitali e dalle élite che li
determinano) per estendere la “dottrina Monroe”
(elaborata da Adams e pronunciata da James Monroe nel 1823) che prevede da
supremazia su un territorio dato. Questa “dottrina” secondo lui si estende
ormai a tutto il mondo ed ha solo tre avversari potenziali: la Russia, la Cina
ed eventualmente un’Europa diversa.
In questa volontà di dominio gli Stati Uniti peraltro non
dispongono più dei vantaggi decisivi che rendevano possibile immaginare un
dominio solitario, in particolare per il fatto che la sua economia è ormai in
deficit e dipende, anche solo per conservare il suo livello di forza (e di
consumi), di un “tributo” dal resto del mondo. Cioè di una costante trasfusione
di capitali dalle periferie dell’impero.
Nel 2006 Amin vede inoltre il progetto europeo come
intrappolato nelle sabbie mobili e quindi reputa necessario tenerlo fermo per
qualche tempo, al fine di sviluppare altri piani. In particolare in questo
testo, che si concentra sulle determinanti geopolitiche, vede come unica
possibilità di ribilanciare lo strapotere atlantico di rinforzare l’asse
Parigi-Berlino-Mosca (evidentemente lasciando a margine l’Inghilterra).
Un’alleanza politica e strategica di questo genere, magari estesa fino a
Pechino e Delhi, creerebbe in effetti una diversa situazione mondiale.
Naturalmente gli interessi dei segmenti dominanti del
capitale (cioè delle grandi imprese transnazionali, e della finanza, ma anche
di tutto quel mondo di servizi che gli ruota intorno) militano contro una tale
ipotesi, ed esprimono una sorta di “imperialismo collettivo” che vuole
continuare ad estrarre tributi dal mondo. Ovvero, “l’insieme dei segmenti
dominanti del capitale condividono interessi comuni nella gestione del sistema
mondializzato”. Ciò anche considerando che la relazione tra questi interessi
trasversali e gli Stati non si riduce a una relazione di semplice dipendenza, ovvero
che gli Stati non sono semplicemente “agenti esecutivi” ma arene complesse
contendibili.
A sei anni di distanza da “Oltre
la mondializzazione” Amin torna anche sul caso cinese, che allora vedeva
come un progetto coerente di autonomizzazione ma non socialista: vede ancora
che la classe dirigente è impegnata in una sorta di “opzione capitalista”, ma sottolinea
che il portato della rivoluzione impegna ad un più complesso compromesso. Ed in
particolare favorisce una soluzione alla questione agraria che non
necessariamente porterà alla pauperizzazione generale. Il capitalismo, da solo,
infatti, se non costretto a sospendere la sua spietata logica competitiva, porta
all’estrazione delle masse (la gran parte dell’umanità) dall’attuale economia
di sussistenza (dal suo punto di vista inefficiente), costringendola a vendere
la propria forza-lavoro in condizioni di grandissima debolezza. Un’economia
agraria diretta al mercato implica dunque un’espulsione di gran parte di chi
oggi si sostiene con questa (p.42).
Ma su questo punto l’eredità positiva della
rivoluzione (nella quale la questione agraria trovò una originale formulazione)
può fornire contrappesi.
Dunque in Cina la volontà dello Stato di essere
autonomo (secondo un’antica tradizione), insieme alla tradizione sociale del
paese può comportare un capitalismo più equilibrato e meno violento (era,
questa, anche la speranza di Arrighi).
Nel 2006 c’era poi la questione della Russia, ancora
intrappolata nella crisi post-sovietica, che stava cercando faticosamente di
superare il sistema corporativo ereditato dalla tradizione. La Russia si
presentava non più corporativa, e autocratica, ma stabile, bensì come regime
autocratico irresponsabile, con una forma di corporativismo degenerato e il
rischio di un regionalismo incontrollato. Insomma una “periferia subalterna”,
in punto di essere definitivamente cancellata dallo scacchiere.
Quindi l’India, una potenziale grande potenza con una
eredità coloniale ancora non ben risolta ed un progetto nazional-populista mal
bilanciato.
