Sulla pagina on line “Italia e il Mondo”, è uscito un articolo dal titolo “Due appelli, due
Europe” del mio amico Roberto
Buffagni nel quale è presente una interessante lettura di due diversi appelli,
usciti negli ultimi tempi, nel campo
conservatore, sul destino dell’Europa. Sono molto diversi, decisamente
opposti: il primo
parla di ‘progetto’, il secondo
di uno scontro nel quale è in campo il ‘proprio sé’. Il primo è stato scritto
da una importante istituzione
che ha sede a Bruxelles e finanzia azioni politiche e culturali per la
promozione della democrazia, fornendo quelli che chiama “finanziamenti veloci e flessibili”; ne fanno parte politici come
Elmar Brok (CDU), Andrej Grzyb (PP), Bogdan Wenta (PPE), Cristian Preda (PPE),
Pier Antonio Panzieri (PD), Alexander Lambsdorff (Partito Liberale), Elena
Valenziano Martinez-Orozco (PSE), Mark Demesmaeker (conservatori e riformisti)
e Tamas Meszerics (Verde ungherese). Il secondo da un gruppo di intellettuali accademici
caratterizzati da una netta prevalenza dei filosofi politici e dall’essere conservatori
di chiara fama.
La prima Dichiarazione chiama all’azione culturale e
propagandistica (il campo del proponente) per la “democrazia”, ma intende una
specifica connotazione del termine, la seconda ad una battaglia egemonica
contro l’utopia di un mondo globalizzato, in cui le nazioni si dissolvano progressivamente
in una utopistica unità multiculturale (ovvero, tradotto in termini realistici,
siano inquadrate senza resti in un’unità imperiale). Del resto giova ricordare
che la relazione tra democrazia e progetto del governo mondiale, pur avendo
importanti antisegnani, è soprattutto scritta nella anglosfera di marca
conservatrice (uno dei firmatari è Francis Fukuyama).
Coalition for democratic renewal |
Si potrebbe dire che si tratta di due testi molto e
forse troppo lontani, ma Buffagni li connette su una linea specifica: l’inimicizia reciproca, fondata su diversi
orizzonti. Cioè su prospettive diverse in modo irriducibile.
La conclusione che trae (salto molti passaggi) è che
sia in corso uno scontro decisivo per la definizione dei nostri tempi, dentro
il campo conservatore, tra:
-
una destra
liberale e tecnocratica, ‘progressista’,
-
e una destra
orientata sulla nazione, la cultura comune, ‘conservatrice’ e per questo schierata
contro la UE.
La sinistra, invece, è secondo lui indisponibile a
produrre una riflessione critica, e tanto meno un’azione politica contro la UE,
e dunque si estromette automaticamente dal campo dello scontro ordinato da
questa dualità. Cioè non entra nella battaglia.
La sinistra, dice Buffagni in sostanza, è ancora troppo
legata alla mossa inaugurale della modernità, ed al mito della rivoluzione (in
primis francese) per riconoscere il lato oscuro della ragione illuminista, la
sua hybris di potere. Tentativi, per la verità, ce ne sono stati: ad esempio la
prima Scuola di Francoforte, più di
recente il post-strutturalismo francese, alcune componenti della cultura
pragmatista americana, molti antropologi, qualche raro e coraggioso economista,
ma non riescono a fare sistema. L’ancoraggio all’industrialismo ed al milieu
culturale nel quale i socialismi si formarono, nella prima metà dell’ottocento,
è ancora troppo forte; la sostanza della cultura della sinistra, sembra dire, è
legata ad una visione fondamentalmente scientista, tardo positivista, e quindi a
visioni idealiste della storia (anche se ammantate da un materialismo
scolastico che ne nasconde le fattezze). Una tesi del genere la sostiene il
filosofo francese radicale Michéa.
Alla fine dunque la sinistra gli appare come una
variante, e magari neppure particolarmente interessante, del liberalismo
illuminista, la cui versione più coerente e radicale è in fondo quella assunta
nella metà del secolo scorso dai pensatori politici ed economisti che per
comodità chiamiamo “liberisti”. Dunque per Buffagni mentre la sinistra è solo una
versione più ipocrita della posizione della “coalizione per il rinnovamento” e
del suo “Appello di Praga”,
le posizioni coerentemente conservatrici, senza il peso di doversi districare
nella densa tradizione rivoluzionaria, possono andare al nocciolo, espresso
nella “Dichiarazione di Parigi” in modo esemplare.
Per dialogare con questa posizione, proporrò qualche
distinzione, ma prima vediamo meglio i due Appelli: sono, come è tipico del
genere letterario, delle chiamate alle armi. Il primo, quello di Praga, per la
“democrazia liberale”, che sarebbe sotto attacco da parte dei “populismi”. Il
secondo, quello di Parigi, per la difesa della “casa” contro una idea
trasversale e sbagliata. Chiamano dunque alle armi l’uno contro l’altro.
Più precisamente, l’idea sbagliata, per il secondo, è
quella del progresso inevitabile, che
viene riclassificato da “fede” (faith
nel testo di Praga) in “superstizione”. Non, quindi, realizzazione della cesura
della modernità (fatta risalire alle due rivoluzioni liberali settecentesche sulle
opposte sponde dell’Atlantico), ma abbandono della casa e sua “requisizione”. Se
presa sul serio, infatti, questa idea della cesura, del rasoio che separa le
vecchie tradizioni dal moderno, incarnato dallo spirito della ragione, che è
propria della ‘fede’ nella forza dell’individualismo illuminista, si estende necessariamente al mondo intero; con la
sua forza corrosiva dei legami ascrittivi, essa ha intrinsecamente un respiro
di potenza che finisce per classificare necessariamente tutti tra “liberali” e
“illiberali”, in uno tra democrazie “avanzate” e “arretrate”. A leggere il
primo Appello si vede che le prime si fondano infatti sulla “credenza nella
dignità della persona” e quindi nei diritti umani (libertà di espressione,
associazione, religione), nel pluralismo e nella competizione, nella “economia
di mercato priva di corruzione e capace di offrire opportunità a tutti”, le
seconde invece sulle politiche estrattive, sull’oppressione delle persone e
sull’oscurantismo, appunto sul tradizionalismo. La prima posizione è cioè ‘progressista’,
la seconda ‘conservatrice’.
Buffagni prende quindi da questo elenco di banalità,
che spicca per la sua sicumera (potendo dare senza esitazioni patenti al mondo
intero, in funzione della maggiore o minore distanza da un sé immaginato e
idealizzato), la “dichiarazione di guerra totale all’Europa come realtà storica
e come tradizione culturale”.
Si, perché la realtà storica dell’Europa (non del suo
“progetto”) è fondata invece nella
differenza delle sue profonde culture, e non nasce come un fungo dalla terra
nel 1789. Senza considerare questa radice gli estensori dell’appello di Praga,
che sono per lo più politici centristi, dicono in sostanza che se non si
riconosce che la forma della civiltà occidentale, e per essa la forma politica
della democrazia liberale nata dalle due rivoluzioni settecentesche, è superiore si è “relativisti”, e
certamente c’è del vero; ma parimenti sarebbe da rimarcare che allora loro sono
“assolutisti” (dato che si definisce tale chi sostiene una posizione, appunto,
“assoluta”). E le forme di assolutismo hanno un sapore strano, un retrogusto
imperialista (se applicate, come del caso, alla geopolitica), mentre il
relativismo suona diversamente: ha curiosamente il gusto della libertà.
Questo rovesciamento dovrebbe renderci sensibili al
rischio di definire una posizione assiale che non guarda alle proprie premesse,
e non le mette in questione. Multiculturalismo
sta ad impero, se si tenta di farne
una posizione politica, mentre su questo piano il relativismo culturale si connette con l’accettazione del multipolarismo. Stiamo leggendo, ad
esempio, la posizione complessa ed in movimento di un autore certamente non
conservatore come l’economista egiziano e terzomondista Samir Amin, a partire
dal suo “Lo
sviluppo ineguale”, del 1973, e poi “Oltre
la mondializzazione”, del 1999, ma anche “Per
un mondo multipolare”, del 2006, che ripercorre alcuni momenti della
formazione della legge del valore mondializzato, trascinata dalla logica
implacabile dell’accumulazione che finisce per dominare l’intero sistema
sociale. Ciò che spinge verso l’espansione mondiale, e la dissoluzione di ogni
resistenza statuale, oltre che nazionale, è per lui la tendenza alla
polarizzazione ed alla mobilizzazione delle risorse (tra le quali sono inclusi
i portatori di forza-lavoro divenuti emigranti). L’egemonia dell’economico,
posta sotto accusa anche dalla Dichiarazione di Parigi, è dunque ciò che va
ricondotto a controllo; ciò che nei termini di questa va ‘risecolarizzato’
(dato che si tratta di una sorta di surrogato della religione, come dice anche
Amin, cfr OM, p.57). Ovvero che va nuovamente “incastrato in un iceberg di
rapporti sociali di cui la politica costituisce la parte emergente” (OM,
p.102).