In questo quadro le sfide del difficile equilibrio
mondiale policentrico riposano per Amin su quattro direttrici:
-
Dare al problema
agrario una soluzione radicale;
-
Costruire l’unità
del fronte del lavoro;
-
Mantenere l’unità;
-
Articolare le
scelte internazionali su un largo “fronte del sud”;
Quindi ci sono le periferie, ovvero “i sud”: l’Africa
in primis, poi il mondo arabo (p.101) e l’America Latina (p.106).
Rivestono importanza in questa direzione:
-
Il controllo dei
trasferimenti di capitali;
-
Il controllo degli
investimenti esteri;
-
La definizione del
debito.
Ma anche la riforma dell’ONU (p.115) che è stato in
sostanza assassinato nel 1990.
Dunque per arrivare ad un mondo multipolare è
necessario che si arrivi ad un mondo regionalizzato, costruito alla luce delle
esigenze di giustizia internazionale e di un modello non polarizzato di
mondializzazione (p. 133). Ovvero a quello che chiama “un modello policentrico
e pluralista” (quindi dotato di centri e periferie) ma molteplici e plurali,
“della mondializzazione” (ovvero comunque aperto e interconnesso).
Un modello “capace di offrire una prospettiva di
progresso ai popoli delle regioni più vulnerabili e sprovviste dei mezzi in
grado di permettergli di trarre qualche vantaggio dall’inserzione nella
concorrenza mondializzata”, e che parta da una ricostruzione istituzionale. Una
ricostruzione sia regionale (rivolta a “disconnettere” in modo selettivo, per
consentire ai diversi centri regionali di non essere schiacciati) sia mondiale
(per rispettare le disconnessioni, se sovrane).
Dunque le strutture di accordi regionali, Nafta e
Mercosur, Coutonou, e UE, o i progetti Aper, Euromed, Cedao, Comesa, e via
dicendo vanno ripensati alla luce degli interessi e delle esigenze di giustizia
internazionale e di un modello non polarizzato. Non devono restare solo, in
altre parole, a servizio delle esigenze del capitale dominante e degli Stati
egemoni, ma anche delle legittime aspirazioni e bisogni dei popoli del mondo.
Questi accordi regionali devono essere spazi politici, nei quali l’economia sia incastonata
e incorporata, non spazi economici
che sottomettono la politica. Ciò implica anche, per Amin, che gradualmente
alla sovranità degli Stati si dovrà affiancare e poi sostituire una democratica
sovranità dei popoli, e quindi l’espressione dei loro bisogni e desideri,
capace di mobilitare le energie e riconoscere le differenze.
Su questo crinale delicato la posizione
dell’economista egiziano formatosi in Francia (nella prima parte della lettura
di “Lo
sviluppo ineguale” abbiamo presentato il suo background) è molto netta: la
diversità non esclude, ma anzi pretende, che gradualmente il mondo converga
sulle pratiche democratiche. Ovviamente su forme di democrazia popolare plurali
(non necessariamente di stampo anglosassone).
E quindi sull’estensione dei diritti, oltre la
ristretta concezione minimale dei diritti civili e politici (comunque
indispensabile), che includa diritti “sociali e collettivi”, quindi economici,
culturali e sociali come nel Patto di Teheran (1968) poi recepita nella
Dichiarazione sul diritto allo sviluppo dell’ONU nel 1986. Un esempio di
riflessione in direzione dei diritti dei popoli allo sviluppo è stata compiuta
dalla Fondazione Lelio Basso, che
è citata a pag. 138, ed includono il diritto dei contadini alla terra ed a
condizioni umane e praticabili per il suo sfruttamento. Riconoscerlo
implicherebbe far fare passi indietro alla logica di mercato ed incorporarla
nella definizione di priorità sociali e politiche.