La tesi, che come si vede non è articolabile solo da
destra, è che “la ‘mondializzazione mediante il mercato’ è un’utopia
reazionaria contro la quale bisogna sviluppare teoricamente e praticamente l’alternativa
del progetto umanista di una mondializzazione che si inquadri in una
prospettiva socialista” (OM, p.176), ma questa forma di connessione richiede e non inibisce la costituzione
di fronti “nazionali, popolari e democratici”. Ciò che bisogna separare è il
nesso interno tra una certa visione lineare della storia come progresso verso
un qualche telos, l’identificazione della meccanica (quando non anche del telos
stesso) con un presunto svolgersi infallibile di leggi dell’economia ‘pura’
(una visione autorizzata da una lettura banalizzante di alcuni passi dello
stesso Marx, ma molto più di Engels e di alcuni suoi epigoni), e il precipitare
finale di tutto ciò a servizio di un progetto di potenza nascosto in bella
vista nella retorica Wilsoniana di tanto in tanto riemergente.
Si tratta di un nodo di grande rilevanza.
Ma qui la “Dichiarazione
di Parigi” manifesta il suo tessuto conservatore; conduce infatti la
battaglia contro la “falsa” idea del progresso imperialista, dell’uniformante
idea assoluta del ‘Vero’ e del ‘Giusto’, sulla base di un’enfatizzazione
caratteristica della “casa”. Questa idea riecheggia in effetti dibattiti
ripetuti tra le posizioni liberali e quelle variamente ricondotte a posizioni
comunitarie (talvolta abbiamo sfiorato un terreno di emergenza di questo antico
dibattito in autori orientati a sinistra come Sandel, MacIntyre,
anche qui,
Walzer,
e ne riprenderemo i testi essenziali), ed è riassunta in modo molto eloquente
nel primo capoverso:
1. L’Europa
ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la
nostra casa; non ne
abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra
capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono
storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze
entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari
ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per
altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo
riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la
nostra civiltà preziosa e insostituibile.
Riconnettendosi piuttosto chiaramente alla tradizione
conservatrice (che è inaugurata in Europa dal pensiero controrivoluzionario di
Burke, de Maistre, Novalis, Schlegel, poi ovviamente Nietszche, e nel novecento
Heidegger, autori di cui alcuni degli estensori sono fini studiosi) il
progressismo illuminista è qui accusato, in sostanza, di essere parte delle
“esagerazioni e distorsioni delle autentiche
virtù dell’Europa”, e cieco ai propri “vizi”. Si scivola insomma nello stesso tipo
di linguaggio essenzialista che si rivede nella controparte: ci sono posizioni
“autentiche” e altre “false” (le prime quindi “vere”), ci sono “distorsioni”
(del “retto”). C’è dunque una “Europa falsa”, ed una “vera”, dove la prima
smercia caricature e nutre pregiudizi verso il passato. Una Europa che è
“orfana”, non riconosce padri, e se ci sono li uccide. Che si sente orgogliosa
di questa mossa, si sente forte in essa. Si sente quindi “nobile”. Gioverebbe rileggere
per fare mente locale “Filosofie
del populismo” di Nicolao Merker.
Una Europa simile, che non c’è, e non ci può essere,
in quanto vuota e disincarnata (direbbe Sandel), “incensa se stessa
descrivendosi come l’anticipatore di una comunità universale che però non è né
universale né una comunità”. Una comunità universale è, infatti, quasi per
definizione impossibile. E in quanto impossibile non è universale. Quel che si
ha è al massimo una comunità di élite sradicate e interconnesse con i poteri
sradicanti del capitalismo di cui parla Amin.
In questo scontro tra tradizioni culturali e politiche
l’attacco è assolutamente radicale:
3. I padrini
dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile.
Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e
sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e
post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti
vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi
stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici
cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non
offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la
mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella
superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie
di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il
dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.
Se tutto questo è fondato per gli autori della
Dichiarazione, la minaccia che abbiamo davanti è “la stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra
capacità di immaginare prospettive”.