Il nodo è denso di complessità, anche quando di
seguito Amin sfiora il dibattito sul multiculturalismo nel momento in cui cita
il conflitto tra i diritti collettivi, di natura comunitaria (come si legge nel
dibattito tra Habermas e Taylor nel libro del 1992 “Multiculturalismo”),
e diritti liberali, ovvero come dice “il principio del laicismo”. Qui la
soluzione dell’autore è piuttosto semplicistica, almeno nell’argomentazione, ma
sembra prendere la linea di Habermas: la salvaguardia delle identità collettive
(la tutela dell’integrità di specifiche forme di vita e delle relative
tradizioni) può entrare in conflitto con la logica del diritto a pari libertà
individuali che Kant vedeva come “diritto originario dell’uomo”, e ancorava
dunque in una antropologia filosofica. Prendere questa via significa articolare
un concetto di laicismo che fa sistematica astrazione da quelle caratteristiche
costitutive che fondano l’essenza delle identità collettive ed hanno, in quanto
tali, priorità sull’individuo (in altre parole, devono essere presupposte
nell’autoriconoscimento come membro ben formato della collettività, e la
dissolvono nel momento stesso in cui l’individuo si appropria di un punto di
vista “laico”). Ma il concetto moderno, ed imperniato sulla democrazia, di
Habermas è che questa conseguenza negativa si dissolve se si fa caso alla
coincidenza e origine comune dell’autonomia privata e pubblica, infatti i
destinatari del diritto possono acquisire autonomia solo se riescono a
concepirsi anche come autori delle leggi cui sono di fatto sottomessi
individualmente. Ovvero se possono esserne autori collettivamente.
Perché sia possibile concepire il sistema giuridico
come espressione di una democrazia reale questa è una condizione interna
concettualmente necessaria. Come vede anche Amin stato di diritto e democrazia
avrebbero un legame interno, per cui i soggetti giuridici privati possono
sapere di raggiungere la condizione di godere di pari diritti individuali solo
se hanno definito insieme quali sono gli interessi ed i criteri legittimi e gli
aspetti rilevanti per la loro applicazione. L’autonomia per essere reale non
può dunque essere cieca verso le condizioni sociali e le differenze culturali.
Qui la questione si farebbe molto ardua e complessa
(si veda anche Michael Walzer “Che
cosa significa essere americani”, e Alasdair MacInthyre sul patriottismo),
e nel testo mancano gli strumenti per elaborarlo; la posizione di Amin è semplicemente
ancorata alla richiesta di elaborazione delle norme attraverso un “dibattito
trasparente” che sia allargato a tutte le parti.
Questo “dibattito” potrebbe portare nella direzione
del rafforzamento del governo comune dell’Onu e di un “parlamento mondiale”
(naturalmente quando, e se, la democrazia popolare si estenda adeguatamente, o,
come dice, sapendo che “la democrazia non può avanzare su scala universale più
rapidamente di quanto non possa fare all’interno delle nazioni interessate”, p.
140).
Infatti, “le nazioni esistono” e non sono tutte
uguali, ponendo sfide molto più serie di quelle che immaginano i movimenti
“altermondialisti”. Nell’immediato la sfida di contrastare il progetto
imperialista di Washington (etichetta per indicare le forze concrete e le
logiche che si raggrumano in essa) per aprire nuovamente margini di libertà
capaci di dare una chance al progresso sociale e democratico ed infine ad una
costruzione multipolare.
Questa sfida vede centrali il ruolo delle politiche
statali e la resistenza delle vittime, e richiede che rimettano in discussione
le opzioni del capitalismo liberale e “la gestione degli affari a livello
planetario da parte dell’imperialismo collettivo della Triade” (p. 151). Ciò
implica anche rileggere il progetto “non-europeo” attuale, che è allo stato
solo “il risvolto europeo del progetto americano” e di lavorare per il
riavvicinamento euroasiatico, dato che gli avversari strategici del mondo
unipolare sognato a Washington sono Russia, Cina e India (ne è ben cosciente
Joseph Nye in “Fine
del secolo americano?”).
Se il mondo evolvesse quindi verso una multipolarità
(evidentemente con un asse eurasiatico a contrastare e bilanciare l’asse
angloamericano, o con una soluzione ancora più articolata) per Samir Amin ci
sarà “il contesto per il possibile e
necessario superamento del capitalismo”.