Scriveva Heidegger in “Lettera sull’umanismo”, nel 1949: “l’essenza dell’agire è portare a compimento [e non produrre un
effetto in base alla sua mera utilità]. Portare a compimento significa
dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori questa
pienezza, producere”. Dunque si produce, in certo senso, solo ciò che già è; precisamente
è nel pensiero e nel linguaggio che
“è la casa dell’essere” e nella cui dimora “abita l’uomo”. Ecco che si viene
alla stessa idea che è incorporata nella densa frase della Dichiarazione: “il
pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una
applicazione. Il pensiero agisce in
quanto pensa”. Il pensiero “dell’Europa falsa” è dunque la sua vera ed
essenziale azione.
Nel suo assai complesso, ed a lunghi tratti involuto,
manifesto contro ‘l’umanesimo’ (dunque anche contro l’illuminismo), Heidegger
lamenta la “perdita di mobilità” e contesta l’esattezza “tecnico-teoretica”
degli scritti specialistici e nel farlo si esercita in un vertiginoso esercizio
di distinzioni e narrazioni. Si scopre quindi che ogni umanismo si fonda su una
metafisica, ovvero su una posizione che già presuppone un’interpretazione data degli
enti (e quindi una loro funzionalizzazione, un apprestarli) senza porre insieme
la questione “dell’essere”; anzi in
effetti la impedisce.
Porre lo sviluppo storico come dispiegarsi della
logica immanente della tecnica come apprestamento del mondo per l’uso (tramite
l’economico), in altre parole, dimentica di riflettere sul senso. Dimentica l’essere,
lasciandoci in un mero mondo di enti, di oggetti. Noi stessi fatti tali. Nel linguaggio
della tradizione marxista, che ovviamente Heidegger ha di mira, è la questione della
‘reificazione’ (cfr qui).
Nell’impedirlo può porre (e lo fanno i romani per primi, dice) come
autoevidente “l’essenza universale dell’uomo” (in Segnavia, p.275); ovvero dell’uomo come animale razionale. Una
interpretazione dell’umano che, naturalmente, “non è falsa, ma è condizionata
dalla metafisica”. Non si tratta, cioè, di abbandonarsi “all’azione dissolvente
di uno scetticismo vuoto”, ma di tenere in movimento il pensiero (tramite
l’interrogazione dell’essere).
La posizione del filosofo tedesco è in sostanza che
l’uomo si dispiega solo a partire da
un reclamo che gli viene dalla domanda dell’essere, ovvero da un abitare in
qualche modo all’aperto. Nello “stare nella radura” che gli è propria (in
quanto essere che veramente “vive”).
Dunque il punto non è che il discorso sui valori
(universali, ovvero umanistici) sia “senza valore”, perché ciò sarebbe opporre
banale al banale, ma che bisogna capire che porre una cosa come “valore” in
questo senso, crea sempre un fare e
con esso una oggettivazione. Cioè fa
il mondo come oggetto (ovvero lo manipola).
Con le sue parole: “ogni valutazione, anche quando è
una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente,
ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare” (ivi, p. 301). Pensare
“contro i valori” non significherebbe, cioè, “sbandierare l’assenza di valori e
la nientità dell’essere, ma portare la radura della verità dell’essere davanti
al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto”.
Con il linguaggio della Scuola di Francoforte, esercitare la critica. Uno degli
esercizi più recenti ed interessanti nel lavoro in corso della Rahel Jaeggi, in
“Forme
di vita e capitalismo”.
Allora, tornando alla “Dichiarazione di Parigi”, da questa posizione si può rivendicare la
storia concreta delle tradizioni di lealtà civica e le battaglie condotte per
fare “i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare”,
talora “con modi ribelli”, e la storia di condivisione ed unità, che ci
consente di guardarci gli uni con gli altri come prossimi; come insieme
responsabili.
Non siamo
soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E
non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei
significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo
noi gli autori del destino che ci accomuna.
Ne consegue che non si tratta di accettare od opporsi
ad un astratto umanesimo, o a “Valori” universalmente preordinati a fare del
molteplice l’uno. Si tratta di avere, o di essere nelle radure dell’essere
(come direbbe Heidegger), riconoscendo che “l’Europa vera è una comunità di
nazioni”. Si tratta di esercitare la critica partendo da ciò che si è, dalla
Europa ‘vera’: lingue, tradizioni, confini.
Qui il testo raggiunge probabilmente il suo punto più
profondo:
8. Una comunità
nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi
traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi,
a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta
gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto
semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti
radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A
seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima
metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare
quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia
l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo
l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo
riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più
vasto.
Uno strano “cosmopolitismo” vi viene enunciato: un cosmopolitismo concreto.