Si tratta di una affermazione piuttosto forte. E
poggia tutta sulla precisazione che segue, un mondo multipolare deve essere
“stabilizzato e autentico” per essere tale, e quindi deve essere socialista (nel senso della preminenza delle democrazie
popolari e sociali). Altrimenti sarebbe solo uno scontro di imperialismi,
presumibilmente uno scontro di sfruttamenti.
“Socialismo o barbarie”, dunque.
Un multipolarismo di questo genere però richiede e
pretende il protagonismo dei “sud” del mondo, ovvero l’autonomia condotta dal
basso, dal punto dei diretti interessati, e non concessa dall’alto.
Porre in questi termini il tema significa anche
disconoscere una logica della modernizzazione come espressione di “leggi”
immanenti e necessarie, e su un determinismo della storia. La storia non è determinata da leggi, ma è il prodotto del conflitto.
È determinata dalle reazioni sociali alle tendenze espresse da tecnologia,
economia e forme di potere, e crea i rapporti sociali che, a loro volta,
costituiscono il quadro in cui queste operano. In cui, cioè, sono incorporate.
Dunque la storia è creata sia dalle resistenze, sia dagli impulsi forniti dalla
logica “pura” dell’accumulazione capitalista (la cosiddetta logica del
“mercato”, con la competizione, l’orientamento al profitto a breve termine, la
strumentalità tecnica), che insieme “creano le possibilità e le forme
dell’espansione che evolve nella cornice organizzativa che esse impongono” (p.
155).
In base a questa impostazione (che in alcuni luoghi
chiama sottodeterminazione, cfr qui
e qui) non ci sono
dunque “ricette”; il futuro è sempre frutto delle trasformazioni nei rapporti
di forza sociali e politici prodotti da lotte che non possiamo anticipare.
Ciò significa anche che il movimento progressista si
deve liberare dalle illusioni “che sono nel migliore dei casi di una
sconcertante ingenuità” messe in campo da Negri e Hardt in “Impero”, quando seguendo Castells
immagina una “società delle reti”, agita da “moltitudini”, che si starebbe costruendo
da sé. Un analogo del sogno utopico del mercato autoequilibrante della
tradizione liberale (una delle ultime incarnazioni nel libro di Parag Khanna “L’età
ibrida”), e del non-concetto di “gente” in cui la società è ridotta alla
somma degli individui che la compongono.
Ciò non significa, però, andare dietro ad ogni e
qualsiasi rivendicazione identitaria e comunitaria, senza prestare attenzione alla
sua articolazione intorno alla lotta allo sfruttamento sociale o meno. Criterio
che segna, insieme alla tensione alla democrazia, per Amin il carattere
“progressista” o meno di queste rivendicazioni.
Le rivendicazioni, pur se rivolte al potenziamento
delle forze (ad esempio alla penetrazione di tecnologie più efficienti), che si
presentano senza un programma sociale, che non sono ostili alla
mondializzazione realmente esistente, o estranee al concetto di democrazia (che
sarebbe “occidentale”) sono per l’autore “francamente
reazionarie e servono perfettamente gli interessi del capitale dominante”
che le manipola.
Ed anche chi invita in fondo a “non fare nulla”,
perché tutto avverrà spontaneamente, per effetto di dinamiche interne
necessarie, minaccia la capacità di azione del movimento che abbiamo davanti.
Dunque per concludere bisogna guardarsi sia da utopie
come quelle di Khanna o di Negri, sia da “nostalgie passatiste” che si limitino
a rivendicare, così come sono, delle diversità ereditate dal passato, ma al contrario
cercare di elaborare, intorno alle lotte una “alternativa umanistica
all’apartheid su scala mondiale”.
Sapendo che in ogni caso nessuno potrà trasformare il mondo senza cercare di conquistare il
potere nel proprio, specifico, paese, e senza, dunque, affrontare i suoi,
propri, problemi di sfruttamento, sopraffazione, e apartheid.
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