E viene enunciata una connessione tra il venir meno del
collante cristiano e lo sforzo di un sostituto funzionale (ma quanto più
povero) nell’universalismo economico, nella sorta di impero regolatorio e
monetario. In una sorta di universalismo pseudoreligioso.
Ci sono anche momenti di espressa polemica con l’altra
Dichiarazione, come questo:
L’Europa non è iniziata
con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé
nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a
volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità
spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.
E dunque questo “spirito”, che è propriamente europeo,
implica una fiducia (non una fede), gli uni negli altri, e una responsabilità
verso il futuro. Quindi implica una forma di libertà che non è individuale ma
collettiva, è una responsabilità verso se stessi e la forza di non prostrarsi;
neppure davanti “all’implacabilità di forze storiche”.
Un europeo, insomma, si sente autore del suo destino.
E sente questa forza e responsabilità attraverso le forme politiche che hanno
prevalso, lo stato-nazione, tratto caratteristico della civiltà europea.
Altri tratti caratteristici che sono richiamati nella
Dichiarazione, anche in questo radicalmente estranea al liberalismo (sia
classico sia contemporaneo), sono le tradizioni religiose (con “virtù nobili” come “l’equità, la
compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità”) e
lo spirito del dono, ma anche quelle classiche, l’eccellenza, il dominio di sé,
la vita civica. Dunque il futuro non è da considerare connesso con un
universalismo disincarnato che dimentica il sé e perde la memoria, ma nella lealtà alle tradizioni migliori. Nella
ripresa dell’antico lessico delle ‘virtù’ nel quale, come insegna MacIntyre
riposava la tradizione greco-romana che la modernità ha interrotto.
Su questa via il
progetto europeo, tracciato sulla via del cosmopolitismo liberale e della
dissoluzione delle solidarietà nazionali, è
designato come nemico.
E con essa è designato, con aspra franchezza, come
nemico anche il movimento di liberazione dei costumi e antiautoritario che ha
attraversato l’occidente al finire degli anni sessanta. Un movimento che viene
connesso sia con la riduzione delle autorità, sia con l’esplosione dei consumi
e di uno stile di vita edonista e individualista. Ovvero è denunciato come
fattore di disgregazione sociale.
14. L’Europa
falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana.
Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la
liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé,
libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà
come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale
onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e
le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le
quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.
Una disgregazione che è invece per gli estensori dello
“statement” fonte di anomia, di perdita di senso, e del “vuoto conformismo” di
una cultura ormai guidata da media e dai consumi. Una generazione, quella del
1968, che ha distrutto insomma forme di vita e valori storici ma non li ha
sostituiti con altri; che ha, secondo gli autori, solo creato un vuoto.
Quel vuoto intravisto
anche dal nostro Pasolini, che si riempie quindi di surrogati: i social media,
il turismo di massa, la pornografia.
La Dichiarazione continua attaccando quindi direttamente il multiculturalismo, che nega le
radici cristiane:
L’impegno
egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola
pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa
multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo
esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale.
Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi
il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della
rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI,
da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova
comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.
E quindi ovviamente
la globalizzazione: la promozione di istituzioni sovranazionali il cui vero
scopo è di tenere sotto controllo la sovranità popolare, riportando tutto allo
stato di necessità, all’assenza di alternativa.
Ciò che propone è di “risecolarizzare la vita
politica”, riconoscendo che la “fede” proclamata nella Dichiarazione di Praga è solo una superstizione, e che non abbiamo
affatto bisogno di surrogati della religione (anche se il capitalismo stesso è
una sua forma, come scrisse
Benjamin).
Abbiamo bisogno, invece, di una nuova politica:
26. Rompere
l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata
pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa
incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo.
Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo.
Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le
nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al
contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire
sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori
conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella
“comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche
di una oligarchia.
Ciò significa anche affrontare con prudenza e
ragionevolezza il tema dell’immigrazione, puntando su una corretta integrazione
ed assimilazione degli immigrati, non alla coesistenza di culture non integrate
senza comune unità civica e solidale.
Ma c’è di più:
In verità, la
questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di
disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo
ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti
e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro
cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della
sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà
alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della
riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le
conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere
parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una
democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il
perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene
comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in
modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera
ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.
Non si può dire che la Dichiarazione non sia dotata di
coraggio nello sfidare apertamente il senso comune che è largamente condiviso
nel nostro tempo. Lo spirito libertario nel quale per lo più siamo stati
formati, nel quale io sono stato formato.
Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità:
pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della
grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei
privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist
in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società
tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione.
Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta
abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e
collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella
direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza.
Lo scopo è comunque enunciato con grande chiarezza: “l’Europa deve riorganizzare il consenso
intorno alla cultura morale in modo che la gente possa essere guidata
all’obiettivo di una vita virtuosa”.
E qui si trae direttamente la più netta delle scelte:
Non possiamo consentire
che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per
scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non
può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e
all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e
dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo
ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una
società che dà valore ai contributi di tutti.
Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono
allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal
riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale,
nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto
oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare
direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima
richiamata.
Anche se mi pare giusto “resistere alle ideologie che
cercano di rendere totalizzante la logica del mercato”, e che mette “tutto in
vendita”, il rispetto reciproco spetta in ultima istanza agli individui e
spetta a tutti in quanto esseri umani,
non a questi in quanto parte di classi (né cambia il rispetto al salire da una
classe all’altra, o scendere). Ci sono certo doveri, e vanno rispettati, ma non
competono allo stato in cui ci si
trova, competono al nostro reciproco
doverci. Qui, insomma, per me si passa il segno. Un umanesimo è necessario.
Ciò non impedisce che sia necessario i mercati siano
orientati a fini sociali, e incorporati in beni non economici e non
disponibili.
Gli autori sono:
-
Philippe Bénéton
(France), 71 anni, politologo, professore all’Università di Renne e
all’Istituto Cattolico di Studi Superiori, studioso del conservatorismo,
Machiavelli, Erasmo e Thomas More.
-
Rémi Brague
(France), 70 anni, filosofo, medievalista e studioso del pensiero arabo di fama
mondiale, conservatore e studioso influenzato da Heidegger, Strauss, ha
ricevuto il Premio Ratzinger.
-
Chantal Delsol
(France), 70 anni, filosofa conservatrice e allieva di Julien Freund.
-
Roman Joch
(Česko), 47 anni, politico.
-
Lánczi András
(Magyarország), 61 anni, filosofo conservatore e politologo dell’università di
Budapest.
-
Ryszard Legutko
(Polska), 67 anni, filosofo polacco e traduttore di Platone
-
Pierre Manent
(France), 68 anni, politologo conservatore, studioso di Alexis de Tocqueville,
Raymond Aron, Leo Strauss, Allan Bloom.
-
Dalmacio Negro Pavón
(España), 85 anni, politologo e studioso di Carl Schmitt.
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Roger Scruton
(United Kingdom), 73 anni, filosofo conservatore ed occidentalista.
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Robert Spaemann
(Deutschland), 90 anni, filosofo conservatore e teologo.
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Bart Jan Spruyt
(Nederland), 53 anni, storico conservatore, cofondatore della Edmund Burke
Foundation.
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Matthias Storme
(België), 58 anni, giurista conservatore.
Di certo non si può dire che non sia una importante
compagine, come non si può dire non sia caratterizzata da una specifica parte.
Ciò che dobbiamo, io credo, ricercare è la costruzione
di una “comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un dato territorio”
(Formenti, “La
variante populista”, p.9) che indirizzi una tensione aperta ed inclusiva a
fare “Nazione”, nel pieno rispetto della vocazione e del diritto eguale delle
altre (ovvero in direzione di un autentico multipolarismo plurale). Ciò
significa anche coltivare e dare piena legittimità ad una forma di
“patriottismo”, cioè di amore e rispetto, verso tutti coloro che si orientano
allo “spirito oggettivo” delle migliori istituzioni e della forma di vita che
ci crea come individualità collettiva. Una forma di vita nella quale siamo
socializzati o che accettiamo volontariamente. Un patriottismo che può essere
aperto e universalista, senza sconnettersi, anzi proprio collegandosi, con le
tradizioni costituzionali e la storia di libertà e determinazione ad essere
esempio nei momenti più alti in cui ci siamo costituiti. Ciò non è affatto
incompatibile con gli obblighi che intendiamo auto assumerci nei confronti
dell’umanità in generale, ma li sostanzia: la causa dell’umanità si
sostiene, infatti, difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali
abbiamo a che fare; compiendo la “buona gara” di renderle ognuna esempio per
l’altra.
La conclusione della Dichiarazione è la seguente:
36. In questo momento,
chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie
utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto
le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento
nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche
una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una
Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la
dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.
Questa la condivido.
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